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Autore: nuvolenere_dna    16/12/2017    7 recensioni
Prima classificata al contest "Au is the only way" indetto da meryl watase sul forum di Efp
Forse è per questo che ha scelto Freezer, perché le sembrava un alieno esattamente quanto lei.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Freezer, Nuovo personaggio, Vegeta, Zarbon | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Eccoci, finalmente, non ci posso credere! *sospira di sollievo*
Ce l’ho fatta!
Allora. Partiamo dal presupposto che non so come presentare la mia storia, quindi vogliate scusarmi se questa introduzione non sarà che uno sproloquio confuso e sicuramente emozionato.
Inizio col dire che mi dispiace pubblicare i cinque capitoli di questa storia tutti insieme nello stesso giorno, ma dal momento che questa storia partecipa al contest “Au is the only way” indetto da meryl watase sul forum di Efp, che scade il 18/12, non ho potuto pubblicarla capitolo per capitolo perché, come potete immaginare, sono polla e ho finito di revisionare il tutto solo mezz’ora fa! *ride*
Confesso che non me ne intendo di AU, non sono solita leggerle e non ne ho mai scritta una, è un tentativo di uscire dalla mia zona di comfort e cimentarmi in qualcosa di diverso! Inoltre, questa è la prima volta che inserisco un OC con un ruolo consistente e spero di averlo fatto con dovizia, senza dare vita a una Mary Sue o a un personaggio comunque scialbo e poco interessante. Mi direte voi, nelle eventuali recensioni, cosa ne pensate.
Voglio ora ringraziare alcune persone, che mi hanno sostenuto e aiutato quotidianamente nella stesura di questa storia, alla quale ho dedicato la maggior parte delle mie serate negli ultimi due mesi.
Ringrazio Zappa e felinala, per essere una costante nelle mie giornate da tanto tempo, per avermi sopportato e supportato.
Ma soprattutto ringrazio Sibyl__V, per aver disegnato l’immagine che vedete qui sotto il titolo, è la copertina migliore che potessi immaginare e non ti sarò mai grata abbastanza per avermi fatto questo onore. Grazie per aver realizzato il mio desiderio, siamo veramente una bella squadra.
La colonna sonora portante della storia è rappresentata da cinque canzoni di Marilyn Manson, i cui versi più calzanti sono stati proposti in testa ai capitoli. Altre canzoni sono disseminate nel corpo del testo e vi invito in generale a prestare attenzione alla musica e a ciò che dice, le scelte non sono mai state casuali.
Mi preparo al lancio dei pomodori, ma siate gentili, Alien è un pezzo di me ormai e ci sono molto affezionata.
Spero che possiate apprezzare la storia e in attesa di vostri riscontri vi mando un grande e caloroso abbraccio.
Nu

Alien

 


1: A Crack In My Soul

 
If you’re not afraid of getting hurt/Se tu non hai paura di essere ferita
Then I’m not afraid of how much I hurt you/Allora io non ho paura di quanto posso ferirti
I’m well aware I’m a danger to myself /Sono ben consapevole di essere un pericolo per me stesso
Are you aware I’m a danger to others?/Sei consapevole che io sono un pericolo per gli altri?
There’s a crack in my soul/C’è una crepa nella mia anima
You thought was a smile/Tu pensavi che fosse un sorriso
 [Marilyn Manson – Leave A Scar]1
 
18 Novembre, sabato, ore 4.07
 
Occhi umidi fissano le sue spalle nude, lambite dalla coperta di lana finemente ricamata, i trapezi muscolosi scavati dal buio della stanza, immersa nella penombra. Percorrono la filigrana liscia della sua pelle esangue, costellata dalle cicatrici, fino a risalire la sua nuca rasata e sprofondare fra i suoi capelli lisci e tinti di viola, sparsi sul cuscino. Lo ascolta respirare, inquieto, come la risacca del mare mosso che divora il vento fra le sue onde e si infrange sulla riva.
I contorni del suo corpo sono scuri e incerti, come se provenissero da un’altra dimensione, lontana e irraggiungibile. Ha paura di toccarlo, il metro che li separa non è mai stato così sterminato, un immenso lago ghiacciato sul quale ogni piccolo movimento potrebbe rivelarsi mortale. Piange e singhiozza, tappandosi la bocca per non fare rumore, le lacrime che le colano dalle ciglia come mine vaganti di una pressione lancinante, sproporzionata per il breve tratto della sua gola.
“Ho bisogno di te
Vorrebbe urlargli, con tutte le forze che ha in corpo, fino a ustionarsi l’esofago, a strapparsi le corde vocali per lo sforzo. Si trattiene, cullandosi nell’ombra rassicurante dell’enorme salice piangente, oscillante dietro le tende e il vetro antiproiettile, in un inchino maestoso che riversa i rami sottili come fili d’erba sulla terra arida.
Vorrebbe essere come lui, tollerante di fronte alla morte, paziente nell’osservare le proprie foglie avvizzite che si allontanano trascinate lontano dal vento, stoico nel sopportare il dolore delle tempeste che lo frustano spietate. Si è illusa di essere come lui per tanto, troppo tempo, credendo di essere riuscita a seppellire in un angolo della sua mente e in un album di foto ingiallite tutto ciò che era la sua vita prima. Nient’altro che un banale, penoso, autoinganno.
Si è presentata alle quattro di notte a casa di Freezer, incontrando uno Zarbon dagli occhi impastati di ocra e di sonno, nervoso ed estremamente diretto nel dirle che svegliarlo nel bel mezzo di una delle sue rare dormite non era affatto una buona idea.
Eppure, condurla con garbo in una delle stanze degli ospiti e fornirle un cambio e degli asciugamani puliti non è servito a nulla. Non appena Zarbon è tornato nella sua stanza e ha spento la luce, si è infilata furtivamente sotto le sue coperte, nel lato destro del suo immenso letto matrimoniale.
No sente il cuore ridotto in frantumi, sbriciolato in un milione di piccoli pezzi che stridono, conficcati nella carne, mentre cerca disperatamente di attenuare un pianto talmente disperato da mozzarle il fiato. È ancora completamente vestita, con la giacca di pelle zuppa di pioggia e i pantaloni macchiati di fango, infreddolita sotto quelle sue lenzuola perfette e profumate di muschio bianco. Perfette, in una stanza perfetta e immacolata, dove l’unico tasto dolente è lei e il suo incontenibile eccesso di emotività.
È troppo turbata, il corpo soffocato nei radi centimetri della sua pelle, tenuto insieme soltanto dalle cinghie e dalle cerniere come un puzzle sul punto di disintegrarsi.
Eppure, anche se cerca in tutti i modi di trattenersi, i singhiozzi zampillano dalla sua bocca, urlanti, tuoni fragorosi nel silenzio screziato soltanto dallo scroscio lontano della pioggia battente.
«Eppure dovresti saperlo che detesto i piagnistei.»
Le iridi di Freezer squarciano la notte come lame incandescenti.
Si è girato e il suo volto è contratto nell’irritazione, bagnato da un astio che induce No ad abbassare lo sguardo per la vergogna, i singhiozzi che si moltiplicano in eco infinite, partoriti dalla sorgente delle sue viscere.
No ha appena infranto la più basilare delle loro regole.
Forse perché quella sera ha incontrato sua madre, all’uscita di un teatro, vestita elegantemente e circondata da un gruppo di amici. Il suo volto era completamente inespressivo nel guardarla, scolpito nella cera, come se non fosse altro che una fastidiosa illusione ottica.  
Non appena No aveva iniziato a camminare verso di lei, intenzionata a salutarla, una donna con una folta pelliccia di ermellino aveva detto qualcosa a sua madre, indicandola con le sopracciglia aggrottate, allarmata per la figura incappucciata che avanzava verso di loro con le catene appese ai pantaloni.
Aveva visto sua madre sillabare nitidamente «Non so chi sia, sarà solo una tossica», per poi voltarsi rapidamente dall’altra parte, il disprezzo incastonato nelle palpebre, veloci nel deviare lo sguardo lontano da lei e piegarsi alla battuta scherzosa di uno dei presenti.
No si era bloccata, come se il fulmine luminoso nel cielo avesse trapassato proprio lei, morendo nella terra attraverso i suoi piedi, tremanti e incerti sul lastricato della piazza vuota, improvvisamente smisurata, come spazio pregno di vento interstellare tossico per i suoi polmoni.
Forse perché si è fatta di eroina per la prima volta, dell’eroina destinata a un cliente che avrebbe dovuto incontrare, nello scalone di un palazzo la cui porta era stata lasciata distrattamente aperta.
Forse perché ha passato le ultime quattro ore a vagare nella metropoli notturna alla disperata ricerca di qualcosa, sovrastata dal fragore dei tuoni, il corpo traforato da brividi ghiacciati che le irrigidivano le ossa. Non voleva tornare nel posto che aveva imparato a chiamare “casa”, fra le vertigini del vuoto e della sua malinconia. Voleva soltanto qualcuno, qualunque cosa che fosse familiare e viva, un qualunque angolo in cui potesse crollare lasciando andare tutti i pezzi di sé. E quando è caduta rovinosamente in una pozzanghera, tradita dal pavé troppo levigato di un attraversamento pedonale, ha pensato soltanto al suo volto serpentino, mentre il cuore iniziava a putrefarsi nel suo petto come se fosse stato morso da una bestia velenosa.
Cerca di scusarsi, ma il pianto le divora tutte le parole e restituisce soltanto gemiti, mentre si alza a sedere stringendo spasmodicamente le coperte fra le dita, tanto da farle diventare bianche. Lo fissa nel viso pallido e delicato, annegando nei suoi lineamenti alteri e freddi come quelli di un alieno, una maschera candida quasi fosforescente nella penombra.
«Stringimi»
Sussurra, singhiozzando, sentendosi colpevole. È l’unica parola che riesce a sfuggire dal filo spinato delle sue labbra screpolate, piene di tagli dolorosi e riarsi, scavati dai canini che hanno cercato troppo a lungo di trattenere tutto il dolore che aveva dentro.
Quella parola è una condanna a morte. Lo sa, le sue viscere lo sanno, vibranti della tensione conseguente a un passo falso, lo sanno le viscere nauseate di Freezer, i cui occhi si adombrano di una strana liquidità, incatenati ai suoi come se volessero vomitarli, attratti da una morbosa ossessione nell’osservare quanto lei sia patetica, deludentemente patetica.
La mano pallida e vigorosa di Freezer si schianta contro il suo viso, colpendola con uno schiaffo così forte da farle sanguinare il naso e scaraventarle gli occhiali lontano, in uno schiocco metallico sul pavimento.
«Fuori da casa mia, all’istante.»
Sibila, brutale, mentre la folgore trapassa i suoi occhi di porpora, il lago ghiacciato del suo volto lacerato da una crepa, disciolta in un caleidoscopio di tagli geometrici che rischiano di far sorgere la crudeltà dell’oceano da un momento all’altro.
Sprofondata nel peccato, No non riesce a dire nulla, paralizzata dal dolore incandescente che le divide il volto, mentre il sangue caldo e denso le cola lungo il mento e il collo. Riprende a singhiozzare, sconvolta, mentre raccoglie gli occhiali, si infila gli anfibi gettati alla rinfusa sotto il letto, e corre giù dalle scale, la bocca dello stomaco che grida in un rincorrersi di voragini sempre più profonde.
Freezer, immobile, si riempie della vastità gelida e vuota dello spazio come un recipiente che trabocca, i timpani assordati da sussurri che accarezzano con le fauci assassine il dirupo al centro del suo petto. Si lecca lascivamente la mano, ancora rovente, sporca di sangue e di lacrime, il cuore come un tamburo frenetico, figlio della guerra.
Un sapore amaro.
L’immagine residua di No vaga nella stanza, un fantasma allucinato dai bagliori del giorno che continua a trapassarlo con occhi gonfi e accusatori, ovunque lui guardi, infestante e rabbioso come i rami del vecchio salice, fruste impietose che si abbattono contro il vetro della finestra, figlie dalla tempesta che ulula. 
 
21 Novembre, martedì, ore 16:57
 
Una donna dai lunghissimi capelli neri, raccolti in una treccia a spina di pesce che si dissolve nel viola fosforescente di un iris perverso, velenoso e sibillino, seduce l’osservatore con uno sguardo licenzioso, gli occhi corvini come portali di un mondo oscuro e malvagio. La sua bocca carnosa, tinta di un bordeaux cupo, bacia Raggio della Morte, una Glock 18 bianca come il latte, intarsiata di ricami d’ametista arrampicati come edera lucente lungo il calcio e il carrello. Fra le dita si intravede la scritta “MUORI”, in un corsivo elegante, impressa a fuoco.
Gli occhi di Freezer vagano sull’enorme fotografia, quasi a grandezza naturale, racchiusa da una cornice di legno antico e impreziosita da una miriade di piccoli cristalli Swarovski, in un tripudio di rose stabilizzate che decorano l’altare, vermiglie e incantevoli come appena colte.
Come sua madre, quelle rose false e bugiarde non sono altro che carne bellissima ma priva di vita, cadaveri viventi che sorridono trafitti nel gelo di un tempo eterno. Il ragazzo inspira profondamente il profumo dell’incenso, acceso a ogni ora del giorno e della notte ormai da nove anni, che sale lungo la parete disperdendosi in volute geometriche.
Il corpo esile e muscoloso è fasciato da una vestaglia in velluto nero e i piedi nudi si contraggono sul marmo freddo del salotto. Le iridi sanguigne di Freezer sono ipnotizzate nel ripercorrere i suoi lineamenti, mentre il suo volto tradisce un ghigno atroce, scoprendo i denti e mordendosi le labbra.
È contento che sia morta, segretamente grato all’imprudente poliziotto in borghese che ha sparato in testa a sua madre, uccidendola sul colpo.
Si riempie nuovamente di gioia nel ricordare la veglia funebre e il funerale, il piacere carnale che aveva provato nello sputare nella bara, nel riempirsi gli occhi del suo corpo inanimato, impotente, senza vita, un fantoccio gonfio e inutile, riverso nel raso rosso come nella pozza di sangue in cui era morta.
Il suo unico nemico era stato annientato, per sempre.
Non avrebbe mai più potuto fargli male.
Il Requiem di Mozart, assordante nella chiesa barocca, si era tramutato alle sue orecchie in un canto di trionfo, un vero e proprio inno alla vita. Quando era iniziato il Dies Irae le sue vene avevano tremato, il piccolo corpo attraversato da un brivido di piacere insopprimibile, talmente forte che aveva pianto, singhiozzando inginocchiato con la fronte appoggiata alle dita intrecciate, cercando di trattenere le labbra dallo spalancarsi in una risata. Si era sentito finalmente risorto, libero di accarezzare e glorificare le cicatrici che lei gli aveva inferto senza provare nuovo terrore.
Freezer è stato un bambino silenzioso e solitario, che amava osservare i palazzi e le strade dal grattacielo più alto della città, le piccole gambe penzolanti nel vuoto e le mani incerte, combattute dal richiamo del vuoto.
Adorava fissare il precipizio, gli occhi innamorati dello strapiombo, le automobili e i passanti come puntini colorati, insetti inutili che ronzavano sulla terra credendosi importanti.
Inoltre, adorava fissare il cielo.
Sognava di essere un imperatore dello spazio, un tiranno galattico spietato e superbo, dalla forza illimitata. Mentre s’immergeva nella volta buia e costellata dagli astri, studiando con precisione millimetrica le configurazioni e i movimenti delle stelle, immaginava sempre, ripetutamente, di distruggere la Terra. Aveva ripercorso quella scena infinite volte, riavvolgendo la pellicola della sua fantasia e decorandola ogni volta con nuovi dettagli.
Il fragore della terra che si disgrega, sotto il tocco leggero delle sue dita, le rocce che si allontanano, sbranate dalle orbite circostanti, spezzate e disgregate dalla forza della tempesta interstellare in un moto centrifugo che in un solo istante infuoca il cielo. Il caleidoscopio armonico delle grida degli umani, delle loro speranze fatte a pezzi, disciolte nel sangue dei loro corpi spappolati, soffocati a morte. E infine, quel vuoto cupo, come l’occhio di un buco nero pronto a inghiottire, le viscere della terra, estirpate e agonizzanti, che levitano sfiorate dalla polvere, dalle ossa e dal sangue, mescolate al vento, che soffiano come una melodia sinistra fra gli anfratti di stelle e pianeti circostanti.
Ha sempre sentito dentro di sé il vuoto dell’abisso, il germoglio della decadenza che fioriva lento dentro di lui, un fiore di spine che dilaniava i suoi atri e i suoi ventricoli nutrendosi della sua carne.
Un giorno sua madre lo aveva sorpreso così, gli occhi talmente pieni di quel vuoto da essere vacui e inespressivi, e lo aveva picchiato così forte da rompergli quattro vertebre a furia di prenderlo a calci.
Non aveva neppure pianto, impassibile e indifeso, cercando con tutta la sua forza di estraniarsi in un antro buio della sua mente mentre le grida convulse di sua madre gli graffiavano i timpani.
“Tu non sei normale! Fai schifo! Sei sicuro di essere umano?” gli aveva urlato mentre sfracellava il suo volto contro il muro, il naso in una colata rossa, la piccola testa compressa come in una morsa fra le dita lunghe e inanellate di sua madre.
Gli occhi ardenti, pieni di rabbia di sua madre, sono impressi a fuoco nella sua mente e nei suoi incubi. E ora, di quegli occhi, non restano altro che polvere e vermi che imputridiscono in una cassa di legno.
Un rumore lo fa sussultare, è il fischio del bollitore proveniente dalla cucina. Il suo the Earl Grey delle ore 17 dovrebbe essere pronto, con una puntualità impeccabile. La sua mano spalanca con veemenza la porta ed è sufficiente un nanosecondo per fargli esplodere il cuore nel petto, suscettibile come una ferita aperta.
Qualcosa nel sorriso del suo servo non quadra. È troppo teso, come una corda sul punto di spezzarsi, scollegato dall’espressione maliziosa degli occhi, quasi lucidi e socchiusi. Come se ammiccassero.
Fissa le sue mani, velocemente impegnate ad afferrare il bollitore e inserire al suo interno l’infusore traboccante di foglie di the. Ma c’è qualcosa di strano, il colore di quella polvere non è lo stesso di sempre, più scuro, più chiaro, irrimediabilmente sbagliato, forse macchiato di una strana ombra rossastra.
«Mi scusi, signore, il bollitore era sporco e quindi ho tardato un minuto o due...» balbetta, intimorito nell’osservare l’espressione gelida dipinta sul volto del ragazzo.
Ora ne è certo, non ha il minimo dubbio, quel rifiuto, quella bestia sta cercando di avvelenarlo. La mano di Freezer si avviluppa come una radice intorno a Raggio della Morte, estraendola lentamente, godendosi l’espressione disorientata dell’uomo, le cui gambe iniziano a tremare.
Zarbon, seduto al capo opposto del tavolo, abbassa lo sguardo, tormentandosi le unghie per la paura. Ancora una volta, un’altra crisi, lo sa cosa sta per accadere ma non vuole guardare, perché la prossima volta potrebbe toccare a lui. Non ha mai sentito così ruvidi i vimini della sedia, sfregati freneticamente dalle sue gambe tremanti.
«Ci vediamo all’inferno» sussurra Freezer, algido, mentre allunga il braccio e spara, un colpo dritto al cuore.
Il servo resta immobile, paralizzato per un istante lunghissimo, per poi rovesciarsi in avanti sul tavolo e sfracellarsi a terra insieme al bollitore e alla tazza ricolma in un lago rovente di cocci.
Il sangue copioso si mescola ai vapori del the e ai vetri taglienti, risalendo lungo le narici dilatate di Freezer. Un odore stupendo, rassicurante e ferroso, un distillato purissimo di morte e di vendetta. Lo inspira a fondo, estasiato dal piacere, le dita ancora bianche per la pressione intorno al grilletto di Raggio della Morte. Eppure il silenzio è effimero, gremito da nuove domande che gli trapassano le viscere, contratte per l’angoscia di una nuova minaccia.
Era solo? Aveva dei complici? Chi poteva essere il mandante di quel tentato omicidio? Quell’uomo era fedele alla loro casata da moltissimi anni, cosa gli hanno offerto in cambio della sua lealtà? Perché l’avvelenamento, poi?
Un domestico ha molti modi per uccidere, specialmente nel sonno, perché ricorrere a una strategia così pacchiana? Freezer si morde le labbra, rimproverandosi ancora una volta per l’eccessiva impulsività. Sposta lo sguardo su Zarbon, ancora concentrato sulle proprie scarpe bianche, appoggiate sui pioli della sedia per non rischiare di sporcarle di sangue.
«Si può sapere cosa diavolo è successo qui?» la voce di Cooler, acida ed esasperata, riempie l’aria insieme al tonfo della porta che sbatte. Osserva la scena con sguardo freddo, una smorfia disgustata dipinta in volto, realizzando che suo fratello ha ancora una volta perso la testa, l’ennesima che gli ricorda che un pazzo come Freezer dovrebbe vivere soltanto in un ospedale psichiatrico e non nel piano terra del loro palazzo.
«Che c’è? Sorpreso che non l’abbia bevuto?» risponde Freezer, abbassando l’arma ma stringendola ancora spasmodicamente nel pugno. Sente la bocca secca e le vertigini iniziare a confonderlo. Potrebbe essere suo fratello il mandante dell’omicidio, lo ha sempre odiato e la coincidenza del suo arrivo tempestivo potrebbe essere un indizio.
«Bevuto cosa?» ribatte Cooler, sbuffando, girando il cadavere da terra per scoprire la voragine di porpora nel suo petto. Era il suo domestico preferito, in grado di preparare una torta di fragole senza pari, sempre attento ad aggiungere quel pizzico di cannella, come piace a lui e a lui solo.
Cooler si volta e osserva l’espressione terrorizzata dipinta sul volto di Freezer, le pupille nere come capocchie di spillo nel rosso innervato delle sue iridi, il pallore del suo volto sempre più esangue, quasi trasparente. Sta per avere una crisi, le labbra tremanti e gonfie di una rabbia trattenuta, le pareti della stanza troppo piccole, sempre più piccole e cupe, assillate di una luce stroboscopica che gli trapassa i polmoni mozzandogli il fiato.
È Cooler, non può che essere lui, il nemico, un altro nemico, agli occhi di Freezer è lampante nelle linee contratte e severe del suo volto, nel disprezzo con cui si rialza e continua a parlare, ma le sue parole sono come un bolo informe ai suoi timpani. Non bisogna credere alle parole dei bugiardi e dei fratricidi, si ripete, mentre rialza Raggio della Morte e la punta verso di lui.
Sente il fuoco ardergli dentro e le gambe cedere, vuole vendetta, mentre fissa le iridi colme di derisione di suo fratello, infastidito nel dover assistere all’ennesimo dei suoi crolli.
«Adesso me la paghi!» grida Freezer, attendendo un secondo di troppo prima di sparare. Quell’attimo di incertezza finisce per costargli molto caro: un turbinio di mani lo afferra, lo stringe, lo soffoca, gettando repentinamente la pistola a terra, mentre un ago gli penetra il collo. Il suo corpo si affloscia come un fiore appassito, le ciglia chiuse in un sonno artificiale. Una fiala vuota di Midazolam viene scagliata nel lago rosso di cocci, disperdendosi in frantumi.
Cooler lo guarda un ultima volta, pieno di repulsione, per poi andarsene sbattendo la porta, mentre Dodoria si carica il corpo di Freezer fra le braccia e lo porta in camera da letto, appoggiandolo lentamente sotto le coperte. I suoi occhi neri osservano il suo petto alzarsi e abbassarsi, tradito da una chimica ancora più forte della follia della sua mente.
Le crisi di Freezer si concludevano sempre con l’omicidio di qualcuno, il cui sguardo era stato troppo malizioso, le cui mani si erano mosse troppo velocemente all’interno della borsa o nelle tasche, le cui frasi tradivano sicuramente minacce velate.
Il signor Cold e Cooler avevano, infruttuosamente, sperimentato diverse soluzioni. La prima era stata sottrargli la pistola e batterlo fino a quando di lui non erano rimasti altro che denti rotti e vomito di sangue nero e denso, lasciandolo ad agonizzare come una larva priva di ogni energia, inoffensiva per chiunque. La seconda, applicata in più occasioni, era stata provare ad aspettare che si calmasse da solo, chiudendolo nella sua stanza o nell’automobile privandolo di qualunque arma per evitare di provocare ulteriori danni.
Si erano accorti che Freezer tendeva spontaneamente a dimenticare il contenuto di quelle crisi, riemergendo confuso e interdetto, la memoria in una nube incerta in cui fiorivano domande apparentemente senza senso. Non ricordava spesso di chi era il sangue che gli macchiava i vestiti, così come non sapeva perché si trovava in pieno giorno sotto le coperte, con Zarbon che gli porgeva una tazza di latte caldo.
Dodoria ricorda con un brivido l’espressione allucinata di Freezer, quando in una di quelle prime occasioni aveva riaperto la porta della sua stanza di fronte al suo silenzio, prolungato e totale. Lo aveva colto in flagrante, seduto sul letto, che guardava estasiato la propria coscia nuda e tatuata da cui sgorgava una corrente infinita di sangue. Aveva afferrato un taglierino e si era reciso una vena, ascoltando le risate sguaiate dei demoni allontanarsi fra le ombre. Freezer aveva soltanto riso, beandosi dello sguardo sbalordito di Dodoria, perché nessuno di loro poteva davvero comprendere cosa si provasse nel sentire il cuore esplodere di rabbia e di paura, paura di morire, di essere annientati fino a dover comprimere la propria anima in un millimetro, in una minuscola molecola di universo, per non morire.
Quei fantasmi e quei denti acuminati non possono abitare il suo cuore senza farlo esplodere in un impasto di carne spappolata e di nervi tranciati di netto, privi di elettricità. Li ha soltanto liberati, restituiti alle tenebre ghignanti da cui provenivano. A costo di ferirsi, a costo di farsi letteralmente a pezzi, lui deve vendicare e purificare, sacrificare e uccidere.
 

Continua...
 

1 Marilyn Manson – Leave A Scar
https://www.youtube.com/watch?v=xG7DoUR93yk
  
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