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Autore: keska    24/06/2009    37 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Jacob si era messo alla guida e non aveva più aperto bocca e lo stesso avevo fatto io

Capitolo riveduto e corretto.

 

Jacob si era messo alla guida e non aveva più aperto bocca e lo stesso avevo fatto io. Me ne stavo sul sedile, in silenzio, scossa dai singhiozzi causati dal pianto. In lontananza vedevo il sole basso. Era già il tramonto. Mezza giornata era passata lontana da Edward.

Quel pensiero non fece altro che scatenare una nuova ondata di lacrime. I polsi e le caviglie mi dolevano per essere stati immobilizzati da quelle corde ruvide che, ne ero certa, dopo la mia insolenza non mi avrebbe tolto finché non saremmo giunti a destinazione. O forse neppure allora. Il sangue m’imbrattava la maglietta e il solo pensiero mi faceva venire allo stomaco crampi dolorosi, quasi quanto quelli causati dalla rabbia, dall’odio e dalla desolazione. Ero debole. Nonostante non avessi fame capivo che era importante che mangiassi qualcosa, ben più della scarsa colazione consumata quella lontana mattina. Chissà se mi avrebbe fatto mangiare la cena. Chissà dove saremmo stati fra un paio di ore. Magari, se si fosse fermato in una caffetteria o in un bar… Impossibile. Non avrebbe mai rischiato tanto. E a quella stanchezza si univa lo stremante pianto ininterrotto.

Ma non potevo concedermi il lusso di dormire. Dovevo cercare di capire dove, di preciso, mi stesse portando. Non che potesse servire a qualcosa, ma magari sarei riuscita a mandare qualche altro indizio a Edward con la speranza che lo ritrovasse.

E comunque, malgrado tutta la stanchezza, non sarei mai riuscita a dormire con Jacob accanto a me.

Mi ritrovai a pensare a come potessi essere giunta a tanto. Ad aver paura del mio migliore amico. A quale e quando fosse stato il punto di rottura.

L’ultima volta che l’avevo visto, con un sorriso sulle labbra, era stato poco prima che gli dicessi addio. Mi sentivo così in colpa per lui e per quello che gli avevo fatto. Con il mio comportamento, avevo alimentato le sue speranze.

Avevo sbagliato. Sbagliato perché non avevo capito. Jacob aveva sempre covato una malsana idea del nostro rapporto, che avevo dapprima ignorato, poi evitato e infine tentato inutilmente di soffocare. Era inutile. Per quanto lo respingessi, la sua ossessione per me sembrava solo crescere. Come se trovasse infinitamente stimolante il fatto che non potesse avermi, che fosse una sfida.

Forse si era persuaso che, malgrado tutto, lo amassi. Proprio come mi aveva detto, proprio come aveva cercato di farmi capire. Come poterlo convincere del contrario, quando con arroganza ed estrema sfacciataggine vedeva amore nel mio puro odio?

«Smettila di frignare!» mi urlò contro a un certo punto.

M’immobilizzai sul posto, smettendo di respirare, ma non potendo impedire alle lacrime di continuare a scendere.

«Hai capito?» sbraitò ancora.

Era difficile parlare con le labbra che tremavano. «P-perché mi fai qu-esto?».

Le sue folte sopracciglia scure si unirono in una linea. Quando riprese a parlare la durezza delle sue parole mi sconvolse. «Lo faccio per te».

«Per me? Come puoi farlo per me se io non lo voglio?» chiesi, la voce arrochita dal pianto.

A quelle mie parole dure si voltò nuovamente verso la strada e strinse i pugni sul volante. «Tu non sai quello che vuoi».

«Lo so, perfettamente. Voglio che prendi questa cazzo di macchina, fai inversione, e mi riporti alla mia vecchia vita, alla mia famiglia, alla mia casa. Da mio marito» sputai.

Irrigidì la mascella. «Tu non sai quello che vuoi» sibilò minacciosamente.

«Lo so, invece!» urlai. «Ho già avuto mio marito, cosa credi? Abbiamo avuto una lunga, lunghissima luna di miele. Abbiamo fatto sesso, il sesso migliore di sempre, e sai perché? Perché lo amo. Ma cosa te lo dico a fare? Tu eri lì, come un povero sfigato, a spiarci e farti una sega come un maniaco sessuale!».

Iniziò a tremare furioso. «Troia!». L’auto si arrestò bruscamente. Mi mise una mano al collo e mi sbatté contro il finestrino, togliendomi l’aria.

«J…Jacob» sibilai, raspando il fiato nella gola. Oltre al terrore per non poter respirare sentivo il bruciante dolore per la sua presa contratta contro la ferita ancora aperta.

Sembrava un mostro. Mi mostrava i denti, digrignati. Aveva le narici spalancate e respirava irregolarmente. La sua espressione era dura, cattiva, cinica. «Sai cosa?» domandò retoricamente, dato che, ovviamente, non potevo rispondergli in quelle condizioni, «C’è ancora un mucchio di roba che lui non può darti ed io sì».

«E di questo cosa mi importa se…» iniziai a gracchiare debolmente.

Strinse la presa con forza, facendo cozzare la mia testa contro il finestrino. Le parole si soffocarono nella mia gola. «C’è ancora un mucchio di roba. A partire da questo» sibilò, abbassando il tono di voce.

Fremetti di terrore quando indirizzò la mano libera verso il mio corpo. La posò sulla pancia.

«Questo Bells, questo» sussurrò con un tono melenso.

Mi dibattei, ma le mani legate mi impedivano i movimenti. Provai inutilmente ad allontanarlo. «L-asciami… p-orc-o…» riuscii a sputare. Volevo dimostrarmi sicura e arrabbiata, ma non riuscivo a nascondere il terrore. Sentivo le vene e le arterie pulsare violentemente sotto la sua mano, allo stesso ritmo forsennato del mio cuore.

Mi sorrise, sardonico. «Avremo un bellissimo bambino».

Dopo quelle parole non udii più nulla. Sentii qualcosa di liquido bagnarmi copiosamente il collo e, contro tutti i miei propositi, il buio mi avvolse.

Mi risvegliai su un letto a due piazze, sotto una coperta ruvida e calda. Aprii gli occhi, ma quello che vidi non mi piacque.

Non c’erano le morbide nuvole di tulle. Non c’era il copriletto di seta. E soprattutto, a scrutarmi con degli occhi ambrati e un sorriso mozzafiato, non c’era Edward.

Al loro posto c’era una stanza umida, per metà completamente ricoperta da perline di legno e per metà con delle travi a muro che lasciavano intravedere la roccia contro cui erano state accostate. Era come una caverna. Mossi appena il capo, tenendo gli occhi socchiusi nella luce chiara. C’era una piccola porticina, ma sembrava proseguisse più in profondità nella roccia, mentre dall’altro lato una sola porta, a vetri, illuminava la stanza. L’ambiente nel complesso appariva come un monolocale: un piccolo angolo cottura e un camino. O come una baita di montagna. Ma piccolo, freddo e umido.

Nella stanza lui non c’era.

Tirai un sospiro di sollievo.

I polsi e le caviglie mi dolevano ed erano evidenti dei lividi violacei, ma almeno non erano più costretti nelle corde. Mi accorsi di avere una nuova garza intorno al collo, ma era anche questa bagnata di sangue. Dovevo averne perso una notevole quantità. Provai ad alzarmi, ma un capogiro m’investì. I miei sospetti dovevano rivelarsi fondati.

Ai margini della mia mente, indebolita e annebbiata, saettò un pensiero. Forse potevo fuggire. Forse, aveva cambiato idea e mi avrebbe lasciato andare. Ma mi sembrava davvero impossibile che mi avesse lasciato in quella stanza sola e libra. Magari era sicuro che mi avrebbe presa, anche se fossi sfuggita, ma dovevo comunque tentare.

Ignorando le vertigini, mi avviai verso la porta a vetri. I primi passi furono i più incerti e barcollanti, sul pavimento ruvido e freddo. Il cielo era completamente coperto da un sottile manto di nuvole bianche e, attraverso uno spiraglio d’aria proveniente da sotto la porta, mi accorsi che l’aria era frizzante e rarefatta. Dovevo trovarmi in alta quota.

Spalancai le ante e lo spettacolo che mi si presentò dinanzi mi lasciò stupita e inorridita.

In realtà non era una porta: era una finestra. Dava su un piccolissimo balcone che si stagliava, solitario, ad un’altezza tale che non mi permetteva neppure di vedere la valle. Era aggrappato con forza ad una parete di roccia nuda,  impervia e impossibile da scalare. Per un umano almeno. Ecco spiegato tutto. Quella non era affatto una possibile via di fuga.

Con passo malfermo e con le lacrime che minacciavano di cadere dagli occhi andai incontro all’altra porta, nella posizione opposta, spalancando anche quella.

«No!» urlai. C’era solo un bagno. Solo un bagno.

Disperata, non tentai più di contenere le lacrime e corsi contro il letto, buttandomici sopra senza forze e lasciandomi andare ad un pianto isterico e disperato.

Il mio incubo peggiore si era avverato. Jacob mi aveva strappato da Edward e ora mi teneva chissà dove, rinchiusa per sé. La separazione con mio marito cominciava a pesarmi, come se avessi mancanza, o bisogno d’aria. Ma non era quella la cosa che mi faceva più male. No. La cosa che mi faceva soffrire maggiormente era la consapevolezza delle sue attuali condizioni. Sapevo che in quel preciso istante Edward si stava torturando, pensando che tutto ciò che era accaduto fosse colpa sua. Perché me l’aveva promesso. Mi aveva promesso che finché fossi stata con lui Jacob non avrebbe mai potuto prendermi. Ero stata egoista, forse, a chiedergli di tenermi con sé, a giurarmi che niente mi avrebbe separata da lui. Era un vampiro, ma non era infallibile, e accollargli il peso di cose che esulavano dalle sue capacità era orribile. Eppure… In quei momenti l’unico conforto che avevo trovato era sapere che avrebbe fatto di tutto, per me. Avrei voluto stargli accanto, passargli le mani sulla schiena fredda, e baciare le sue labbra, scacciando via ogni sua preoccupazione e mostrandogli un futuro perfetto, con noi, insieme per l’eternità.

Ma io, purtroppo, ero lontana, e quel futuro, a cui solo pochi giorni prima stavo andando incontro, era svanito. Rotto. Frantumato. Perso nel nulla.

Tutto sembrò tremolante e mi accorsi che ero pervasa da brividi di freddo. Mi nascosi nuovamente sotto la coperta, con la testa sotto il cuscino, aspettando di andare incontro al mio orribile destino.

Non avevo idea di quanto tempo potesse essere passato. Mi sembrò tanto. Troppo. I momenti senza Edward mi sembravano troppo lunghi, sempre.

Mi sentii avvolgere da un tepore piacevole e sentii il crepitio del legno bruciacchiato.

Mi alzai di scatto seduta sul letto, e mi tirai le coperte per coprirmi dal freddo pungente. Non c’era più luce, quindi doveva già essere sera. Solo il bagliore irradiato dal caminetto illuminava la stanza e, davanti al fuoco, una sagoma imponente faceva cerare ombre traballanti che arrivavano fino a me.

«Ti sei svegliata, vedo» disse Jacob voltandosi verso di me. «Hai dormito tanto, un giorno intero» a quelle parole ebbi un fremito. Era un giorno e mezzo che non vedevo Edward. «Hai perso molto sangue, sono stato costretto a rifarti le bendatura. Ma ora penso che tu ti stia riprendendo. Magari se mangi un po’ recuperi le forse…»

Lo osservai sbigottita. La sua espressione era serena e il tono colloquiale. Come se fosse tutt’a un tratto tornato il Jacob di sempre. Seguii con lo sguardo la direzione della sua mano e vidi un vassoio di plastica sopra cui vi erano appoggiati due toast e un bicchiere di latte.

Jacob avanzò verso la mia direzione. «Ti piace?» disse indicando l’ambiente con un gesto «Questa d’ora in poi sarà la tua nuova casa». Al mio sguardo impaurito e sbigottito aggiunse, imbarazzato: «Certo, forse è un po’ piccola, ma l’ho fatta io, con le mie mani. Per noi due».

«Che cosa ti fa pensare che io voglia vivere con te?» esclamai acida.

Di nuovo, la maschera d’odio comparve sul suo viso. «Perché d’ora in poi tu farai quello che ti dico io, capisci?» sbraitò.

«No!» esclamai ancora, sfacciata.

Lui sbatté entrambe le mani contro il materasso, facendolo oscillare pericolosamente. «Dannazione Bells! Ora basta. Non lo riavrai più, fattene una ragione». Scosse la testa avanti e indietro, come per calmarsi. Dopo un momento di pausa, espirò e aggiunse «Ora mangia, sei debole e devi rimetterti in forze».

La mia espressione e le labbra serrate furono piuttosto eloquenti.

«Mangia» mi ordinò ancora.

«Che cosa vuoi da me?» sbottai a quel punto, scoppiando in lacrime. «Perché mi hai portata qui e mi tieni rinchiusa? E poi ti interessi se mangio o no… cosa importa a te? Mi volevi morta!» singhiozzai più forte.

Parve rattristarsi. Sembrava quasi il mio vecchio amico: impacciato e impulsivo, sempre pronto a scusarsi per le sue azioni sfacciate. «Io… io non volevo farti del male. Volevo solo averti con me… Volevo farti capire che è me che devi avere, sono io ciò che vuoi! Sei tu che non te ne rendi conto… ma voglio farti cambiare idea…».

Le sue mani corsero a cercare le mie, ma io mi ritrassi immediatamente.

La sua espressione s’indurì ancora «Tu mi darai ciò che voglio» sibilò.

«E cos’è che vuoi?» chiesi, la morte nel cuore.

«Te».

«Non mi avrai mai».

Fu come ricevere un pugno nello stomaco. Combattere sul ring, prendere tanti pugni, e poi un pugno nello stomaco. Un montante che ti mette KO. «Oh, questo lo so… Prima, avrò il tuo corpo, poi, avrò te…».

Urlai, urlai, urlai. Mi alzai in piedi sul letto e sbattei forte le mani  sulle sue spalle, tentando in ogni modo di ferirlo, ma ottenendo solo l’effetto contrario. «No! Tu non mi avrai mai, mai. Hai capito? Mai

Una risata gutturale si espanse per tutta la stanza. «E chi ci sarà a impedirlo. Tu?» Il ghiaccio nei suoi occhi fece gelare anche il mio sangue, immobilizzandomi.

Mi lasciai cadere indietro sui palmi, fissandolo, atterrita. «Edward… Edward mi salverà!».

Lui scoppiò in una sonora risata. «E come? Siamo a milleduecento metri di quota e non vedo porte da queste parti. L’unico accesso è quella finestra, ma avrai potuto constatarlo tu stessa. La pioggia ha completamente cancellato il nostro odore e con quel tuo patetico fazzoletto li hai portati fuori strada. Non sapranno mai che ci nascondiamo a Goat Rock, proprio sotto il loro naso! La tua sanguisuga non ti rivedrà mai più… Tu oramai, sei mia! In un modo o nell’altro…».

Iniziai a tremare, sconvolta dalle sue parole. «Tu… Non oseresti mai farlo…» sbottai sgomenta, non credendo neppure io a quello che dicevo.

Rise ancora, maligno. «Oh, si invece, si. Non mi faccio di questi problemi, non dopo essere arrivato a questo punto».

Caddi sul letto, sconvolta, posandomi una mano sul petto, dove il mio cuore batteva irregolare. Lui avvicinò una mano, come a sfiorarmi una guancia, ma, ad un mio fremito impaurito, la ritrasse.

«Però, preferirei che non fosse così. Preferirei che tu ti concedessi a me. Io lo so che mi ami, è inutile essere così testardi». La sfrontatezza delle sue parole fece accumulare in me un’enorme rabbia. «Quindi aspetterò. Cinque giorni. Se entro questo tempo non ti concederai a me, rivelando i tuoi veri sentimenti, mi prenderò ciò che mi spetta. Poi, quando finalmente avrai aperto gli occhi e capirai di amarmi, come io amo te, vivremo felici in quest’umile dimora, come marito e moglie… E avremo tanti bellissimi bambini».

Sentii le sue parole rimbombarmi nella testa, lontane. Come un cattivo presagio o una brutta storia da raccontare ai bambini per costringerli a fare qualcosa che non vogliono fare. E ancora più terrore m’incuteva il tono con cui Jacob dipingeva un futuro che per lui era roseo, mentre per me era peggiore di qualsiasi dolorosa morte.

«Ora mangia» ordinò, lasciandomi sola sul letto, terrorizzata.

Mi lasciai cadere fra i cuscini. Tre soli, potenti singhiozzi, mi scossero il petto. Poi, tutto divenne buio.

Neppure l’incoscienza, però, portava con sé una consolazione. Perché ero fin troppo lucida, anche nei sogni senza senso, e nelle immagini sfocate. E la lucidità portava con sé la consapevolezza di ciò che mi stava per accadere.

Jacob mi aveva portato via, con la forza, da chi amavo: Edward. E ora, come se questo non bastasse, voleva anche violentarmi e pretendere di vivere con me. Avere dei figli. Non avrei mai ceduto, ma questo avrebbe cambiato qualcosa? Mi avrebbe forse riportato da Edward? Avrebbe evitato i suoi intenti?

No.

Jacob era abituato ormai ad ottenere tutto ciò che desiderava con la forza.

Mi diede un attimo di sollievo, in un sogno, la visione di Edward, che spezzò le immagini scure e tenebrose che mi perseguitavano. «I suoi istinti da lupo stanno prendendo il sopravvento» diceva «ormai ragiona più come animale che come uomo».

Cercavo in tutti i modi possibili di non lasciarlo scappare, di artigliarmi a lui quanto più possibile, di lasciare che la sua immagine e la sua voce melodiosa mi ristorasse e calmasse i singhiozzi che continuavano a scuotermi anche nell’incoscienza.

Ma purtroppo non ci riuscii. La sua immagine svanì e io mi ritrovai in mano non più che un pugno di mosche e un cuore straziato. Il mio.

Pregai di non trovarmi dove in realtà mi trovavo, ma le mie preghiere, ovviamente, non furono esaudite. La mia era situazione orribile, e forse mai più avrei rivisto Edward. E comunque sarebbe potuto essere troppo tardi.

Dove sei amore mio, dove sei? Sentivo perfettamente un buco che mi trapassava il cuore, dolorosissimo, da una parte all’altra. Piansi, piansi ancora, allargando maggiormente la macchia d’acqua salata sul cuscino. Perché non possiamo finalmente essere felici? Edward, Edward… Mi manchi. Mi lasciai andare alla deriva, senza più speranze. Tutto si stava distruggendo. Mi sentivo totalmente impotente rispetto al mio destino. Jacob era troppo forte per me, quel nascondiglio troppo impervio, la mia volontà troppo fragile all’ombra della sua arroganza. Cosa mai avrei potuto fare? Urlare? Implorarlo? O forse lasciarmi andare per sempre…?

Non era la prima volta che ci pensavo. Mi ero avvicinata a quel pensiero anche quando ero prigioniera nella foresta, circondata dal fuoco e minacciata dalla sua presenza. L’avevo anche chiaramente fatto capire a Edward. Gli avevo suggerito che non sarei potuta andare fin in fondo, che non avrei potuto star ferma lasciandomi stuprare. Mai.

Ecco cosa avrei potuto fare. Impiccarmi con le lenzuola, tagliarmi le vene con un coltello, o più semplicemente lasciarmi andare nel vuoto, attraverso la finestra del balcone. E volare, volare, volare nel nulla. Quanto sarebbe durato? Avrei avuto paura aspettando l’impatto con il suolo?

Certo che sì. Ne avrei avuta, e molta, ma io quel momento non avrei potuto farci più niente.

E prima di saltare? Ce l’avrei fatta? Rievocai l’immagine di Edward, stringendomi le mani al petto per evitare di crollare in pezzi. La sua espressione era triste, straziata. I suoi occhi erano scuri e le occhiaie marcate. Ecco cosa avrei visto prima di saltare.  

No. Non avrei mai potuto farlo, per l’amore che mi legava a Edward, non potevo privarlo della mia vita.

Mi dovevo fidare di lui. Lui mi avrebbe salvata. Jacob diceva che quel posto era impossibile da trovare, e che Edward non avrebbe mai sospettato che ci saremmo nascosti tanto vicino. Ma io mi fidavo di lui e per questo avrei dovuto avere la forza di resistere. Per lui, per Edward. Dovevo essere forte.

Sollevai il capo, guardandomi intorno.

Jacob stava dormendo ai piedi del camino, unica fonte di luce in tutta la stanza. Era ancora notte e il cibo era sempre sul vassoio accanto a me.

Mi sentivo molto debole, ma non avrei affatto mangiato, se non avessi pensato a Edward. Per sopravvivere. Per lui. Perché quando sarebbe venuto a salvarmi - e non potevo pensare che non l’avrebbe fatto - mi avrebbe dovuto trovare in vita.

Mi accostai il vassoio, e, senza scendere dal materasso, addentai il primo boccone. Il cibo inizialmente scese con difficoltà nella gola bloccata dal magone e arsa dal pianto. Ma, man mano, la fame aumentava sempre più e mangiare divenne sempre più facile, così in breve finii il primo toast. Bevvi mezzo bicchiere di latte e afferrai il secondo.

Il mio sguardo cadde un attimo su Jacob. Nel sonno il suo viso pareva così innocente. Com’era quando ci eravamo conosciuti, da bambini. Ripensai un attimo alla parole del sogno. Jacob avrebbe ottenuto tutto ciò che voleva con la forza, perché magari era stata proprio quella, la sua forza di licantropo, a corromperlo e farlo diventare ciò che era. Il suo sorriso spensierato era scomparso dietro una tonda luna bianca alla quale ora si volgeva per ululare.

Attenta a creare il minor rumore possibile e raccogliendo le forze per sollevarmi in piedi, andai in bagno, richiudendomi la porta alle spalle. Quando mi osservai allo specchio trovai ciò che mi aspettavo. Avevo gli occhi rossi e gonfi di lacrime e le occhiaie marcate, il colorito era pallidissimo, quasi grigiastro, e i capelli erano completamente annodati. Mi sciacquai il viso e tentai di sistemarmi i capelli.

Il mio sguardo corse al mio collo. Sciolsi le bende macchiate di sangue e osservai la ferita. Si era quasi rimarginata, anche se i bordi, pulsanti, non combaciavano ancora perfettamente. Ci sarebbero voluti dei punti, ma mi dovevo accontentare di ciò che avevo. Mi accorsi di una cassetta medica. La aprii, presi del disinfettante e delle nuove bende pulite. Prima sciacquai la ferita, per evitare che si infettasse, e poi la pulii con il disinfettante e rifeci la fasciatura.

Uscii dal bagno, sempre in silenzio, e venni percossa da un brivido di freddo. Afferrai la coperta dal letto e la tirai su di me, avvolgendomi completamente. Mi avviai verso la finestra e aprii piano un’anta, uscendo sul balcone e richiudendomela dietro. Fuori l’aria era ancora più fredda. Mi sedetti ad un angolo del balcone, stringendomi addosso la coperta e osservando il cielo stellato. 

Chissà se anche tu adesso, Edward, stai osservando questo cielo stellato. Sappi che ti amo e che io, non mi arrenderò, per te…

Cinque giorni, hai solo cinque giorni. Ti prego, solo tu puoi capire il mio messaggio!

 

   
 
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