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Autore: Serenelyinsane    03/12/2017    0 recensioni
"Mi sorridi, ma è un sorriso strano. Come se un lato di te mi incontrasse per la prima volta.
[...]
Mi sciolgo nel tuo abbraccio, mentre le mie lacrime si fondono con i tuoi sospiri.
Il senso di colpa è schiacciante per entrambi, lo sento appestare l'aria.
Vorrei consolarti, ma è evidente che ne ho piú bisogno io."
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~Le dita battevano frenetiche sulla tastiera. Volevo una sua risposta, mi sarei accontentato di qualsiasi cosa, ma avevo bisogno di un segnale, di sapere che stava bene.
Invece, dopo quel messaggio, il vuoto.
Il telefono continuava a squillare, invano, mentre la mia ansia cresceva.
Perchè farmi preoccupare cosí? Cosa le avevo fatto?
E poi, quella frase...
Mi risuonava nel cervello, immaginavo la sua voce mentre me la diceva, non riuscivo a darle un'espressione.
Ho deciso che non potevo aspettare oltre.
Mentre cercavo il contatto della madre, pensavo a quanto si sarebbe arrabbiata, ma non si era mai comportata cosí, specialmente davanti alle mie insistenze ed ero seriamente preoccupato per lei.
"Pronto?" una dolce voce femminile, leggermente assonnata, mi ricevette prontamente dall'altro capo del telefono, con tono interrogativo.
"Ciao Anne, mi dispiace molto disturbarti, mi chiedevo se Eve non fosse con te.. non mi risponde al telefono, la sto chiamando da diversi minuti."
"Si, siamo a casa... Eve!"
Udii chiaramente il vuoto che sopraggiunse alla sua chiamata.
"Si deve essere addormentata..." riprovò un altro paio di volte, alzando moderatamente il tono della voce, prima di alzarsi con fare sofferente.
Il piede doveva causarle ancora un certo dolore.
"Oh Dio, possibile che stia dormendo in questo modo?"
La sua finta esasperazione, in un altro momento, mi avrebbe fatto ridere, ma date le circostanze non faceva altro che farmi accellerare i battiti.
La sentii raggiungere la sua stanza e capii che la stava scuotendo, per svegliarla, ma non ci fu reazione.
"Ma cosa sta succedendo?" sentii un velo di preoccupazione sollevarsi sulla sua voce, io avevo il fiato sospeso ed una disperazione latente che stava per esplodere.
La madre continuava a scuoterla e a chiamarla sempre piú forte, con ansia crescente, stava quasi per mettere giú, finchè non sentii un flebile rumore, secco, come di qualcosa di piccolo che cade.
"E questo?" disse la madre raccogliendolo.
"...cos'è?" dissi io, incerto se volessi davvero saperlo.
"Oddio.."
Sentii dei fruscii, come di un frugare compulso e improvvisamente il suo tono cambiò, tramutandosi in pura isteria.
Continuava a gridare il suo nome, a chiedersi cosa avesse fatto.
Io, dall'altro capo del telefono, avevo una consapevolezza crescente che, per quanto volessi rigettare nell'assurdo, si faceva sempre piú concreta.
"Che succede? Anne, ti prego!"
"È pieno di scatole, sono tutte vuote! Tutte! O mio Dio!"
Sentivo, attraverso il telefono, i suoi gesti frenetici, senza una logica, che si alternavano dal cercare di sollevarla al gettare per terra tutte le scatole di farmaci vuote, facendomi rendere conto con orrore della quantità effettiva di pillole che avesse assunto.
In preda alla disperazione piú totale, non faceva altro che chiedersi cosa avesse fatto, e la implorava di svegliarsi.
"Anne, Anne, ascoltami. Io adesso chiudo, chiama subito l'ambulanza, subito!"
Assentí in maniera sconclusionata, prima di farmi ripiombare, di nuovo, mel vuoto.
Lanciai con rabbia il telefono e urlai.
Ancora piú forte.
Perchè mi aveva fatto questo? Perchè lo aveva fatto? E perchè io non me n'ero accorto prima?
Una disattenzione imperdonabile pensai, mentre cacciavo alla rinfusa alcune robe nel primo zaino capitatomi sotto mano.
"Ma che sta succedendo?" disse mia madre, entrando con foga nella stanza, seguita a ruota da mia sorella.
Quella frase mi scosse. L'avevo sentita troppe volte nell'arco di pochi minuti.
"Devo scendere da Eve, sta male."
"Che significa sta male? Che le è successo?"
"Non lo so con esattezza, la stanno portando con urgenza in ospedale." Optai per quella mezza verità, non mi sembrò opportuno dire cosa aveva fatto. Se ne sarebbe sicuramente vergognata dopo.
Dopo..
"Ma dove vorresti andare?"
"Te l'ho già detto, prendo il primo treno e scendo."
"Ma cosa stai dicendo? Cosí, senza un minimo di preavviso, cosa diranno..."
Non l'ho lasciata finire: "Non mi interessa mamma, ho dei soldi da parte, con quelli prenderò il treno." Dissi, chiudendo seccamente la zip dello zaino.
"Ma sta cosí male?"
"Non lo so, mamma!" urlai, stizzito, quasi sul punto di piangere.
"Non lo so..." la verità era che, a quanto ne sapevo, sarei potuto arrivare anche troppo tardi.
"Devo arrivare lí il prima possibile."

Mi stupii della prontezza con cui mi rispose al telefono.
Aveva la voce strozzata dal pianto.
"Dimmi, Aaron... non sappiamo ancora nulla.."
Parlai tutto d'un fiato.
"Io.. volevo dirti che sto venendo, ho già il biglietto del treno, senza ritardi tra quindici minuti parto. Mi dispiace di non averti avvisata, ti prometto che non vi darò il minimo disturbo, ma ho bisogno di esserci, di stare con lei. Per favore."
Ci fu qualche secondo di sgomento, a cui seguí un "d'accordo" forzato e sofferto. Le chiesi di tenermi aggiornato e terminai la chiamata dicendole che mi sarei presentato direttamente in ospedale.

È stato il viaggio piú lungo della mia vita.
L'impazienza e l'ansia di sapere sono state la mia caffeina per quelle ore da incubo, in cui ho solo ricevuto sporadici aggiornamenti dalla madre, che piú che aggiornarmi mi ha solo fornito le informazioni necessarie per arrivare all'ospedale ed il nome del reparto.
Anche loro sapevano ben poco. La lavanda gastrica era stata d'obbligo, ma stava durando piú del previsto e i medici non facevano sapere niente, anche se preferivo saperli impegnati con lei piuttosto che a dare spiegazioni ai genitori.
Avevo fatto delle ricerche durante il mio viaggio, per tentare di tenere la mente impegnata in pensieri che non fossero suicidio, o morte, ma avevo soltanto peggiorato la situazione.
L'unica volta in cui avevo inspiegabilmente preso sonno, mi ero svegliato di soprassalto per l'eco della sua voce, pronunciare ancora una volta quelle parole.
L'avevo vista, davanti a me, sorridente, magari anche un po' imbarazzata, mentre cercava forse di ammettere piú a se stessa che a me che si era innamorata.
E subito dopo avevo immaginato la sua espressione cambiare, farsi sofferente, sull'orlo del pianto, pronunciare quelle ultime parole con una calma rassegnata.
"Ormai non ha piú importanza" mi aveva scritto.
Cosa poteva averla spinta a tanto? Non era la prima volta che me ne aveva parlato, ma non potevo credere che l'avesse fatto davvero.
Ne avevamo ampiamente discusso e mi sembrava anche di essere riuscito a convincerla che quella non fosse una soluzione. O per lo meno che non lo fosse per lei.
Cercavo di non colpevolizzarmi, non potevo immaginare... ma erano solo stronzate, la conoscevo meglio di chiunque altro.
L'unico che avrebbe potuto avvertire un qualche sentore, ero io.
Non me lo sarei mai perdonato.
Non gliel'avrei mai perdonato.

Raggiungere l'ospedale non fu difficile, lo fu varcare la soglia del reparto di rianimazione.
Trepidavo, eppure centellinavo i passi.
Volevo sapere e non volevo vedere.
Mi venne a prendere la madre, altrimenti non mi avrebbero fatto entrare.
Quando il portellone si aprí, lentamente, cigolando, ció che vidi non era sua madre, se non la personificazione della disperazione stessa.
I suoi singhiozzi irregolari mi ricordarono un circuito allagato dall'acqua, che lentamente, senza opporre troppa resistenza, si spegne.
Si vedeva che aveva messo su le prime cose che aveva trovato, nella fretta straziante di portarla in ospedale.
Si reggeva faticosamente su una stampella e provai a non immaginare il delirio che aveva passato nelle ore precedenti, nella foga di quei momenti da panico, in quelle condizioni già cosí precarie.
I rimasulli di trucco della mattina erano sparsi a chiazze sul viso, tranne due righe nere che, mischiate con le lacrime, le solcavano le guance.
Fu deprimente rivedere quella donna che tanto stimavo coperta da una maschera, quasi dell'orrore, da quel velo opprimente di dolore che era calato su tutti noi.
Non sapevo cosa dire, cosa fare, se avvicinarmi o mantenere le distanze, se parlarle, e cosa dirle.
Quando, in maniera impercettibile, mi disse "da questa parte", decisi di rispettare la scelta che aveva preso lei per me.
La seguii, in silenzio, con il cuore in gola, ansioso di sapere, ma avevo troppa paura a chiedere qualcosa.
Quando arrivammo davanti alla sala, mi bloccai a qualche passo dal padre, ricurvo su quelle sedie traballanti di plastica, il mento poggiato sui pugni chiusi, lo sguardo nel vuoto.
Non si accorse nemmeno del mio arrivo, o finse di ignorarlo.
La tensione tagliava l'aria, mi toglieva l'ossigeno.
Non ero nemmeno arrivato e tutto ciò che avrei voluto era andare via. Fuggire da quello che avrei sperato fosse solo uno schifoso incubo.
Come quelli che la tormentavano, che spesso diventavano anche qualcosa di piú.
Era mio compito proteggerla, aveva totale fiducia in me.
Non riuscivo a capacitarmi e non mi posi la questione di chi avesse tradito chi.
Non avrebbe dovuto ed io non gliel'avevo impedito.
Semplicemente, non me ne ero accorto.
Un errore, per me, imperdonabile.
Un cigolio mi ditolse improvvisamente dal mio esame di coscienza.
Un uomo, sulla cinquantina, che catalogai subito come un dottore, si avvicinò a noi. Vidi il padre scattare in piedi e la madre fare lo stesso, solo con un po' di ritardo per via del piede rotto.
Ho potuto sentire l'ansia sciogliersi in sollievo, quando il medico ci comunicò che, seppur non senza difficoltà, il trattamento aveva avuto successo e che era fuori pericolo ormai.
Percepii l'adrenalina abbandonarmi tutta d'un colpo.
Sentii le gambe vacillare e dovetti sedermi un momento.
La mamma scoppiò a piangere, ma la mano pressata sul viso nascondeva un debole sorriso.

Rumori.
Suoni indistinti.
Una luce oltre modo fastidiosa, mi impedisce di aprire gli occhi.
Non so dove sono, cosa mi abbia ridotto cosí, o a cosa sia dovuto il mio sentirmi cosí disorientata.
Un bip scandisce il tempo, il mio stordimento scema, facendomi riconoscere due figure familiari.
Sono stesa, si. In un letto che non è il mio.
Il volto di mia madre è rigato dalle lacrime, eppure sorride, mentre mio padre, in piedi dietro di lei, a braccia incrociate, mi osserva.
Nessuno dei due sembra intenzionato, nè, (possibile?) preparato, a parlarmi.
"Dove sono?" biascico con una certa difficoltà.
Sembra mi abbiano preso a pugni, tanto sono spossata.
Mi dicono che non è il momento per chiedere, che devo solo star tranquilla.
Che non sia pronta per le risposte?
Istintivamente mi guardo intorno, non senza sforzi e dai macchinari e dalla flebo, deduco finalmente in che posto mi trovo.
Cosí, all'improvviso. Un colpo al cuore.
il messaggio, le pillole, le lacrime, la resa.
Ma cosa ho fatto?
Il respiro inizia a farsi pesante, al ricordo dell'abominio che ho attentato contro me stessa.
Per un attimo, mi chiedo perchè non abbia funzionato.
Adesso le cose saranno solo peggiori.
Verrà il tempo di chiarimenti e spiegazioni che non sarò in grado di dare.
Ma anche loro sanno che il tempo non è questo.
"Guarda chi c'é" mi dice mia madre, indicando con il dito verso la finestra, che da sul corridoio.
È allora che ti vedo.
Una mano sfiora il vetro. Sul volto, un'espressione che non ti avevo mai visto prima.
Mi sorridi, ma è un sorriso strano. Come se un lato di te mi incontrasse per la prima volta.
"Posso... posso parlargli?"
"Ma certo, tesoro. Noi torniamo dopo."
Ogni parola di mia madre è una pugnalata. La sua voce, incrinata dall'angoscia e dalla delusione, mi sembrano la piú grande tortura che mi si possa infliggere.
Vedo i miei genitori uscire lentamente e darsi il cambio con te.
Entri incerto e ti siedi, piano.
"Come stai?"
Non so bene a cosa tu ti riferisca. La tua voce trema, quasi come se potesse rompermi.
"Non sto bene."
La mia preghiera velata di mettere a tacere le domande, ha effetto.
Mi hai sempre capita al volo.
"Lo sai che ne dovrai parlare."
Annuisco lievemente, mentre una lacrima mi solca delicata una guancia.
"Ehi, ehi... va tutto bene."
Lo ripeti, non so chi abbia piú bisogno di sentirlo.
Mi sciolgo nel tuo abbraccio, mentre le mie lacrime si fondono con i tuoi sospiri.
Il senso di colpa è schiacciante per entrambi, lo sento appestare l'aria.
Vorrei consolarti, ma è evidente che ne ho piú bisogno io.
Mi sento ancora piú fragile di prima, i singhiozzi mi squarciano il petto, insieme al dolore riflesso nei tuoi occhi.
Non so per cosa sentirmi piú colpevole.
il tuo abbraccio mi avvolge, senza soffocarmi, quasi mi sfiora, ma, inspiegabilmente, mi fa sentire al sicuro.
"Andrà tutto bene" mi ripeti, in un soffio, guardandomi negli occhi.
"Tanto ci amiamo noi due, no?"
È in quel momento che arrivo ad una consapevolezza.
Capisco perchè sei qui, al mio capezzale, capisco perchè sei l'unico in grado di calmarmi, capisco perchè è stato indirizzato a te il mio supposto ultimo messaggio.
Perchè... ci amiamo noi due, no?

   
 
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