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Autore: Iryael    21/12/2017    2 recensioni
Ratchet racconta in prima persona l’esperienza della DreadZone: l'arrivo, la finta libertà dei gladiatori, le giornate scandite dai combattimenti, la fuga.
«All'inizio mi rifiutai di capire che quel che pensavo dei gladiatori, in realtà, era l'immagine che i mass-media vendevano agli spettatori. Ma il mio rifiuto non durò a lungo: bastarono pochi giorni a farmi aprire gli occhi.
Non esisteva paragone migliore del circo: noi gladiatori eravamo le fiere; mentre gli Sterminatori, le brillanti stelle dello spettacolo, erano domatori che si alternavano sulla pista dell'Arena.
Poi c'era lui, Gleeman Vox. Lui che aveva l'abito rosso del presentatore e coordinava la baracca, guadagnando sulla nostra pelle.
Fama, soldi e belle ragazze erano la nostra gabbia dorata. Quella vera, esplosiva, ce l'avevamo chiusa al collo.
Aprire gli occhi mi fece incazzare di brutto.
Nessun circo poteva permettersi di tenere un drago in gabbia. E loro - Vox e compagnia - l'avrebbero capito presto.»

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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Big Al, Clank, Gleeman Vox, Nuovo Personaggio (Takami Kinomiya), Ratchet] [Probabile OOC]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 12 ]
Catacrom Quattro: il tempio e i Sangue Misto
(Robot, zombie e magie. No, non vi perculo)
 
La prima barricata andò giù come un castello di carte.
La seconda era protetta da una torretta stalker, ma gli zombie avevano già tolto di mezzo i suoi piloti. Torretta e barricata fecero kaput.
La terza aveva due torrette e qualche uomo a difesa. Stessa storia.
La quarta era controllata direttamente dagli zombie.
 
Fermai il landstalker. Questi erano diversi: erano chiaramente più vivaci di quelli che avevamo seminato alle varie barricate. Erano allineati davanti alla barricata e gesticolavano tutti insieme, battendo i piedi e le mani come se stessero danzando.
«Sono dei Sangue Misto.» disse Takami, che guardava nella loro direzione. Sembrava sapere qualcosa.
«Cioè? Cos’hanno?»
«Chaos ha detto solo di ricordartelo.»
Lasciai perdere e tornai a guardare la plancia. L’indicatore sulla consolle segnava che i mortai avevano energia sufficiente. Misi a caricare i colpi. Passarono alcuni istanti di silenzio, poi li rilasciai.
Otto scie di plasma azzurrino divorarono l’aria fra noi e loro. Quattro esplosero sulle sfere quasar, le altre su tutto ciò ch’era nel mezzo: metallo, muschio, robot. Per un po’ tutto fu un’indistinta nuvola di polvere, poi emerse la realtà: nessuno degli zombie era rimasto ferito.
Piedi ben piantati, una mano davanti alle spalle e una verso il cielo, ci fissarono per un ultimo istante, poi con la mano più alta tracciarono un arco verso il basso. Una serie di strisce d’energia si fece ben visibile là dov’erano passate le dita.
«E questo?»
Ad un cenno dell’altra mano le lame partirono tutte insieme a gran velocità.
«Caz–!» Arraffai i comandi e feci fare un salto indietro al landstalker: la macchina arretrò di una ventina di metri, ma fu lo stesso investita da alcuni scossoni. Quando rimise le zampe per terra ci fu uno schiocco terribile e la cabina crollò sul fianco sinistro. Mi misi subito al lavoro sulla consolle, provando a rimetterci in piedi. La macchina non rispose.
«Oh andiamo!»
«L-le gambe...» il braccio destro di Takami sbucò dalle mie spalle per indicare un punto oltre il vetro. Guardai fuori. I monconi giacevano a qualche metro di distanza, tagliati di netto. E quei pazzi avevano già caricato altre lame.
Attivai l’espulsione d’emergenza. Il vetro si staccò e noi venimmo sparati fuori, paralleli al suolo. Le lame d’energia si abbatterono sulla macchina: fu tutto ciò che vidi, poi mi schiantai contro qualcosa e i miei pensieri vennero annebbiati da un dolore atroce.
 
Non li vidi arrivare, ma gli zombie ci raggiunsero. Li sentii camminare; udii i loro passi pesanti che si avvicinavano. Provai a girarmi ma non ci riuscii. Rimasi in posizione fetale, così com’ero. Il mio corpo non rispondeva e non sapevo se era l’effetto della botta o se avevo l’armatura guasta.
Uno di loro mi prese per le caviglie e mi girò sulla schiena. Continuai a rimanere in quella posizione seduta, inchiodato nelle articolazioni e incapace di muovere alcunché. Dovevo sembrargli curioso, perché il robot si sporse davanti al mio visore. Aveva la faccia lunga, di forma cilindrica, con la bocca coperta da una grata.
«Ehi...»
Testa Lunga scomparve dalla mia vista. In compenso, pochi attimi dopo, mi afferrò le caviglie e mi trascinò via. Era forte, a giudicare dalla velocità con cui procedemmo.
Il suolo sotto la mia schiena scricchiolava ad ogni centimetro. C’era della ghiaia. Chissà se mi rovinerà l’armatura.
 
L’intercom scelse quel momento per gracchiare. Crr, crr-crr... Poi, da lontano, arrivò la voce di Clank.
«–et! Ratchet! Mi senti? Takami! Qualcuno risponda!»
«Presente...» biascicai, sentendo la bocca secca e la lingua di piombo.
«Santa radio! Come stai? Non riceviamo più dati dall’armatura!»
«Vuoi dire che è spenta..? È per questo che muovermi è un casino..?»
Breve silenzio.
«...il colpo deve aver messo fuori uso i sensori. Ma lo schianto è stato violento; c’è una possibilità che la tua spina dorsale sia danneggiata.»
Avvertii un brivido. Paralizzato? Io? No. Nossignore, no. Istintivamente cercai di muovere le dita. E quelle risposero (a scatti, ma lo fecero).
«No, è l’armatura che non va. Mi sembra di avere dei supermagneti a inchiodare le articolazioni.»
Intervenne Al: «Allora potresti aver bisogno di metterti in modalità autonoma.»
Perché, non ero già autonomo?
«Diciamo che passerai dalla guida assistita al pilota manuale. Taglieremo qualsiasi collegamento che non sia la radio – tanto i sensori sono già andati. Smetterai di aspettare responsi dal computer centrale: questo farà sì che i microblocchi delle celle z-troniche-»
La punta del tempio comparve all’improvviso sopra la testa del robot che mi trascinava.
«Fantastico Al. Sarà lunga? No, sai, mi stanno portando nel tempio. Lì la radio non prenderà di certo.»
Questo concluse la spiegazione.
«Ripeti i codici che ti dico adesso.»
* * * * * *
Seguii l’istruzione di Al alla lettera, senza chiedermi perché cavolo un comando tanto utile si traducesse in una fila di suoni disarticolati da quarto ceppo.
Intanto il tempio aveva coperto la mia visuale quasi del tutto. Del cielo rimaneva solo un pezzettino visibile ruotando gli occhi al limite estremo. Testa Lunga continuava a marciare spedito, e io continuavo a ripetere i codici.
Quando pronunciai l’ultimo “esegui” era da un po’ che il cielo era stato sostituito dal corridoio tappezzato di muschio. Fu anche l’ultima cosa che udii dall’intercom: la voce di Al, già affievolita dalla scarsità di segnale, sparì del tutto. Ma lo ringraziai lo stesso, casomai il segnale in uscita fosse stato un pelo più forte.
La visiera si sgombrò di tutti gli indicatori e le articolazioni riacquisirono la loro scioltezza. Anche le ginocchia, già. Slittarono in avanti all’improvviso, cogliendo di sorpresa sia me che il robot. Questo si fermò di colpo.
Oh-oh. Sgamato.
Sentii lo stomaco chiudersi. Temetti una reazione violenta – temetti soprattutto che mi affettasse con quella loro lama d’energia – ma non ci fu nulla di tutto ciò. Continuò a tenermi per le caviglie e l’unico movimento che fece fu ruotare la testa di centottanta gradi. Istintivamente lo puntai con la coda.
«Lasciami andare. Subito.» scandii cupamente. Se non avesse obbedito gli avrei staccato la testa.
Lui mi fissò per un istante ancora, senza rendersi conto della minaccia. Poi, con la voce distorta dagli altoparlanti decrepiti, dichiarò: «Non ora. Non qui.»
«Allora shot.»
Avvertii la carica lungo la coda, poi la faccia di Testa Lunga esplose con una vampata bianca e rossa. L’urto ne sbilanciò il corpo, che cadde con il rumore di ferri ovattato dal muschio.
Mi tirai sbrigativamente in piedi, tenendo d’occhio a tratti il corridoio e a tratti il moncone facciale di Testa Lunga. I cavi rotti emettevano un lieve bagliore giallastro. Mi venne in mente Takami, che all’inizio del percorso aveva sparato nelle ginocchia agli avversari sconfitti.
Che fine avrà fatto? – mi domandai, adocchiando la direzione dalla quale ero arrivato. Nessuno in arrivo. Ci avevano divisi, non era buon segno.
Mi incamminai nella direzione dalla quale il robot mi aveva trascinato, sperando nella fortuna di trovare il bivio dove eravamo stati separati. Quel posto era un tempio, no? Era ragionevole credere che non fosse un labirinto.
Ebbi anche la fortuna in cui speravo: c’era una sola biforcazione ed era a pochi metri dall’ingresso. M’infilai alla svelta nell’altro corridoio.
C’era meno muschio per terra, e quel poco che c’era era appiattito dal continuo calpestio. Era il corridoio principale.
«Takami! Mi senti? Se mi senti rispondi.»
Era un tentativo destinato a fallire, lo sapevo ancora prima di aprire la bocca. Ma lo feci lo stesso, e intanto mi inoltrai lungo il corridoio.
«Di’ qualcosa. Fammi capire dove sei.»
Più proseguivo e più la strada si stringeva. E saliva in maniera piuttosto brusca.
«Vengo a prenderti e ce ne andiamo.»
Ma l’intercom rimase in silenzio.
Bizzarramente non mi accorsi per nulla che stavo salendo lungo una spirale. Mi accorsi a malapena che i corridoi si facevano sempre più corti, ma non feci assolutamente caso che le curve (rigorosamente a novanta gradi) erano tutte nella stessa direzione.
Finché sbucai sulla sommità.
La piazzola quadrata aveva quattro pilastrini agli angoli e il gigantesco campo di forza chiamato goal al centro. La parete blu svettava come un faro verso il cielo, ma al suo interno non c’era nessuno. Anche la piazzola era deserta, se si escludevano le telecamere. I loro occhi elettronici zumarono subito su di me, che intanto sbottavo: «Ma come... ero sicuro che fosse venuto su per di qui!»
«Di cosa parli?»
«Che cosa succede?»
Clank e Al, di nuovo in collegamento radio, furono una presenza confortante. «Ci hanno diviso. Non trovo Takami.»
«Non abbiamo mappe del tempio. In teoria avreste dovuto puntare al foro centrale e poi alla cima, rimanendo sempre in vista.» disse Al.
«Ma se risale alle Vertieen Slag come ha indicato Dallas, allora la struttura interna potrebbe essere duplice. Nella maggior parte delle rovine di quel tempo hanno rinvenuto due vie: una che sale e una che scende.»
«Capito, grazie Clank.»
Non persi altro tempo: mi lanciai a ritroso lungo la spirale e imboccai di nuovo il corridoio in cui avevo scoppiato la faccia a Testa Lunga. Raggiunsi i suoi resti e stavolta proseguii lungo la strada.
Arrivai in fondo. Come aveva detto Clank c’era un corridoio simmetrico a quello che saliva, solo che questo scendeva. Mi venne spontaneo un moto d’orgoglio. «Ne sa una più dell’enciclope­dia, eh!»
Imboccai il nuovo corridoio, ma stavolta lo affrontai con più cautela. Avevo un solo colpo nella coda, una manciata d’energia per il fucile a fusione e le vipere. Non potevo caricare eventuali robot a testa bassa.
Procedetti a margine del corridoio, dove il muschio attutiva meglio il rumore dei miei passi. Non c’era luce, ma il casco mi consentiva lo stesso di vedere. E intanto provavo con l’intercom: «Takami, se riesci a sentirmi...»
 
Non so di quanto scesi, ma sono abbastanza sicuro che fosse un dislivello più grande di quello che portava in cima alla piramide. Speculare in tutto e per tutto, la spirale verso il fondo era un imbuto i cui corridoi si accorciavano mano a mano che svoltavo. Finché l’intercom diede segni di vita.
«...so... iamo uc... so i vos... pagni...»
Takami. Quella era la sua voce, non c’era dubbio!
Scattai in avanti, e pace a tutti i buoni propositi.
«... però voi... avete attaccato.»
Curva. Attaccato? Vista la fine del landstalker “attaccato” era parecchio riduttivo.
«Non lo sapevamo! Glielo giuro!»
Altra curva. Cos’era quel terrore nella voce?
«No, di nuovo no, la prego!»
Altra curva. Un sospetto cominciò a formarsi.
Takami urlò di dolore e allora il sospetto si cristallizzò. E fece male.
Resisti piccola. Resisti!
Accelerai. Ma non feci che una sola curva, poi, con un brivido di paura, pestai i piedi per rallentare. Mi fermai in così pochi passi che rischiai di capitombolare in avanti. Il corridoio era bloccato da due colossi meccatronici. E, se loro non fossero stati sufficienti a farmi perdere un battito, davanti al mio naso c’era una bocca da fuoco da ottanta millimetri.
«Fermo dove sei.» recitò il primo, in un quinto ceppo dai suoni antichi.
L’altro gli fece eco: «Mani in vista, miscredente.»
Alzai le mani molto lentamente, e con esse alzai anche lo sguardo dalla mitraglia. Erano a dir poco immensi. Larghi come una navicella, di metallo opaco, uno con occhi di pixel rossi e l’altro di pixel blu. Curiosamente, a lato, avevano delle specie di corna da montone. A cosa gli servivano? Avevano già la contraerea impiantata negli avambracci!
«Chi è il tuo capoguerra?»
Spostai lo sguardo in faccia a Occhi Rossi, che aveva parlato. «Capoguerra?»
Era un titolo abbastanza eloquente, ma il mio cervello per qualche motivo si rifiutava di processarlo. Ovviamente i robot scambiarono il mio tono per ironia, così Occhi Blu decise di rincarare la minaccia appoggiando il cannone direttamente sulla mia armatura.
«Capoguerra, sì. Dicci chi è.»
«Sul serio ragazzi: non so neanche cosa sia.» Passai velocemente lo sguardo da Occhi Rossi al cannone e viceversa. Potevo sentire il cuore rimbombare nelle orecchie.
Furono un paio di secondi lunghissimi, in cui i robot mi studiarono per capire se dicevo la verità. Poi Occhi Blu mi sparò a bruciapelo.
* * * * * *
Mi diedi dell’idiota.
Galleggiando a mezz’aria, immobilizzato da un doppio campo di forza – uno di Occhi Rossi e uno di Occhi Blu – mi diedi due volte dell’idiota. Ci ero cascato con tutte le scarpe: mi avevano fatto intendere che quella fosse un’arma e io non avevo minimamente preso in considerazione che potesse essere un gadget. E invece il cannone da ottanta millimetri era un misto fra un raggio trattore e un campo di contenimento.
Maledetta la fabbrica che li aveva sfornati.
 
Camminavano a passo sincronizzato, scendendo lungo la spirale. Io e la mia prigione eravamo niente più di un palloncino: trascinati senza essere più considerati.
«Il venerabile Udhunn sta conferendo con il sommo Ran’jio. Pare che del venerabile Mitak non ci siano più notizie.»
«Dove l’hanno avvistato l’ultima volta?»
«Fuori. Stava portando nel tempio il contenuto del ragno meccanico.»
Le orecchie tentennarono. Ragno? Il landstalker! Quindi parlavano di me e Testa Lunga: non poteva essere altrimenti, dato che Takami era già in compagnia di vecchi mangia-olio. Mi chiesi come avrebbero reagito scoprendo che avevo staccato la testa al loro venerabile Mitak, e mi risposi che non era il caso di scoprirlo.
«Magari i miscredenti gli hanno teso una trappola. Vedrai che sono interferenze magiche.»
«Uhm. Se è così provo pena per loro. La sua abilità con gli incanti è seconda solo a quella del sommo Ran’jio. Li annullerà.»
Magie, eh? Credici. Sai, io nel grimorio ne ho una chiamata phaser. È potentissima sui robot.
«Non hai ragione di struggerti per dei miscredenti. I nemici dei Sangue Misto devono essere puniti.»
 
Sangue Misto – ecco che il termine spuntava un’altra volta. Quindi Chaos non era solo un’allucinata che sparava balle in grande. Dovevo concedere che aveva delle basi storiche.
Intanto scendevamo, scendevamo, scendevamo... (ma per avere segnale radio non dovevo essere vicino a Takami?). Ogni tanto passavamo in mezzo a delle guardie robotiche, e allora mi beccavo sguardi straniti, arrabbiati o arroganti. Borbottavano velocemente qualcosa, che in vari modi aveva sempre a che fare con la parola “miscredente”. Capii che fosse l’insulto più in voga. Tutto sommato era tollerabile.
 
Alla fine giungemmo davanti ad un portone tutto inciso con ghirigori fosforescenti. A farci la guardia c’era un battaglione di quattro robot. L’unica cosa che li accomunava erano i drappi logori che coprivano i fianchi, poi erano tutti diversi per forme e dimensioni. Quando ci avvicinammo i due più vicini alla porta fecero un passo in avanti. Occhi Rossi e Occhi Blu, fermi, abbassarono la testa.
«Identificatevi.» disse quello di destra.
«Sono Rab Liuk, o Venerabile.» rispose Occhi Rossi. «Costui è Rab Frejir, mio fratello. Abbiamo catturato una spia.»
Il venerabile che aveva parlato mi studiò coi suoi occhi da Wall-E. Assistetti anche alla versione live del gioco di zoom col binocolo. Poi chiese: «Dove lo avete catturato?»
«Alla Stazione della Terza Espiazione. Cercava di raggiungere questo luogo.»
«Potrebbe essere il mortale che Mitak è uscito a prendere? La descrizione del Sommo combacia.» disse il suo vicino, che per la maschera antigas e il numero di cavi che uscivano dalle giunture sembrava uscito da uno di quei vecchi film distopici. Binocolo ponderò l’ipotesi, e alla fine optò per l’approccio diretto.
«Rispondi tu al nome di Ratchet di Veldin?» domandò.
Quella fu una sorpresa.
«Ci conosciamo?»
Mascherina si rivolse ai due che mi tenevano nel palloncino: «Liberatelo. Egli è un fratello mandato dalla Divina in persona.»
Fu una notiziona per i fratelli Rab. Tutti i sistemi di raffreddamento gli si accesero di colpo, facendogli sbuffare aria nella più grottesca imitazione di puzzetta mai vista.
Fu in mezzo a quel bizzarro spettacolo che abbassarono il palloncino-prigione e mi rimisero coi piedi per terra. Sono sicuro che, se fossero stati organici, sarebbero arrossiti fino alle punte dei capelli.
* * * * * *
«Salute e rispetto, Araldo di Chaos.» esordì Mascherina una volta congedati i due. Nel dire quelle parole portò una mano sul petto e fece un piccolo inchino. «Ti preghiamo umilmente di perdonare il loro comportamento.»
Araldo di Chaos?
«Comprendiamo che tu sia confuso; ma adesso sei al sicuro. Siamo alleati, nessuno qui ti farà del male.» asserì Binocolo, alla sua sinistra.
Eh?
Mascherina evidentemente si accorse che cadevo dalle nuvole, quindi ebbe la decenza di indagare un minimo: no, non sapevo dell’alleanza; no, Chaos non mi aveva detto nulla; no, non sapevo della loro guerra. E no, il venerabile Mitak (alias Testa Lunga) non mi aveva ragguagliato sul fatto che fingeva di essermi nemico.
E allora, tra Mascherina e Binocolo, partirono con uno spiegone tremendo. Mi dissero che erano in guerra coi soldati di Vox sin da quando Vox aveva comprato il pianeta. All’inizio avevano provato a parlamentare, ma non era andata troppo bene, per cui erano passati all’approccio killer con chiunque si avvicinasse troppo. Tuttavia qualche mese prima quei porci miscredenti erano riusciti a conquistare la metà superiore della piramide e ci avevano fatto i loro comodi. Loro si erano incazzati parecchio, si erano fatti aggressivi, ma Chaos li aveva fermati dicendo di sigillare la parte inferiore del tempio, fingere di portare avanti la guerra e aspettare l’Araldo.
Chaos, la stessa Chaos che conoscevo, proprio lei.
Loro la chiamavano la Divina. Per me era una pazza indecifrabile ma, siccome la sua era la parola di un essere superiore, loro avevano eseguito. Fino a quel momento. Da lì in poi, secondo Mascherina e Binocolo, io avrei preso in mano le redini della faccenda e cacciato i porci miscredenti.
Decisi di fingere, di stare al gioco. Mi dissi d’accordo. E loro mi fecero entrare nella sala che più gelosamente custodivano.
 
È...wow, non ho parole!, mi dissi facendo un paio di passi al suo interno.
Era tutta ricoperta di simboli perlescenti. Al soffitto galleggiavano delle sfere di fuoco, che si spostavano qua e là tipo fuochi fatui. Faceva caldo. E la luce di quelle strane candele era amplificata dagli specchi ovali che tappezzavano le pareti. Tolsi il casco per non rimanere abbagliato.
«Oh, nobile Araldo, infine sei giunto!»
La voce calamitò lo sguardo al centro della stanza. E mi prese male.
Davanti a me c’era un’armatura DreadZone. Una nera, quindi del grado più alto. Subito pensai che fosse l’ora della boss fight. Il luogo era anche adatto. Poi, però, mi resi conto dello scettro nella sua mano e della stoffa avvoltolata ai fianchi a mo’ del plotone fuori dalla porta. Nessuno dei due era parte dell’armatura.
«Ratchet?»
La voce timida di Takami arrivò a sorpresa dalle mie spalle. Era senza casco e gli occhi erano spalancati in un’espressione incredula. Il sudore le aveva appiccicato i capelli alle guance.
Era... libera. E in apparente buona salute. Mi spiazzò: da come aveva urlato avevo creduto che la stessero torturando.
«Stai bene?»
Lei annuì. Si avvicinò zoppicando leggermente, mi raggiunse, fece per dire qualcosa ma all’ultimo si morse il labbro inferiore e ripiegò. «Il sommo Ran’jio mi ha guarito. Non è cattivo come sembra.»
Guarito? Ma se zoppicava!
Il robot decise di intervenire. «Ci sono danni per cui la mia magia richiede tempo. Non molto, comunque: la giovane Guardiana sarà di nuovo in forma entro la fine della nostra chiacchierata.»
«Chiacchierata?»
«Sono il sommo Ran’jio.» disse, mostrando quell’inchino con la mano sul cuore. «E vorrei perfezionare l’alleanza stabilita per noi dalla Divina.»
 
Oh, questa poi!
«Senta, io la ringrazio davvero, ma le assicuro che non sono stato mandato qui da nessuno. O meglio, l’unico motivo per cui sono qui è perché devo prendere una certa cosa e raggiungere il cerchio blu che avete in cima alla piramide. E se non lo faccio – se non lo facciamo, perché anche la qui presente “guardiana” è coinvolta – il porco miscredente più cattivo del cosmo farà saltare queste belle collane esplosive.»
«La Guardiana mi ha aggiornato.» replicò lui. «Infatti, ciò di cui vorrei discutessimo si può dire un allargamento della missione assegnatavi da quello spregevole individuo. Ovviamente il tutto in cambio di aiuto e supporto. Per citare il mio maestro: una mano lava l’altra ed entrambe lavano la faccia.»
Tacqui.
«Ciò che dovete recuperare si trova nella spirale ascendente.» disse. «Precisamente nella Camera delle Preghiere. Si tratta di un manufatto a forma di scudo.»
«E lei come lo sa?»
«Ho divinato il nemico.» rispose con noncuranza. «Non che ne facesse molto mistero, in ogni caso. Quello è il vostro obiettivo e posso darvi tutte le informazioni utili a raggiungerlo. La mia richiesta – l’allargamento di cui parlavo prima – è che voi distruggiate il cerchio azzurro installato sulla sommità del tempio.»
«Cosa? Ma il goal ci serve! Non lo possiamo distruggere!»
Ran’jio alzò una mano a mo’ di stop.
«Non intendo che lo distruggiate prima di andarvene. Vi chiedo solo di piazzare un piccolo ordigno in un certo posto. Una passeggiata.»
«Mi scusi, ma perché non lo fate voi?»
«Perché il cerchio azzurro è hardware di ultima generazione. Non so in che modo, ma interferisce con il funzionamento dei nostri corpi. Anche di questo, che ha appena quattro anni. Non ci possiamo avvicinare.»
«E con la magia?» domandò timidamente Takami.
Il sacerdote si voltò verso di lei. Mi aspettai una risposta piccata (e anche lei, considerando l’espressione), invece Ran’jio replicò con pazienza paterna: «L’ultimo individuo ad aver posseduto una tale raffinatezza nell’arte magica è stato il mio maestro. Io non sarei abbastanza preciso e non ho avuto l’onore di incontrare la sua reincarnazione. No, l’operazione va svolta manualmente.» Poi si voltò di nuovo verso di me, e al tono paterno si sostituì uno ben più deciso. «Avrete molto tempo per andarvene, prima che avvenga l’esplosione, così nessuno potrà incolparvi. Dopodiché al resto dei miscredenti penseranno i nostri soldati.»
In pratica era una piccola deviazione, no? E io avevo già verificato che la piramide, all’interno, fosse pressoché sgombra. Sarebbe stata una passeggiata, come aveva detto il Sommo.
Il finto semôke lasciò che il discorso sedimentasse per qualche secondo, dopodiché riprese: «Inoltre la Divina ha disposto che vi dotiamo con qualcosa a voi consono. Alla Guardiana ho già provveduto, ma a te... cosa ti farebbe comodo, nobile Araldo?»
«Armi.» risposi di getto. L’armatura si prese il mento, assumendo un’aria da power ranger pensieroso.
«...credo di avere qualcosa per te.»
Dopodiché aprì la mano e cominciò a dire cose in una lingua che non capii. Più tardi – molto più tardi – l’avrei chiamato Idioma. Ma all’epoca mi parve assolutamente incomprensibile. Gli effetti però li vidi: sul palmo della sua mano si formò una pallina luminosa, che cominciò a girare su se stessa, e poi ad allungarsi, allargarsi, prendere forma. In breve la pallina divenne un foglio e poi una busta, la quale volò sopra la mia spalla e dritta attraverso la porta.
«Però. Comodo.» commentai.
«Magimessaggi di millenni fa. Sono sicuro che ad oggi siano molto più evoluti.»
Pensai ai nostri mezzi e non ebbi il coraggio di rispondere.
* * * * * *
Dopo un paio di minuti la porta alle mie spalle si aprì. Ne entrò un robot con un levitatore al posto delle gambe. Fra le braccia stringeva un involto lungo e svasato, che lasciò fra le mani di Ran’jio. L’armatura nera gli fece cenno di andare, e questo s’inchinò e lasciò la stanza a marcia indietro, rapido e silenzioso.
«Vediamo se questa si confà alle tue abilità.» disse Ran’jio, poggiando l’involto sull’unico tavolo presente nella stanza, che fino a quel momento era rimasto sempre dietro di lui. Poi si fece da parte e con un gesto delle mani m’invitò a scartare il regalo.
Io fui molto meno cerimonioso di lui. Presi un angolo dello straccio e lo srotolai rapidamente, finché non scoprii il contenuto. Allora sulla mia faccia arrivò lo stupore. «Un’onnichiave?»
Quella non era una scelta casuale. Non poteva esserla.
E non la era. «La Divina mi ha avvisato anche della tua propensione all’utilizzo di queste.» confessò Ran’jio, senza nascondere la soddisfazione. «Comunque non è l’oggetto che conosci. È una chtanna. Risponderà a te e te soltanto.»
«Chtanna?» domandai, facendo scorrere la mano sul bordo curvilineo della pinza. Notai il meccanismo di energizzazione e le rune incise con una certa maestria su di esso. E sull’asta. E sul manico.
«È tua, che tu accetti di aiutarci o meno.»
Alzai lo sguardo fino ad incontrare il visore oscurato del Sommo. Missione facile e doni. Se non li avessi aiutati, a quel punto, mi sarei sentito una cacca.
Ran’jio ridacchiò, e per la cadenza mi parve di sentir ridere un vecchio. «Aspetta, nobile Araldo. Prima di decidere devi sapere come si usa la chtanna.»
«È un’onnichiave, no? Mica ci vuole una laurea.»
«Non è “una chiave”. È un’arma concepita specificamente per combattere i robot. Ma per vederne il pieno potenziale devi prima farle assaggiare il tuo sangue, così che conosca e riconosca l’energia magica che scorre in te.»
Prego?
«Allora e solo allora compariranno le achta, le “sfere di difesa”. Esse sono le batterie della chtanna, e quando tu identificherai un robot come nemico esse lo penetreranno e gli risucchieranno istantaneamente l’energia, neutralizzandolo e fornendo al contempo energia alla chtanna. Con un po’ di maestria potrai rendere autonome le sfere, e quindi combattere cinque nemici in contemporanea. Quattro saranno debilitati dalle achta, e il quinto sarà preda della chtanna nelle tue mani, sia che tu voglia usarla per sferrare un attacco energetico, sia che tu voglia impiegarla come una banale mazza.»
Galassia, che tentazione. Se avesse funzionato davvero così sarebbe stata decisamente overpower. SE. Ma ero fedele alla scienza, e tutta la questione della magia mi suonava terribilmente discordante.
Però era vero che l’esercito di Catacrom Quattro era passato alla storia come un’incredibile esplosione di violenza anti-robotica. Non ricordavo in quale delle Stragi, ma ero sicuro dell’informazione. Ed ero sicuro che nessuno studioso avesse mai capito come avessero fatto a cavarsela in situazioni di svantaggio numerico quasi intollerabile. Se davvero era merito di quelle chiavi, perché non procurarmene una? Fino a quel momento non avevo trovato neanche un organico!
Cercai lo sguardo di Takami. La bambina, ancora col casco abbassato, mi fissò di rimando senza espressioni particolari. Che mi potevo aspettare, del resto? Mica poteva decidere lei per me.
Poi mi dissi: ehi, hai già stretto un patto con una donna di fumo no? La pazzia l’hai già fatta e la prova sono quelle rune perlescenti che hai sulla mano. E poi ti serve un’arma, fosse anche solo la cara vecchia onnichiave. Accettala e falla finita.
Scelta fatta. Non c’era altro da aspettare.
«Come si attiva questa cosa?» domandai.
«Svita il tappo sotto l’impugnatura.» spiegò subito l’armatura nera. «E versa al suo interno due gocce di sangue. Sarà sufficiente perché la chtanna si attivi e ti riconosca come padrone.»
In pratica era un’arma a riconoscimento biometrico, mi dissi. Questo mi fece sentire un po’ meglio.
Racimolare due gocce di sangue non fu difficile. Quando rimisi il tappo a posto, una dopo l’altra, le rune incise si accesero di rosso e poi di bianco. Impugnai la chiave con un misto di curiosità e diffidenza. Ed eccole! Le achta comparvero sotto l’impugnatura come luminose bolle di sapone. Erano quattro, proprio come aveva detto Ran’jio. Galleggiarono pigramente a mezz’aria, seguendo gli spostamenti che feci fare alla chiave. Allora, incuriosito, impugnai la chtanna sottosopra e provai a toccarne una. Fu come attraversare un ologramma tiepido.
«Adesso nessuno oltre te potrà andare oltre l’uso contundente.» sancì il Sommo. «Tuttavia devi ricordare che le achta non attaccheranno nulla che possegga un’anima. Solo i robot puri saranno affetti da loro.»
«Armature e arti biomeccanici no?» domandai distrattamente.
Ran’jio scosse il casco. «Altrimenti il nemico avrebbe potuto usarle contro di noi.»
«Oh be’, è onesto.» commentai. Menai due colpi contro nemici inesistenti. La chtanna era leggera per la sua lunghezza, eppure non avrei scommesso contro la sua robustezza. Menai un ultimo colpo, poi la puntai delicatamente contro la piastra pettorale di Ran’jio. «Mi hai detto di una bomba. Dov’è che va piazzata?»
* * * * * *
Tornammo al livello del suolo accompagnati dai fratelli Rab e (in via del tutto eccezionale) da Ran’jio.
«...avete capito?» stava dicendo il Sommo. «Adesso accompagnateli alla Sala delle Preghiere e attendete il loro ritorno. Dopodiché fingete una zuffa. Ci saranno le telecamere; deve sembrare che l’Araldo combatta contro di voi.»
«Non temere, o Sommo.» rispose Rab Liuk.
«Gliela faremo bere, a quei miscredenti.» rincarò Rab Frejir.
«Sarà meglio. Altrimenti spiegherete voi alla Divina come mai il suo Araldo e la Guardiana del Fulmine sono entrati fra le nostre schiere.»
Silenzio. All’improvviso i due persero la spavalderia.
«Andate ora.» concluse il robot tutto nero. «E che la Divina vegli su di voi.»
* * * * * *
Ci dividemmo due volte. La prima al pian terreno, poco prima di ritornare nel corridoio in cui avevo disattivato Testa Lunga. Ran’jio ci spiegò di non poter andare oltre, ché se fosse caduto in mano nemica sarebbe stata una disgrazia. La seconda volta, invece, il gruppo si sfaldò più o meno a metà della rampa ascendente. Unico riferimento era una porta murata che al primo giro non avevo notato. Lasciai lì i fratelli Rab e proseguii con Takami.
Come promesso dal Sommo si era ripresa: della zoppìa non c’era più traccia. E questo mi lasciava con un dubbio.
«Hai detto che Ran’jio ti ha guarito.» cominciai appena fummo fuori tiro delle orecchie dei Rab. «Ma guarito da cosa?»
«Male alla schiena. E alle gambe.»
E quando se li era procurati? Con l’eiezione dal landstalker?
«È stato doloroso. Ha detto che se non lo faceva perdevo le gambe.»
«... ti chiedo scusa.» soffiai. «È stata una manovra azzardata. Non avrei dovuto.»
Tacque per una serie di secondi che mi fece pensare ad una sclerata imminente. Invece tutto ciò che disse fu un triste: «Non ti scusare con me. È una regola.»
Almeno non mi diede del lei.
 
Arrivammo in cima alla rampa senza incontrare nessuno. Come aveva spiegato Ran’jio tornammo indietro di tre corridoi e a metà circa cercammo un glifo a forma di rombo. Siccome nella piramide ascendente era buio pesto, per vederlo sfruttammo i filtri del visore del casco.
«Eccolo!» esclamò Takami, rompendo il silenzio.
Mi voltai di scatto. La piccola puntava il dito in alto, contro un glifo aggraziato ma discordante fra i suoi vicini.
«Perfetto. Adesso aspettiamo.»
Annuì.
 
“Quando troverete il glifo premete quelli circostanti che formano la parola “nascosto” ed avrete accesso”.
“Non conoscete i glifi? Ah, poco male. Ve li invierò per magimessaggio. Limitatevi a cercare il primo verso l’alto e premere gli altri in senso orario”.
 
Non aspettammo molto. Una busta d’energia attraversò il pavimento e si fermò davanti alla mia bocca, fluttuando leggiadra. Solo allora mi venne il dubbio di come si aprisse.
Comando vocale? Parola chiave? Tocco?
Rimasi a guardare la posta con aria stranita mentre cercavo di decidere. Poi, dopo qualche istante di puro smarrimento, provai con quest’ultimo. Misi un dito sul sigillo centrale e mi andò di culo, perché la busta si trasformò in un foglio con cinque glifi tondeggianti.
Contento di essermela cavata al primo tentativo, mi avvicinai a Takami per farle vedere il contenuto.
«Okay, guarda, il primo è fatto così...»
 
Li individuammo con un po’ di fatica (quei cosi erano tutti uguali!) e facemmo come ci aveva detto Ran’jio. Uno dopo l’altro i simboli entrarono nel muro come chiavi nelle toppe. Alla fine un meccanismo nascosto tracciò una linea verticale proprio sotto il rombo. I blocchi scricchiolarono per il lungo riposo e poi, ruotando e traslando, si ritirarono ognuno dentro il vicino, allargando uno spazio sufficiente al passaggio di una persona.
Il filtro mi permise di vedere il contenuto della stanza. Armadi. L’intero insieme delle pareti era tappezzato di armadi (ovviamente chiusi).
Sinceramente non avevo intenzione di scoprire se nascondessero qualche scheletro, quindi mi limitai a raggiungere il centro della stanza. Il soffitto era basso, ma io da solo non ero comunque in grado di raggiungerlo. Chiamai Takami.
«Dobbiamo agganciare la bomba lassù.» e le indicai un punto sul soffitto. «Qualche idea su come fare?»
«Posso provare con la calamita.» disse, mimando un’inquadratura per meglio spiegare cosa intendesse. «Solo se vuoi, è ovvio.»
Giusto, la calamita!
«Brava! Bell’idea! Vai, tirami su. Piano però, eh!»
La vidi puntare le mani, pollici e indici uniti. Fu come se una mano invisibile mi spingesse verso l’alto e mi tenesse anche a mezz’aria, a pochi centimetri dal soffitto. Materializzai la bomba datami da Ran’jio. Sembrava un ragno: aveva un corpo semisferico e, intorno, otto zampe per ancorarla. L’agganciai al soffitto e premetti la semisfera. Comparvero dei numeri – numeri che sapevo leggere anch’io, a sorpresa – e vidi con piacere che marcava tre ore. Ran’jio stava mantenendo le parole date.
«Mettimi giù, ora. Dobbiamo finire la nostra gara.»
 
“Quando avrete finito uscite dalla stanza e premete i glifi al contrario. Tornerà tutto come prima. A quel punto non vi resterà che attuare lo spettacolo programmato alla Stanza delle Preghiere”.
 
Tornammo rapidamente indietro. Rab Liuk e Rab Frejir ci aspettavano dove li avevamo lasciati.
«Pronti per lo spettacolo?» ci domandò Occhi Rossi.
Con la coda dell’occhio vidi Takami che annuiva. «Cominciamo.» risposi anche per lei.
I due fratelli dopo un cenno si spostarono davanti alla porta murata. Poi, in sincronia, sembrarono alzare un arco. Un braccio lo alzarono piegato, col gomito all’altezza dell’orecchio. L’altro lo tennero steso, dritto, parallelo al terreno per un istante, poi lo alzarono al soffitto. Borbottarono parole incomprensibili mentre lo riabbassavano, creando ciascuno un arco d’energia del tutto identico a quelli che avevano distrutto il landstalker.
Provai un brivido.
Li vidi ruotare il polso più alto, e le lame partirono. Dritte per dritte, veloci, potenti. Si schiantarono contro il muro ricostruito. Lo penetrarono, lo fecero implodere e frantumare, ma non furono sufficienti a farlo crollare. E allora Occhi Blu mi diede una dimostrazione di ciò a cui servissero quelle corna ridicolmente enormi, caricando a testa bassa ciò che restava del cemento che chiudeva la porta.
Poi Occhi Rossi, dietro di lui, caricò a sua volta con un grido. Abbrancò me e Takami e ci trascinò oltre la soglia sfondata fra polvere, detriti e telecamere.
 
«Wow! Ci chiedevamo dove fossero finiti, ed eccoli qua!»
 
Mi ritrovai con duecento chili di metallo sull’armatura, a strusciare sulla schiena con il muso oblungo di Rab Liuk che gridava come un pazzo a pochi centimetri dal mio naso. Takami, in qualche modo, era ruzzolata ai margini del mio campo visivo, ed ebbi una fugace visione di Rab Frejir che caricava il pugno.
Poi Occhi Rossi decise che non ero uno struscino abbastanza divertente, così mi sollevò per le ascelle e, con una rotazione attorno alla sfera addominale mi lanciò a mo’ di peso atletico contro uno striker.
«Miscredenti bastardi!» tuonò. «Avete profanato il nostro tempio!»
E si lanciò su uno striker che, incautamente, era rimasto troppo vicino.
A quel punto io ero praticamente in braccio al soldato di Vox (che di certo non era lì per farmi supporto!). Con un movimento rapido del braccio materializzai la chtanna e gliela conficcai alla base del collo, nella fessura tra le piastre del collo e il torso. Le achta gli entrarono nell’armatura come fantasmi e nel momento in cui mi lasciò, forse per portare le mani là dove la pinza stringeva, lo vidi spegnersi in modo strano, quasi come se le batterie gli si fossero scaricate.
 
«Oh no! Questa è una pessima notizia per coloro che hanno scommesso sulla loro morte!»
«Sembravano soldi facili, eh? Invece pare proprio che dovrete pregare un po’ di più.»
 
Takami sfruttò la calamita per allontanare Rab/Occhi Blu e sgattaiolare via. Una scarica di phaser mi piombò addosso. I colpi venivano da uno striker a ore tre, sfuggito all’ira dei fratelli robotici. Scattai in avanti. Corsi radente il muro, lasciando che lo striker incidesse sulla pietra una scia di fori appena dietro la mia coda.
Avevo l’adrenalina a mille. Saltai di lato, contro il muro, e rimbalzai dritto verso quel robot maledetto, chtanna in pugno, desideroso di frantumargli qualcosa. Braccia, gambe, non importava cosa. Doveva smettere di spararmi addosso, solo quello contava.
Gli arrivai addosso e calai la chtanna come fosse un’accetta, caricandola di tutto il mio peso. Contemporaneamente una della achta gli entrò nello stomaco, e quello – esattamente come il suo collega – si spense.
La protezione offerta dall’armatura doveva essere a livelli bassi. Al mi avrebbe dovuto urlare di tutto e di più, ma non si sentiva. Un guasto dell’intercom? Un’interferenza voluta? Non lo so. Lì per lì non ci badai.
«L’ho preso!»
La voce artificiale di Takami, sdoppiata da un guasto, si fece largo attraverso l’intercom. Vidi che teneva in mano una specie di grosso distintivo verde. Fu un attimo, perché quello svanì nel guanto della bambina. E l’attimo dopo il Rab dagli occhi blu, accortosi che non lo teneva più al largo con la calamita, la caricò a testa bassa.
Agii prima di pensare. Lo puntai con la coda e gridai il comando. Il phaser saettò da un capo all’altro della stanza e lo penetrò all’altezza dei reni, centrando il circuito primario di movimento.
L’altro Rab, unico rimasto oltre a noi del Team Darkstar, interruppe lo smembramento degli ultimi striker. Si alzò urlando – un urlo roco, quasi organico – e si avventò su di me.
Non avevo il tempo per materializzare niente. La chtanna non avrebbe funzionato su di lui. E il corpo a corpo... dai, siamo realisti. Avevo in fronte l’etichetta “fottuto”.
Occhi Rossi mi abbrancò come una bestia inferocita e mi spinse a terra. Istintivamente portai le ginocchia in alto e lo allontanai piantandogli i talloni nel ventre. Ma non avevo considerato la stazza enorme del robot, che mi raggiunse lo stesso con un pugno (o un maglio?) che ammaccò indelebilmente il casco.
Lo guardai caricare il secondo e alzai le braccia. Quando calò il colpo mi ritrovai con gli avambracci schiacciati contro il casco. Un orrendo crack mi annunciò che alcune piastre erano saltate.
Se avesse continuato per quella strada, accordi o no, chissà come mi avrebbe ridotto. Ma, con mia sorpresa, intervenne proprio quel budino di Takami. Usò la sua ormai famigerata capacità di magnete per sbalzarci via, lontani uno dall’altro.
«Via, via!» esclamò; la voce incrinata dall’intercom guasto.
Mi indicò l’esterno della piramide, prima di sgattaiolare fuori dall’enorme buco-finestra.
«Aspetta!» Mi rialzai a fatica. Le cosce dolevano e le braccia erano pesantissime. Non sarei riuscito a scappare a lungo in quello stato. Cercai il robot con gli occhi. Era già in piedi, appoggiato alle macerie. Sembrò alzare un arco...
Gelai.
Abbassò il braccio, generando la lama d’energia.
Materializzai la prima arma rimasta a disposizione nel guanto. Non la guardai neanche. La riconobbi al tocco e stavolta la imbracciai a due mani.
Torse il polso. Premetti il grilletto.
La lama mi raggiunse in tempo zero. Si schiantò contro le fibre rinforzate delle piastre, le scalfì, le penetrò, le frantumò da dentro. Avvertii una lunga striscia bruciare dalla spalla alla coscia. Caddi in ginocchio. Il fucile a fusione mi scivolò dalle mani e stridette picchiando al suolo, un binario integro e l’altro in pezzi, un po’ come la testa di Occhi Rossi, accasciato dall’altra parte della stanza.
 
“Gliela faremo bere bene, a quei miscredenti.”
“Sarà meglio. Altrimenti spiegherete voi alla Divina come mai il suo Araldo e la Guardiana del Fulmine sono entrati fra le nostre schiere.”
 
...seh, come no. Miseria, che male... anche respirare...
 
«Oooohhh!!! Che ci siano riusciti? Che gli zombie siano riusciti laddove i nostri striker hanno fallito?»
«Dovremmo pagare loro anziché questa ferraglia importata!»
 
Heh! Nei denti che crepo qui!
Strinsi il pugno e feci appello a tutte le energie rimaste. Fu un tormento: pareva di avere il fuoco nei muscoli. Ci misi tempo, ma mi rialzai. E in qualche modo – barcollando, incespicando, costringendomi a muovere le gambe – arrivai al buco quadrato, con una nuvola di telecamere che mi inquadravano da tutte le angolazioni.
Sperai che la radio funzionasse ancora. «Taka-ugh...»
Non finii nemmeno il nome per il male che quella ferita faceva. Ma Takami, che aveva sentito lo sparo, era già vicina alla finestra. Sbracciava, ma non sentivo niente. Sicuramente avevo la radio rotta.
Mi fece un cenno che non capii, poi la vidi unire pollici e indici. Allora annuii: qualunque cosa avesse in mente andava bene, pur di arrivare al goal.
Non fu delicata. Non lo fu per nulla. Fece passare un mio braccio sopra le spalle e mi tirò all’esterno, dritto sull’orlo del gradone. Sentii l’armatura sfrigolare leggermente, poi cominciammo a levitare. Ma non per gli hoverboot (e tanto meno per capacità esper): la piccola sfruttò l’elettromagnetismo per muoversi a zigzag, parallela ai lati dei gradoni, salendoli pur rimanendo a un palmo di distanza dalla pietra.
 
«Non ci credo! Stanno salendo in santa pace! Hanno una fortuna sfacciata!»
«Eh, Juanita, lo dovresti sapere che i bari sono maestri nel manipolare la fortuna! Ma DreadZone è anche questo! Fortuna!»
«Proprio adesso si sta sviluppando una battaglia alla base del tempio. Gli zombie si sono gettati in massa sui nostri combattenti e questa pare essere proprio un’occasione ghiotta per il Team Darkstar, che se la svigna alla chetichella!»
«Buuu! Codardi! Bar–ouch! Perché mi hai colpito?»
«Datti un contegno, Dallas!»
 
Chetichella? Svignarmela? Io avrei combattuto se fossi stato in altre condizioni. Ma in quelle... be’, in quelle era onorevole anche finire così.
Salimmo piano piano, un gradone alla volta. Una volta in cima Takami levitò fino al limitare del goal, poi ci rimise coi piedi per terra. Caricare nuovamente il peso sulle gambe mi portò un violento capogiro, ma in qualche modo riuscii a compiere quell’ultimo passo.
Entrare nel goal fu magnifico. Non tanto per l’effetto scenico (che fu solamente un passo), quanto piuttosto a livello mentale. Mi sentii soddisfatto. Mi sentii al sicuro. Mi sentii di essere arrivato in fondo a una maratona pazzesca.
Ero sopravvissuto.
A strozzare quell’infame di Dallas Wanamaker ci avrei pensato un altro giorno.

È il 21 dicembre, cari lettori. Non credo che aggiornerò altro entro l’anno nuovo, dunque ne approfitto per farvi gli auguri di buone feste e buon anno!
Alla prossima!
Iryael

 

   
 
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