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Autore: Neferikare    08/12/2017    3 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Premessa: in questo capitolo, le parti scritte con un colore più chiaro rappresentano una sorta di esperienza extracorporea di Phobos per la quale si trova a parlare nella propria testa, buona lettura! :)

 

____________________________________________________________

 

 

Chioma rossa mossa dal vento che si disperdeva tutta intorno, sguardo fiero e sicuro di chi sa quello che vuole e sa come ottenerlo, falce alla mano che bramava solo di posarsi sul bianco collo della Regina: “sì”, pensò Phobos, “è un’entrata assolutamente perfetta, perfetta!”. Mosse un passo per scendere a consumare finalmente la sua vendetta, testa alta e petto in fuori come si confaceva ad un uomo fiero com’era lui.

E allora era capitombolato per terra.

Complice la sbornia triste che aveva addosso, nella sua rovinosa caduta aveva sbattuto prima contro il cornicione sotto il lucernario appena distrutto, poi contro curiose statue filiformi che si diramavano dalle pareti -e lì gli parve pure di aver perso un dente o due-, dopo i capelli gli si erano incastrati in una delle stesse: fu solo dopo che si ruppero a furia di dimenarsi che riuscì ad atterrare.

 

Di faccia.

Sui vetri.

Che lui stesso aveva distrutto, fra l’altro.

Mai più birra prima del lavoro, mai più.

 

Va bene, la sua entrata in scena non era poi stata così trionfale e appariscente come aveva creduto, ma era abbastanza certo che -pessima figura o meno- alla fine il risultato sperato di terrorizzare tutti era arrivato comunque: sì, doveva essere così, gli pareva quasi si poter sentire la paura nei loro occhi, i loro volti contratti in espressioni di sorpresa e orrore allo stesso tempo nel rivedere qualcuno dimenticato da sette secoli, proprio ciò a cui aspirava!

Mosso da questa certezza, Phobos allungò la mano sinistra verso il terreno intorno a sé alla ricerca della falce:

«Aspettate eh, datemi un min- MA PORC-» un’imprecazione impronunciabile gli uscì dalla bocca quando le dita si strinsero intorno ad un pezzo di vetro, credendo fosse la sua arma; si fece forza e tentò di nuovo, questa volta con la destra «… sto bene, sto bene, va tutto ben- E MA CHE CAZ-» di nuovo, l’unica cosa che riuscì ad afferrare fu un calcinaccio, ottenendo lo stesso identico risultato di prima.

Jack Frost, non si sapeva se per pietà o per curiosità o per altro, allungò sospettoso il suo bastone verso la falce, spingendogliela vicino; finalmente, quel povero disgraziato riuscì ad afferrarla.

Una gomitata per alzarsi dopo l’altra, un dolore lancinante al petto dopo l’altro causa caduta e relativi lividi, alla fine Phobos era riuscito prima a mettersi con un ginocchio a terra per prendere fiato, poi a rialzarsi.  O almeno provarci, perché da come se ne stava ingobbito pareva che le gambe fossero rette da gelatina al melograno, più che da ossa; dopo innumerevoli tentativi, però, a reggersi in piedi c’era riuscito eccome, e considerando come stava andando la giornata già quella fu un’enorme conquista per quel poveretto illuso di stare combinando chissà cosa.

Ad occhi chiusi per godersi meglio il maestoso momento, alzò la testa verso i guardiani e la loro compagnia sicuro di se stesso, con una convinzione addosso che mai aveva creduto di poter avere, o meglio riavere.

«Tremate, sciocchi! Temetemi, miserabili!» gridò gonfiando il petto e imbracciando la falce tendendola davanti a sé «Credevate di esservi liberati di me, vero? E invece no, eccomi qui, pezzi di codardi che non siete altro!» l’arma si illuminò di una luce rossastra, facendo apparire come delle scanalature nel metallo simili a lettere di un alfabeto dimenticato «E tu, oh! Tu!» indicò Harmonia «Tu pagherai più di tutti, finalmente! Non immagini nemmeno da quanto attendo questo momento, da secoli interi!» ringhiò rabbioso per poi, con un movimento rapido del braccio, puntarle la falce in mezzo agli occhi.

Harmonia non reagì, non si era mossa di un millimetro né aveva mutato espressione, il che rendeva difficile a Phobos capire se le sue minacce stessero funzionando o meno. Colpa della paura, si disse, era talmente spaventata da essersi paralizzata, quella sgualdrina dal grasso posteriore equino!

Phobos le sorrise un’ultima volta, voleva che quel ghigno le restasse ben impresso nella mente quando avrebbe colto la sua regale testa dal suo corpo.

«Ultime parole?»

«Ma tu chi sei?» rispose lei calma e pacata, con addosso un sorriso di condiscendenza e pietà come pochi altri.

 

Il gelo.

 

Non lo aveva riconosciuto? Ma stava scherzando?

Iniziò a squadrare tutti freneticamente col cervello ridottosi in poltiglia da un momento all’altro: lo osservavano tutti a metà fra l’incuriosito e l’impietosito, sembravano chiedersi “ma chi cazzo è questo?” mentre gli piantavano addosso quei loro occhi carichi di superiorità o presunta tale verso chi avrebbero dovuto temere come la neve col Sole, a guardarli nessuno di loro stava reagendo con la paura ed il terrore che Phobos aveva invece previsto per il suo ritorno.

E non ne capiva il motivo.

Aveva sfondato il lucernario, aveva tirato fuori l’arma più spaventosa che avesse a disposizione, si era pure impegnato per essere convincente -e lo era, nel suo immaginario- nelle sue minacce, eppure non stava accadendo nulla di tutto ciò che aveva immaginato.

Anzi, Harmonia lo stava pure prendendo per il culo, alla faccia della paura!

Sette secoli passati nel freddo e gelido Abisso, settecento anni passati ad orchestrare la sua vendetta, la possibilità di compierla data dal fortuito intervento di Comet combinato con delle casualità tutte a suo favore, giorni e giorni per riprendersi dalla depressione più oscura nella quale ricordava di essere crollato da anni a quella parte, una nuova autostima creata sudando sangue e affrontando a testa alta le innumerevoli avversità che lo avevano perseguitato… e tutto ciò era stato distrutto, svanito, calpestato, nel giro di quattro parole, in quel “ma tu chi sei?”.

Non se ne era nemmeno accorto -assorto com’era nel turbine di domande che gli frullavano nella testa-, ma ora la Regina della Fantasia gli si era avvicinata cautamente un passo dopo l’altro, uno zoccolo davanti all’altro, fino a trovarsi di fronte a quel caso umano color carota.

Nessuno dei due proferì parola -anche perché Phobos era ancora vittima di quella specie di oscura trance-, restarono a fissarsi gli occhi uno nell’altra per istanti che parvero eterni, poi Harmonia posò il pesante corpo equino a terra sedendosi e allungando una mano verso il viso di quello che, eoni prima, era stato il suo amante.

E lui l’aveva lasciata fare, sì.

Non si era mosso nemmeno quando le dita sottili e affusolate della regina avevano incontrato il suo volto segnato dalla sofferenza come mai prima d’ora: non solo la stava lasciando fare, ma sentiva addirittura un qualcosa nella sua testa che reputava piacevole quella sensazione, e ciò lo confondeva non poco. Era come se una voce gli pizzicasse la mente ripetendogli di non opporre resistenza e di abbandonarsi a lei, alla Regina di Phantasia, ad Harmonia, alla donna che, un tempo, aveva amato più della sua stessa vita.

Il suo cervello si bloccò su quel pensiero: l’aveva amata? Lo aveva fatto veramente? Allora perché non ricordava? Perché aveva un buco nella memoria prima di quei settecento anni di agonia? Cosa era successo che non riusciva a ricordare, che non poteva ricordare? O forse non doveva? Chi è che non voleva che lui-

 

 

***

 

Il buio.

Non c’erano più Harmonia e i guardiani intorno a lui, solo nero a perdita d’occhio: a destra, a sinistra, sopra e sotto di lui, era come se stesse galleggiando nel nulla più assoluto, o forse nell’acqua a giudicare dai cerchi concentrici che si creavano quando poggiava un piede avanti all’altro per camminare.

Avanzò ancora, e ancora, e poi ancora, sembrava che quel luogo non avesse mai fine, qualsiasi posto fosse quello in cui si trovava, ed il peggio era che gli sembrava tremendamente famigliare, nonostante sul momento non riuscisse a identificarlo.

«Ed’ i’ear ar’ elenea! (*) Non credevo di rivederti così presto, Phobos» una voce dal nulla lo spaventò facendolo girare all’improvviso.

Chi aveva parlato, se non c’era nessuno oltre a lui?

«Non temere, povera e disgraziata creatura che non sei altro, sono l’ultimo dei tuoi problemi io» la voce gli parlò di nuovo, questa volta ridendo «il tuo problema principale è qui dentro, ahimè: hai la testa vuota» si sentì sfiorare e picchiettare il capo, ma non lo aveva fatto nulla di corporeo e tangibile, perché nulla aveva visto farlo «ma non abbastanza vuota da lasciarti in pace, dal momento che sei qui».

«Qui?­» ripeté confuso il rosso mentre cercava la fonte di quelle parole «Qui… dove?»

«Ma nella tua testa, ovviamente».

Nella sua… testa? Nel suo subconscio? A quelle parole, Phobos non parve sorprendersi nemmeno troppo, certo non quanto avrebbe dovuto, era semplicemente come se si aspettasse quella conversazione da tempo e quella fosse solo la conferma dei suoi sospetti.

Sospetti che gli diedero quel po’ di coraggio necessario per farsi avanti, infine.

«E come ci sono finito, nella mia testa? Io stavo… stavo…» si bloccò un attimo, quello che gli bastò per rendersi conto che non ricordava assolutamente ciò che stava facendo prima di quella conversazione, gli pareva di essere comparso dal nulla.

Esattamente come gli era successo settecento anni prima.

A metà fra lo spaventato dalla sua stessa mente e da ciò che stava vivendo, Phobos girò su se stesso una moltitudine di volte per trovare uno spiraglio di salvezza, ma fu tutto inutile: non vedeva luci o segnali che potessero aiutarlo ad orientarsi, non sentiva nessun rumore che potesse guidarlo da qualsiasi parte che non fosse quel luogo, non aveva nemmeno uno spiraglio di salvezza da se stesso.

«Lle n'vanima ar' lle atara lanneina, sai? Ti comporti come se fosse la prima volta che mi senti, quando sappiamo perfettamente entrambi che non è così, considerando quanto sei fuori di cervello» intervenne la voce divertita da quel suo silenzioso disperarsi «anche se probabilmente non ricordi, non ricordi mai ciò che dovresti o vorresti, tu… nemmeno adesso».

Non senza difficoltà, Phobos cercò di nascondere alla bene e meglio l’inquietudine provocata da quell’affermazione, ahimè fin troppo veritiera.

«Non ho la possibilità di farlo» rispose stringendo i pugni e girandosi da dove gli pareva che provenisse quel suono «ed è colpa tua, immagino, altrimenti non saresti qui come non lo sono tutti gli altri».

«Ná, confermo: mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa» sentì battere tre colpi, come prevede la formula «sono proprio un birbone, che ci vuoi fare? Vecchio, annoiato e rilegato in quattro mura con solo rocce e polvere a farmi compagnia, nemmeno la luce del Sole mi raggiunge. Come vedi la mia vita ha ben pochi momenti di spasso».

«E tormentare me rientra in questi momenti, suppongo».

«Tancave! Uno dei migliori, devo ammetterlo» un’altra risatina di scherno gli giunse alle orecchie tagliente come non mai «mi intrattieni da sette secoli a questa parte, osservare le tue disgrazie è quasi meglio del sesso, sai?».

Sette secoli? Possibile che… ?

«Sì, sono io» confermò la voce, quasi che avesse letto i suoi pensieri.

Gelo, di nuovo.

E questa volta non fu una semplice sensazione, non fu nemmeno una folata fredda come le altre, no, questa volta lo sentì chiaramente dentro di sé, dentro la sua testa, in quel luogo: era come se dei pugnali di ghiaccio gli trapassassero il cervello da una parte all’altra, la stessa identica sensazione che provava quando pareva ricordare un frammento del suo passato, ma ora quei coltelli gli sembravano tremendamente reali e palpabili che poteva sentire il sangue caldo scorrergli sulle tempie.

Anche perché erano reali eccome.

Fece per alzare una mano per toccarsi i capelli, ma una forza misteriosa oppose resistenza e gli impedì di farlo.

«Sai, Phobos, non siamo poi così diversi, noi due: entrambi rilegati in un luogo che non gli appartiene» l’energia che lo aveva fermato prese forma, disegnando i contorni di un braccio mascolino bianco pallido «da soli, mostri rinnegati dal cosmo intero, dalla propria famiglia, dalle persone che promettevano di amarti per sempre» un altro braccio comparve dal nulla, spingendo più a fondo le lame fredde che gli aveva piantato nel cranio «a bramare vendetta, a vivere per essa e nient’altro, a renderla la propria unica e penosa ragione che ti spinge ad alzarti ogni giorno».

Phobos tentò di divincolarsi, ci stava provando con tutte le forze che aveva in corpo: se quello era un incubo, se quella era la realtà, se quella era qualsiasi cosa fosse, allora voleva che finisse il prima possibile, anche morendo se ciò fosse stato utile a liberarlo!

Tentò di gridare, ma qualcosa gli strinse la gola con brutalità immane, sembrava che gli volesse afferrare la giugulare e strappargliela. Toccò e trovò solo una massa di capelli intorno al suo collo già livido, una lunga e sottile coda retta da gioielli dorati recanti una luna nera stilizzata: sopra di essa, una fenditura che la squarciava in due.

E lui la conosceva, sapeva di conoscerla, ma il suo cervello non si azzardava a collaborare sul ricordare il perché.

In compenso, collaborava eccome a fargli provare il dolore.

«Hai mai assaggiato la vendetta, Phobos? No, certo che no, cosa lo chiedo a fare» la stretta si fece più feroce, intanto che la voce con la quale dialogava assumeva finalmente il volto di un uomo «eri così contento con la tua Harmonia, così completo, così realizzato: una coppia perfetta, assolutamente» non riusciva ancora a vederlo, ma gli parve di intravedere il ghigno col quale gli parlava «talmente perfetta che saresti stato disposto a morire per la tua regina, a sacrificare la tua vita per lei, per Phantasia, per i vostri ideali. E lo hai fatto, in un certo senso, e sai perché?» infine, la presa si sciolse e lui cadde a terra «No, non lo sai, non puoi ricordarlo».

Quindi era vero, che c’era stato un tempo in cui aveva amato Harmonia, era vero!

Ma allora perché non ricordava? Perché ogni dannata volta andava a finire così, con lui a terra che agonizzava maledicendo la sua mente che andava alla spasmodica ricerca di un ricordo che fosse uno? Perché doveva patire tutto quel dolore?

Non ebbe il coraggio né la forza di alzare la testa per osservarlo, ridotto com’era, ma ci pensò l’altro ad afferrargli il collo e portarselo davanti agli occhi; Phobos lì guardò: due pozze nere nelle quali pareva concentrarsi il male del mondo, un vaso di Pandora incorniciato da una chioma bionda che toccava terra intrappolata in una coda di cavallo sottile, di un biondo platino come i baffi e la corta barba sul suo mento.

Conosceva quel volto, ne era assolutamente sicuro.

Si mise alla ricerca di un dettaglio, un particolare qualsiasi che potesse risvegliare qualche memoria dimenticata dal mondo: al diavolo il dolore, al diavolo anche la probabile inutilità di quel gesto, Phobos decise che sarebbe andato fino in fondo pur di sapere l’identità dell’uomo che pareva conoscere più dettagli sul suo passato di quanti ne sapesse lui stesso!

Poi lo vide, quel dettaglio: sotto l’occhio destro c’era un tatuaggio -ad occhio e croce impresso sulla pelle con la magia, vedendo che brillava come quello che aveva lui sull’avambraccio-, quattro punti di dimensioni crescenti che partivano dall’angolo interno dell’occhio seguendolo fino all’altra estremità, dove terminavano con una mezzaluna nera dalla quale si diramavano sottilissimi capillari dello stesso colore.

Allora, e solo allora, i ricordi si riversarono nella sua mente come un fiume in piena, dopo settecento anni di vuoto più totale.

«… A-Apophis… ?» sussurrò appena senza rendersene conto, le labbra che si muovevano da sole.

L’altro sorrise compiaciuto «Precisamente».

 

Seguì un silenzio che parve infinito, ma ormai nella testa di Phobos c’era tutto fuorché la quiete: aveva avuto un passato anche lui, ora lo sapeva, lo ricordava; poco gli importava se era ancora un passato fatto di ricordi vaghi, confusi, indistinti, a lui bastava la consapevolezza che quelle memorie dimenticate da tempo avessero un unico e solo denominatore comune, una certezza che aveva scordato di avere da secoli, ormai.

E quella certezza era Harmonia.

Aveva vissuto al suo fianco come se fossero un’unica persona, l’aveva amata più di quanto avesse mai amato la sua stessa vita, aveva messo la sua spada al servizio della sua Regina e amante di una vita quando era venuta la guerra. Lo ricordava, sì, che avevano combattuto e cavalcato insieme per difendere Phantasia ed Exodus intero dalla minaccia che -da un giorno all’altro- era discesa dal cosmo più profondo in terra, quel serpente fatto di stelle e dolore di civiltà perdute, di grida degli innocenti che lo avevano incontrato e tanta, troppa sofferenza di chi era stato inghiottito dalle sue fauci, dalla bestia che portava lo stesso nome del caos più puro.

E quel nome era Apophis Nightcrawler.

Apophis, che ora era lì nella sua testa, era sempre stato lì: lo aveva combattuto, lo aveva visto bruciare e divorare quasi interamente Phantasia, era stato testimone di Harmonia che crollava in ginocchio esattamente come la sua terra, pregando un’ultima volta gli dei di risparmiare di nuovo, se non lei, almeno il suo popolo.

Ma non era stato presente quando gli dei l’avevano ascoltata.

Non aveva visto Harmonia rialzarsi e caricarsi sulle spalle quel macigno immane che era un pianeta -il suo pianeta- devastato e ormai sull’orlo del baratro, non c’era stato per vederla prendere la sua gente disperata sotto la propria ala protettrice e materna giurando loro che Exodus sarebbe tornato al suo antico splendore e, infine, non era stato testimone nemmeno di quando Harmonia l’aveva mantenuta, quella promessa.

Non c’era, Phobos, perché stava pagando le conseguenze di aver protetto la donna della sua vita per un’ultima, disperata e tremenda volta.

Si era messo fra lei e Apophis, settecento anni prima, lo aveva fatto senza pensarci e senza pentirsene, e lo avrebbe rifatto milioni di volte se fosse stato necessario. Non si erano detti addio, allora, non era stato concesso loro il lusso di un ultimo sguardo prima di salutarsi per sempre, nemmeno una parola di conforto, erano semplicemente stati due amanti separati dal destino.

Un destino crudele, il loro, perché il peggio era venuto dopo.

La falce tesa davanti sé, Thorax e gli altri leoni che lo accompagnavano in quell’ultimo salto nel buio -letteralmente- come i compagni fedeli di una vita che erano, negli occhi un fuoco più ardente della stella in fondo alla gola di quella belva che stava puntando con lo sguardo: a guidarlo, solo la consapevolezza che Harmonia sarebbe stata salva, che tutti lo sarebbero stati, che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.

“Camminerò al tuo fianco finché avrò vita, e continuerò a farlo anche dopo”, le aveva sussurrato baciandola quella stessa notte dopo aver fatto l’amore con lei, quando la guerra non aveva ancora sfiorato le loro vite.

E invece non era stato così.

Ignorava quali antiche magie possedesse quel demone.

Ignorava che il suo attacco fosse proprio ciò che Apophis voleva da lui.

Ignorava anche e soprattutto il fatto che da lì in poi sarebbe diventato lo schiavo dell’oscurità che lo aveva avvolto là dentro.

Aveva sentito chissà quali maledizioni che gli strappavano i ricordi cercandoli avidamente nella sua testa come segugi da caccia, aveva avvertito gli artigli del mostro piantarsi nella sua anima fino a corromperla e renderla più nera della profondità del cosmo dal quale era nato, non gli era nemmeno stato risparmiato il dolore del braccio dilaniato da un marchio che lo aveva segnato come eterno servo delle tenebre.

Poi, il nulla: quel giorno, Phobos aveva cessato di esistere.

Al suo posto, solo un burattino senza memoria e senza più nulla a tenerlo vivo se non la brama di vendetta verso Harmonia del suo padrone, un giocattolo rotto che poteva essere manovrato a piacimento per attuarla a distanza da Apophis stesso nonostante il suo esilio sulla Luna. A nulla valeva tentare di ribellarsi, nemmeno ricordava come si facesse, doveva solo rassegnarsi e cercare di uccidere -a comando- la donna che aveva amato, che amava ancora dopo settecento dolorosi anni di buio.

E, sempre settecento anni di buio dopo, Phobos finalmente lo ricordava.

 

Ma non serviva a nulla, esattamente come non era servito tempo prima; lo mollò per terra lanciandogli un’occhiata pietosa, quasi stesse nuovamente leggendo i suoi pensieri.

«Ricordi, eh?» gli rise in faccia Apophis senza contegno alcuno, si vedeva che aveva appena ottenuto ciò che voleva «Tu non odi Harmonia, la ami ancora perdutamente, oh se la ami! Scoparti Halley, devastare la sua terra, fare irruzione nel suo palazzo: tu non faresti mai tutto ciò che stai facendo, mai» aprì le braccia in modo scenico come ad indicargli la vastità del male che le stava facendo «tu, appunto, ma quello che ho davanti ora è solo il mio personale giocattolo, per cui non hai nessuna voce in capitolo. Spiacente, bellezza.».

«… Tu» Phobos sentiva la rabbia montargli dentro con ferocia immane, talmente intensa da anestetizzargli il dolore alla testa e allo sterno provocato dalla caduta «Tu sei un… un… sei un fottuto bastardo!» gli saltò alla gola con uno scatto repentino.

Una fitta lancinante al petto lo travolse quando le sue mani furono a pochi centimetri dallo stringersi intorno al collo dell’altro. Phobos guardò in basso: una mano, sì, ma era insanguinata.

Una mano insanguinata che lo trapassava.

«Ti sei divertito anche troppo, Barbie Platinata» un’altra voce maschile gli giunse alle orecchie ovattata e confusa, i sensi che non rispondevano più nonostante la mano fosse uscita dalle sue carni con la stessa rapidità con la quale era entrata «muovi il tuo dolce culo dalla mente di questo povero disgraziato e torna a casa, prima che il tuo dio delle disgrazie si arrabbi, o peggio che ti fotta la tinta biondo platino dal bagno» l’energia non meglio definita si mise a giocherellare con i capelli di Apophis, visibilmente infastidito «e pure le scorte nascoste nel divano!»

«Sono occupato, se permetti» lo rimproverò lui tenendo il tono basso ed esibendo un facepalm palesemente rassegnato «per cui sei pregato di tenere a bada i tuoi divini ormoni fino a quando non sarò di rit-»

«Voglio scopare, e voglio farlo adesso».

Phobos squadrò Apophis con sguardo tanto sorpreso quanto perplesso, nemmeno gli avesse appena detto che si scopava sua madre -della quale nemmeno ricordava il volto, per cui non sarebbe stato un insulto tanto efficace come sperato-, ed a giudicare da quanto era arrossito l’uomo sembrava aver notato fin troppo bene quella sua occhiataccia che gridava “SHAME! SHAME!”, ci mancava giusto il campanaccio!

Schiaritosi la voce, si strofinò gli occhi con la mano e sospirò pesantemente, Phobos che continuava ad osservarlo: non pareva nuovo a quel genere di entrare sessualmente ambigue -ma nemmeno troppo, si capiva perfettamente quale fosse il succo del discorso- e alquanto inopportune, forse quella volta aveva semplicemente creduto di poter scampare una pessima figura.

Ma stava di fatto che una risatina ad immaginarlo chinato a 90 mentre qualcuno glielo metteva là dove non batte il Sole -parole di Apophis sulla sua casa, del resto- riuscì a strappargliela, il che era sorprendente vista la situazione.

A sorprenderlo, poi, fu la vittima di tanta ilarità qualche istante dopo; con l’altro inginocchiato a terra che tentava di riprendersi, si chinò lentamente fino a raggiungere la sua altezza senza fare altro, solo guardandolo negli occhi.

«“Observe”» il tatuaggio sotto il suo occhio si illuminò di un bagliore violaceo, creando un una sorta di ragnatela che si spandeva dalla mezzaluna fino agli altri punti scendendogli sul volto e sul petto «“Adapt”» Phobos non distingueva bene le forme che si disegnavano sotto le sue vesti, ma era quasi sicuro di intravedere la magia addensarsi nel disegno di una Luna tagliata a metà recante strane incisioni «“Evolve”» infine, gli occhi di Apophis presero a brillare di un viola intenso come la punta delle sue dita, sostenere il suo sguardo era ormai diventato impossibile.

«Conosci questo motto, eh?» domandò sorridendo.

«Mai sentito» mentì lui, ricordava bene la Casa a cui appartenevano quelle parole.

Il biondo sorrise e gli pose una mano sulla testa.

«Me lo sono sentito ripetere dai miei famigliari per anni, decenni, e mio fratello ha continuato a ripetermelo per tutti i secoli seguenti. “Siamo rimasti solo noi due: non andiamo d’accordo, ma dobbiamo collaborare per il bene della famiglia”, diceva» la magia iniziò a fluirgli dalle dita, sottili filamenti simili a serpi che si insinuavano fra i capelli e scorrevano sul corpo inerme dell’altro «ma io non volevo ascoltarlo, non ero interessato alle sue parole. A dirla tutta non ho mai capito cosa intendessero, lui o quei due buoni samaritani dei nostri genitori, ma volevo essere presente nella vita di mio fratello, lo volevo davvero».

Si insinuarono a terra, quei maledetti fili magici ora simili a catene, trattenendo Phobos in ginocchio a dimenarsi inutilmente.

«Anche solo per un attimo, quello che sarebbe bastato per fargli capire ciò che aveva portato via me, al primogenito: l’affetto dei propri genitori, troppo occupati dalla carità verso i bisognosi e da quel piccolo e indifeso neonato prodigio, per pensare al loro primo figlio» si incupì stringendo gli occhi, esattamente come facevano quelle catene magiche.

«Il trono, caduto insieme a loro un millennio e mezzo fa, ora nelle grasse mani di un pelato con un ciuffo in mezzo alla testa che risponde al nome di Tsar Lunar XII» Apophis si lasciò scappare una risata amara, a tratti malinconica, ma Phobos era troppo occupato a cercare un modo di liberarsi per compatirlo: sapeva fin troppo bene cosa sarebbe accaduto dopo, lo ricordava fin troppo bene, e non poteva permetterlo, non di nuovo.

«Mi privarono persino del mio numero in linea di successione, sai? Scivolai incomprensibilmente dal Lunanoff numero dodici al tredici, vai a sapere perché, ma non fu il cognome ciò il cui furto mi portò a cercare vendetta, certo che no» Apophis si bloccò un attimo, e con lui la sua magia.

Phobos avrebbe volentieri approfittato di quell’attimo di distrazione per tentare un ultimo e disperato tentativo, ma tutto d’un tratto sentì le unghie dell’altro che gli si piantavano nella carne.

«Mi rubò i poteri, Manny, nacque con essi e con essi si prese tutto ciò che apparteneva a me, al primogenito, il primogenito!» scattò iracondo scavando a fondo nella testa dell’altro, la schiena che si inarcava per la stilettata che gli trapassò le cervella con violenza inaudita «E io ricambiai, oh se lo feci! Proprio come lui aveva fatto con me, da fratello a fratello, settecento anni fa gli portai via tutto ciò che aveva costruito con la sua portentosa magia: i guardiani. Li feci cadere uno dopo l’altro, uno in modo più brutale dell’altro, fino a quando non ne rimasero più… o quasi».

Le grida agonizzanti di Phobos riempivano quel luogo con ferocia tale da sembrare che potesse tutto crollare da un momento all’altro, e in effetti era proprio ciò che stava accadendo.

Quella era la sua mente, il suo subconscio, e stava cadendo a pezzi, esattamente come Apophis gli stava strappando i ricordi dalla testa per la seconda volta in sette secoli: se prima il nero dominava quell’antro tetro nel quale stava conversando con il Lunanoff rinnegato, ora sulla sua testa si stavano formando crepe sempre più grandi dalle quali filtrava una luce bianca, in netto contrasto col sangue nero e appiccicoso che colava da quegli stessi squarci, ferite aperte che riflettevano quelle sul cranio del povero Phobos.

Stringendo un’ultima volta, Apophis gli afferrò la mascella come se volesse spaccargliela:

«Ma tu concluderai ciò che io non ho potuto concludere: mi porterai le teste dei guardiani, e con essi quella della donna che amavi, della regina Harmonia. Portamele, e forse potrei decidere di mettere finalmente fine a questo tuo continuo trascinarti nel mondo alla ricerca del senso del tuo misero vivere» gli promise guardandolo negli occhi, le pupille rovesciate all’indietro a monito di cosa Phobos stesse provando a dimenticare tutto per l’ennesima volta «Servirmi, è questo il senso della tua esistenza».

Provò a ricordare il volto di Harmonia quella notte, quella in cui erano ancora felici, quando la guerra non era che una parola scritta sul dizionario: non ci riuscì. Stava dimendicando, Aveva già dimenticato. Era finita, di nuovo.

«E uccidere».

 

***

 

 

Phobos si liberò dal tocco della regina indietreggiando quasi spaventato, la falce tesa davanti a sé per mantenere le distanze e, forse, proteggersi da qualcosa che solo lui vedeva.

«Non toccarmi! Tu non sai chi sono io!»

«Su questo hai ragione, non ho idea di chi tu sia, sono desolata» si scusò Harmonia.

«… Mi pigli per il culo?» le domandò lui a metà fra il sorpreso ed il seccato, gli sembrava impossibile che proprio lei non lo riconoscesse!

«No, cielo, non mi permetterei mai di mancare di rispetto in questo modo a qualcuno!» si affrettò a precisare muovendo le mani «Anche se quel qualcuno fosse entrato in casa mia sfondando il lucernario, spargendo vetri ovunque -sul suo corpo compreso- e mi stesse parlando con un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, non faccio distinzioni né mi offendo facilmente. Ma in fondo ti capisco: hai preso una brutta botta in testa, devi darti tempo per riprenderti».

Phobos sgranò gli occhi basito «Tempo per… riprendermi? Ma cosa caz-»

«Naevia, prego» Harmonia chiamò la leopardessa delle nevi al suo fianco, la quale non si fece attendere dalla propria regina «ti chiederei di dare un’occhiata al nostro ospite, vorrei assicurarmi che non sia ferito: nel caso, mi affido alla certezza che gli offrirai le migliori cure che conosci » si raccomandò indicando con particolare attenzione i vetri macchiati di sangue sparsi qua e là sulla pelle dell’uomo.

«Io non-» non fece in tempo a finire lui che si trovò Naevia vicino al fianco sinistro intenta a studiare le sue ferite, cercò di nascondere la sorpresa nel non essersi nemmeno accorto  che lei si fosse mossa.

Avrebbe voluto fare qualcosa, il povero Phobos, ma ogni volta che tentava di aprire la bocca ecco che ci si metteva pure Dentolina a controllargli i denti ora squittendo entusiasta, ora borbottando contrariata: se esisteva l’inferno, allora lui c’era dentro fino al collo.

Anzi, era stato proprio sommerso.

Si specchiò in uno dei frammenti di vetro a terra per contemplare la propria miseria: capelli rossi tenuti sciolti sulle spalle, occhi dorati, quel vago accenno di lentiggini sul naso. C’era tutto ciò che ricordava di avere anche settecento anni fa -e che quindi Harmonia avrebbe dovuto ricordare, a meno che pure lei non fosse smemorata tanto quanto lui-, eppure la Regina della Fantasia non l’aveva nemmeno riconosciuto.

Lanciò un’occhiata veloce agli altri presenti cercando di capire se almeno loro ricordassero il suo volto: niente di nuovo, stesse espressioni tranquille e serene, con quel pizzico di compassione per quel povero disgraziato che, invece, si guardava intorno come un topo in gabbia.

“Non era così che dovevano andare le cose, si disse Phobos abbattuto, “non vanno mai come dovrebbero andare, le cose che faccio io” lasciò cadere la falce a terra, il clangore dell’acciaio che si spandeva fra le mura del castello dissolvendosi in un eco sordo “e se le cose non vanno come devono andare, la colpa è solo mia che non sono in grado di farle andare nel verso giusto”.

Senza rendersene conto, Phobos si accasciò a terra tirandosi le ginocchia al petto e nascondendo la testa fra di essere “Sono un disastro, un totale disastro, non sono buono nemmeno a entrare in casa altrui”, si ripeteva come un mantra.

Vedendolo crollare in ginocchio così all’improvviso e forse temendo un suo malore, Harmonia si protese verso di lui.

«Tutto bene? Hai bisogno di aiut-»

«Ho bisogno che tu mi riconosca, ecco di cosa ho fottutamente bisogno!» sbottò lui alzando la testa e battendo i pugni per terra, non era raro che i suoi momenti bui sfociassero in crisi di violenza inaudita.

Harmonia lo guardò impietosita dal non poter dare una risposta diversa da quella data poco prima alla stessa richiesta, si vedeva che era seriamente dispiaciuta.

«Perdonami, davvero» si scusò di nuovo chinando il capo in segno di rammarico «ma, come ti ho già detto, io non ho idea di chi tu sia. Mi spiace, credimi».

Stava scherzando, si stava prendendo gioco di lui!

Phobos si alzò in piedi e allargo le braccia, le lacrime che avevano lasciato posto a qualcosa di nuovo, alla rabbia più pura.

«Guardami! GUARDAMI!» le intimò minaccioso «Sono io, per tutti i tuoi stramaledetti dei, IO!» gridò spaventando i guardiani, i quali indietreggiarono. Myricae, al contrario, aveva già messo la mano sulla sua spada, pronta per ogni evenienza.

«Posso guardarti finché vuoi, ma continuerò a non-

«Sono quello che hai sbattuto a marcire nell’Abisso per settecento anni, brutta sgualdrina! Quello che hai dimenticato nel fottuto buco del culo di questo stramaledetto pianeta sperando di tornare e trovarci le mie ossa! Phobos! PHOBOS! Ficcatelo in quel tuo cervello equino, perché possa il Sole sorgere a Occidente se non te lo ficco io da qualche altra parte a colpi di minchia, pur di fartelo capire!» tuonò secco tutto d’un fiato, il marchio sul suo braccio che prese a brillare.

 

In quel momento, il mondo di Harmonia smise di girare.

Phobos.

Quello era Phobos.

Il suo Phobos.

Settecento anni, erano passati settecento dannatissimi anni da quando lo aveva visto l’ultima volta prima di gettarlo nell’Abisso col cuore in gola, ed ora eccolo lì davanti a lei: i capelli più lunghi di quanto ricordasse, gli occhi dorati ora di un giallo grigiastro spento, lo sguardo perennemente perso a cercare un’ancora di salvezza, quel segno sul suo avambraccio più grande di quanto fosse tempo addietro.

Lo aveva sbattuto nell’Abisso, Phobos, e lì lo aveva dimenticato… no, non era vero, non ce lo aveva sbattuto tanto per divertirsi, era stata costretta a farlo.

E poi era andata a trovarlo ogni giorno, sì, ogni singolo giorno per venticinque lunghi anni, un quarto di secolo passato nella disperazione più pura, nell’Abisso che lei si era creata nella sua mente dove si tormentava ogni ora, ogni minuto, ogni più impercettibile secondo: quello non era abbandonarlo!

Forse… forse avrebbe dovuto fare di più? No, aveva un pianeta da mandare avanti, non c’era stato tempo per gli addii… ma avrebbe dovuto trovarlo, quel tempo, forse in quel modo Phobos si sarebbe sentito meno solo, forse non sarebbe stato tanto arrabbiato, forse non sarebbe evaso.

Come aveva fatto a evadere, poi? I suoi incantesimi non erano sufficientemente potenti? Aveva sbagliato qualcosa? Stava sbagliando qualcosa anche ora?

No, aveva fatto tutto alla perfezione, aveva espressamente richiesto anche la presenza dei guardiani il giorno in cui aveva scavato l’Abisso, così da essere certa che il suo cuore in frantumi non potesse inconsciamente giocare brutti scherzi a lei e alla sua magia. Aveva fatto tutto come doveva essere fatto, sì. Non era colpa sua, non poteva fare più di così.

Cercava di giustificarsi con se stessa, la Regina di Phantasia, ma -esattamente come non ci riusciva da sette secoli a quella parte- non ci stava riuscendo nemmeno un po’ anche adesso: era colpa sua se Phobos era diventato quello che era.

Lo aveva fatto per lei, si era sacrificato per lei e nessun altro.

E lei non lo aveva nemmeno ringraziato, né salutato, né baciato.

“Sono stata un mostro”.

No, non lo era stata: era successo tutto troppo in fretta, Apophis era troppo potente, non era colpa sua… o forse sì, avrebbe dovuto trovare il tempo per farlo, se lo amava tanto, avrebbe dovuto morire con lui!

“La colpa di tutto è mia, mia e basta”.

Si era staccata dal mondo da un pezzo, Harmonia, e si era assicurata di trascinare con sé la propria magia. Al posto della centauressa dal manto bianco e gli zoccoli dorati, ora c’era una semplice donna -più o meno, la cascata di capelli verde acqua e azzurro e rosa pastello mossi da un vento impalpabile era rimasta al suo posto- con lo sguardo perso davanti a sé, i riflessi azzurri e rosa dei suoi occhi nei quali si specchiava la falce di Phobos sempre più vicina, pronta a ghermire la vita dal suo corpo.

 “Avrei dovuto esserci io al suo posto”.

«Concordo. Intanto grazie per il banchetto, sai sempre come rendere contenta questa Ephemeride vecchia, strana e tremendamente annoiata».

La voce compiaciuta di Tanith fu l’ultimo sussurro che le arrivò alle orecchie, poi Harmonia sommerse tutto ciò che la circondava con i sensi di colpa, e i rimpianti, e il dolore, un velo nero che la isolava dal mondo e dal cosmo intero.

Scacco matto.

 

La coda di Myricae frustò l’aria tonando a terra e mandando in frantumi il pavimento, un sottile rivolo di sangue che colava dalle squame color smeraldo nel punto d’impatto della falce di Phobos su di esse: dietro di lei, Harmonia che pareva più simile ad una statua di gesso, piuttosto che una persona.

L’Ophidian non aveva dubitato nemmeno per un istante sull’identità di quell’uomo dai capelli rossi che aveva fatto irruzione nel palazzo, lo aveva riconosciuto fin dal primissimo istante e -sempre dal primissimo istante- si era preparata a proteggere la sua regina, nonché amante. Sfruttando i vaghi poteri da oracolo della leopardessa, aveva mentalmente chiesto conferma a Naevia dei suoi sospetti, non volendo scatenare il panico inutilmente, e la sua risposta affermativa le aveva confermato che valeva la pena tenere alta la guardia.

E per fortuna che lo aveva fatto!

Appena aveva visto negli occhi di Harmonia i primi segni del congelamento che sarebbe venuto dopo, Myricae aveva capito che doveva intervenire per evitare che Phobos -approfittando di quel suo blocco globale totale- la uccidesse fiondandole addosso con la falce, e non avrebbe proprio potuto scegliere un momento migliore per farlo. Priva di ogni coscienza di sé, indifesa, insensibile a tutto e tutti, incapace di provare qualsiasi cosa, di riconoscere qualsiasi persona, di utilizzare la sua stessa magia, in quello stato Harmonia non riusciva nemmeno a sbattere le palpebre.

Il ricordo di una notte d’estate si fece largo nella mente di Myricae, ma lei lo ricacciò indietro prima che potesse iniziare a macerare e macerare: la priorità era proteggere la regina, punto, tutto il resto era superfluo.

E l’ennesimo affondo di Phobos glielo ricordò a gran voce. Myricae non si lasciò certo cogliere impreparata da quella sua furia cieca: seguì con gli occhi la lama della falce fin dall’istante in cui lui l’aveva sollevata da terra e protesa verso il cielo pronto a lasciarsi cadere nuovamente, e attese con pazienza fino a quando non raggiunse la massima elevazione.

Il metallo brillò dei raggi del Sole: ecco il momento che aspettava.

Un colpo secco con la coda ai polpacci di Phobos fu tutto ciò che fece, e il “crack” che ne seguì fu la conferma che l’attesa era valsa il risultato: quell’arma doveva essere particolarmente pesante, aveva pensato la naga quando l’aveva vista per la prima volta, per cui l’approccio migliore del caso sarebbe sicuramente stato danneggiare il baricentro di chi la impugnava, più che il corpo in sé, ed era esattamente ciò che aveva fatto. Il lungo corpo delle Ophidians era un unico ed efficiente fascio di puri muscoli e ossa più simili a titanio che alle porose ossicine umane, attutire l’impatto era semplicemente impossibile.

Crollò a terra quasi immediatamente con il fiato che gli moriva in gola e i polpacci praticamente distrutti, ma Myricae non si avvicinò per prendergli la falce dalle mani: non era affatto convinta che avesse vinto con così poco.

E infatti aveva ragione.

Il marchio sul braccio di Phobos si illuminò di una luce violetta intermittente per qualche istante, poi parve spegnersi del tutto, ma fu solo una questione di secondi perché la sua pelle rosea si coprisse di sottili venature e capillari di un viola più simile al nero, le gambe -coperte dagli abiti e quindi non visibili agli altri- in particolare erano cosparse di macchie nerastre dalla superficie increspata simile a quella della terra arida.

Chiuse gli occhi per un istante appena, poi fu di nuovo in piedi.

“Ecco, quella sua rigenerazione così rapida potrebbe essere un problema non indifferente”, pensò Myricae fra sé e sé senza voler mettere in allarme nessuno, ma dallo sguardo di Naevia capì che doveva averla sentita.

Guardò di nuovo Harmonia, ancora impietrita: ora come ora non era troppo diversa da una bambina incapace di provvedere a se stessa, i fatti erano quelli, una bambina in mezzo ad un campo di mine antiuomo che non aveva nessuna mappa di dove si trovassero le stesse.

E anche chi aveva la mappa si stava rendendo conto che era inesatta.

Si fermò un attimo a pensare, studiando il castello intorno a sé in cerca di una via dalla quale farla fuggire il prima possibile, di certo non poteva tenerla lì a fare la bella statuina!

Guardò i guardiani: forse loro… no, non se ne parlava, mai e poi mai avrebbe messo la vita di Harmonia nelle loro mani, non gli avrebbe affidato un moscerino nemmeno se fosse stata costretta a farlo, e a dirla tutta era piuttosto restìa anche a chiedere loro aiuto.

“Ah, al diavolo!”, imprecò silenziosamente sospirando rassegnata.

Sapeva bene che dare le spalle a Phobos non era affatto una buona idea, ma lo fece comunque per rivolgersi ai cinque che se ne stavano ancora vicino al tavolo davanti al contratto.

«Intendete dare una mano, o volete forse un invito scritto?» li canzonò severa cercando di controllare l’altro con la coda dell’occhio.

«Dare mano?» ripeté Nord confuso.

«“Oui! Anche due!”» commentò sarcastica Tanith ricordando i bei tempi andati, doveva essere seriamente annoiata se si stava pure infilando nelle conversazioni altrui.

«Cosa?» a Myricae era parso di aver sentito un sussurro, ma si disse che era tutta colpa dell’agitazione e non gli diede peso «Comunque sì, “dare mano”, anziché stare lì a guardare senza muovere un dito» cercò di contenere il fastidio nel dover fare presenti cose ovvie «anche perché immagino che quel signorino laggiù voglia pure le vostre teste. Devo anche ricordarvi che avete firmato un contratto di alleanza o ci arrivate da soli, a muovere il-»

Le parole le morirono in gola.

«Su una cosa hai ragione, voglio anche le loro teste» approvò Phobos sorridendo e spingendo più a fondo il sottile pugnale che aveva conficcato diagonalmente fra la scapola e il collo della naga, il sangue che colava sul marchio e pareva bollire.

Nonostante il dolore, Myricae non emise nemmeno un suono, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di piegarla.

«Ma per ora la mia priorità resta un bel paio di scarpe nuove in pelle di Ophidians: il verde non è esattamente il mio colore preferito, ma me le farò andar bene» rigirò il coltello nella ferita affondandolo fino all’impugnatura, la falce invece tenuta davanti a Myricae che le sfiorava il collo ogni volta che respirava «anche perché quando le chiedevo a Babbo Natale non me le ha mai portate, quell’infame figlio di una cagna con la scabbia!» si lamentò rivolto verso Nord.

Se fino ad ora i guardiani non avevano ancora combinato nulla di buono, ora finalmente sembravano essersi svegliati dal dolce torpore in cui si stavano sollazzando. Nord soprattutto pareva aver preso parecchio sul personale l’offesa rivoltagli, tanto da aver impugnato le proprie spade avanzando verso Phobos incurante delle preghiere degli altri di fermarsi.

«Mordi tua lingua prima di parlare di mia madre, ragazzo, o io infilare te in lista di cattiva prima di Jack Frost, e lui essere al primo posto!»

«Come?» il guardiano del divertimento trasalì «Mi avevi detto che se mi fossi occupato delle renne per tutto l’anno fino a Natale mi ci avresti tolto, da quella lista, e io l’ho fatto!» si lagnò prendendo a indicarsi compulsivamente «Ho spalato merda per niente! NIENTE! Hai idea di-»

«Ti ha messo a spalare la merda delle sue renne?» si intromise Phobos incredulo.

«Quella, e pure tutto il resto! E tutto perché “tu altrimenti restare in lista di cattivi, da!”» scimmiottò lui imitando malamente Nord, a tanto così dal mettergli le mani al collo.

«Per tutti gli dei vivi e morti» inorridì l’altro sollevando le sopracciglia in segno di stupore «ed io che mi lamentavo dell’Abisso! Al confronto, quello era-»

«Il posto in cui devi tornare» sibilò Myricae.

Il tempo di gonfiare minacciosi il collare membranoso che avevano intorno al collo, e le serpi che l’Ophidians aveva come capelli si lanciarono in massa sul volto e sul collo di Phobos, affondando i loro denti veleniferi nella carne e ancorandosi ad essa come uncini.

Seguendo l’istinto di sopravvivenza, l’uomo mollò falce e pugnale per afferrare quegli animali con le mani ora libere, ma la naga lo precedette sul tempo di nuovo, anzi lo fecero quelle bestioline in modo del tutto autonomo: bastarono due paio delle code -che fuoriuscivano dal suo capo esattamente come facevano le teste- per bloccargli i polsi, avvolgendosi intorno ad essi e stringendoli finché non iniziarono a diventare viola. Era vero, Myricae lo aveva in pugno, ma la posizione in cui si trovava rendeva scomodo tentare un qualsiasi altro attacco, specie perché girandosi avrebbe dovuto abbassare la guardia per l’ennesima volta di troppo.

In suo aiuto, però, una delle zampe di Antares comparve da chissà dove, tendendole il filo con cui tesseva le sue tele; il resto della donna mezza aracnide arrivò poco dopo, ovviamente con addosso quel suo solito infantile entusiasmo.

Complice l’antica guerra che andava avanti da tempo immemore fra Ophidians e Sylkes -le cui conseguenze però non si erano mai riversate sul loro rapporto, unite com’erano dall’amicizia in comune con Harmonia e da un paio di favori che si erano fatte a vicenda-, la naga non era riuscita a trattenere il facepalm.

«Alla buon’ora» si limitò a commentare stizzita.

«Meglio tardi che mai, ero a tessere dei regalini per i nostri ospiti! Un attimo solo» Antares si mise a frugare nella borsa di cucito che si portava sempre dietro, i ferri da maglia sopra l’orecchio come si confaceva alla grande -e incompresa- artista che era «… accidenti a me, sono più sbadata di mia madre quando ha mangiato per sbaglio le nostre sorelle… o forse le avevo cucinate io perché non avevo le uova per la frittata? Oh beh, arrivo! Ci sono!»

Passarono altri interminabili minuti, poi finalmente tirò fuori dal borsello una serie di lavori ad uncinetto -presumibilmente sciarpe- dai colori più variopinti che si mise a distribuire tutta contenta ai guardiani.

“Non farti domande, non sorprenderti nemmeno: la conosci, ormai” si disse l’Ophidians cercando di non dare a vedere il proprio disappunto.

«Antares» la richiamò.

«Ti sta benissimo, ghiacciolino mio adorato, sei un meraviglioso batuffolo di calore e tenerezza e- e-» prese fiato incredula, poi tornò alla carica più molesta che mai «e queste guanciotte mooooooorbideee!» squittì mentre strizzava le guance a Frost, che poverello era immobile come uno stoccafisso per la paura di finire inseminato.

«Antares».

«Oh-miei-dei! Sei favolosa, tesoro, fa-vo-lo-saH! Questo verde iridescente si abbina proprio bene alle tue piume, ho fatto bene a non ascoltare Naevia che diceva che fosse troppo appariscente: alla faccia tua, eh eh!» rise rivolgendosi alla leopardessa, che di suo fece spallucce annoiata.

«Antares!»

«Eh? Che c’è?» finalmente, la Sylkes degnò l’Ophidians di uno sguardo.

«Ehm-ehm» tossì indicandogli Phobos dietro di lei «provvedi alle sue mani, grazie».

«Oooooooh! Quello! Non potevi dirlo prima? Che sciocchina che sei!»

«Dirlo… prima? Sto cercando di- oh, lascia stare e fai quello che devi, per la dea!» si rassegnò infine.

 

Ad Antares ci volle qualche minuto a fare ciò che doveva, ma infine Myricae poté finalmente liberare se stessa e pure i suoi serpenti, i quali si preoccuparono ance di strapparle il pugnale dalle carni con un colpo secco.

Gettò lo sguardo su Phobos con un misto fra pena e orrore: cos’era tornato a fare, adesso? Pensava forse di poter riconquistare Harmonia? Di tornare insieme a lei? Di conquistare il suo cuore, forse? Quell’ultima ipotesi gli sembro sì plausibile, ma solo in forma letterale se ripensava a come l’aveva ridotta col suo solo palesarsi, o come le si era avventato addosso.

Strisciò fino a trovarsi di fronte alla Regina di Phantasia e le prese il volto fra le mani, come in altre circostanze faceva quando voleva baciarla ma che, adesso, era solo un modo per farle sentire che le era vicina.

«Non ti lascio da sola, mai» le sussurrò piano poggiando dolcemente la propria fronte a quella dell’altra «resta con me, va bene? Ascolta la mia voce e resisti, fallo per me, per noi: passa tutto, passa sempre» la strinse a sé cercando di ignorare la voglia di urlare che le stava invadendo anche i dotti lacrimali. Non sapeva se le stesse accarezzando la testa per rassicurare lei o più se stessa, ma doveva essere forte per entrambe, adesso «Non andare dove non posso raggiungerti, mela en’ coiamin, non un’altra volta. Dartho na nin, a’maelamin, dartho na nin» la pregò infine.

«Che scena pietosa» intervenne Phobos.

Myricae si girò di scatto verso di lui lasciando il volto di Harmonia, ma non prima di darle un bacio sulla fronte; gli si avvicinò strisciando lenta ma inesorabile, con gli occhi color lime pieni di voglia di spaccargli la faccia appena lo avesse avuto davanti, esattamente come i pugni che fremevano per posarsi su quel suo nasino tanto carino e caruccio.

«Hai qualche problema con me, forse?» domandò quando fu lì ergendosi sopra di lui, complice il corpo serpentino che glielo permetteva.

«Tu e la tua amichetta mi fate semplicemente schifo, per farla breve, tante sdolcinerie mi fanno venire l’acidità di stomaco. E non ho comprato il Gaviscon, quindi fai tu due conti di come sono messo».

«Oh, sono seriamente dispiaciuta, davvero» commentò apatica incrociando le braccia, poi gli indicò Naevia «un medico lo abbiamo pure noi per cui il problema non si pone: forse un qualche intruglio particolarmente amaro potrebbe farti rinsavire, Phobos».

«AdoVo come pronunci la lettera “esse”, sssembra che tu ssssssibili nel farlo, mi sssssbaglio? Si tratta di una mia impresssssione, sssssignorina?» prese a sfotterla lui sfoderando uno di quegli sguardi che dovevamo sembrare convincenti, ma che in realtà facevano solo sorride allontanandosi lentamente.

Myricae rise scuotendo la testa «Sei penoso».

«Concordano in tanti con te, e ahimè devo proprio darti ragione su questo punto. Ma capiscimi, ho passato sette secoli nell’Abisso, il mio charme ha perso di efficacia, anche se certo non lo avrei sprecato con un serpente ermafrodito come te».

«Sette secoli nell’Abisso, appunto, e non sono stati abbastanza: avresti dovuto marcirci dentro fino alla fine dei tempi, nell’Abisso, vedo bene cosa stai combinando adesso che ne sei uscito» asserì lei con un velo di rabbia nel tono della voce, afferrando la camicia di Phobos e portandoselo all’altezza dei suoi occhi «devasti e uccidi, o almeno ci provi: colpisci alle spalle come un vigliacco, non meriti nemmeno di impugnare un’arma diversa dalle bacchette del sushi con le quali probabilmente ti sei allenato in quel buco di posto».

Prese la propria spada dal fianco -una lunga lama ondulata che ricordava il corpo di un serpente, la cui testa infatti formava l’elsa dorata- e gliela poggio sul petto.

«Non puoi nemmeno immaginare quanta voglia abbia di affondartela nelle viscere, Phobos, non puoi nemmeno lontanamente immaginarlo».

«Fallo, allora. Avanti. Ti sto aspettando» la invitò cortesemente per prenderla ulteriormente in giro «Hai paura, forse?» la stuzzicò lui.

«Paura? No, certo che no, non temo di certo te» rise la naga di tutta risposta, affondando -se non la lama- almeno l’autostima dell’altro «Pietà, ecco cosa. Non ti darò mai e poi mai la soddisfazione di morire e trovare la pace, non lo meriti, come anche non meritavi il suo dolore» indicò Harmonia, immobile, con la spada «L’ho vista versare più lacrime in una sola notte di quante qualsiasi creatura ne possa versare in tutta la sua esistenza, prendersi in spalla colpe che non aveva e sopportare tutto, tutto, in assoluto silenzio e col sorriso sul volto: non permetterò che accada di nuovo, gliel’ho giurato. Non lo meriti. Non la meriti. Non meriti proprio-»

Phobos pensò bene di interromperla sputandole in faccia, dando mostra della sua incredibilità maturità e serietà.

«Tu fai schifo. Harmonia fa schifo. Phantasia fa schifo. Tutti loro» girò il volto verso i guardiani a indicarli «fanno schifo. Fate tutti schifo, signori miei, e nemmeno tanto meno di quanto lo faccia io. E ora, chiudi cortesemente quella bocca, o giuro che te la faccio chiudere io infilandoci il mio cazzo dentro».

Myricae si pulì il volto «Il massimo che potrei fare col tuo cazzo è usarlo come filo interdentale, ad essere generosi. E poi, come avresti intenzione di fare? Ti va di spiegarlo a noi poveri rifiuti che ti inorridiamo tanto, eh?»

«Loro lo faranno con piacere» concluse calmo facendo un cenno verso la porta d’ingresso.

 

Davanti ad essa, Thorax e il resto del branco con i canini snudati.

I leoni non avevano perso tempo in convenevoli, e tutto d’un tratto la frenesia di poco prima era ricominciata più violenta e rumorosa di quanto lo fosse stata quando Phobos aveva fatto la sua entrata in scena. Si erano subito divisi ed avevano iniziato a lanciarsi contro qualsiasi cosa o persona si trovasse davanti al loro cammino, e i loro ruggiti che riempivano l’atrio del castello e rendevano impossibile qualsiasi forma di comunicazione verbale non facilitavano certo le cose tanto per i guardiani come per tutti altri.

Nonostante il caos, però, c’era da riconoscere che tutti stavano collaborando per uscirne nel miglior modo possibile: Sandman e Calmoniglio erano quelli che se la cavavano meglio sul fattore quantità, riuscendo ad abbattere diversi leoni in un colpo solo uno con la sua frusta di sabbia dorata, e l’altro col boomerang che -c’era da dirlo- aveva rischiato di tagliare di netto pure la testa del povero Jack Frost.

Quest’ultimo, infatti, sembrava piuttosto confuso su ciò che stava accadendo, prendeva tutto come un giochi proprio com’era nel suo stile: ora una palla di neve e ghiaccio dritta in mezzo agli occhi che faceva stramazzare a terra quelle bestie, ora un paio di stalattiti affilate che come pioggia si abbattevano sui felini tutte d’un colpo dopo averli attirati in trappola in uno spiazzo libero, ora il semplice congelarli e poi gettare il bozzolo di ghiaccio a terra mandandolo in frantumi.

Il guardiano del divertimento, quindi, se la stava cavando egregiamente nel suo scivolare da una parte all’altra su piattaforme ghiacciate da lui create.

Dentolina invece era quella più in difficoltà, fra tutti loro: poteva svolazzare qua e là per attirare i leoni dove voleva Frost, ma già un paio di volte aveva prestato poca attenzione agli stessi e si era presa delle brutte artigliate sulle ali, ora costellate da buchi di dimensioni non indifferenti. Le sue fate, poi, erano anche più inutili di lei: i leoni nemmeno le sentivano, e quando lo facevano era solo perché le stavano divorando.

Per l’ennesima volta, la fata dei denti abbassò la guardia nell’aiutare Jack: subito, un leone nero la intercettò come la sua prossima preda, le conficcò gli artigli fra le fragili ali da colibrì per poi, poco dopo, appendersi letteralmente a lei trascinandola a terra. Solo il tempestivo intervento di Nord la salvò dall’essere sicuramente sbranata, ma certo non le sfuggì l’occhiata di rimprovero che le lanciò prima di gettarsi nuovamente nella mischia con l’entusiasmo di un bambino.

Phobos spalancò gli occhi incredulo, e non era per il veleno che iniziava a fare effetto dilatandogli le pupille nemmeno fosse uno scherzo del destino: come tessere di dominio perfettamente allineate, i suoi leoni stavano crollando uno dopo l’altro, stavano sparendo inesorabilmente tornando ai mucchi di ossa e polvere che erano stati in origine, e lui era lì a guardare tutto ciò completamente inerme.

Non poteva sopportare una vista del genere, non di nuovo! Glieli avevano già portati via una volta, non poteva -non doveva- permetterloancora, non lo avrebbe mai permesso!

Forse avvertendo la rabbia crescente del padrone, Thorax alzò il muso e gli corse incontro ruggendo, cogliendo Myricae di sorpresa dal momento che lei nel mentre era impegnata a dare una mano a Naevia, dopo aver poggiato Phobos a terra in un angolo ben lontano dalla regina Harmonia.

“Uccidi, UCCIDI!” gli gridò mentalmente lui.

L’Ophidian si girò tardi, giusto in tempo per vedere la maestosa sagoma del grosso leone dal manto nero che le saltava alla gola: gli occhi che fiammeggiavano come rubini nella notte, le enormi zanne snudate che colavano saliva, gli artigli dispiegati vogliosi solo di affondarle fra o delicati interstizi fra una squama e l’altra, che di per sé erano estremamente resistenti.

Un ruggito.

Un ululato.

Poi l’ombra nera del leone che spariva dal suo campo visivo, collassando e rotolando a terra lontano da lei.

Guardò verso la porta, e finalmente vide un viso famigliare: Scarlet Redcape, la Cacciatrice di Fairy Oak.

La donna diede un segnale indecifrabile al suo lupo, che obbedì gettandosi sopra il leone dando inizio alla loro furiosa lotta: le due bestie si azzannavano e graffiavano a vicenda con ferocia inaudita anche per gli standard animali, entrambi ruggivano e ringhiavano come se nel contempo che si ferivano si stessero anche insultando in una lingua che solo loro potevano comprendere, ma ora come ora era Spettro che stava avendo la meglio sul felino. Il lupo albino era decisamente più grande del leone nero, motivo per cui non ebbe problemi a sovrastarlo completamente imprigionandogli tutto il collo fra la mascella e la mandibola: quando strinse, l’effetto fu a dir poco devastante.

 

Un miagolio agonizzante si sparse tutto intorno, poi il silenzio.

 

Tutti i leoni si bloccarono all’unisono, riconoscendo il segnale: il loro capobranco era crollato, non avevano né motivo né una guida per continuare a combattere. Approfittando della loro confusione nel non capire più cosa fare, Myricae raccolse arco e frecce che Naevia le passò lesta.

Una, due, tre frecce, poi dieci, venti, cinquanta, forse cento, tutte dritte in mezzo a quei rubini che esplodevano liquefacendosi per terra; i guardiani e gli altri generali della regina Harmonia le diedero volentieri una mano, finché dei leoni non rimase che polvere color avorio. Solo qualcuno di loro fu abbastanza rapido -e furbo- da darsela a gambe, ma la maggior parte di loro cadde quel giorno.

«Tu e il tuo amico volete farmi ingrassare, oggi: sento già Mothman che si beffa del fatto che vada a trovarlo rotolando per terra da quanto mi sono ingozzata qui, più che strisciare».

E Tanith non poteva avere più ragione, nel parlare ad Harmonia così, perché il dolore che stava provando Phobos lo stava letteralmente facendo impazzire: i leoni erano tutto ciò che gli era rimasto, e loro glieli avevano portati via. Non una, ma ben due volte.

E lui lo aveva permesso.

Era colpa sua, di nuovo.

Era sempre colpa sua.

Cercò conforto in Thorax, l’unica ancora di salvezza che aveva in quel delirio costante che era la sua vita nell’Abisso, e ora fuori da esso: non si muoveva.

«… Thorax?» lo chiamò di nuovo, ma il leone non rispose.

Il panico iniziò ad impossessarsi di lui «Thorax… avanti bello, non scherzare, non è divertente» gli intimò ma, di nuovo, da lui non arrivò alcun segno di vita.

Spettro gli ringhiò contro alzando la testa dal corpo esanime del leone, mostrando i canini insanguinati al proprietario della bestia come a sbeffeggiarlo; appena la pressione dei denti del lupo sul collo del felino venne meno, una chiazza rossa si sparse tutta intorno al suo corpo.

«Thorax… avanti… non puoi lasciarmi da solo adesso» sussurrò  Phobos crollando in ginocchio davanti a lui, avrebbe voluto accarezzarlo ma con le mani legate non poteva certo farlo «avevamo dei progetti, amico, non posso portarli avanti solo io, sai che non ne sono in grado di farlo… ho bisogno di te, bello, ne ho un fottuto bisogno… non lasciarmi, non farlo».

A tutta quella scena nessuno stava prestando attenzione, troppo impegnati com’erano ad assicurarsi che il resto del branco fosse fuggito.

«… Thorax…» questa volta lo disse con un tono che non era una domanda, e nemmeno un richiamo al farsi sentire. Era una supplica, lo stava supplicando con le lacrime agli occhi di rispondergli, non chiedeva altro.

Ma non gli rispondeva, Thorax, non poteva più farlo.

Phobos esplose.

Esattamente come era accaduto quando aveva quasi fatto crollare l’abisso, la magia prese a fluirgli dal corpo senza controllo alcuno, fiumi di filamenti viola acceso che si spandevano a ragnatela tutto intorno a lui e al suo leone come inneschi per ciò che sarebbe venuto dopo. E cioè le fiamme, fiamme che ghermivano qualsiasi cosa si trovasse nel raggio d’azione di quei fili magici, bruciando e consumando finché non fossero rimaste solo le ossa: anzi, nemmeno quelle, avrebbe carbonizzato pure le ossa, esattamente come quelle dei suoi leoni si erano ridotte in polvere davanti ai suoi occhi intenti a piangere.

Di rabbia, di dolore, di frustrazione: non sapeva nemmeno lui perché lo stesse facendo, ma non riusciva nemmeno a fermarsi.

Allora, e solo allora, i guardiani e tutti gli altri notarono il cerchio di fuoco che circondava l’uomo, le cui fiamme si stavano alzando come a formare una cupola che rinchiudesse lui ed il fedele compagno steso a terra. Nord e Calmoniglio fecero per attaccare di nuovo preparandosi alla carica, ma Myricae stese prontamente la coda davanti a loro fermandoli: no, non era il tempo di infierire, lo riconosceva bene anche lei che -ridotto com’era- sarebbe stato come sparare sull’ambulanza. E Harmonia non lo avrebbe mai voluto.

Si scambiò un ultimo sguardo con Phobos, incrociando i suoi occhi fra le fiamme che crepitavano: se si era ridotto all’ombra dell’uomo che era un tempo, se i suoi leoni erano andati al macello, se stava accadendo tutto ciò, era solo colpa sua.

Un bagliore, poi la cupola implose su se stessa in un suono sordo simile a quello di un tuono. Dentro di essa non c’era più nessuno: né Phobos, né la salma di Thorax.

Restarono tutti in silenzio per qualche istante, poi Myricae si divise dal gruppo intento a parlottare entusiasta, a vantarsi della propria impresa con le stalattiti nonostante i tentativi più o meno volontari di decapitazione, a raccontare di come con una spada avesse trapassato due leoni, a imitare come con la frusta ne avesse mezzo impiccato uno, di come si era quasi fatta mangiare. L’Ophidians, invece, si diresse da Harmonia e la prese in braccio, sparendo sulle scale con lei accucciata al petto.

 

***

 

Naevia era salita un paio di volte per rassicurarsi delle condizioni di salute sue e della loro regina, oltre che per medicarle la scapola con i suoi soliti intrugli che solo gli dei sapevano cosa contenessero, e Antares aveva fatto altrettanto portando con sé una coperta fresca di tessitura.

“Vedrai che così si riprenderà prima di subito, parola di Sylkes!”, le aveva detto, ma Myricae non ci credeva poi così tanto: sapeva bene di cosa aveva bisogno Harmonia per riprendersi da quel brutto momento, e una delle cose a lei più necessarie era proprio l’avere vicino la propria compagna che le teneva la mano silenziosamente seduta al suo capezzale.

Le aveva fatto una doccia per pulirla dalla polvere e dai frammenti di vetro, le aveva messo addosso dei vestiti puliti e poi subito a letto, coprendola con cura per assicurarsi che non patisse troppo freddo o troppo caldo: sarebbe passato, passava sempre, ma ogni volta che accadeva era come una pugnalata.

Peggiore di quella ricevuta quel giorno, fra l’altro.

Senza lasciare la mano della sua mela en’ coiamin, “l’amore della sua vita” nella sua lingua, Myricae allungò la coda per prendere un carillon che Harmonia custodiva gelosamente in un cassetto magico invisibile a chi non occupasse quella stanza, solo loro due sapevano dove trovarlo; girò la manovella per caricarlo: una melodia dimenticata iniziò a fuoriuscire da esso, mentre la naga poggiava la sua testa sul petto della compagna.

“Sarà una notte lunga”, si disse.

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

(*) Traduzioni varie ed eventuali

Ed’ i’ear ar’ elenea = per la luna e per le stelle (esclamazione)

Lle n'vanima ar' lle atara lanneina = mi fai ridere

= sì

Tancave = certamente

Mela en’ coiamin = amore della mia vita

Dartho na nin, a’maelamin, dartho na nin = resta con me, amore mio, resta con me

Ed eccoci qua con questo capitolo immensamente lungo , il cui titolo è un riferimento al filo rosso del destino, "unmei no akai ito" appunto. Secondo la tradizione giapponese, ogni persona porta, fin dalla nascita, un invisibile filo rosso indistruttibile legato al mignolo della mano sinistra che lo lega alla propria anima gemella, che li destina, prima o poi, a incontrarsi e a sposarsi. Perché se non era destino che si incontrassero di nuovo Harmonia e Phobos non so proprio cosa sia! :'D

Ne approfitto giusto per ringraziare chiunque si sia mostrato ancora interessato a questa fanfiction nonostante il tempo immemore che ho impiegato ad aggiornare, specie chi ha trovato ancora la voglia di recensire: seriamente, mi fate commuovere, nemmeno ci speravo! Quindi grazie a tutti dal profondo del cccccccuore :3

Ah, chi non ha ancora ricevuto una risposta alla propria recensione qui o in altri miei scritti la riceverà in questi giorni, scusate per il ritardo nel rispondere ma ehi, sempre meglio ritardare in quello che ad aggiornare dopo quasi un anno :’D

Al prossimo capitolo!

   
 
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