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Autore: Leonhard    19/12/2017    2 recensioni
Judy si volse verso la sagoma della lontana Zootropolis. Vixen aveva detto che il cavallo era il pezzo più forte della scacchiera, Alopex aveva scelto un cavallo per guidare gli eventi: forse avevano previsto tutto, forse no, ma in fin dei conti era quasi giusto che fosse stato un cavallo a dare scacco matto e vincere la partita.
E la città, sapeva, avrebbe continuato a bruciare.
Genere: Guerra, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Capitan Bogo, Judy Hopps, Nick Wilde, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Distopian Zootopia'
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Sguardi


 
Superando l’ennesimo vicolo mantenendosi più bassa di quanto non lo fosse stata, lanciò l’ennesima occhiata a Jack, poco davanti a lei: era rannicchiato dietro il paraurti di un Suv semi-carbonizzato ed scrutava la città oltre l’improvvisata barricata, senza muovere un muscolo.

Era ormai più di un’ora che non pensava a Nick e poteva essere a tutti gli effetti un record da quando era sparito dalla sua camera: coprire l’immagine della volpe con quella di Bogo morto funzionava, anche se non era una cosa che le piaceva visualizzare. Ogni volta veniva scossa da un tremito nell’immaginare i dettagli: i vestiti sporchi di sangue e fango, gli occhi rovesciati all’indietro, un rivolo piccolo ma costante di sangue scendere dalla fronte. Moriva dalla voglia di chiedere ancora alla lepre se era veramente necessario ucciderlo, tentare ancora di convincerlo a cercare un’altra strada, ma per quanto cercasse non riusciva a trovare nessuna argomentazione che potesse aiutarla nello scopo.

Per quanto non approvasse i suoi metodi, Jack aveva ragione: la città era al limite, il potere era corrotto nel midollo e due conigli come loro sarebbero stati sicuramente travolti dagli eventi. Da sola per le strade o davanti a Bogo con il buon senso, lo scenario poteva finire solo con la sua famiglia che piangeva sulla sua tomba.

Una scena che aveva preferito non pensarla nemmeno.

“Non siamo molto lontani” disse la lepre, distogliendola dai suoi pensieri. “Il portone dall’altra parte della strada è di un albergo: ho lasciato due fucili di precisione all’ottavo piano, stanza 162. Si affaccia direttamente sulla piazza del municipio”. Erano lontani dalla strada che portava al distretto di Foresta Pluviale, ma a quanto pare a lui non interessava particolarmente: ora che ci pensava, era una situazione identica a quando aveva indagato sul caso degli ululatori con Nick ops, record infranto. Anche lui il primo giorno aveva vissuto esclusivamente per metterle i bastoni fra le ruote ed era stato perfetto nel suo intento.

Rimasero acquattati dietro la carcassa dell’auto per altri eterni minuti prima che Jack le desse il segnale: saettarono oltre la strada e si buttarono contro il portone, che si smosse quel poco che bastava per farli entrare. Fecero di corsa due rampe di scale prima che il silenzio, rotto solo dall’eco dei loro passi non li convincesse di essere soli in quello stabile. Oltrepassando il quarto piano, Judy si volse verso Jack, dando finalmente voce all’unica domanda che ancora non gli aveva fatto.

“Perché?” chiese. Pose la domanda con una voce troppo alta per essere giudicata sicura ed i due ascoltarono la eco ripetere la domanda all’atrio, attenti a qualunque altro rumore che non fosse il ronzio della caldaia o i rumori del caos oltre le finestre.

“La città non è più quella di…” rispose serafica la lepre, ricominciando a salire.

“Non intendo questo” borbottò lei, interrompendo quella frase ormai automatica: Grande Coniglio, non poteva credere che la formulasse ancora quella risposta!

“E allora cosa?” chiese Jack, voltandosi a guardarla.

“Stiamo andando ad uccidere Bogo” disse, ormai sottolineando l’ovvio. “Per quanto possa essere in futuro un bene, stai privando una città impazzita del suo capo: hai la minima idea di come reagiranno i cittadini?”. Lui la guardò senza dire nulla, aspettando che arrivasse al punto. “Riassumendo il piano, tu stai per uccidere a sangue freddo il capo di Zootropolis, provocare quella che facilmente diventerà una guerra civile tra rioni ed eleggerti responsabile di tutte le vite che verranno messe in pericolo fin quando la situazione non si stabilizzerà in qualche modo: non vorrai mica farmi credere che lo fai solo perché ti hanno detto di insabbiare un caso, vero?”. Lui la fissò per un altro paio di minuti: gli occhi erano fermi, saldamente puntati nei suoi con uno sguardo sterile, freddo. Si volse e salì fino al pianerottolo prima di parlare.

“È per Corsa” borbottò tra sé e sé: Judy non l’avrebbe sentito se in quell’atrio ci fosse stato tutto quel silenzio. “Corsa Vulpes”. Lei capì da tono di essersi spinta troppo dentro un argomento tabù, ma il danno era fatto: non parlò, rimanendo in attesa del silenzio del compagno. Lui continuò.

“Era una fioraia che aveva il negozio sotto il mio appartamento” disse. “Manto color della sabbia, occhi dorati…passavo le ore a guardarla lavorare dalla mia finestra…”. Judy deglutì.

“Era la tua compagna?” chiese. Jack le scoccò un’occhiataccia, come se avesse insultato la sua memoria.

“No” disse, con una voce neutra che mal si sposava con quegli occhi omicidi. “Però non avrei dovuto fare altro che scendere a parlarle. Il nostro era un gioco di sguardi: ci salutavamo, ci parlavamo, commentavamo o tempo o la giornata senza scambiare nemmeno una parola. Non so se una cosa del genere sia realmente possibile, ma la mia sensazione era sempre quella”. Judy annuì senza rendersene conto: sapeva di cosa stava parlando, sapeva che una cosa del genere era possibile ma evitò accuratamente di pensare a qualunque nome o di far sorgere qualche immagine che comprendesse un pelo rosso, una camicia verde, oh, che diamine!

Si fermarono davanti ad una porta: era ancora verniciata e lucida, con qualche scheggiatura qua e là data dal tempo e dal numero di volte in cui era stata aperta, chiusa, sbattuta e calciata. I numeri in alto, sotto lo spioncino, era leggermente opaco e la vernice gialla era saltata in un paio di punti.

Stanza 162. Jack entrò e chiuse la porta dietro Judy.

La stanza ricordava molto l’appartamento di Nick: il divano era coperto da una cerata polverosa ed un aspirapolvere giaceva abbandonato contro il muro; le tende ondeggiavano mosse dal vento e frammenti di vetro rilucevano sotto la finestra sfondata. Il letto era scalzato, le coperte gettate a terra e l’armadio aveva un’anta divelta.

Abbandonati contro il muro accanto alla finestra, due grossi fucili di precisione rilucevano la luce che filtrava attraverso le tende. Judy cercò di non guardarli, ma le due armi le avevano catturato lo sguardo e non lo lasciavano più andare; Jack si sbottonò il primo bottone della camicia e si sedette sul divano, sospirando ed ignorando la polvere: si rilassò per qualche minuto, apparendo all’improvviso come una piccola, indifesa lepre stanca di tutto ciò che la circondava e desiderosa di un po’ di pace.

O di Corsa Vulpes, chiunque fosse stata per lui.

“È una delle volpi scomparse vero?” chiese, più per avere qualcosa su cui focalizzare la sua attenzione che non fossero quei due fucili. “Corsa Vulpes: è scomparsa nel quartiere di Tujunga?”.

“Era nel tombino accanto a quello in cui abbiamo rinvenuto Wilde Senior” disse. “…o perlomeno, quello che abbiamo trovato di lei era li”.

Stagnò il silenzio per qualche minuto. Non alzò lo sguardo per vedere l’espressione che doveva avere Judy in quel momento: quella coniglietta era così odiosamente empatica che se avesse visto su quel muso l’espressione che sospettava, probabilmente si sarebbe arrabbiato e non poco. Controvoglia, si alzò e si piazzò accanto ai fucili, senza tuttavia toccarli.

“Ti dirò una cosa, Hopps” disse, volgendo finalmente lo sguardo su di lei e mordendosi l’interno della bocca quando vide l’espressione che si era aspettato. “Tra me e Corsa non ci sono stati che sguardi, ma per me valgono tutto questo: so che mi capisci, sei nella mia stessa situazione”.

“Nick è mio amico” replicò lei. “Mi ha difesa da Howler: è il minimo che posso fare”.

“Certamente, continua a ripeterti che è solo per questo” disse lui. “Ma tieni a mente questo: qualcuno me l’ha portata via e Bogo mi ha impedito di colpire il responsabile. Anche se è l’unica cosa che questa città  merita, non permetterò che bruci più del tempo necessario”.

Si volse verso di lei e la paralizzò con lo sguardo: la passò da parte a parte, immobilizzandole il corpo come se l’avesse legata ad una sedia. Sotto il gelo di quegli occhi azzurri vide rimestarsi una rabbia antica, evidentemente una compagna fedele con cui aveva condiviso tutti gli ultimi anni. Si sentì soverchiata da tutta quel feroce gelo come se fosse lei la responsabile di tutto ciò che stava succedendo oltre le mura, come se stesse per puntare su di lei quel fucile. Riprese a parlare mentalmente, scolpendole le parole nella testa in modo che mai più avrebbe potuto dimenticarle.

“Ma io l’avessi mai guardata nel modo in cui tu guardi Wilde, darei fuoco al mondo intero” disse lentamente. “E se lei mi avesse mai guardato nel modo in cui Wilde guarda te, lo lascerei bruciare per guardarlo trasformarsi in un cumulo di cenere”.
 


Il sole stava alzandosi in cielo e nella piazza sottostante stava cominciando il subbuglio. Judy si era raggomitolata sul letto e nel giro di qualche minuto era piombata in sonno che nemmeno le sirene dell’allarme generale, suonato poco più di mezz’ora prima, erano riuscite a rompere. Jack si volse a guardare fuori dalla finestra al primo ruggito lontano che sentì; imbracciò il fucile ed appoggiò la canna sul davanzale della finestra, lasciando tuttavia la sicura inserita. Premette il muso contro il calcio e guardò la città attraverso il mirino.

Ormai poteva dirlo con chiarezza: Hopps e Wilde.

Un coniglio che sfida la città in quel modo non poteva che essere un coniglio completamente uscito di testa, oppure con un obiettivo ben saldo in una mente forte e risoluta: proprio nulla da eccepire, Wilde si era scelto proprio un partner con i controfiocchi.

Sorprendente che i due non fossero legati da nulla più di una profonda amicizia.

Si staccò dal fucile solo per scuotere la testa, lasciandosi sfuggire un sorrisetto divertito: quei due erano una squadra prossima alla perfezione e sarebbe stato veramente un peccato rovinarla spingendo il loro rapporto di un passo oltre il consentito. Almeno Wilde lo sapeva, conosceva quel confine, quella linea così sottile da poter essere oltrepassata quasi automaticamente: uno dei due si sarebbe svegliato la mattina e puf: improvvisamente cotto perso del proprio partner. Ma in quel lavoro oltrepassare quella linea era una cosa molto, troppo pericolosa e difficilmente avrebbero tentato la sorte fino a quel punto.

Non si sarebbero fatti male in quel modo, ne era sicuro.

Suo malgrado, il pensiero di Nicolas Wilde passò per la sua mente, ma a differenza degli altri si fermò: rimase fermo davanti ai suoi occhi, quasi sovrapponendosi alla piazza sporca di bottiglie, lattine e fogli di giornale. L’immagine della volpe fu accompagnata da una domanda che finalmente trovò le parole per essere formulata.

Perché non ha creduto a Bellwether?

Jack allontanò la testa dal fucile e con un sospiro abbassò lo sguardo. Dopotutto, aveva passato troppo tempo nelle vesti dell’agente segreto e mentire gli risultava pericolosamente facile. Aveva infilato lui suo padre in quel tombino?
Certo che l’aveva fatto. Il motivo? Beh, non era stato molto diverso da quello che l’aveva spinto a sparare ad Alopex. In quegli istanti l’aveva visto diverso, l’aveva sentito diverso. In quegli istanti era

la nemica naturale per eccellenza dei conigli

una volpe: una volpe straordinariamente pericolosa. Ma una volta a terra, distesa inerme in una pozza di sangue, era tornata ad essere talmente mansueta da fargli rendere conto di aver sprecato dei colpi per prendere una vita che non gli spettava. Aveva posto fine ad una vita che doveva, meritava di continuare per ancora molto tempo.

Ripensò all’espressione che aveva visto qualche ora dopo, davanti al corpo che lui stesso aveva incastrato in quel tombino, sul muso di un cucciolo che avrebbe compreso ciò che gli stava raccontando qualche anno più tardi e che l’avrebbe fregato alla grande per il puro gusto di farlo, senza la minima traccia di una maliziosa, perversa crudeltà che lui avrebbe meritato cento volte più intensa.

Eppure lo sapeva: Wilde non avrebbe fatto nulla per nuocergli. Tra loro due, l’animale pericoloso non aveva la pelliccia rossa.

E poi, con che diritto avrebbe portato a termine il piano? Il taccuino nella tasca posteriore dei suoi pantaloni improvvisamente gli sembrò molto più pesante di quanto non lo fosse stato in quei giorni. Si volse a guardare Judy: dormiva nella grossa con un’espressione serena che non si addiceva per nulla all’ambiente ed alla situazione.

Forse quel taccuino avrebbe dovuto averlo lei?

La sirena suonò di nuovo: un secondo allarme che voleva dire solo una cosa. La situazione era precipitata, qualcuno aveva morso la coda del mammifero sbagliato; si alzò, allontanando con tutte le sue forze quei pensieri dalla sua testa. Il tempo per i tentennamenti era finito, ormai quello che era fatto era fatto

il dado è tratto

e tutto quello che gli rimaneva da fare era sperare che Alopex non avesse preso il suo secondo granchio proprio nel pianificare quell’operazione.

Così semplice nella sua complessità, così granitica nella sua fragilità, così infallibile nella sua precarietà. Si avvicinò alla coniglietta e la chiamò una volta, due volte.

“Hopps” chiamò la terza volta, scrollandola leggermente. Lei aprì lentamente gli occhi, incrociando i suoi: vi lesse per qualche istante una pace che un tempo avrebbe riconosciuta come sua. In giorni ormai lontani, passati alla finestra ad osservare una bottega di fiori. Lo guardò ed in quei secondi la consapevolezza del dove e quando fece ritorno, catapultandola nella realtà e strappandola definitivamente da ciò che aveva visto dietro le palpebre.

Tornò accanto alla finestra, ad abbracciare il fucile, ascoltandola avvicinarsi ed affiancarsi a lui, imbracciando questa volta il secondo fucile.

“Sai, Jack…” borbottò. “Avrei proprio voglia di una ciambella in questo momento”. Ciambelle. Lui non poté darle torto.


 
Bogo si affrettò ad uscire dal suo ufficio; il corridoio era deserto, ma pulito ed ordinato: le pietre e le fionde dei teppisti non erano arrivate a sfondare quei vetri e lui vi si premette contro, guardando la piazza sottostante. I predatori erano in piazza ed una cacofonia di ruggiti, squittii e latrati riempiva l’aria; davanti alle porte d’ingresso i lupi osservavano la scena da dietro le palizzate mobili. E tra loro, quello squilibrato di Howler.

Era evidente che moriva dalla voglia di entrare in azione, di avere tra le zampe un valido pretesto per tirare fuori la pistola e auto eleggersi sceriffo, pistolero, bounty killer o qualunque cosa nel suo immaginario fosse provvisto di pistola e licenza di uccidere.

Sospirò: una cosa del genere era prevista ma per un breve, orribile istante il cervello gli si inceppò e rimase a guardare la scena senza riuscire a capirla appieno. Si sentì come un pesce fuor d’acqua, incapace di qualunque azione che non fosse boccheggiare e muovere spasmodicamente i muscoli. Fece saettare lo sguardo in ogni dove e finalmente vide ciò che non quadrava in tutto quel marasma.

Tra la folla di predatori, curva sulle quattro zampe, una leonessa non ruggiva: dardeggiava l’edificio con occhi famelici e disperati, reggendo tra le fauci un piccolo fagotto inerme color della sabbia. Il cucciolo non reagiva a nulla, le zampe penzolavano assecondando ogni movimento della testa della madre; persino la coda, che solitamente era un’appendice senziente nei cuccioli, era immobile che puntava l’asfalto. Fu colto dalla consapevolezza che quel cucciolo non era particolarmente ubbidiente né stava dormendo ed in quell’istante la situazione degenerò.

Il vetro davanti a lui si demolì con uno schianto, facendo improvvisamente entrare la brezza dell’esterno: fu talmente repentino che sentì freddo per qualche istante, mentre pezzi di vetro dalle molteplici forme e dimensioni crollavano su loro stesse con un assordante scroscio. Sul muro dietro di lui, accanto allo stipite della porta da cui era uscito, fumava un foro bruciacchiato e la brezza che entrava dalla vetrata distrutta portò alla sua attenzione un istante che puzzava di polvere da sparo.


 
Judy assistette alla scena attraverso il mirino del suo fucile: non riuscì a credere ai suoi occhi. Si volse verso il suo compagno, intento a spingere un altro colpo attraverso l’otturatore laterale dell’arma.

“Jack…” mormorò. La sua voce, pregna di desolante rassegnazione, attirò l’attenzione della lepre, che si volse a guardarla. Vide il naso della coniglietta fremere ed un sorriso si dipinse sul suo volto: Judy ebbe genuinamente paura di lui.

“Non ho sbagliato, Hopps” disse a denti stretti. “Anzi, è stato il mio tiro migliore”.
   
 
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