À Demian
Capitolo undicesimo
Il giorno più brutto
La
casa della nonna, talvolta, era avvolta da una leggera caligine che ne
sfumava
i contorni.
Era
un evento particolare, che si verificava d’inverno e che
Demian associava al
Natale, alle feste e alla famiglia. La nebbia s’infittiva, il
sentiero di terra
veniva inghiottito da un velo latteo e i campi in lontananza mutavano
in
un’indistinta macchia opaca, l’accenno di qualcosa
di nascosto. Gli alberi
allora erano solo ombre ritorte, abbozzi di mostri in un mondo
incantato e
spaventoso. Quando succedeva, Jenevieve lo accompagnava lungo la
scogliera
attraverso l’erba alta. Si fermavano vicino ad una panchina
di legno mangiata
dall’umidità che si affacciava sul mare e maman,
con quel suo inafferrabile
sorriso malandrino, lo aiutava a superare dei cespugli spinosi, per
arrivare
fino al limite fra terra e vuoto, dove non si poteva andare.
Lì,
in quel piccolo spiazzo erboso, maman inclinava il capo
all’indietro e Demian
restava rannicchiato tra le sue gambe ad assorbire il calore.
La
battigia della baia di Douarnenez, sempre umida e lucida
d’acqua salmastra,
distorceva le luci del porto, e la città di ombre
rischiarata da lumini sospesi
torreggiava velata sul mare color fumo.
Maman
non lo guardava, ma lo stringeva fra le braccia, forte forte per non
fargli
sentire il freddo.
Era
una sensazione simile, quella che gli intorpidiva il corpo e le
braccia,
l’impressione di quella stretta avvolgente, di un affetto un
poco distante,
appena percepibile.
Un
calore di un tempo in cui era tanto piccolo che Sarah nemmeno era nata,
e lui
s’infilava nel lettone di maman mentre lei era fuori fino a
tarda notte per
lavoro. Sentiva sulla guancia la stessa morbidezza del cuscino a cui si
aggrappava per cercare il suo profumo quando era lontana, le dita
leggere
intrecciate ai suoi capelli avevano la leggerezza delle carezze che
riceveva
quando, al rientro, maman lo riportava in dormiveglia nella sua
cameretta e gli
scostava i capelli per baciargli la fronte prima della buonanotte.
Quel
momento, piccolo frammento di gioia rubata, era vivido e puro come un
sogno
vissuto mille notti.
Si
sentiva esattamente così ora, incredibilmente,
inaspettatamente bene. Al caldo
e al sicuro, avvolto da una morbidezza che sapeva di una madre mai
esistita e
solo sospirata, di un amore mai conosciuto. Avviluppato in una
tenerezza
protettiva dall’amaro retrogusto di una casa perduta. Non era
ancora sveglio,
ma in quello stato sospeso tra sonno e veglia in cui la
realtà non si era definita
ed era facile ritracciare i confini delle cose con le proprie memorie.
Gli piaceva,
crogiolarsi in quello stato di beatitudine, si sentiva così
stanco che anche il
solo pensiero di muovere un muscolo gli era insopportabile. La
pesantezza del
suo corpo in quel momento era sfiancante eppure gli donava una nuova
tranquillità.
Quando
cercò di alzarsi però, realizzò che
non solo era affrancato a qualcosa, ma
qualcosa era affrancato a lui. Strizzò gli occhi e alla
prima luce che gli ferì
le pupille gli venne subito un capogiro. Abbassò le palpebre
e soppresse la
nausea e il moto di debolezza che lo rendeva uno straccio. In casa non
portava
mai le lenti a contatto colorate e la luce traditrice era quella bassa
e troppo
calda del tramonto, che filtrando dalle finestre gettava nuove zone
d’ombra
nella sala.
Sussultò
per la sorpresa, stava posando il capo sulle cosce di qualcuno, e non
gli ci
volle molto per capire che, per assurdo, quelle erano le gambe di
Arianna. Per
i suoi movimenti, la ragazza mugolò di protesta.
Cercò di scivolare
delicatamente fuori dalla sua presa, ma Annie si era addormentata in
una
posizione improbabile e lo circondava. La testa di lei penzolava
debolmente in
avanti, le palpebre distese disegnavano un sonno sereno e pacato e le
labbra
schiuse un’espressione infantile, coronata da un filo di bava
all’angolo della bocca.
Un sospetto lo spinse a toccare il cappuccio della felpa, che Dem
ritrovò
umido.
Storse
la bocca.
Bene
ma non benissimo. Mi ha
sbausciato la felpa.
Sarebbe
pure riuscita ad apparirgli come una visione, non fosse stato per quel
piccolo,
ed anche un pochino disgustoso, dettaglio.
Eppure
riusciva a restare bella, così chinata su di lui, come a
proteggerlo, con le
lunghe ciglia nere che le accarezzavano la pelle tenera delle guance ed
i suoi
ricci che gli sfioravano il collo. Veniva voglia di tratteggiare il
profilo
morbido della mandibola con la punta delle dita, di svegliarla con un
bacio,
come nelle peggiori tradizioni di fiabe. Ma Annie non era la Bella
Addormentata, e lui certamente non era un principe, era più
che altro un Sidney
Carton privato anche della possibilità di una redenzione e
condannato solo al proprio
vizio autodistruttivo e ad un amore non corrisposto. E come a
confermare che di
Carton era l’erede, la bocca era troppo impastata, come se il
malto della birra
stesse fermentandogli in bocca, a ricordargli che per il romanticismo
di bassa
lega non era il giusto momento.
Riuscì
a sfuggire alle braccia sottili di Arianna, la guardò
ancora, cercò di
ricordare qualcosa delle ore precedenti ma l’eccessivo tasso
alcolico doveva
averlo steso. Sapeva di aver incontrato Claire, e che subito dopo, si
era
fermato in un supermercato e si era comprato due pacchi di du demon.
Aveva
sempre odiato quella birra, ogni sorso sapeva di benzina, ma in passato
aveva
già sperimentato che niente lo metteva al tappeto come
quella roba, ed infatti
non ne era rimasto deluso.
Era
Arianna a sfuggirgli, lei e il fatto che, nonostante non se lo
aspettasse, non
era rimasto per nulla turbato dalla presenza di lei in casa sua. Troppo
pesante, la testa di Annie, inclinata in avanti, trascinò
con sé in maniera
comica tutto il corpo. Demian arrestò la caduta rovinosa
puntellando la sua
fronte con un dito, il collo della ragazza si piegò
grottescamente e finalmente
Arianna spalancò gli occhi.
Ti
prego, vieni da me, non lasciarmi
solo
L’aveva
chiamata lui, era stato lui a portarla a casa sua.
Arianna
sbatté gli occhi un paio di volte, lo mise a fuoco e si
sciolse subito in un
sorriso raggiante, di quelli che le diottrie agli altri le bruciavano
«Ben
svegliato finalmente!»
Che
una persona potesse sorridere in maniera tanto spontanea e sincera
sapeva di
miracolo, se non la avesse avuta davanti, se non fosse stato tanto
palese che
in lei scorreva costante una sottile vena d’entusiasmo
inspiegato, Demian non
ci avrebbe creduto. Avrebbe pensato fosse solo una falsa e
un’ipocrita.
«Come
va il tuo mal di testa, piccolo ubriacone?»
Abbozzò
un accenno di sorriso, offuscato dall’imbarazzo
«Potrebbe andare meglio»
«Aspetta, ti
prometto che arriverò presto. Non ti lascio,
Demi»
Iniziava a sovvenirgli
ciò che si erano detti, il proprio tono, affranto e
infantile, lo metteva ora
in un certo imbarazzo
«Demi, devi
dirmi il tuo indirizzo. Riesci a ricordarlo?
«No»
«Non posso
venire da te se non mi dici dove sei.
Concentrati, su! Se non mi dai il tuo indirizzo non riuscirò
a trovarti»
La nausea lo aveva
sfibrato e il senso di vomito aveva fatto il resto. Era riuscito a
snebbiarsi
il necessario per dirle ciò che doveva, poi non ricordava
granché. Solo
Arianna, che gli ripeteva di restare sveglio, eppure proprio la sua
voce doveva
aver spinto le palpebre pesanti a cedere del tutto.
«Mi piace la
tua voce, Annie»
«Continuerò
a parlarti allora, ma tu ascoltami e resta
sveglio, non ho idea di quanto hai bevuto»
«…sì…»
Che Arianna fosse
lì aveva un senso, si era precipitata non appena aveva
sentito il suo bisogno,
c’era qualcosa di commovente oltre l’imbarazzo,
quegli occhi grandi così
carichi di aspettativa, il capo appena proteso verso di lui, smuovevano
una
tenerezza infinita. A pochi centimetri, le iridi erano verdi come i
fili d’erba
toccati dal sole dopo una giornata di pioggia.
Estraniavano, non
poteva credere che in natura fosse possibile una tale sfumatura. Per un
istante, respirare gli sembrò impossibile. Poi, Arianna si
stiracchiò come un
gatto, protendendo le braccia e il corpo in avanti, e quel gesto banale
spezzò
l’incredibile ascendente di quel suo sguardo da felino
indolente che lo
soggiogava. Istintivamente, Demian si riappropriò delle sue
gambe, nascose il
volto contro i jeans di Annie e così protetto dal suo
sguardo pungente si sentì
riparato. Sfregò la guancia contro di lei, mugolando piano,
in sottili fusa di
apprezzamento, ad occhi chiusi per godersi l’attimo. Arianna
non reagì subito,
il suo corpo in un primo momento si era irrigidito, ma dopo una
manciata di
dilatati secondi, la ragazza intrecciò le dita magre ai suoi
capelli, in
movimenti lenti ed esasperanti che ricordavano le dolci attenzioni di
una madre
paziente.
Demian non ci
vedeva nulla di Jenevieve in Arianna, né lo desiderava,
tutto ciò che voleva
era quel tipo disinteressato di conforto ed affetto, in una forma
totalmente
gratuita e forse, proprio per questo, incredibilmente appagante.
Alzò piano una
palpebra, per poterla sbirciare di nascosto, eppure la visione che lo
colse gli
lasciò un brivido freddo di spaesamento.
Stava sorridendo.
Arianna sorrideva
sempre, sembrava non sapesse fare altro, sorrideva in continuazione, e
nonostante quell’espressione di ostentata serenità
era facile cogliere l’ombra
scura nel suo sguardo, una macchia di umida malinconia che si spandeva
nell’iride chiara e sporcava la piega morbida delle labbra di
un’angoscia
inspiegata. Anche quando non voleva pensarci, era inevitabile per lui
percepire
quell’impressione costante nei riguardi di Annie: la
osservava e in lei vedeva
due anime opposte che dilaniavano un corpo fragile.
«Sono già le sei»
constatò Arianna dopo un’occhiata rapida al
proprio orologio da polso,
abbassando le spalle con la stessa resa con cui si abbassa una difesa
per
mostrare sconforto «Io e te le giornate le bruciamo, non
sappiamo proprio
sfruttare il tempo» ridacchiò appena, ma non
sembrava una risata felice, e
Demian accennò un sorriso di circostanza vuoto e confuso.
«Mi piacerebbe
stare sempre così»
«Dovresti lavarti
Demi, puzzi di alcol, sei quasi insopportabile»
ghignò come la strega
Salamandra davanti al suo imbarazzo, e gli pizzicò un
fianco, forte abbastanza
da farlo sussultare. Arricciò il naso, si sforzò
di sentire il proprio odore,
ma più pungente dell’olezzo che lo accompagnava e
a cui era probabilmente
assuefatto, c’era il profumo di detersivo. Sollevò
il collo della maglia, lo
portò al viso e storse la bocca per la vergogna.
Ricordo i barboni
della stazione, fantastico
In tutto questo,
Arianna non aveva smesso di osservarlo, le sopracciglia espressive
sollevate e
le labbra bagnate da un ghigno malizioso che riusciva a metterlo in un
imbarazzo tragico, quasi epocale. Dovette provare per lui una minima
forma di
pietà però, perché non
infierì oltre, si limitò a ridacchiare piano,
accarezzandogli ancora i capelli e la fronte, con
un’indulgenza tenera
riservata ad una creatura fragile. Questo forse, era ancora
più svilente.
Piegò la testa,
osservò la stanza pur di non guardarla, e si rese conto che
le bottiglie che
avevano accompagnato il suo abituale tentativo di discesa
nell’autodistruzione
erano sparite. La sala era tirata a lucido, l’orrida macchia
di birra sul
tappeto si era ridotta ad un alone scuro.
«Quando sono
arrivata, ti eri addormentato. Ah, giusto per avvisarti in caso i
vicini
sospettino qualcosa, per entrare ho scavalcato il cancello! Dovresti
chiudere
la porta a chiave, sai? Chiunque potrebbe entrare se lasci tutto
aperto!»
«Se parli in questo
modo, mia madre finisci con il sembrarla davvero»
Sarebbe stata una
donna petulante ed una madre asfissiante in futuro, gli sembrava
già di poterla
vedere, eppure più che fastidio, quell’adolescente
bambina riusciva a strappare
un sorriso. Arianna gli fece una pernacchia, dondolando la testa
«Sei un
ingrato, ho pulito tutto da cima a fondo. Non che avessi troppo da
fare, mentre
dormivi»
«Non avresti
dovuto, non eri tenuta»
La vide adombrarsi
ancora e mordersi le labbra, gli incisivi separati davano al suo volto
magro un
aspetto dimesso e delicato, terribilmente infantile. Si
allontanò da lei, per
prendere le distanze, perché d’improvviso la
consapevolezza del suo corpo
esile, la portata della sua presenza in un momento così
soverchiante della sua
vita, gli franò addosso.
Se quel suo brusco
gesto l’aveva turbata, Arianna non lo diede a vedere,
c’era un pensiero nei suoi
occhi, il filo di un aquilone che stava per scivolare via, e lei era
troppo
indecisa, non sapeva se afferrarlo e trascinarlo a terra, dove avrebbe
dovuto
condividerlo con lui, o perderlo per il momento, e sperare di
ritrovarlo in
futuro, chissà quando.
«Ti lamenti molto,
quando dormi» iniziò, come
un’osservazione casuale, ma poi arrossì, e Demian
sentì il corpo farsi di sale. Non c’era nulla di
casuale.
«A volte» sussurrò,
e la bocca non era più solo impastata, sembrava impossibile
articolare i suoni
ormai.
Si fissarono in
silenzio per una manciata di lunghissimi secondi. Non aveva il coraggio
di
chiedere nulla, nemmeno riusciva ad immaginare cosa avrebbe potuto aver
detto,
non ricordava di aver sognato, era solo stanco e la mente una tavola
bianca, un
reticolo di nebbia che non gli permetteva di focalizzare nulla.
«Hai chiamato
Sarah» lo disse alla fine, ritrovando un tono risoluto che
Demian non sapeva
spiegarsi. Non riusciva a spiegarsi come Arianna riuscisse a non
tirarsi mai
indietro, anche quando l’argomento era spinoso, la situazione
scomoda. Se
succedeva, si limitava ad affrontarla, guardandolo sempre negli occhi,
così
categorica e determinata da risultare spaventosa.
«Sarah è tua
sorella, non è vero?» gli domandò con
un sospiro rassegnato, la rassegnazione
di chi aveva già compreso che parlare sarebbe stato duro,
quasi impossibile.
Demian la fissava
come faceva con le ombre della sua cameretta che
s’ingigantivano nella penombra
e lo terrorizzavano da bambino. Cercò di deglutire, ma non
ci riuscì, la bocca
era secca e il suo corpo aveva cessato funzioni basilari come la
salivazione.
«Lo sai già, no?
Sai già tutto. Cos’è, sei andata in
giro a fare domande? Hai chiesto a qualcuno
di quel caso umano con la madre con un piede nella fossa? Scommetto che
ne
avrai sentite di cose interessanti, ne hanno di aneddoti da
raccontare»
La sfidò con tutto
lo sprezzo che riuscì a mettere dentro ogni sillaba, la voce
venefica vibrava
di una noncuranza calcolata che mirava a ferirla. Voleva che se ne
andasse, che
gettasse la spugna, lo mandasse a quel paese e uscisse da quella casa
per non
ritornarci mai più.
Non sopportava il
nome della sorella detto da lei, non poteva sopportare che la
conoscesse.
Arianna
non fece una piega «Sì, ne ho sentite. Ma io
l’ho chiesto a te»
Non si era
minimamente scomposta e questo lo prese in contropiede, facendolo
vacillare.
Nessuna smorfia, nessuna contrazione delle mani, era completamente
immune alla
sua ritrosia, Demian non trovava altra spiegazione. Forse, nemmeno lo
ascoltava,
lo ignorava e lo trattava con la condiscendenza che si dedica ad un
bambino
capriccioso.
«Non ti ho dato il
permesso di parlare di lei»
«Demi, che cosa ha
Sarah?»
Cercò di sorridere
con sarcasmo, ma gli uscì una smorfia amara «Hai
parlato con maman, non te lo
ha detto?»
Arianna sbuffò «È
così difficile rispondere?»
La guardò in
tralice e pensò che l’espressione seria non le si
addiceva, che era troppo
spietata, a voler sapere a tutti i costi qualcosa di tanto penoso,
soprattutto
in quel frangente, mentre già si sentiva fin troppo provato.
«È malata. Punto. E
tu dovresti andare a casa»
Scattò in piedi e
le diede la schiena per frapporre tra loro una maggiore distanza
fisica, che lo
aiutasse a placare la nauseante repulsione che sentiva per lei. Odiava
quell’integrità, voleva che lei lo odiasse, doveva
ricambiarlo e sparire, il
solo pensiero che si fosse già spinta tanto a fondo da
chiedergli di Sarah lo
turbava troppo profondamente.
Perché mi
fai questo, perché se già sai?
Io lo so che maman ti
ha detto tutto, ne sono sicuro.
La sentì ridere con
una spontaneità destabilizzante che gli irrigidì
ogni muscolo e lo fece
deglutire a stento. Non ebbe il coraggio di voltarsi a guardarla,
assorbì
quella risata sottile come uno scampanellio di scacciapensieri mossi
dal vento.
«Demi, facciamo uno
scambio equivalente? Io ti parlo di me, se tu mi parli di te.
È equo, no?»
Demian esitò, trovò
l’audacia di girarsi.
Era seduta,
leggermente in penombra perché la luce bassa del tramonto si
era quasi del
tutto ritirata dalla sala e si infiltrava appena come filamenti
luminosi tra le
tapparelle a mezza altezza, spaccando in ragnatele chiare la stanza
scura.
Aveva i capelli raccolti in una coda che le scopriva la fronte, se ne
accorgeva
solo ora che ci prestava attenzione, come se fino a quel momento non
l’avesse
vista davvero. Un foulard spuntava tra i ricci incolti, forse a ricami
floreali
o a macchie di colore, e nella sua salopette di jeans larga le sue
braccia
sottili e le spalle raccolte sembravano minuscole, mangiate
dall’eccesso di
stoffa. Stava osservando un piccolo spaventapasseri dal sorriso grande,
una
creatura contro cui pareva vergognoso arrabbiarsi, perché
aveva in sé
l’atteggiamento di una bambina dispettosa e irriverente, a
cui era impossibile
prestare un rimprovero.
Ci si poteva fidare
di una persona così? E se la risposta fosse stata anche
sì, perché allora
sentiva dentro una tale diffidenza? Soppesò rapidamente i
pro e i contro di
quella strana situazione: Arianna si era presa cura di lui, senza
motivo e
senza tornaconto, per un intero pomeriggio; d’altro canto,
dava la sensazione
sgradevole, con quella sua indifferenza spietata che su di lui aveva lo
stesso
effetto di una mattonata in faccia, di volerlo incastrare, anche se gli
sfuggiva il come e il perché. “dovevo
incuriosirti”, era questo che gli aveva
detto una volta. Anche in quel momento aveva scommesso tutto sulla sua
assurda
curiosità per lei, era furba.
Aveva già capito
tutto, lo incatenava così, banalmente, solo con la
curiosità intrinseca che era
in grado di produrre con quella sua aria intonsa da fata che attraversa
un
mondo mortale in punta di piedi. Storse la bocca, realizzò
che Arianna e Sarah
in comune avevano molto, avevano un modo di vivere che gli sarebbe
stato sempre
incomprensibile.
Arianna appoggiò i
gomiti alle ginocchia, si chinò in avanti e raccolse il viso
morbido nelle mani
a coppa. Giocava con il labbro inferiore, lo torturava e liberava solo
per
riprenderlo. Ad un tratto si scosse, come un animaletto che si
scrollava di
dosso l’acqua, si scrollò di dosso ogni
incertezza, lo fissò ancora negli occhi
e Demian capì immediatamente che doveva prepararsi ad
incassare.
«Io non sono un
genio e di solito mi faccio gli affari miei. Per essere precisi, mi
faccio sempre
gli affari miei» affilò gli occhi da gatta,
soppesandolo «Ma ti è mai successo
di sentire che non puoi lasciar perdere? Ecco, è questo che
penso. Non riesco a
smettere di pensare che lasciar perdere sarebbe la più
grande scemenza della
mia vita» inclinò la testolina ed i ricci,
quell’unica, lucida massa compatta
scura come l’ebano con quella luce, la seguirono
«Però proprio non riesco a
capire e non sono sicura di come si debba fare, a non lasciar perdere.
Non è
solo che Sarah è malata, a farti stare male. Quella mi
sembra solo la punta
dell’iceberg, ed io non so vedere così a fondo,
però lo capisco che c’è un
fondo. Il tuo senso di colpa non è giustificabile con la
sola malattia di tua
sorella»
In un primo
momento, l’impatto lo lasciò comunque a bocca
aperta. Anche a prepararsi,
Arianna non era prevedibile, era difficile armarsi contro di lei, ma
soprattutto contro le sue considerazioni, dette con la
semplicità delle cose
ovvie, eppure ovvie per nulla.
Nessuno si era mai
accorto, e se anche qualcuno avesse notato quella sua verità
nascosta, nessuno
aveva mai avuto il coraggio di chiedergli, anche indirettamente, cosa
covasse
sotto tutto il suo amore per quella bambina.
«Tu non sai nulla»
digrignò i denti.
«Sarebbe strano se
lo sapessi, non ti pare?» gli sorrise ancora, e ancora in lei
prevaleva quella
sottile indulgenza che sembrava perdonargli tutto e lo indisponeva
tanto «Che
cosa ti fa sentire così responsabile?»
«Io sono
responsabile di Sarah. Sono suo
fratello, non ci deve essere un motivo» cercò
disperatamente di dirlo con
convinzione. Era quasi spaventoso, che fosse in grado di cogliere le
gradazioni
che alteravano la superficie della sua anima, Demian stesso non ne
sarebbe
stato capace, ma ora che lei aveva scelto quella parola precisa fra le
tante,
si rendeva conto che era proprio così
che si sentiva, schiacciato per una vita intera, corta, miserabile
vita, da
quella responsabilità che ormai coincideva con lui stesso.
Arianna era
spaventosa, faceva paura.
«Io non credo che
tu sia così responsabile, qualunque cosa sia
successa»
Gli venne da
ridere, una risata terribilmente isterica e spiritata. Doveva portarsi
ancora
dietro gli strascichi della sbronza, non trovava altra spiegazione al
magone
bastardo che gli aveva appena annodato la gola.
Sarah una vita normale
non potrà mai averla
Non so nemmeno se
avrà una vita
Tutta la sua
punizione e la sua redenzione si racchiudeva nella vita labile di sua
sorella,
spiegare cosa potesse significare, quanto fosse invivibile e opprimente
questo
per lui, era impossibile.
«Certo che lo sono»
la voce gli cedette, tutta la collera che si era gonfiata in un fiume
in piena
pronto a schiantarsi su di lei, si ridusse ad un rivolo di panico.
«Ehi» Annie lo
richiamò, sembrava dolente, il suo sorriso era
più pacato ed empatico, e per un
momento Demian si sentì ancora sulla panchina del parco,
quella sera, quando un
filo li aveva uniti e parlare era diventato, se non più
facile, necessario.
Non importava
quanto il baratro fosse profondo e le vertigini gli procurassero
nausea, con
quel filo di ragnatela sottile e delicato che creava un ponte tra loro,
la
verità diventava impossibile da occultare e l’odio
si placava nella disperata
ricerca di comprensione.
«Sono qui» gli tese
una mano, proprio come quella sera, e vederla piccola e pallida nel
crepuscolo
dalle sfumature azzurrognole, gli fece pensare a Sarah, alla sua pelle
cianotica e trasparente, quando stava peggio. La curiosità
lo spinse ad
avvicinarsi, sfiorarla piano, con circospezione. Sembrava davvero la
mano di
una bambina, senza tendini e muscoli, liscia e rotonda nelle forme.
«So anche ascoltare»
gli disse, sollevando l’angolo della bocca, come a imitare la
sua smorfia
provocatrice. Se aveva capito qualcosa di lei, probabilmente era vero
che gli
stava facendo il verso, era il suo modo personale di sdrammatizzare e
prendersi
gioco di lui.
«Lo sai. Sarah
soffre di problemi cardiaci. Ci è nata, non
c’è molto che si possa fare al
momento. È in lista per un trapianto da anni, ma non
è così semplice, in fondo
non lo è mai niente, no? È così
delicata, che ho perso il conto dei ricoveri»
Non che potesse
perdere il conto sul serio. L’ultimo anno prima che maman si
ammalasse, Sarah
aveva quattro anni e loro avevano vissuto più in ospedale
che a casa.
L’immagine della mamma un po’ china mentre portava
sua sorella al trotto e la
faceva giocare trasformandosi nelle gambe che la bimba non poteva
usare, era
impressa come un marchio a fuoco nella sua memoria.
La mano di Annie
scivolò via dalla sua, la ragazza stava scuotendo il capo,
contrariata.
«Non voglio sapere
cosa Sarah ha clinicamente, voglio sapere cosa è Sarah per
te. Credo che
dovresti dirlo a voce. Perché te lo giuro, hai
l’aria di uno che non lo ha mai
detto. Certe cose, finché non le dici sul serio invece che
limitarti a pensarle,
non diventano definite. Puoi ancora nascondertele. E se ti nascondi
qualcosa
del genere, non riuscirai mai a superarlo. Non girarci
intorno» si addolcì sul
finale, Demian abbassò la testa.
Cercò le parole che
non gli erano mai uscite, erano molte le cose che non poteva dire.
Quando era
bambino, quella era una di quelle cose che lo facevano vergognare
tanto, troppo
per avere il coraggio di dirlo a qualcuno. Nemmeno Julian lo sapeva, se
la zia
ne era a conoscenza era solo perché maman con lei
condivideva tanto,
praticamente tutto. Lui però non aveva mai imparato a
condividere niente, e
l’accumulo di quel tutto lo faceva sprofondare.
«Cosa le hai fatto,
per sentirti così?»
C’era qualcosa di
comico, una cosmica presa in giro. Concretamente sarebbe quasi potuto
sembrare
che non le avesse fatto nulla, che non potesse avere quel potere quando
era
solo un marmocchio incapace, in grado sempre e solo di assistere alle
brutture
perpetrate da quell’uomo. Eppure, il suo torto era il
peggiore.
«L’ho odiata»
Ammetterlo lo
lasciò senza fiato.
Si lasciò cadere a
terra, ai piedi del divano. Si rannicchiò nella conca
dell’angolo, portò le
mani ai capelli e ci si aggrappò con una cattiveria
dolorosa. Poi rise senza un
motivo, si vergognava così tanto che poteva solo ridere di
se stesso.
Annie era rimasta
in silenzio, così lo ripeté, per farle capire
quanto fosse vile e rivoltante.
«Io la
odiavo» il ricordo feriva ancora
nello stesso identico modo spietato, proprio come quando era lui ad
avere
cinque anni ed era un ammasso informe di paure primordiali e ossessioni
che già
delineavano l’omuncolo che era destinato ad essere
«E lei nemmeno era nata. Ma
odiarla era facile, era più semplice odiare Sarah, piuttosto
che ammettere che quello non mi
volesse bene perché in me
qualcosa non andava»
Si piegò su se
stesso, incastrò la testa tra le ginocchia e con le mani
sulla testa pensò che
avrebbe voluto potersi riassorbire, proprio come un buco nero, una
stella
pronta a implodere.
«Non sono sicura di
aver capito»
«Perché non puoi!
Come potresti, tu non lo sai che bestia era!»
E Sarah, pur non
volendo, sarà sempre legata a lui.
La sua stessa malattia
è legata a lui
«Io gli ho permesso
di farle del male, è questa la mia colpa. È a
questo che mi ha portato essere
geloso di lei»
Arianna era
confusa, c’era quasi una vena di panico in lei, Demian
comprese senza
difficoltà il motivo: lo vedeva sprofondare in
un’agitazione compulsiva e non
sapeva se toccarlo. Restava protesa verso di lui, incerta, e le labbra
schiuse
tradivano l’indecisione delle parole.
Scoprì che voleva
che lei capisse, perché non era pazzo, era la sua ferita
più grande e se
Arianna non lo capiva dopo averlo messo davanti ad una tale voragine di
fragilità, non sapeva se l’avrebbe sopportato.
Strinse con più
violenza i capelli «Il giorno più brutto
è il giorno in cui è nata Sarah»
Annie s’acquietò
tutto d’un tratto, gli occhi spalancati sulla sua
perplessità.
«Sarah è nata
prematura, fu un incidente. Tu non lo sai quanto la odiavo. Lo sapevo
che lui
l’avrebbe preferita, che mi avrebbe sostituito,
perché io ero un malato del
cazzo e di un peso del genere non se ne faceva nulla»
Gli sfuggì un
singhiozzo, una costernazione che straripò tutta insieme. Fu
incredibilmente
semplice, all’improvviso, dirle ogni cosa. Dirle che
quell’infanzia era ricca
di ricordi slabbrati e stinti, ma quell’unico giorno era fin
troppo nitido, il
più avvilente della sua vita.
«Un figlio non
dovrebbe mai vedere una madre umiliata dal proprio padre»
No, un figlio non
avrebbe mai dovuto assistere a certe forme di violenza. Per questo non
era mai
riuscito a dire a nessuno che i suoi genitori litigavano tanto, sempre.
Non era
mai riuscito a dire che quell’uomo picchiava maman, e nella
sua ingenuità di
bambino aveva creduto che nascondersi nel sottoscala e coprirsi gli
occhi e le
orecchie bastasse a dimenticare.
A fingere che non
fosse mai accaduto.
Eppure, per quanto
desiderasse, non aveva potuto scordare il bastardo che li aveva
abbandonati,
non aveva potuto dimenticare quel ventisette dicembre dei suoi sei
anni. Non
ricordava le parole, quelle no, erano sfumate, ma restavano impresse
vividamente nella sua mente le voci, la rabbia crudele di sua madre, le
urla.
Maman diventava cattiva quando perdeva il controllo, diceva cose in cui
magari
non credeva, lo faceva per ferire.
Lui invece la
minacciava.
La minacciava di
tacere, di smetterla, si esasperava e voleva sopraffarla, ma maman era
una
donna forte, che non stava mai zitta, non si tirava indietro e non
permetteva a
nessuno di schiacciarla. Così negli anni le urla erano
diventate spinte, alle
spinte si erano aggiunte le mani.
L’aveva picchiata
più volte, ne conservava frammenti confusi ma vividi, come
vivida era stata la
paura. La prima volta erano in bagno, Jenevieve l’aveva fatto
sedere sul mobile
accanto al lavandino, gli cantava una filastrocca infantile per
convincerlo a
tagliarsi le unghie. Poi era arrivato suo padre. Non aveva mai saputo
il motivo
di quel gesto, da lì però la situazione era
degenerata e scivolata in una
spirale di violenza che lo aveva fatto sentire minuscolo e inutile,
terrorizzato.
Maman non si
fermava, più le violenze aumentavano, più lei si
infervorava e lo feriva,
metterle le mani addosso era diventata l’unica soluzione che
quel maledetto
aveva trovato per prevaricarla quando non ci riusciva con le parole.
«Maman ha sempre
avuto un brutto carattere» quanto mancava il respiro, ad
ammetterlo, ammettere
che con quella sua meschinità aveva aggredito anche lui, non
solo quello che
era stato suo padre, e lo aveva umiliato, perché quello era
l’unico modo di
insegnare che Jenevieve aveva trovato.
«Avrei voluto
proteggerla. Ero un inutile nano da giardino, buono solo a
piagnucolare, ma
persino io avevo capito che la sua rabbia non l’avrebbe
difesa dal dolore
fisico. Poteva essere coraggiosa e forte quanto voleva, ma fisicamente
davanti
a lui era minuscola»
Aveva chiuso gli
occhi, e gli sembrava di scivolare di nuovo a quella mattina, davanti
al
pianoforte lucido e aperto, i tasti bianchi e neri esposti come un
sorriso
perverso di uno stregatto ingannatore. Poteva ancora sentire le note
suonate da
maman, e il tono alterato, l’odio che serpeggiava tra loro
quando litigavano.
Se gli occhi erano chiusi, lo rivedeva mentre con la sua ombra
sovrastava
maman, piccola, fragile con le sue braccina sottili e la pancia
pronunciata.
Quella pancia era
Sarah.
Quegli spintoni
erano l’inizio della fine. La mamma piangeva disperatamente,
con una furia
inedita persino per lei.
«Odiavo che le
facesse del male, io ci provavo a tenerlo lontano da lei»
Non ci era riuscito
però, maman era caduta, una scivolata così banale
da sembrare ridicola. Solo
che non era stata banale, era stato un incubo. Sbattendo contro il
pianoforte
non era riuscita ad attutire la caduta, aveva urlato di dolore, quel
grido gli
era rimasto dentro. Poi erano solo frammenti di memorie e di sangue,
tanto
sangue, dappertutto.
«Era maman a
sanguinare»
Lo pervase una
calma assoluta, una rassegnazione esasperata. Liberò i
capelli, abbandonò il
nascondiglio delle sue ginocchia e scoprì che Arianna era
una bambola trascurata
e turbata davanti a lui, immobile. Le sorrise mestamente
«Sarah è nata a sei
mesi, per colpa di suo padre»
Era sua sorella,
avrebbe dovuto difenderla da un male a cui non era preparata, ma non lo
aveva
fatto.
«Ero troppo geloso
di lei. Geloso che potesse essere amata da quello come io non ero
riuscito a
farmi amare»
Ed invece, era
stato proprio lui, che l’aveva messa al mondo e avrebbe
dovuto amarla più di
ogni altra cosa, a rovinarle la vita.
«Non l’ho più visto
da allora. Sono stato dalla zia, mentre maman era in ospedale. Quando
l’hanno
dimessa e siamo tornati a casa, lui non c’era più.
Se ne era andato e aveva
portato via tutto ciò che testimoniava la sua
esistenza»
Scosse il capo,
quasi ridendo, perché gli veniva da piangere ancora, tanto
tutto era stato
ridicolo e paradossale.
«l’aveva detto una
volta, che non avrebbe sopportato di avere un altro figlio malato.
È stato
onesto, non mentiva. Non ci ha più cercato»
Non era stato
presente nemmeno per sapere se sua figlia ce l’avesse fatta,
non aveva vissuto
i mesi di ansia con il terrore che Sarah potesse non vivere, non sapeva
cosa
significasse, restare oltre un vetro a guardare quella piccola figura
nell’incubatrice e pensare che era sola, che aveva perso la
persona che più di
tutti doveva proteggerla. Capire che, allora, se non ci fosse stato un
padre,
sarebbe stato lui il nuovo scudo e non avrebbe permesso più
a nessuno di
ferirla in quel mondo di merda che l’aveva tradita prima
ancora che vedesse la
luce.
«Sarah era forte
già allora, è sopravvissuta nonostante
tutto»
Nonostante il suo
cuore.
Il suo cuore
debole, che non aveva avuto il tempo di svilupparsi come avrebbe dovuto.
«Ha perso tutto
prima di nascere, ed io ho avuto il coraggio di essere invidioso di
lei. Forse,
sarebbe stato diverso, se non l’avessi odiata, se fossi stato
meno egoista. Ora
lei ha solo me, ed io ho solo lei. Ho già rischiato di
perderla…»
Non sapeva come
spiegare il vuoto di quel giorno, quando Julian gli si era accostato e
Demian
aveva pianto come non si era più permesso dopo. Sapeva che
il cuore di Sarah
probabilmente non avrebbe retto, lo avevano detto i medici. In quel
momento
poteva anche apparire tutto normale, ma gli interventi alle spalle,
l’edema che
quasi l’aveva uccisa a quattro anni, erano cose che non
riusciva a fingere non
ci fossero state.
Senza di lei non ce la
faccio
No, non era un
qualcosa che potesse spiegare a voce, era solo la certezza assoluta che
se
avesse perso Sarah qualcosa dentro si sarebbe spezzato inesorabilmente,
per
sempre, senza speranza di tornare integro. Cosa poteva comportare
questa
rottura, nemmeno lui osava pensarci né voleva davvero
saperlo.
Annie allungò una
mano verso il suo viso.
Pensò di scansarsi,
per istinto, ma poi, con un gesto delicato del pollice, Arianna
strofinò una lacrima
sulla sua pelle. Allora capì di aver ricominciato a
piangere. Succedeva, se
pensava troppo a sua sorella, era uno di quei pensieri dolorosi che
corrodevano, come una goccia d’acqua che picchiava sempre
nello stesso punto e
scavava il cervello.
Anche Arianna
piangeva, doveva averla ferita.
Questa era una
delle ragioni per cui non raccontava mai quella fetta specifica della
sua vita:
non voleva suscitare pietà e pena, non voleva apparire un
debole, un omuncolo
pietoso che provocava sorrisi compassati di disagio.
Piuttosto, era più
semplice non pensare a nulla e fingere di non sentire nulla, essere
disprezzato
per il suo menefreghismo che compatito per la tristezza che
trasmetteva. Aveva
ancora abbastanza amor proprio per cercare di difendersi dagli sguardi
indiscreti delle persone a cui in realtà non importava
niente.
«Ehi» Arianna lo
richiamò con un mormorio sconsolato, velato da un leggero
senso di colpa.
Però lo fissava
ancora, dritto in viso, pure con quelle due grosse lacrime che stavano
rotolando piano sulle guance rosse come piccoli ciottoli da una
scarpata.
«Non è colpa tua»
Gli venne da ridere
«Cosa?»
Abbassò gli occhi,
non riusciva a reggere la serietà con cui veniva scrutato,
l’incrollabile
certezza che guidava Arianna era destabilizzante e faceva davvero
paura, a
qualcuno come lui, qualcuno che nella vita non aveva idea di come
muoversi.
«Sono seria Demi,
non è colpa tua, eri un bambino. Non avresti potuto fare
nulla nemmeno volendo»
Razionalmente lo
sapeva.
Nella realtà la
razionalità non trovava posto.
Cercò di sorriderle
più genuinamente, di annuire pure, ma gli sfuggì
un singhiozzo. Arianna si
sporse, lo avvolse con le sue braccia sottili e Demian nascose il viso
nel suo
collo e pianse. Da molto tempo non si sfogava così
liberamente, senza freni e
senza alcol, e fu strano sentire il fiato che mancava, le lacrime che
si
raccoglievano in gola in un peso soffocante, e allo stesso tempo
sentirsi
svuotare, privo di ogni energia, mentre si accasciava completamente sul
suo
corpo, con un’innocenza che non aveva più provato
con nessuno.
Si sentiva davvero
un bambino, provava la stessa leggerezza di quando si sfogava nei
giochi con
tutto se stesso e correva come un matto sulle scogliere e la spiaggia,
e poi
quasi non si reggeva in piedi e Julian lo portava in spalla fino a
casa. Nello
stesso modo si acquietò su Arianna, il respiro smise di
tremare e ad un tratto,
il pianto era diventato una semplice linea traslucida in controluce.
Arianna,
con le sue mani leggere, un po’ goffe, gli asciugò
le guance umide. La pelle
tirava, ma Annie sorrideva tranquilla ed ogni disagio passava in
secondo piano,
se lei sorrideva in quel modo così onesto e sereno.
«Ora stai meglio»
sentenziò, con la solita certezza assoluta che ormai Demian
associava già a lei
e solo a lei «E non mentirmi, lo so che stai meglio. Sfogarsi
ti toglie le
energie per poter star male»
Riuscì a farlo
ridacchiare con quel tono da maestrina esperta. Annuì
debolmente, perché in
realtà aveva ragione, era così sfibrato da
sentirsi vuoto, ma non di un vuoto
annichilente, semplicemente libero da emozioni opprimenti,
eccessivamente
forti.
«Dai, ora
concentrati» rise lei «Hai a disposizione una
domanda. Una sola! Quindi
giocatela bene!»
Una domanda
Eccola, esuberante
ed esasperante insieme, lo guardava con l’aria furbetta e una
luce giocosa
nelle iridi chiare. Arianna assomigliava davvero troppo a sua sorella,
c’era
qualcosa in lei che gli richiamava in qualche maniera la bambina, e
forse
proprio per questo aveva trovato gradevole, accettabile ed ora quasi
indispensabile la prima, perché già era abituato
alla seconda.
Erano molte le cose
che avrebbe voluto chiederle, avrebbe voluto sapere perché
fosse tanto
sibillina, così criptica con quel sorriso da Esmeralda che
ingannava e lasciava
intendere che ci fosse sempre un segreto da qualche parte, ben
custodito e
irraggiungibile. Avrebbe voluto chiederle quale fosse, quel segreto, e
di
dividerlo con lui, come lui stesso aveva appena fatto.
Ci rifletté in
silenzio, la osservò mentre le sue labbra da bambina
restavano incurvate in una
piega inafferrabile che lo confondeva e lo faceva sentire insicuro e al
contempo più stabile. Con quello stratagemma sciocco,
Arianna lo aveva
distratto.
L’aveva colto:
aveva letto il suo disagio ed era riuscita in qualche modo a colmarlo,
questo
lo scioccò abbastanza da non dargli ancora una volta,
possibilità di replica
immediata. Come faceva ad intuire quale sentiero fosse meglio seguire
con lui,
restava un mistero.
«La foglia»
sussurrò, come illuminato all’improvviso.
Arianna inclinò la
testa e con un gesto del mento lo invitò a proseguire,
sebbene perplessa.
«Quel giorno in
ospedale. Quando ero con Elena»
«L’adorabile nonché
pudica infermiera?» lo pungolò con la solita
precisione millimetrica,
costringendolo a chinare gli occhi per contenere l’impaccio
«Sì, proprio lei.
Quando sei andata via hai lasciato una foglia.
Tu…» si morse l’interno della
guancia e con voce più labile chiese «Che cosa
stavi facendo?»
Tra tutte le cose
che avrebbe potuto chiederle, quella era forse la più
stupida. Eppure si era
tormentato per cercare di capirla, era persino arrivato ad idealizzare
un’azione tanto banale e aveva bisogno, ora, di
ridimensionarla, per riportare
quella ragazzina strana in una dimensione terrena più
concreta e accessibile.
Arianna si lasciò
andare ad una risata profondamente divertita, che però non
riusciva a
nascondere l’imbarazzo. La guardò alzarsi in
piedi, passarsi una mano tra i
capelli, muoversi con un certo nervosismo «Cavolo, e io che
speravo non te ne
fossi accorto!» si giustificò.
Si era allontanata
da lui, la luce era poca, un alone giallo proveniente dal lampione
acceso
fuori, sulla strada. Non riusciva più a leggerle le
espressioni se poneva tra
loro una distanza. Era quella manina tra i ricci scompigliati, in un
gesto irrequieto,
a tradirla.
«Domanda di
riserva?» lo supplicò.
Dem fece scattare
l’interruttore e la luce artificiale delle lampade
inondò il viso di Arianna,
accentuandone il pallore e dando una sfumatura languida agli occhi da
cucciola
volta a intenerirlo. Era bella davvero, incredibilmente, la sua
espressività
aveva un ascendente su di lui che non avrebbe creduto possibile,
perché fino ad
allora era stato proprio solo di Sarah, tutto quel potere. Ed invece,
quella
ragazzina dall’aria sfatta e disordinata possedeva il
medesimo dono di muoverlo
a pietà. Si morse l’interno della guancia, poi
sfoderò il suo miglior ghigno
provocatore
«Una domanda per
una domanda, giusto? Scambio equivalente» le fece il verso,
profondamente
divertito dalla faccia di Annie, che si sciolse subito in una smorfia.
La
ragazza sospirò sconfitta, scuotendo piano la testa
«Touché, hai vinto»
Prese un grande
respiro, come stesse per confessare un delitto
«Sì, raccoglievo foglie. No, non
sono un’idiota!» aggiunse dopo aver visto il
sorrisino derisorio che già si
disegnava sulle sue labbra. Demian ne rise, alzò il
sopracciglio per calcare
ulteriormente la sua confusione e metterla a disagio
«Delucidami»
Arianna gonfiò le
guance in un moto di stizza «Tengo un diario, ok? Un
banalissimo diario, ci
scrivo le cose e ci incollo qualunque cosa io associ alla giornata.
Quel giorno
era un perfetto giorno autunnale. Non volevo dimenticarlo»
incrociò le braccia
al petto e gli sembrò tanto un piccolo riccio offeso che in
lui nacque
spontaneo un sorriso di tenerezza. Si era raccolta in un angolo della
cucina,
vicino alla finestra, il broncio che arricciava le sue labbra era
troppo
spassoso e infantile.
Con quello che mi ha
fatto raccontare, ha un bel coraggio
ad arrabbiarsi per una sciocchezza simile
I pensieri di
Arianna erano estranianti per qualcuno come lui, Demian non li capiva.
Non
capiva cosa intendesse dire, quando parlava di una giornata che sapeva
perfettamente d’autunno, solo perché per lui ogni
giorno aveva lo stesso penoso
sapore del successivo e del precedente, era un nostalgico che viveva
attaccato
alle proprie amarezze e non vedeva molte sfumature. Viveva
l’autunno o
l’inverno semplicemente come stagioni tristi e morte che si
confacevano a
qualcuno morto dentro come lo era lui.
Arianna lo studiò e
si rilassò, una vena malinconica le attraversò lo
sguardo, una patina di
tristezza inconciliabile con la spensieratezza che trasmetteva con una
sua
risata, eppure palese, presente.
«Sai, se ci pensi
in un anno è racchiusa una vita intera, tutta concentrata.
La natura è
fantastica da questo punto di vista, in trecentosessanta giorni
rinasce, vive e
muore, e tu puoi vedere tutto ciò che di essenziale
c’è in un’esistenza così,
concentrata in un tempo brevissimo. La neve, il sole, la pioggia, la
nebbia; i
papaveri, le castagne e le fragole! Tutto contenuto in un numero
limitato di
giorni» chinò un poco la testa, distolse lo
sguardo da lui, scostò la tendina e
guardò fuori. Fissava la strada ora, i sampietrini che
circondavano la casa.
Demian si avvicinò,
colse la figura sfocata di una persona sotto la pioggerellina leggera,
in
lontananza, il colore dell’ombrello era una macchia fugace,
un acquerello
leggero non ancora asciutto che si spandeva indefinitamente sulla carta.
«Non è strano?»
mormorò ancora, dopo un attimo di silenzio. Un sorriso
sfuggente le accarezzava
le labbra belle «L’autunno è bello,
anche se sai che le foglie muoiono e gli
alberi sembrano sofferenti. Eppure è bello lo stesso, e
caldo. Quando vedo quei
colori, quelle foglie gialle, mi sembra che la natura abbia catturato
l’estate
e la trattenga ancora per sé, ancora per poco. Allora penso
che in fondo ne
valga la pena davvero, di nascere in primavera per poter bere il sole
fino a
morirne. È un bel modo di vivere»
scrollò le spalle, per scacciare la vergogna,
e ridacchiò imbarazzata.
«Ecco, pensavo una
cosa del genere, per questo raccoglievo quelle foglie» si
scompigliò ancora i
ricci e Demian non trovò nulla da dire, rimase in silenzio.
«Scusa, lo so che
ho detto un sacco di stupidate! È che ogni tanto non posso
non pensarci, alla
morte intendo. Tu lo sai cosa voglio dire, quando passi troppo tempo
lì dentro
diventa quasi scontato. La morte intorno a te non puoi ignorarla, ci ho
provato
tante volte ma non sono proprio immune. Purtroppo non sono molto
brillante, anzi
sono davvero stupida, non giungo mai a nulla che abbia un
senso»
Forse perché la
morte non poteva ignorarla, Demian un senso riusciva a vederlo. Quando
quel
giorno aveva raccolto la foglia che Arianna aveva abbandonato, per la
prima
volta aveva pensato che l’autunno era bello, che quella era
l’incarnazione di
un’idea ed era bellissima.
Era la prima volta
che gli si apriva uno squarcio sulle emozioni di Jenevieve: quelli
dovevano
essere i sentimenti di fatalità che maman provava davanti ad
un giorno di pioggia,
ad una foglia… davanti a lui; la fatale sensazione
dell’ultima volta.
La fine.
Una raccolta di
ultimi momenti concentrati in due mesi, forse meno. Ed ora capiva che
era
egoistico privare maman e Sarah della loro ultima volta, lo capiva
davvero. Ciò
che più lo disturbava però, era realizzare che
quel sentimento disfattista
Arianna era stata in grado di coglierlo come se le appartenesse.
Ora vorrei solo
chiederle la sua storia, ma la domanda me
la sono già giocata e so che non mi risponderebbe. Non
davvero.
«Ti sei accorto che
è ora di cena?» gli fece presente, scuotendo la
manica della sua felpa per
attirare l’attenzione «Devi andare da qualche
parte?»
A disagio scosse
piano la testa «No»
Non aveva nulla da
fare, non c’era nessuno che lo aspettasse. Avrebbe potuto
ordinare la pizza o
risparmiare ripescandone una surgelata dal congelatore.
«Bene, perfetto!»
gioì con un tono così entusiasta da risultare
stordente, tanto che Demian rimase
spiazzato a fissarla come fosse un’aliena «Allora
muoviti e vai a lavarti, i
miei ci stanno aspettando. Sono molto puntuali con la cena»
«Cosa?»
Arianna sollevò gli
occhi al soffitto in una finta esasperazione «Ricordi? Sei
uno che è meglio non
lasciare solo!»
Rimase pietrificato
di fronte a quella convinzione sicura e di nuovo serena.
«Su, muoviti» rise
lei, poi sbatacchiò gli occhioni con un velo di malizia che
gli tolse il fiato «So
che preferiresti che sia io a lavarti, ma ti ho già detto
che non farò l’infermierina!
Quindi fa’ il bravo ometto, io ti aspetterò
qui» si lanciò goffamente sul divano,
afferrò il telecomando e iniziò a scorrere i
canali davanti ai suoi occhi
attoniti.
I suoi genitori?
Casa sua?
Cena?
Riuscirò
mai ad avere voce in capitolo con lei?
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