Premessa:
in
questo capitolo, le parti scritte con un colore più chiaro
rappresentano una
sorta di esperienza extracorporea di Phobos per la quale si trova a
parlare
nella propria testa, buona lettura! :)
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Chioma rossa mossa dal vento che si
disperdeva tutta
intorno, sguardo fiero e sicuro di chi sa quello che vuole e sa come
ottenerlo,
falce alla mano che bramava solo di posarsi sul bianco collo della
Regina: “sì”,
pensò Phobos, “è un’entrata
assolutamente perfetta, perfetta!”. Mosse un passo
per scendere a consumare finalmente la sua vendetta, testa alta e petto
in
fuori come si confaceva ad un uomo fiero com’era lui.
E allora era capitombolato per
terra.
Complice la sbornia triste che
aveva addosso, nella
sua rovinosa caduta aveva sbattuto prima contro il cornicione sotto il
lucernario appena distrutto, poi contro curiose statue filiformi che si
diramavano dalle pareti -e lì gli parve pure di aver perso
un dente o due-, dopo
i capelli gli si erano incastrati in una delle stesse: fu solo dopo che
si ruppero
a furia di dimenarsi che riuscì ad atterrare.
Di faccia.
Sui vetri.
Che lui stesso aveva distrutto, fra
l’altro.
Mai
più birra
prima del lavoro, mai più.
Va bene, la sua entrata in scena
non era poi stata
così trionfale e appariscente come aveva creduto, ma era
abbastanza certo che
-pessima figura o meno- alla fine il risultato sperato di terrorizzare
tutti
era arrivato comunque: sì, doveva essere così,
gli pareva quasi si poter
sentire la paura nei loro occhi, i loro volti contratti in espressioni
di
sorpresa e orrore allo stesso tempo nel rivedere qualcuno dimenticato
da sette
secoli, proprio ciò a cui aspirava!
Mosso da questa certezza, Phobos
allungò la mano
sinistra verso il terreno intorno a sé alla ricerca della
falce:
«Aspettate eh, datemi un
min- MA PORC-»
un’imprecazione impronunciabile gli uscì dalla
bocca quando le dita si
strinsero intorno ad un pezzo di vetro, credendo fosse la sua arma; si
fece
forza e tentò di nuovo, questa volta con la destra
«… sto bene, sto bene, va
tutto ben- E MA CHE CAZ-» di nuovo, l’unica cosa
che riuscì ad afferrare fu un
calcinaccio, ottenendo lo stesso identico risultato di prima.
Jack Frost, non si sapeva se per
pietà o per curiosità
o per altro, allungò sospettoso il suo bastone verso la
falce, spingendogliela
vicino; finalmente, quel povero disgraziato riuscì ad
afferrarla.
Una gomitata per alzarsi dopo
l’altra, un dolore
lancinante al petto dopo l’altro causa caduta e relativi
lividi, alla fine
Phobos era riuscito prima a mettersi con un ginocchio a terra per
prendere
fiato, poi a rialzarsi. O
almeno
provarci, perché da come se ne stava ingobbito pareva che le
gambe fossero rette
da gelatina al melograno, più che da ossa; dopo innumerevoli
tentativi, però, a
reggersi in piedi c’era riuscito eccome, e considerando come
stava andando la
giornata già quella fu un’enorme conquista per
quel poveretto illuso di stare
combinando chissà cosa.
Ad occhi chiusi per godersi meglio
il maestoso
momento, alzò la testa verso i guardiani e la loro compagnia
sicuro di se stesso,
con una convinzione addosso che mai aveva creduto di poter avere, o
meglio
riavere.
«Tremate, sciocchi!
Temetemi, miserabili!» gridò
gonfiando il petto e imbracciando la falce tendendola davanti a
sé «Credevate
di esservi liberati di me, vero? E invece no, eccomi qui, pezzi di
codardi che
non siete altro!» l’arma si illuminò di
una luce rossastra, facendo apparire
come delle scanalature nel metallo simili a lettere di un alfabeto
dimenticato
«E tu, oh! Tu!» indicò Harmonia
«Tu pagherai più di tutti, finalmente! Non
immagini nemmeno da quanto attendo questo momento, da secoli
interi!» ringhiò
rabbioso per poi, con un movimento rapido del braccio, puntarle la
falce in
mezzo agli occhi.
Harmonia non reagì, non
si era mossa di un millimetro
né aveva mutato espressione, il che rendeva difficile a
Phobos capire se le sue
minacce stessero funzionando o meno. Colpa della paura, si disse, era
talmente
spaventata da essersi paralizzata, quella sgualdrina dal grasso
posteriore
equino!
Phobos le sorrise
un’ultima volta, voleva che quel
ghigno le restasse ben impresso nella mente quando avrebbe colto la sua
regale
testa dal suo corpo.
«Ultime parole?»
«Ma tu chi
sei?» rispose lei calma e pacata, con
addosso un sorriso di condiscendenza e pietà come pochi
altri.
Il gelo.
Non lo aveva riconosciuto? Ma stava
scherzando?
Iniziò a squadrare tutti
freneticamente col cervello
ridottosi in poltiglia da un momento all’altro: lo
osservavano tutti a metà fra
l’incuriosito e l’impietosito, sembravano chiedersi
“ma chi cazzo è questo?”
mentre gli piantavano addosso quei loro occhi carichi di
superiorità o presunta
tale verso chi avrebbero dovuto temere come la neve col Sole, a
guardarli nessuno
di loro stava reagendo con la paura ed il terrore che Phobos aveva
invece
previsto per il suo ritorno.
E non ne capiva il motivo.
Aveva sfondato il lucernario, aveva
tirato fuori
l’arma più spaventosa che avesse a disposizione,
si era pure impegnato per
essere convincente -e lo era, nel suo immaginario- nelle sue minacce,
eppure
non stava accadendo nulla di tutto ciò che aveva immaginato.
Anzi, Harmonia lo stava pure
prendendo per il culo,
alla faccia della paura!
Sette secoli passati nel freddo e
gelido Abisso,
settecento anni passati ad orchestrare la sua vendetta, la
possibilità di
compierla data dal fortuito intervento di Comet combinato con delle
casualità tutte
a suo favore, giorni e giorni per riprendersi dalla depressione
più oscura
nella quale ricordava di essere crollato da anni a quella parte, una
nuova autostima
creata sudando sangue e affrontando a testa alta le innumerevoli
avversità che
lo avevano perseguitato… e tutto ciò era stato
distrutto, svanito, calpestato,
nel giro di quattro parole, in quel “ma tu chi
sei?”.
Non se ne era nemmeno accorto
-assorto com’era nel
turbine di domande che gli frullavano nella testa-, ma ora la Regina
della
Fantasia gli si era avvicinata cautamente un passo dopo
l’altro, uno zoccolo
davanti all’altro, fino a trovarsi di fronte a quel caso
umano color carota.
Nessuno dei due proferì
parola -anche perché Phobos
era ancora vittima di quella specie di oscura trance-, restarono a
fissarsi gli
occhi uno nell’altra per istanti che parvero eterni, poi
Harmonia posò il
pesante corpo equino a terra sedendosi e allungando una mano verso il
viso di
quello che, eoni prima, era stato il suo amante.
E lui l’aveva lasciata
fare, sì.
Non si era mosso nemmeno quando le
dita sottili e
affusolate della regina avevano incontrato il suo volto segnato dalla
sofferenza come mai prima d’ora: non solo la stava lasciando
fare, ma sentiva
addirittura un qualcosa nella sua testa che reputava piacevole
quella sensazione, e ciò lo confondeva non poco.
Era come
se una voce gli pizzicasse la mente ripetendogli di non opporre
resistenza e di
abbandonarsi a lei, alla Regina di Phantasia, ad Harmonia, alla donna
che, un
tempo, aveva amato più della sua stessa vita.
Il suo cervello si
bloccò su quel pensiero: l’aveva
amata? Lo aveva fatto veramente?
Allora perché non ricordava? Perché aveva un buco
nella memoria prima di quei
settecento anni di agonia? Cosa era successo che non riusciva a
ricordare, che
non poteva ricordare? O forse non doveva?
Chi è che non voleva che lui-
***
Il buio.
Non c’erano
più Harmonia e i guardiani intorno a lui, solo nero a
perdita
d’occhio: a destra, a sinistra, sopra e sotto di lui, era
come se stesse
galleggiando nel nulla più assoluto, o forse
nell’acqua a giudicare dai cerchi
concentrici che si creavano quando poggiava un piede avanti
all’altro per
camminare.
Avanzò
ancora, e ancora, e poi ancora, sembrava che quel luogo non avesse
mai fine, qualsiasi posto fosse quello in cui si trovava, ed il peggio
era che
gli sembrava tremendamente famigliare, nonostante sul momento non
riuscisse a
identificarlo.
«Ed’
i’ear ar’ elenea! (*) Non credevo di rivederti
così presto, Phobos»
una voce dal nulla lo spaventò facendolo girare
all’improvviso.
Chi aveva parlato, se
non c’era nessuno oltre a lui?
«Non temere,
povera e disgraziata creatura che non sei altro, sono
l’ultimo dei tuoi problemi io» la voce gli
parlò di nuovo, questa volta ridendo
«il tuo problema principale è qui dentro,
ahimè: hai la testa vuota» si sentì
sfiorare e picchiettare il capo, ma non lo aveva fatto nulla di
corporeo e
tangibile, perché nulla aveva visto farlo «ma non
abbastanza vuota da lasciarti
in pace, dal momento che sei qui».
«Qui?»
ripeté confuso il rosso mentre cercava la fonte di quelle
parole «Qui…
dove?»
«Ma nella
tua testa, ovviamente».
Nella sua…
testa? Nel suo subconscio? A quelle parole, Phobos non parve
sorprendersi nemmeno troppo, certo non quanto avrebbe dovuto, era
semplicemente
come se si aspettasse quella conversazione da tempo e quella fosse solo
la
conferma dei suoi sospetti.
Sospetti che gli
diedero quel po’ di coraggio necessario per farsi avanti,
infine.
«E come ci
sono finito, nella mia testa? Io stavo…
stavo…» si bloccò un
attimo, quello che gli bastò per rendersi conto che non
ricordava assolutamente
ciò che stava facendo prima di quella conversazione, gli
pareva di essere
comparso dal nulla.
Esattamente
come gli era
successo settecento anni prima.
A metà fra
lo spaventato dalla sua stessa mente e da ciò che stava
vivendo, Phobos girò su se stesso una moltitudine di volte
per trovare uno
spiraglio di salvezza, ma fu tutto inutile: non vedeva luci o segnali
che
potessero aiutarlo ad orientarsi, non sentiva nessun rumore che potesse
guidarlo da qualsiasi parte che non fosse
quel luogo, non aveva nemmeno uno spiraglio di salvezza da se
stesso.
«Lle
n'vanima ar' lle atara lanneina, sai? Ti comporti come se fosse la
prima volta che mi senti, quando sappiamo perfettamente entrambi che
non è così,
considerando quanto sei fuori di cervello» intervenne la voce
divertita da quel
suo silenzioso disperarsi «anche se probabilmente non
ricordi, non ricordi mai
ciò che dovresti o vorresti, tu… nemmeno
adesso».
Non senza
difficoltà, Phobos cercò di nascondere alla bene
e meglio l’inquietudine
provocata da quell’affermazione, ahimè fin troppo
veritiera.
«Non ho la
possibilità di farlo» rispose stringendo i pugni e
girandosi da
dove gli pareva che provenisse quel suono «ed è
colpa tua, immagino, altrimenti
non saresti qui come non lo sono tutti gli altri».
«Ná,
confermo: mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa»
sentì battere
tre colpi, come prevede la formula «sono proprio un birbone,
che ci vuoi fare?
Vecchio, annoiato e rilegato in quattro mura con solo rocce e polvere a
farmi
compagnia, nemmeno la luce del Sole mi raggiunge. Come vedi la mia vita
ha ben pochi
momenti di spasso».
«E
tormentare me rientra in questi momenti, suppongo».
«Tancave!
Uno dei migliori, devo ammetterlo» un’altra
risatina di scherno
gli giunse alle orecchie tagliente come non mai «mi
intrattieni da sette secoli
a questa parte, osservare le tue disgrazie è quasi meglio
del sesso, sai?».
Sette secoli?
Possibile che… ?
«Sì, sono io»
confermò la voce,
quasi che avesse letto i suoi pensieri.
Gelo, di nuovo.
E questa volta non fu
una semplice sensazione, non fu nemmeno una folata
fredda come le altre, no, questa volta lo sentì chiaramente
dentro di sé,
dentro la sua testa, in quel luogo:
era come se dei pugnali di ghiaccio gli trapassassero il cervello da
una parte
all’altra, la stessa identica sensazione che provava quando
pareva ricordare un
frammento del suo passato, ma ora quei coltelli gli sembravano
tremendamente
reali e palpabili che poteva sentire il sangue caldo scorrergli sulle
tempie.
Anche
perché erano reali eccome.
Fece per alzare una
mano per toccarsi i capelli, ma una forza misteriosa
oppose resistenza e gli impedì di farlo.
«Sai,
Phobos, non siamo poi così diversi, noi due: entrambi
rilegati in un
luogo che non gli appartiene» l’energia che lo
aveva fermato prese forma,
disegnando i contorni di un braccio mascolino bianco pallido
«da soli, mostri
rinnegati dal cosmo intero, dalla propria famiglia, dalle persone che
promettevano di amarti per sempre» un altro braccio comparve
dal nulla,
spingendo più a fondo le lame fredde che gli aveva piantato
nel cranio «a
bramare vendetta, a vivere per essa e nient’altro, a renderla
la propria unica
e penosa ragione che ti spinge ad alzarti ogni giorno».
Phobos
tentò di divincolarsi, ci stava provando con tutte le forze
che
aveva in corpo: se quello era un incubo, se quella era la
realtà, se quella era
qualsiasi cosa fosse, allora voleva
che finisse il prima possibile, anche morendo se ciò fosse
stato utile a
liberarlo!
Tentò di
gridare, ma qualcosa gli strinse la gola con brutalità
immane,
sembrava che gli volesse afferrare la giugulare e strappargliela.
Toccò e trovò
solo una massa di capelli intorno al suo collo già livido,
una lunga e sottile
coda retta da gioielli dorati recanti una luna nera stilizzata: sopra
di essa,
una fenditura che la squarciava in due.
E lui la conosceva, sapeva di
conoscerla, ma il suo cervello non si azzardava a collaborare sul
ricordare il
perché.
In compenso,
collaborava eccome a fargli provare il dolore.
«Hai mai
assaggiato la vendetta, Phobos? No, certo che no, cosa lo chiedo
a fare» la stretta si fece più feroce, intanto che
la voce con la quale
dialogava assumeva finalmente il volto di un uomo «eri
così contento con la tua
Harmonia, così completo, così realizzato: una
coppia perfetta, assolutamente»
non riusciva ancora a vederlo, ma gli parve di intravedere il ghigno
col quale
gli parlava «talmente perfetta che saresti stato disposto a
morire per la tua
regina, a sacrificare la tua vita per lei, per Phantasia, per i vostri
ideali.
E lo hai fatto, in un certo senso, e sai perché?»
infine, la presa si sciolse e
lui cadde a terra «No, non lo sai, non puoi
ricordarlo».
Quindi era vero, che
c’era stato un tempo in cui aveva amato Harmonia, era
vero!
Ma allora
perché non ricordava? Perché ogni dannata volta
andava a finire
così, con lui a terra che agonizzava maledicendo la sua
mente che andava alla
spasmodica ricerca di un ricordo che fosse uno? Perché
doveva patire tutto quel
dolore?
Non ebbe il coraggio
né la forza di alzare la testa per osservarlo, ridotto
com’era, ma ci pensò l’altro ad
afferrargli il collo e portarselo davanti agli
occhi; Phobos lì guardò: due pozze nere nelle
quali pareva concentrarsi il male
del mondo, un vaso di Pandora incorniciato da una chioma bionda che
toccava
terra intrappolata in una coda di cavallo sottile, di un biondo platino
come i
baffi e la corta barba sul suo mento.
Conosceva quel volto,
ne era assolutamente sicuro.
Si mise alla ricerca
di un dettaglio, un particolare qualsiasi che potesse
risvegliare qualche memoria dimenticata dal mondo: al diavolo il
dolore, al
diavolo anche la probabile inutilità di quel gesto, Phobos
decise che sarebbe
andato fino in fondo pur di sapere l’identità
dell’uomo che pareva conoscere
più dettagli sul suo passato di quanti ne sapesse lui stesso!
Poi lo vide, quel
dettaglio: sotto l’occhio destro c’era un tatuaggio
-ad
occhio e croce impresso sulla pelle con la magia, vedendo che brillava
come
quello che aveva lui sull’avambraccio-, quattro punti di
dimensioni crescenti
che partivano dall’angolo interno dell’occhio
seguendolo fino all’altra
estremità, dove terminavano con una mezzaluna nera dalla
quale si diramavano sottilissimi
capillari dello stesso colore.
Allora, e solo allora,
i ricordi si riversarono nella sua mente come un
fiume in piena, dopo settecento anni di vuoto più totale.
«…
A-Apophis… ?» sussurrò appena senza
rendersene conto, le labbra che si
muovevano da sole.
L’altro
sorrise compiaciuto «Precisamente».
Seguì un
silenzio che parve infinito, ma ormai nella testa di Phobos
c’era
tutto fuorché la quiete: aveva avuto un passato anche lui,
ora lo sapeva, lo ricordava; poco
gli importava se era
ancora un passato fatto di ricordi vaghi, confusi, indistinti, a lui
bastava la
consapevolezza che quelle memorie dimenticate da tempo avessero un
unico e solo
denominatore comune, una certezza che aveva scordato di avere da
secoli, ormai.
E quella certezza era
Harmonia.
Aveva vissuto al suo
fianco come se fossero un’unica persona, l’aveva
amata più di quanto avesse mai amato la sua stessa vita,
aveva messo la sua
spada al servizio della sua Regina e amante di una vita quando era
venuta la
guerra. Lo ricordava, sì, che avevano combattuto e cavalcato
insieme per
difendere Phantasia ed Exodus intero dalla minaccia che -da un giorno
all’altro- era discesa dal cosmo più profondo in
terra, quel serpente fatto di
stelle e dolore di civiltà perdute, di grida degli innocenti
che lo avevano
incontrato e tanta, troppa sofferenza di chi era stato inghiottito
dalle sue
fauci, dalla bestia che portava lo stesso nome del caos più
puro.
E quel nome era
Apophis Nightcrawler.
Apophis, che ora era
lì nella sua testa, era sempre
stato lì: lo aveva combattuto, lo aveva visto
bruciare e
divorare quasi interamente Phantasia, era stato testimone di Harmonia
che
crollava in ginocchio esattamente come la sua terra, pregando
un’ultima volta gli
dei di risparmiare di nuovo, se non lei, almeno il suo popolo.
Ma non era stato
presente quando gli dei l’avevano ascoltata.
Non aveva visto
Harmonia rialzarsi e caricarsi sulle spalle quel macigno
immane che era un pianeta -il suo pianeta-
devastato e ormai sull’orlo del baratro, non c’era
stato per vederla prendere
la sua gente disperata sotto la propria ala protettrice e materna
giurando loro
che Exodus sarebbe tornato al suo antico splendore e, infine, non era
stato
testimone nemmeno di quando Harmonia l’aveva mantenuta,
quella promessa.
Non c’era,
Phobos, perché stava pagando le conseguenze di aver protetto
la
donna della sua vita per un’ultima, disperata e tremenda
volta.
Si era messo fra lei e
Apophis, settecento anni prima, lo aveva fatto
senza pensarci e senza pentirsene, e lo avrebbe rifatto milioni di
volte se
fosse stato necessario. Non si erano detti addio, allora, non era stato
concesso loro il lusso di un ultimo sguardo prima di salutarsi per
sempre,
nemmeno una parola di conforto, erano semplicemente stati due amanti
separati
dal destino.
Un destino crudele, il
loro, perché il peggio era venuto dopo.
La falce tesa davanti
sé, Thorax e gli altri leoni che lo accompagnavano
in quell’ultimo salto nel buio -letteralmente- come i
compagni fedeli di una
vita che erano, negli occhi un fuoco più ardente della
stella in fondo alla
gola di quella belva che stava puntando con lo sguardo: a guidarlo,
solo la
consapevolezza che Harmonia sarebbe stata salva, che tutti lo sarebbero
stati,
che il suo sacrificio non sarebbe stato vano.
“Camminerò
al tuo fianco finché
avrò vita, e continuerò a farlo anche
dopo”, le aveva sussurrato
baciandola quella stessa notte dopo aver fatto l’amore con
lei, quando la
guerra non aveva ancora sfiorato le loro vite.
E
invece non era stato così.
Ignorava quali antiche
magie possedesse quel demone.
Ignorava che il suo
attacco fosse proprio ciò che Apophis voleva da lui.
Ignorava anche e
soprattutto il fatto che da lì in poi sarebbe diventato
lo schiavo dell’oscurità che lo aveva avvolto
là dentro.
Aveva sentito
chissà quali maledizioni che gli strappavano i ricordi
cercandoli avidamente nella sua testa come segugi da caccia, aveva
avvertito gli
artigli del mostro piantarsi nella sua anima fino a corromperla e
renderla più
nera della profondità del cosmo dal quale era nato, non gli
era nemmeno stato
risparmiato il dolore del braccio dilaniato da un marchio che lo aveva
segnato
come eterno servo delle tenebre.
Poi, il nulla: quel
giorno, Phobos aveva cessato di esistere.
Al suo posto, solo un
burattino senza memoria e senza più nulla a tenerlo
vivo se non la brama di vendetta verso Harmonia del suo padrone, un
giocattolo
rotto che poteva essere manovrato a piacimento per attuarla a distanza
da
Apophis stesso nonostante il suo esilio sulla Luna. A nulla valeva
tentare di
ribellarsi, nemmeno ricordava come si facesse, doveva solo rassegnarsi
e
cercare di uccidere -a comando- la donna che aveva amato, che amava
ancora dopo
settecento dolorosi anni di buio.
E, sempre settecento
anni di buio dopo, Phobos finalmente lo ricordava.
Ma non serviva a
nulla, esattamente come non era servito tempo prima; lo
mollò per terra lanciandogli un’occhiata pietosa,
quasi stesse nuovamente
leggendo i suoi pensieri.
«Ricordi,
eh?» gli rise in faccia Apophis senza contegno alcuno, si
vedeva
che aveva appena ottenuto ciò che voleva «Tu non
odi Harmonia, la ami ancora
perdutamente, oh se la ami! Scoparti Halley, devastare la sua terra,
fare
irruzione nel suo palazzo: tu non faresti mai tutto ciò che
stai facendo, mai»
aprì le braccia in modo scenico
come ad indicargli la vastità del male che le stava facendo
«tu, appunto, ma
quello che ho davanti ora è solo il mio personale
giocattolo, per cui non hai
nessuna voce in capitolo. Spiacente, bellezza.».
«…
Tu» Phobos sentiva la
rabbia
montargli dentro con ferocia immane, talmente intensa da
anestetizzargli il
dolore alla testa e allo sterno provocato dalla caduta «Tu
sei un… un… sei un
fottuto bastardo!» gli saltò alla gola con uno
scatto repentino.
Una fitta lancinante
al petto lo travolse quando le sue mani furono a pochi
centimetri dallo stringersi intorno al collo dell’altro.
Phobos guardò in basso:
una mano, sì, ma era insanguinata.
Una mano insanguinata
che lo trapassava.
«Ti sei
divertito anche troppo, Barbie Platinata» un’altra
voce maschile gli
giunse alle orecchie ovattata e confusa, i sensi che non rispondevano
più
nonostante la mano fosse uscita dalle sue carni con la stessa
rapidità con la
quale era entrata «muovi il tuo dolce culo dalla mente di
questo povero
disgraziato e torna a casa, prima che il tuo dio delle disgrazie si
arrabbi, o
peggio che ti fotta la tinta biondo platino dal bagno»
l’energia non meglio
definita si mise a giocherellare con i capelli di Apophis, visibilmente
infastidito «e pure le scorte nascoste nel divano!»
«Sono
occupato, se permetti» lo rimproverò lui tenendo
il tono basso ed esibendo
un facepalm palesemente rassegnato «per cui sei pregato di
tenere a bada i tuoi
divini ormoni fino a quando non sarò di rit-»
«Voglio
scopare, e voglio farlo adesso».
Phobos
squadrò Apophis con sguardo tanto sorpreso quanto perplesso,
nemmeno gli avesse appena detto che si scopava sua madre -della quale
nemmeno
ricordava il volto, per cui non sarebbe stato un insulto tanto efficace
come
sperato-, ed a giudicare da quanto era arrossito l’uomo
sembrava aver notato
fin troppo bene quella sua occhiataccia che gridava “SHAME!
SHAME!”, ci mancava
giusto il campanaccio!
Schiaritosi la voce,
si strofinò gli occhi con la mano e sospirò
pesantemente, Phobos che continuava ad osservarlo: non pareva nuovo a
quel
genere di entrare sessualmente ambigue -ma nemmeno troppo, si capiva
perfettamente quale fosse il succo del discorso- e alquanto
inopportune, forse
quella volta aveva semplicemente creduto di poter scampare una pessima
figura.
Ma stava di fatto che
una risatina ad immaginarlo chinato a 90 mentre
qualcuno glielo metteva là dove non batte il Sole -parole di
Apophis sulla sua
casa, del resto- riuscì a strappargliela, il che era
sorprendente vista la
situazione.
A sorprenderlo, poi,
fu la vittima di tanta ilarità qualche istante dopo;
con l’altro inginocchiato a terra che tentava di riprendersi,
si chinò
lentamente fino a raggiungere la sua altezza senza fare altro, solo
guardandolo
negli occhi.
«“Observe”» il
tatuaggio sotto il suo occhio si illuminò di un bagliore
violaceo,
creando un una sorta di ragnatela che si spandeva dalla mezzaluna fino
agli
altri punti scendendogli sul volto e sul petto «“Adapt”»
Phobos non distingueva bene le forme che si disegnavano
sotto le sue vesti, ma era quasi sicuro di intravedere la magia
addensarsi nel
disegno di una Luna tagliata a metà recante strane incisioni
«“Evolve”»
infine, gli occhi di Apophis
presero a brillare di un viola intenso come la punta delle sue dita,
sostenere
il suo sguardo era ormai diventato impossibile.
«Conosci
questo motto, eh?» domandò sorridendo.
«Mai
sentito» mentì lui, ricordava bene la Casa a cui
appartenevano quelle
parole.
Il biondo sorrise e
gli pose una mano sulla testa.
«Me lo sono
sentito ripetere dai miei famigliari per anni, decenni, e mio
fratello ha continuato a ripetermelo per tutti i secoli seguenti.
“Siamo
rimasti solo noi due: non andiamo d’accordo, ma dobbiamo
collaborare per il
bene della famiglia”, diceva» la magia
iniziò a fluirgli dalle dita, sottili
filamenti simili a serpi che si insinuavano fra i capelli e scorrevano
sul
corpo inerme dell’altro «ma io non volevo
ascoltarlo, non ero interessato alle
sue parole. A dirla tutta non ho mai capito cosa intendessero, lui o
quei due
buoni samaritani dei nostri genitori, ma volevo essere presente nella
vita di
mio fratello, lo volevo davvero».
Si insinuarono a
terra, quei maledetti fili magici ora simili a catene,
trattenendo Phobos in ginocchio a dimenarsi inutilmente.
«Anche solo
per un attimo, quello che sarebbe bastato per fargli capire
ciò che aveva portato via me, al
primogenito: l’affetto dei propri genitori, troppo
occupati dalla carità verso
i bisognosi e da quel piccolo e indifeso neonato prodigio, per pensare
al loro
primo figlio» si incupì stringendo gli occhi,
esattamente come facevano quelle
catene magiche.
«Il trono,
caduto insieme a loro un millennio e mezzo fa, ora nelle grasse
mani di un pelato con un ciuffo in mezzo alla testa che risponde al
nome di
Tsar Lunar XII» Apophis si lasciò scappare una
risata amara, a tratti
malinconica, ma Phobos era troppo occupato a cercare un modo di
liberarsi per
compatirlo: sapeva fin troppo bene cosa sarebbe accaduto dopo, lo
ricordava fin
troppo bene, e non poteva permetterlo, non di nuovo.
«Mi
privarono persino del mio numero in linea di successione, sai?
Scivolai incomprensibilmente dal Lunanoff numero dodici al tredici, vai
a
sapere perché, ma non fu il cognome ciò il cui
furto mi portò a cercare
vendetta, certo che no» Apophis si bloccò un
attimo, e con lui la sua magia.
Phobos avrebbe
volentieri approfittato di quell’attimo di distrazione per
tentare un ultimo e disperato tentativo, ma tutto d’un tratto
sentì le unghie
dell’altro che gli si piantavano nella carne.
«Mi
rubò i poteri, Manny, nacque con essi e con essi si prese
tutto ciò
che apparteneva a me, al primogenito, il primogenito!»
scattò iracondo scavando
a fondo nella testa dell’altro, la schiena che si inarcava
per la stilettata
che gli trapassò le cervella con violenza inaudita
«E io ricambiai, oh se lo
feci! Proprio come lui aveva fatto con me, da fratello a fratello,
settecento
anni fa gli portai via tutto ciò che aveva costruito con la
sua portentosa
magia: i guardiani. Li feci cadere uno dopo l’altro, uno in
modo più brutale
dell’altro, fino a quando non ne rimasero
più… o quasi».
Le grida agonizzanti
di Phobos riempivano quel luogo con ferocia tale da
sembrare che potesse tutto crollare da un momento all’altro,
e in effetti era
proprio ciò che stava accadendo.
Quella era la sua
mente, il suo subconscio, e stava cadendo a pezzi,
esattamente come Apophis gli stava strappando i ricordi dalla testa per
la
seconda volta in sette secoli: se prima il nero dominava
quell’antro tetro nel
quale stava conversando con il Lunanoff rinnegato, ora sulla sua testa
si
stavano formando crepe sempre più grandi dalle quali
filtrava una luce bianca,
in netto contrasto col sangue nero e appiccicoso che colava da quegli
stessi
squarci, ferite aperte che riflettevano quelle sul cranio del povero
Phobos.
Stringendo
un’ultima volta, Apophis gli afferrò la mascella
come se
volesse spaccargliela:
«Ma tu
concluderai ciò che io non ho potuto concludere: mi porterai
le
teste dei guardiani, e con essi quella della donna che amavi, della
regina
Harmonia. Portamele, e forse potrei
decidere di mettere finalmente fine a questo tuo continuo trascinarti
nel mondo
alla ricerca del senso del tuo misero vivere» gli promise
guardandolo negli
occhi, le pupille rovesciate all’indietro a monito di cosa
Phobos stesse
provando a dimenticare tutto per l’ennesima volta
«Servirmi, è questo il senso
della tua esistenza».
Provò a
ricordare il volto di Harmonia quella notte, quella in cui erano
ancora felici, quando la guerra non era che una parola scritta sul
dizionario:
non ci riuscì. Stava dimendicando, Aveva già
dimenticato. Era finita, di nuovo.
«E uccidere».
***
Phobos si liberò dal
tocco della regina
indietreggiando quasi spaventato, la falce tesa davanti a sé
per mantenere le
distanze e, forse, proteggersi da qualcosa che solo lui vedeva.
«Non toccarmi! Tu non sai
chi sono io!»
«Su questo hai ragione,
non ho idea di chi tu sia,
sono desolata» si scusò Harmonia.
«… Mi pigli
per il culo?» le domandò lui a metà fra
il
sorpreso ed il seccato, gli sembrava impossibile che proprio lei non lo riconoscesse!
«No, cielo, non mi
permetterei mai di mancare di
rispetto in questo modo a qualcuno!» si affrettò a
precisare muovendo le mani
«Anche se quel qualcuno fosse entrato in casa mia sfondando
il lucernario,
spargendo vetri ovunque -sul suo corpo compreso- e mi stesse parlando
con un
linguaggio piuttosto scurrile e volgare, non faccio distinzioni
né mi offendo
facilmente. Ma in fondo ti capisco: hai preso una brutta botta in
testa, devi
darti tempo per riprenderti».
Phobos sgranò gli occhi
basito «Tempo per… riprendermi?
Ma cosa caz-»
«Naevia, prego»
Harmonia chiamò la leopardessa delle
nevi al suo fianco, la quale non si fece attendere dalla propria regina
«ti
chiederei di dare un’occhiata al nostro ospite, vorrei
assicurarmi che non sia
ferito: nel caso, mi affido alla certezza che gli offrirai le migliori
cure che
conosci » si raccomandò indicando con particolare
attenzione i vetri macchiati
di sangue sparsi qua e là sulla pelle dell’uomo.
«Io non-» non
fece in tempo a finire lui che si trovò
Naevia vicino al fianco sinistro intenta a studiare le sue ferite,
cercò di
nascondere la sorpresa nel non essersi nemmeno accorto
che lei si fosse mossa.
Avrebbe voluto fare qualcosa, il
povero Phobos, ma
ogni volta che tentava di aprire la bocca ecco che ci si metteva pure
Dentolina
a controllargli i denti ora squittendo entusiasta, ora borbottando
contrariata:
se esisteva l’inferno, allora lui c’era dentro fino
al collo.
Anzi, era stato proprio sommerso.
Si specchiò in uno dei
frammenti di vetro a terra per
contemplare la propria miseria: capelli rossi tenuti sciolti sulle
spalle,
occhi dorati, quel vago accenno di lentiggini sul naso. C’era
tutto ciò che
ricordava di avere anche settecento anni fa -e che quindi Harmonia
avrebbe
dovuto ricordare, a meno che pure lei non fosse smemorata tanto quanto
lui-,
eppure la Regina della Fantasia non l’aveva nemmeno
riconosciuto.
Lanciò
un’occhiata veloce agli altri presenti cercando
di capire se almeno loro ricordassero il suo volto: niente di nuovo,
stesse
espressioni tranquille e serene, con quel pizzico di compassione per
quel
povero disgraziato che, invece, si guardava intorno come un topo in
gabbia.
“Non era così
che dovevano andare le cose”,
si disse Phobos abbattuto, “non vanno
mai come dovrebbero andare, le cose che faccio io”
lasciò cadere la falce a
terra, il clangore dell’acciaio che si spandeva fra le mura
del castello
dissolvendosi in un eco sordo “e se le cose non vanno come
devono andare, la
colpa è solo mia che non sono in grado di farle andare nel
verso giusto”.
Senza rendersene conto, Phobos si
accasciò a terra
tirandosi le ginocchia al petto e nascondendo la testa fra di essere
“Sono un
disastro, un totale disastro, non sono buono nemmeno a entrare in casa
altrui”,
si ripeteva come un mantra.
Vedendolo crollare in ginocchio
così all’improvviso e
forse temendo un suo malore, Harmonia si protese verso di lui.
«Tutto bene? Hai bisogno
di aiut-»
«Ho bisogno che tu mi
riconosca, ecco di cosa ho
fottutamente bisogno!» sbottò lui alzando la testa
e battendo i pugni per
terra, non era raro che i suoi momenti bui sfociassero in crisi di
violenza
inaudita.
Harmonia lo guardò
impietosita dal non poter dare una
risposta diversa da quella data poco prima alla stessa richiesta, si
vedeva che
era seriamente dispiaciuta.
«Perdonami,
davvero» si scusò di nuovo chinando il capo
in segno di rammarico «ma, come ti ho già detto,
io non ho idea di chi tu sia.
Mi spiace, credimi».
Stava scherzando, si stava
prendendo gioco di lui!
Phobos si alzò in piedi
e allargo le braccia, le
lacrime che avevano lasciato posto a qualcosa di nuovo, alla rabbia
più pura.
«Guardami!
GUARDAMI!» le intimò minaccioso «Sono
io,
per tutti i tuoi stramaledetti dei, IO!» gridò
spaventando i guardiani, i quali
indietreggiarono. Myricae, al contrario, aveva già messo la
mano sulla sua
spada, pronta per ogni evenienza.
«Posso guardarti
finché vuoi, ma continuerò a non-
«Sono quello che hai
sbattuto a marcire nell’Abisso
per settecento anni, brutta sgualdrina! Quello che hai dimenticato nel
fottuto
buco del culo di questo stramaledetto pianeta sperando di tornare e
trovarci le
mie ossa! Phobos! PHOBOS! Ficcatelo
in quel tuo cervello equino, perché possa il Sole sorgere a
Occidente se non te
lo ficco io da qualche altra parte a colpi di minchia, pur di fartelo
capire!»
tuonò secco tutto d’un fiato, il marchio sul suo
braccio che prese a brillare.
In quel momento, il mondo di
Harmonia smise di girare.
Phobos.
Quello era Phobos.
Il suo Phobos.
Settecento anni, erano passati
settecento dannatissimi
anni da quando lo aveva visto l’ultima volta prima di
gettarlo nell’Abisso col
cuore in gola, ed ora eccolo lì davanti a lei: i capelli
più lunghi di quanto
ricordasse, gli occhi dorati ora di un giallo grigiastro spento, lo
sguardo
perennemente perso a cercare un’ancora di salvezza, quel
segno sul suo
avambraccio più grande di quanto fosse tempo addietro.
Lo aveva sbattuto
nell’Abisso, Phobos, e lì lo aveva
dimenticato… no, non era vero, non ce lo aveva sbattuto
tanto per divertirsi,
era stata costretta a farlo.
E poi era andata a trovarlo ogni
giorno, sì, ogni
singolo giorno per venticinque lunghi anni, un quarto di secolo passato
nella
disperazione più pura, nell’Abisso che lei si era
creata nella sua mente dove
si tormentava ogni ora, ogni minuto, ogni più impercettibile
secondo: quello
non era abbandonarlo!
Forse… forse avrebbe
dovuto fare di più? No, aveva un
pianeta da mandare avanti, non c’era stato tempo per gli
addii… ma avrebbe
dovuto trovarlo, quel tempo, forse in quel modo Phobos si sarebbe
sentito meno
solo, forse non sarebbe stato tanto arrabbiato, forse non sarebbe evaso.
Come aveva fatto a evadere, poi? I
suoi incantesimi
non erano sufficientemente potenti? Aveva sbagliato qualcosa? Stava
sbagliando
qualcosa anche ora?
No, aveva fatto tutto alla
perfezione, aveva espressamente
richiesto anche la presenza dei guardiani il giorno in cui aveva
scavato
l’Abisso, così da essere certa che il suo cuore in
frantumi non potesse
inconsciamente giocare brutti scherzi a lei e alla sua magia. Aveva
fatto tutto
come doveva essere fatto, sì. Non era colpa sua, non poteva
fare più di così.
Cercava di giustificarsi con se
stessa, la Regina di
Phantasia, ma -esattamente come non ci riusciva da sette secoli a
quella parte-
non ci stava riuscendo nemmeno un po’ anche adesso: era colpa
sua se Phobos era
diventato quello che era.
Lo aveva fatto per lei, si era
sacrificato per lei e
nessun altro.
E lei non lo aveva nemmeno
ringraziato, né salutato,
né baciato.
“Sono stata un
mostro”.
No, non lo era stata: era successo
tutto troppo in
fretta, Apophis era troppo potente,
non
era colpa sua… o forse sì, avrebbe dovuto trovare
il tempo per farlo, se lo
amava tanto, avrebbe dovuto morire con lui!
“La colpa di tutto
è mia, mia e basta”.
Si era staccata dal mondo da un
pezzo, Harmonia, e si
era assicurata di trascinare con sé la propria magia. Al
posto della
centauressa dal manto bianco e gli zoccoli dorati, ora c’era
una semplice donna
-più o meno, la cascata di capelli verde acqua e azzurro e
rosa pastello mossi
da un vento impalpabile era rimasta al suo posto- con lo sguardo perso
davanti
a sé, i riflessi azzurri e rosa dei suoi occhi nei quali si
specchiava la falce
di Phobos sempre più vicina, pronta a ghermire la vita dal
suo corpo.
“Avrei
dovuto
esserci io al suo posto”.
«Concordo.
Intanto
grazie per il banchetto, sai sempre come rendere contenta questa
Ephemeride
vecchia, strana e tremendamente annoiata».
La voce compiaciuta di Tanith fu
l’ultimo sussurro che
le arrivò alle orecchie, poi Harmonia sommerse tutto
ciò che la circondava con
i sensi di colpa, e i rimpianti, e il dolore, un velo nero che la
isolava dal
mondo e dal cosmo intero.
Scacco matto.
La coda di Myricae
frustò l’aria tonando a terra e mandando
in frantumi il pavimento, un sottile rivolo di sangue che colava dalle
squame
color smeraldo nel punto d’impatto della falce di Phobos su
di esse: dietro di
lei, Harmonia che pareva più simile ad una statua di gesso,
piuttosto che una
persona.
L’Ophidian non aveva
dubitato nemmeno per un istante
sull’identità di quell’uomo dai capelli
rossi che aveva fatto irruzione nel
palazzo, lo aveva riconosciuto fin dal primissimo istante e -sempre dal
primissimo istante- si era preparata a proteggere la sua regina,
nonché amante.
Sfruttando i vaghi poteri da oracolo della leopardessa, aveva
mentalmente
chiesto conferma a Naevia dei suoi sospetti, non volendo scatenare il
panico
inutilmente, e la sua risposta affermativa le aveva confermato che
valeva la
pena tenere alta la guardia.
E per fortuna che lo aveva fatto!
Appena aveva visto negli occhi di
Harmonia i primi
segni del congelamento che sarebbe venuto dopo, Myricae aveva capito
che doveva
intervenire per evitare che Phobos -approfittando di quel suo blocco
globale
totale- la uccidesse fiondandole addosso con la falce, e non avrebbe
proprio
potuto scegliere un momento migliore per farlo. Priva di ogni coscienza
di sé,
indifesa, insensibile a tutto e tutti, incapace di provare qualsiasi
cosa, di
riconoscere qualsiasi persona, di utilizzare la sua stessa magia, in
quello
stato Harmonia non riusciva nemmeno a sbattere le palpebre.
Il ricordo di una notte
d’estate si fece largo nella
mente di Myricae, ma lei lo ricacciò indietro prima che
potesse iniziare a
macerare e macerare: la priorità era proteggere la regina,
punto, tutto il
resto era superfluo.
E l’ennesimo affondo di
Phobos glielo ricordò a gran
voce. Myricae non si lasciò certo cogliere impreparata da
quella sua furia
cieca: seguì con gli occhi la lama della falce fin
dall’istante in cui lui l’aveva
sollevata da terra e protesa verso il cielo pronto a lasciarsi cadere
nuovamente, e attese con pazienza fino a quando non raggiunse la
massima
elevazione.
Il metallo brillò dei
raggi del Sole: ecco il momento
che aspettava.
Un colpo secco con la coda ai
polpacci di Phobos fu
tutto ciò che fece, e il “crack” che ne
seguì fu la conferma che l’attesa era
valsa il risultato: quell’arma doveva essere particolarmente
pesante, aveva
pensato la naga quando l’aveva vista per la prima volta, per
cui l’approccio
migliore del caso sarebbe sicuramente stato danneggiare il baricentro
di chi la
impugnava, più che il corpo in sé, ed era
esattamente ciò che aveva fatto. Il
lungo corpo delle Ophidians era un unico ed efficiente fascio di puri
muscoli e
ossa più simili a titanio che alle porose ossicine umane,
attutire l’impatto
era semplicemente impossibile.
Crollò a terra quasi
immediatamente con il fiato che
gli moriva in gola e i polpacci praticamente distrutti, ma Myricae non
si
avvicinò per prendergli la falce dalle mani: non era affatto
convinta che
avesse vinto con così poco.
E infatti aveva ragione.
Il marchio sul braccio di Phobos si
illuminò di una
luce violetta intermittente per qualche istante, poi parve spegnersi
del tutto,
ma fu solo una questione di secondi perché la sua pelle
rosea si coprisse di
sottili venature e capillari di un viola più simile al nero,
le gambe -coperte
dagli abiti e quindi non visibili agli altri- in particolare erano
cosparse di
macchie nerastre dalla superficie increspata simile a quella della
terra arida.
Chiuse gli occhi per un istante
appena, poi fu di
nuovo in piedi.
“Ecco, quella sua
rigenerazione così rapida potrebbe
essere un problema non indifferente”, pensò
Myricae fra sé e sé senza voler
mettere in allarme nessuno, ma dallo sguardo di Naevia capì
che doveva averla
sentita.
Guardò di nuovo
Harmonia, ancora impietrita: ora come
ora non era troppo diversa da una bambina incapace di provvedere a se
stessa, i
fatti erano quelli, una bambina in mezzo ad un campo di mine antiuomo
che non
aveva nessuna mappa di dove si trovassero le stesse.
E anche chi aveva la mappa si stava
rendendo conto che
era inesatta.
Si fermò un attimo a
pensare, studiando il castello
intorno a sé in cerca di una via dalla quale farla fuggire
il prima possibile,
di certo non poteva tenerla lì a fare la bella statuina!
Guardò i guardiani:
forse loro… no, non se ne parlava,
mai e poi mai avrebbe messo la vita di Harmonia nelle loro mani, non
gli
avrebbe affidato un moscerino nemmeno se fosse stata costretta a farlo,
e a dirla
tutta era piuttosto restìa anche a chiedere loro aiuto.
“Ah, al
diavolo!”, imprecò silenziosamente sospirando
rassegnata.
Sapeva bene che dare le spalle a
Phobos non era
affatto una buona idea, ma lo fece comunque per rivolgersi ai cinque
che se ne
stavano ancora vicino al tavolo davanti al contratto.
«Intendete dare una mano,
o volete forse un invito
scritto?» li canzonò severa cercando di
controllare l’altro con la coda
dell’occhio.
«Dare mano?»
ripeté Nord confuso.
«“Oui!
Anche
due!”» commentò sarcastica
Tanith ricordando
i bei tempi andati, doveva essere seriamente annoiata se si stava pure
infilando nelle conversazioni altrui.
«Cosa?» a
Myricae era parso di aver sentito un
sussurro, ma si disse che era tutta colpa dell’agitazione e
non gli diede peso
«Comunque sì, “dare mano”,
anziché stare lì a guardare senza muovere un
dito»
cercò di contenere il fastidio nel dover fare presenti cose
ovvie «anche perché
immagino che quel signorino laggiù voglia pure le vostre
teste. Devo anche
ricordarvi che avete firmato un contratto di alleanza o ci arrivate da
soli, a
muovere il-»
Le parole le morirono in gola.
«Su una cosa hai ragione,
voglio anche le loro teste»
approvò Phobos sorridendo e spingendo più a fondo
il sottile pugnale che aveva
conficcato diagonalmente fra la scapola e il collo della naga, il
sangue che colava
sul marchio e pareva bollire.
Nonostante il dolore, Myricae non
emise nemmeno un
suono, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di piegarla.
«Ma per ora la mia
priorità resta un bel paio di
scarpe nuove in pelle di Ophidians: il verde non è
esattamente il mio colore
preferito, ma me le farò andar bene»
rigirò il coltello nella ferita
affondandolo fino all’impugnatura, la falce invece tenuta
davanti a Myricae che
le sfiorava il collo ogni volta che respirava «anche
perché quando le chiedevo
a Babbo Natale non me le ha mai portate, quell’infame figlio
di una cagna con
la scabbia!» si lamentò rivolto verso Nord.
Se fino ad ora i guardiani non
avevano ancora
combinato nulla di buono, ora finalmente sembravano essersi svegliati
dal dolce
torpore in cui si stavano sollazzando. Nord soprattutto pareva aver
preso
parecchio sul personale l’offesa rivoltagli, tanto da aver
impugnato le proprie
spade avanzando verso Phobos incurante delle preghiere degli altri di
fermarsi.
«Mordi tua lingua prima
di parlare di mia madre,
ragazzo, o io infilare te in lista di cattiva prima di Jack Frost, e
lui essere
al primo posto!»
«Come?» il
guardiano del divertimento trasalì «Mi
avevi detto che se mi fossi occupato delle renne per tutto
l’anno fino a Natale
mi ci avresti tolto, da quella lista, e io l’ho
fatto!» si lagnò prendendo a
indicarsi compulsivamente «Ho spalato merda per niente!
NIENTE! Hai idea di-»
«Ti ha messo a spalare la
merda delle sue renne?» si
intromise Phobos incredulo.
«Quella, e pure tutto il
resto! E tutto perché “tu
altrimenti restare in lista di cattivi, da!”»
scimmiottò lui imitando malamente
Nord, a tanto così dal mettergli le mani al collo.
«Per tutti gli dei vivi e
morti» inorridì l’altro sollevando
le sopracciglia in segno di stupore «ed io che mi lamentavo
dell’Abisso! Al
confronto, quello era-»
«Il
posto in cui
devi tornare» sibilò Myricae.
Il tempo di gonfiare minacciosi il
collare membranoso
che avevano intorno al collo, e le serpi che l’Ophidians
aveva come capelli si
lanciarono in massa sul volto e sul collo di Phobos, affondando i loro
denti
veleniferi nella carne e ancorandosi ad essa come uncini.
Seguendo l’istinto di
sopravvivenza, l’uomo mollò
falce e pugnale per afferrare quegli animali con le mani ora libere, ma
la naga
lo precedette sul tempo di nuovo, anzi lo fecero quelle bestioline in
modo del
tutto autonomo: bastarono due paio delle code -che fuoriuscivano dal
suo capo
esattamente come facevano le teste- per bloccargli i polsi,
avvolgendosi
intorno ad essi e stringendoli finché non iniziarono a
diventare viola. Era
vero, Myricae lo aveva in pugno, ma la posizione in cui si trovava
rendeva
scomodo tentare un qualsiasi altro attacco, specie perché
girandosi avrebbe
dovuto abbassare la guardia per l’ennesima volta di troppo.
In suo aiuto, però, una
delle zampe di Antares
comparve da chissà dove, tendendole il filo con cui tesseva
le sue tele; il
resto della donna mezza aracnide arrivò poco dopo,
ovviamente con addosso quel
suo solito infantile entusiasmo.
Complice l’antica guerra
che andava avanti da tempo
immemore fra Ophidians e Sylkes -le cui conseguenze però non
si erano mai
riversate sul loro rapporto, unite com’erano
dall’amicizia in comune con
Harmonia e da un paio di favori che si erano fatte a vicenda-, la naga
non era
riuscita a trattenere il facepalm.
«Alla
buon’ora» si limitò a commentare
stizzita.
«Meglio tardi che mai,
ero a tessere dei regalini per
i nostri ospiti! Un attimo solo» Antares si mise a frugare
nella borsa di
cucito che si portava sempre dietro, i ferri da maglia sopra
l’orecchio come si
confaceva alla grande -e incompresa- artista che era
«… accidenti a me, sono
più sbadata di mia madre quando ha mangiato per sbaglio le
nostre sorelle… o
forse le avevo cucinate io perché non avevo le uova per la
frittata? Oh beh,
arrivo! Ci sono!»
Passarono altri interminabili
minuti, poi finalmente
tirò fuori dal borsello una serie di lavori ad uncinetto
-presumibilmente
sciarpe- dai colori più variopinti che si mise a distribuire
tutta contenta ai
guardiani.
“Non farti domande, non
sorprenderti nemmeno: la
conosci, ormai” si disse l’Ophidians cercando di
non dare a vedere il proprio
disappunto.
«Antares» la
richiamò.
«Ti sta benissimo,
ghiacciolino mio adorato, sei un
meraviglioso batuffolo di calore e tenerezza e- e-» prese
fiato incredula, poi
tornò alla carica più molesta che mai
«e queste guanciotte mooooooorbideee!»
squittì mentre strizzava le guance a Frost, che poverello
era immobile come uno
stoccafisso per la paura di finire inseminato.
«Antares».
«Oh-miei-dei! Sei
favolosa, tesoro, fa-vo-lo-saH!
Questo verde iridescente si abbina proprio bene alle tue piume, ho
fatto bene a
non ascoltare Naevia che diceva che fosse troppo appariscente: alla
faccia tua,
eh eh!» rise rivolgendosi alla leopardessa, che di suo fece
spallucce annoiata.
«Antares!»
«Eh? Che
c’è?» finalmente, la Sylkes
degnò l’Ophidians
di uno sguardo.
«Ehm-ehm»
tossì indicandogli Phobos dietro di lei
«provvedi alle sue mani, grazie».
«Oooooooh! Quello! Non
potevi dirlo prima? Che
sciocchina che sei!»
«Dirlo… prima?
Sto cercando di- oh, lascia stare e fai quello che devi, per la
dea!» si
rassegnò infine.
Ad Antares ci volle qualche minuto
a fare ciò che
doveva, ma infine Myricae poté finalmente liberare se stessa
e pure i suoi
serpenti, i quali si preoccuparono ance di strapparle il pugnale dalle
carni
con un colpo secco.
Gettò lo sguardo su
Phobos con un misto fra pena e
orrore: cos’era tornato a fare, adesso?
Pensava forse di poter riconquistare Harmonia? Di tornare insieme a
lei? Di
conquistare il suo cuore, forse? Quell’ultima ipotesi gli
sembro sì plausibile,
ma solo in forma letterale se ripensava a come l’aveva
ridotta col suo solo
palesarsi, o come le si era avventato addosso.
Strisciò fino a trovarsi
di fronte alla Regina di
Phantasia e le prese il volto fra le mani, come in altre circostanze
faceva
quando voleva baciarla ma che, adesso, era solo un modo per farle
sentire che
le era vicina.
«Non ti lascio da sola,
mai» le sussurrò piano
poggiando dolcemente la propria fronte a quella dell’altra
«resta con me, va
bene? Ascolta la mia voce e resisti, fallo per me, per noi:
passa tutto, passa sempre» la strinse a sé
cercando di
ignorare la voglia di urlare che le stava invadendo anche i dotti
lacrimali.
Non sapeva se le stesse accarezzando la testa per rassicurare lei o
più se
stessa, ma doveva essere forte per entrambe, adesso «Non
andare dove non posso
raggiungerti, mela en’ coiamin, non un’altra volta.
Dartho na nin, a’maelamin,
dartho na nin» la pregò infine.
«Che scena
pietosa» intervenne Phobos.
Myricae si girò di
scatto verso di lui lasciando il
volto di Harmonia, ma non prima di darle un bacio sulla fronte; gli si
avvicinò
strisciando lenta ma inesorabile, con gli occhi color lime pieni di
voglia di
spaccargli la faccia appena lo avesse avuto davanti, esattamente come i
pugni
che fremevano per posarsi su quel suo nasino tanto carino e caruccio.
«Hai qualche problema con
me, forse?» domandò quando
fu lì ergendosi sopra di lui, complice il corpo serpentino
che glielo
permetteva.
«Tu e la tua amichetta mi
fate semplicemente schifo,
per farla breve, tante sdolcinerie mi fanno venire
l’acidità di stomaco. E non
ho comprato il Gaviscon, quindi fai tu due conti di come sono
messo».
«Oh, sono seriamente
dispiaciuta, davvero» commentò
apatica incrociando le braccia, poi gli indicò Naevia
«un medico lo abbiamo
pure noi per cui il problema non si pone: forse un qualche intruglio
particolarmente amaro potrebbe farti rinsavire, Phobos».
«AdoVo come pronunci la
lettera “esse”, sssembra che
tu ssssssibili nel farlo, mi sssssbaglio? Si tratta di una mia
impresssssione,
sssssignorina?» prese a sfotterla lui sfoderando uno di
quegli sguardi che
dovevamo sembrare convincenti, ma che in realtà facevano
solo sorride
allontanandosi lentamente.
Myricae rise scuotendo la testa
«Sei penoso».
«Concordano in tanti con
te, e ahimè devo proprio
darti ragione su questo punto. Ma capiscimi, ho passato sette secoli
nell’Abisso, il mio charme ha perso di efficacia, anche se
certo non lo avrei
sprecato con un serpente ermafrodito come te».
«Sette secoli
nell’Abisso, appunto, e non sono stati
abbastanza: avresti dovuto marcirci dentro fino alla fine dei tempi,
nell’Abisso, vedo bene cosa stai combinando adesso che ne sei
uscito» asserì
lei con un velo di rabbia nel tono della voce, afferrando la camicia di
Phobos
e portandoselo all’altezza dei suoi occhi «devasti
e uccidi, o almeno ci provi:
colpisci alle spalle come un vigliacco, non meriti nemmeno di impugnare
un’arma
diversa dalle bacchette del sushi con le quali probabilmente ti sei
allenato in
quel buco di posto».
Prese la propria spada dal fianco
-una lunga lama
ondulata che ricordava il corpo di un serpente, la cui testa infatti
formava
l’elsa dorata- e gliela poggio sul petto.
«Non puoi nemmeno
immaginare quanta voglia abbia di
affondartela nelle viscere, Phobos, non puoi nemmeno lontanamente
immaginarlo».
«Fallo, allora. Avanti.
Ti sto aspettando» la invitò cortesemente
per prenderla ulteriormente in giro «Hai paura,
forse?» la stuzzicò lui.
«Paura? No, certo che no,
non temo di certo te» rise
la naga di tutta risposta, affondando -se non la lama- almeno
l’autostima dell’altro
«Pietà, ecco cosa. Non ti darò mai e
poi mai la soddisfazione di morire e
trovare la pace, non lo meriti, come anche non meritavi il suo
dolore» indicò
Harmonia, immobile, con la spada «L’ho vista
versare più lacrime in una sola
notte di quante qualsiasi creatura ne possa versare in tutta la sua
esistenza, prendersi
in spalla colpe che non aveva e sopportare tutto, tutto,
in assoluto silenzio e col sorriso sul volto: non permetterò
che accada di nuovo, gliel’ho giurato. Non lo meriti. Non la meriti. Non meriti proprio-»
Phobos pensò bene di
interromperla sputandole in
faccia, dando mostra della sua incredibilità
maturità e serietà.
«Tu fai schifo. Harmonia
fa schifo. Phantasia fa
schifo. Tutti loro» girò il volto verso i
guardiani a indicarli «fanno schifo.
Fate tutti schifo, signori miei, e nemmeno tanto meno di quanto lo
faccia io. E
ora, chiudi cortesemente quella bocca, o giuro che te la faccio
chiudere io
infilandoci il mio cazzo dentro».
Myricae si pulì il volto
«Il massimo che potrei fare
col tuo cazzo è usarlo come filo interdentale, ad essere
generosi. E poi, come
avresti intenzione di fare? Ti va di spiegarlo a noi poveri rifiuti che
ti
inorridiamo tanto, eh?»
«Loro lo faranno con
piacere» concluse calmo facendo
un cenno verso la porta d’ingresso.
Davanti ad essa, Thorax e il resto
del branco con i
canini snudati.
I leoni non avevano perso tempo in
convenevoli, e
tutto d’un tratto la frenesia di poco prima era ricominciata
più violenta e
rumorosa di quanto lo fosse stata quando Phobos aveva fatto la sua
entrata in
scena. Si erano subito divisi ed avevano iniziato a lanciarsi contro
qualsiasi
cosa o persona si trovasse davanti al loro cammino, e i loro ruggiti
che riempivano
l’atrio del castello e rendevano impossibile qualsiasi forma
di comunicazione
verbale non facilitavano certo le cose tanto per i guardiani come per
tutti
altri.
Nonostante il caos,
però, c’era da riconoscere che
tutti stavano collaborando per uscirne nel miglior modo possibile:
Sandman e
Calmoniglio erano quelli che se la cavavano meglio sul fattore
quantità,
riuscendo ad abbattere diversi leoni in un colpo solo uno con la sua
frusta di
sabbia dorata, e l’altro col boomerang che -c’era
da dirlo- aveva rischiato di
tagliare di netto pure la testa del povero Jack Frost.
Quest’ultimo, infatti,
sembrava piuttosto confuso su
ciò che stava accadendo, prendeva tutto come un giochi
proprio com’era nel suo
stile: ora una palla di neve e ghiaccio dritta in mezzo agli occhi che
faceva
stramazzare a terra quelle bestie, ora un paio di stalattiti affilate
che come
pioggia si abbattevano sui felini tutte d’un colpo dopo
averli attirati in
trappola in uno spiazzo libero, ora il semplice congelarli e poi
gettare il
bozzolo di ghiaccio a terra mandandolo in frantumi.
Il guardiano del divertimento,
quindi, se la stava
cavando egregiamente nel suo scivolare da una parte all’altra
su piattaforme
ghiacciate da lui create.
Dentolina invece era quella
più in difficoltà, fra
tutti loro: poteva svolazzare qua e là per attirare i leoni
dove voleva Frost,
ma già un paio di volte aveva prestato poca attenzione agli
stessi e si era
presa delle brutte artigliate sulle ali, ora costellate da buchi di
dimensioni
non indifferenti. Le sue fate, poi, erano anche più inutili
di lei: i leoni nemmeno
le sentivano, e quando lo facevano era solo perché le
stavano divorando.
Per l’ennesima volta, la
fata dei denti abbassò la
guardia nell’aiutare Jack: subito, un leone nero la
intercettò come la sua
prossima preda, le conficcò gli artigli fra le fragili ali
da colibrì per poi,
poco dopo, appendersi letteralmente a lei trascinandola a terra. Solo
il
tempestivo intervento di Nord la salvò dall’essere
sicuramente sbranata, ma
certo non le sfuggì l’occhiata di rimprovero che
le lanciò prima di gettarsi
nuovamente nella mischia con l’entusiasmo di un bambino.
Phobos spalancò gli
occhi incredulo, e non era per il
veleno che iniziava a fare effetto dilatandogli le pupille nemmeno
fosse uno
scherzo del destino: come tessere di dominio perfettamente allineate, i
suoi
leoni stavano crollando uno dopo l’altro, stavano sparendo
inesorabilmente
tornando ai mucchi di ossa e polvere che erano stati in origine, e lui
era lì a
guardare tutto ciò completamente inerme.
Non poteva sopportare una vista del
genere, non di
nuovo! Glieli avevano già portati via una volta, non poteva
-non doveva-
permetterloancora, non lo avrebbe mai permesso!
Forse avvertendo la rabbia
crescente del padrone,
Thorax alzò il muso e gli corse incontro ruggendo, cogliendo
Myricae di
sorpresa dal momento che lei nel mentre era impegnata a dare una mano a
Naevia,
dopo aver poggiato Phobos a terra in un angolo ben lontano dalla regina
Harmonia.
“Uccidi, UCCIDI!”
gli gridò mentalmente lui.
L’Ophidian si
girò tardi, giusto in tempo per vedere
la maestosa sagoma del grosso leone dal manto nero che le saltava alla
gola:
gli occhi che fiammeggiavano come rubini nella notte, le enormi zanne
snudate
che colavano saliva, gli artigli dispiegati vogliosi solo di affondarle
fra o
delicati interstizi fra una squama e l’altra, che di per
sé erano estremamente
resistenti.
Un ruggito.
Un ululato.
Poi l’ombra nera del
leone che spariva dal suo campo
visivo, collassando e rotolando a terra lontano da lei.
Guardò verso la porta, e
finalmente vide un viso
famigliare: Scarlet Redcape, la Cacciatrice di Fairy Oak.
La donna diede un segnale
indecifrabile al suo lupo,
che obbedì gettandosi sopra il leone dando inizio alla loro
furiosa lotta: le
due bestie si azzannavano e graffiavano a vicenda con ferocia inaudita
anche
per gli standard animali, entrambi ruggivano e ringhiavano come se nel
contempo
che si ferivano si stessero anche insultando in una lingua che solo
loro
potevano comprendere, ma ora come ora era Spettro che stava avendo la
meglio
sul felino. Il lupo albino era decisamente più grande del
leone nero, motivo
per cui non ebbe problemi a sovrastarlo completamente imprigionandogli
tutto il
collo fra la mascella e la mandibola: quando strinse,
l’effetto fu a dir poco devastante.
Un miagolio agonizzante si sparse
tutto intorno, poi
il silenzio.
Tutti i leoni si bloccarono
all’unisono, riconoscendo
il segnale: il loro capobranco era crollato, non avevano né
motivo né una guida
per continuare a combattere. Approfittando della loro confusione nel
non capire
più cosa fare, Myricae raccolse arco e frecce che Naevia le
passò lesta.
Una, due, tre frecce, poi dieci,
venti, cinquanta,
forse cento, tutte dritte in mezzo a quei rubini che esplodevano
liquefacendosi
per terra; i guardiani e gli altri generali della regina Harmonia le
diedero
volentieri una mano, finché dei leoni non rimase che polvere
color avorio. Solo
qualcuno di loro fu abbastanza rapido -e furbo- da darsela a gambe, ma
la
maggior parte di loro cadde quel giorno.
«Tu
e il tuo
amico volete farmi ingrassare, oggi: sento già Mothman che
si beffa del fatto
che vada a trovarlo rotolando per terra da quanto mi sono ingozzata
qui, più
che strisciare».
E Tanith non poteva avere
più ragione, nel parlare ad
Harmonia così, perché il dolore che stava
provando Phobos lo stava
letteralmente facendo impazzire: i leoni erano tutto ciò che
gli era rimasto, e
loro glieli avevano portati via. Non una, ma ben due volte.
E lui lo aveva permesso.
Era colpa sua, di nuovo.
Era sempre colpa sua.
Cercò conforto in
Thorax, l’unica ancora di salvezza
che aveva in quel delirio costante che era la sua vita
nell’Abisso, e ora fuori
da esso: non si muoveva.
«…
Thorax?» lo chiamò di nuovo, ma il leone non
rispose.
Il panico iniziò ad
impossessarsi di lui «Thorax…
avanti bello, non scherzare, non è divertente» gli
intimò ma, di nuovo, da lui
non arrivò alcun segno di vita.
Spettro gli ringhiò
contro alzando la testa dal corpo
esanime del leone, mostrando i canini insanguinati al proprietario
della bestia
come a sbeffeggiarlo; appena la pressione dei denti del lupo sul collo
del
felino venne meno, una chiazza rossa si sparse tutta intorno al suo
corpo.
«Thorax…
avanti… non puoi lasciarmi da solo adesso»
sussurrò Phobos
crollando in ginocchio
davanti a lui, avrebbe voluto accarezzarlo ma con le mani legate non
poteva
certo farlo «avevamo dei progetti, amico, non posso portarli
avanti solo io,
sai che non ne sono in grado di farlo… ho bisogno di te,
bello, ne ho un
fottuto bisogno… non lasciarmi, non farlo».
A tutta quella scena nessuno stava
prestando
attenzione, troppo impegnati com’erano ad assicurarsi che il
resto del branco
fosse fuggito.
«…
Thorax…» questa volta lo disse con un tono che non
era una domanda, e nemmeno un richiamo al farsi sentire. Era una
supplica, lo
stava supplicando con le lacrime agli occhi di rispondergli, non
chiedeva
altro.
Ma non gli rispondeva, Thorax, non
poteva più farlo.
Phobos esplose.
Esattamente come era accaduto
quando aveva quasi fatto
crollare l’abisso, la magia prese a fluirgli dal corpo senza
controllo alcuno,
fiumi di filamenti viola acceso che si spandevano a ragnatela tutto
intorno a
lui e al suo leone come inneschi per ciò che sarebbe venuto
dopo. E cioè le
fiamme, fiamme che ghermivano qualsiasi cosa si trovasse nel raggio
d’azione di
quei fili magici, bruciando e consumando finché non fossero
rimaste solo le
ossa: anzi, nemmeno quelle, avrebbe carbonizzato pure le ossa,
esattamente come
quelle dei suoi leoni si erano ridotte in polvere davanti ai suoi occhi
intenti
a piangere.
Di rabbia, di dolore, di
frustrazione: non sapeva
nemmeno lui perché lo stesse facendo, ma non riusciva
nemmeno a fermarsi.
Allora, e solo allora, i guardiani
e tutti gli altri
notarono il cerchio di fuoco che circondava l’uomo, le cui
fiamme si stavano
alzando come a formare una cupola che rinchiudesse lui ed il fedele
compagno
steso a terra. Nord e Calmoniglio fecero per attaccare di nuovo
preparandosi
alla carica, ma Myricae stese prontamente la coda davanti a loro
fermandoli:
no, non era il tempo di infierire, lo riconosceva bene anche lei che
-ridotto
com’era- sarebbe stato come sparare sull’ambulanza.
E Harmonia non lo avrebbe
mai voluto.
Si scambiò un ultimo
sguardo con Phobos, incrociando i
suoi occhi fra le fiamme che crepitavano: se si era ridotto
all’ombra dell’uomo
che era un tempo, se i suoi leoni erano andati al macello, se stava
accadendo
tutto ciò, era solo colpa sua.
Un bagliore, poi la cupola implose
su se stessa in un
suono sordo simile a quello di un tuono. Dentro di essa non
c’era più nessuno: né
Phobos, né la salma di Thorax.
Restarono tutti in silenzio per
qualche istante, poi
Myricae si divise dal gruppo intento a parlottare entusiasta, a
vantarsi della
propria impresa con le stalattiti nonostante i tentativi più
o meno volontari
di decapitazione, a raccontare di come con una spada avesse trapassato
due
leoni, a imitare come con la frusta ne avesse mezzo impiccato uno, di
come si
era quasi fatta mangiare. L’Ophidians, invece, si diresse da
Harmonia e la
prese in braccio, sparendo sulle scale con lei accucciata al petto.
***
Naevia era salita un paio di volte
per rassicurarsi
delle condizioni di salute sue e della loro regina, oltre che per
medicarle la
scapola con i suoi soliti intrugli che solo gli dei sapevano cosa
contenessero,
e Antares aveva fatto altrettanto portando con sé una
coperta fresca di
tessitura.
“Vedrai che
così si riprenderà prima di subito, parola
di Sylkes!”, le aveva detto, ma Myricae non ci credeva poi
così tanto: sapeva
bene di cosa aveva bisogno Harmonia per riprendersi da quel brutto
momento, e
una delle cose a lei più necessarie era proprio
l’avere vicino la propria
compagna che le teneva la mano silenziosamente seduta al suo capezzale.
Le aveva fatto una doccia per
pulirla dalla polvere e
dai frammenti di vetro, le aveva messo addosso dei vestiti puliti e poi
subito
a letto, coprendola con cura per assicurarsi che non patisse troppo
freddo o
troppo caldo: sarebbe passato, passava sempre, ma ogni volta che
accadeva era
come una pugnalata.
Peggiore di quella ricevuta quel
giorno, fra l’altro.
Senza lasciare la mano della sua
mela en’ coiamin, “l’amore
della sua vita” nella sua lingua, Myricae allungò
la coda per prendere un
carillon che Harmonia custodiva gelosamente in un cassetto magico
invisibile a
chi non occupasse quella stanza, solo loro due sapevano dove trovarlo;
girò la
manovella per caricarlo: una melodia dimenticata iniziò a
fuoriuscire da esso, mentre
la naga poggiava la sua testa sul petto della compagna.
“Sarà una
notte lunga”, si disse.
_____________________________________________________________
Angolino dell’autrice
(*)
Traduzioni varie ed eventuali
Ed’
i’ear ar’
elenea
= per la luna e per le stelle
(esclamazione)
Lle
n'vanima
ar' lle atara lanneina = mi fai
ridere
Ná = sì
Tancave = certamente
Mela
en’
coiamin
= amore della mia vita
Dartho na nin, a’maelamin, dartho na nin = resta con me, amore mio, resta con me
Ed eccoci qua con questo capitolo
immensamente lungo ,
il cui titolo è un riferimento al filo rosso del destino,
"unmei no akai
ito" appunto. Secondo la tradizione giapponese, ogni persona porta, fin
dalla nascita, un invisibile filo rosso indistruttibile legato al
mignolo della
mano sinistra che lo lega alla propria anima gemella, che li destina,
prima o
poi, a incontrarsi e a sposarsi. Perché se non era destino
che si incontrassero
di nuovo Harmonia e Phobos non so proprio cosa sia! :'D
Ne approfitto giusto per
ringraziare chiunque si sia
mostrato ancora interessato a questa fanfiction nonostante il tempo
immemore
che ho impiegato ad aggiornare, specie chi ha trovato ancora la voglia
di
recensire: seriamente, mi fate commuovere, nemmeno ci speravo! Quindi
grazie a
tutti dal profondo del cccccccuore :3
Ah, chi non ha ancora ricevuto una
risposta alla
propria recensione qui o in altri miei scritti la riceverà
in questi giorni,
scusate per il ritardo nel rispondere ma ehi, sempre meglio ritardare
in quello
che ad aggiornare dopo quasi un anno :’D
Al prossimo capitolo!