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Autore: Chipped Cup    24/12/2017    1 recensioni
[ One Shot | Johnlock | inspired by Doctor Who, A Christmas Carol ]
La one shot segue solamente la linea generale della puntata indicata, può essere letta benissimo anche da chi non segue la serie.
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Mycroft sospirò, posando la sua tazza nel piattino di ceramica. «Potrebbe essere il tuo ultimo Natale» disse, a bassa voce, come se avesse il timore di farsi sentire.
«Togli quel potrebbe, Mycroft, non c'è bisogno di indorarmi la pillola. È il mio ultimo Natale su questo mondo, altra ovvietà. Vuoi dirne una terza?»
«Sherlock, per l'amor del cielo!» Sbottò l'altro, ricomponendosi subito dopo. Sherlock voltò lo sguardo da un'altra parte, scocciato, ricordando forse un bambino capriccioso – cosa che, con ogni probabilità, agli occhi di suo fratello era sempre stato. «Desideri vederlo?»
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il mio terribile modo di augurarvi buon Natale!


One last day with your beloved



Could you do this? Think about it, Doctor.

One last day with your beloved. Which day would you choose?”

Doctor Who, A Christmas Carol


23 dicembre 2017


La lettera era ancora lì, aperta sul tavolo, impegnata a guardarlo malefica con i suoi occhi scuri invisibili. Era arrivata circa tre ore prima, un regalo di Natale in anticipo; Sherlock l'aveva aperta senza troppe aspettative, vi aveva dato un'occhiata veloce e l'aveva poggiata sul tavolo in salotto, senza degnarla più di un solo sguardo ma con le parole che conteneva a gravargli sul cuore.

Quasi simultaneamente, era arrivato suo fratello, Mycroft, che, come lui stesso aveva immaginato, era già a conoscenza di ogni cosa. Gli aveva mormorato parole che lui non voleva sentire e alle quali non prestò particolare attenzione. Gli dispiaceva, diceva (vero), il medico era un incompetente (falso, era il migliore nel campo e arrivato addirittura dall'America), avrebbe trovato un altro (inutile, non avrebbe portato a risultati migliori), non si sarebbe arreso – un peccato, si disse Sherlock, che per quanto avesse un rapporto complicato con suo fratello, non voleva vederlo consumato in quell'impresa impossibile.

Non lo aveva degnato di uno sguardo, comunque sia, e non aveva aperto bocca, ritenendo fosse inutile sprecare del fiato prezioso: Mycroft non gli avrebbe mai dato ascolto, continuando a fare di testa sua. Quando ebbe finito di contemplare il panorama che la finestra che si affacciava dal primo piano di un vecchio e disordinato appartamento nel centro di Londra gli offriva, si voltò scoprendosi solo, in quella stanza semibuia, con la sola compagnia di quella miserabile lettera.

Non si domandò neanche da quanto tempo Mycroft lo aveva lasciato, era un'informazione inutile, piuttosto tornò a guardare per la prima volta quella pagina bianca macchiata d'inchiostro. Era ancora lì, messaggera di morte; non lo abbandonò neanche dopo che le sue ceneri si ritrovarono sparse nel camino.


24 dicembre 1987


Sherlock non aveva il permesso di scendere nello scantinato della villa di famiglia, ma nei suoi nove anni aveva trovato più volte il modo di impietosire suo padre a tal punto da permettergli di assisterlo durante i suoi esperimenti. Sherlock amava la chimica, ma sua madre riteneva che certi strumenti ed elementi non fossero oggetti da lasciare nelle mani di un bambino della sua età, per questo più volte gli aveva severamente proibito di mettere piedi nel suo laboratorio. Suo padre, tuttavia, era un uomo che cedeva facilmente agli occhi dolci di suo figlio – Sherlock aveva imparato come inumidirli a tal punto da simulare l'antifona di un pianto, e il bambino non si faceva il minimo problema nell'approfittarsene.

Con il tempo, comunque, un'altra stanza aveva riscosso la sua attenzione, suscitando in lui non poca curiosità. Mr Holmes si vedeva bene dal chiuderla a chiave ogni volta che vi andava e veniva e Sherlock, nonostante i numerosi tentativi, non era mai riuscito a scovare dove la tenesse nascosta. Almeno fino alla vigilia di Natale 1987.

Sua sorella gli aveva rovinato ogni divertimento distruggendo i suoi giochi preferiti e, soprattutto, facendo la spia con i genitori in merito alla sua amicizia con Victor Trevor. Il Signor Trevor e la Signora Holmes avevano parecchie dispute in corso da anni, dispute che avrebbero voluto vedere tramandate ai loro figli coetanei. Ma purtroppo per loro, Victor si era scoperto un ragazzino molto sveglio, Sherlock amava la sua compagnia e si ritrovavano molto spesso nel loro 'luogo segreto' a giocare insieme fingendosi dei pirati temuti e pericolosi. Ma Eurus, più piccola di Sherlock solamente di quindici mesi, era gelosa di Victor e aveva fatto in modo di sbarazzarsene.

I genitori di entrambi, in quel momento, si trovavano chissà dove, a discutere su vecchie faide e a crearne di nuove. Mycroft li teneva d'occhio come poteva, ma fattosi ormai tardo pomeriggio e presumendo che Mamma e Papà sarebbero stati di ritorno a momenti, chiese ai due bambini di non fare troppa confusione e lasciarlo studiare e lavorare ad una ricerca che aveva portato avanti per tutte le vacanze di Natale. Eurus era corsa a tormentare Redbeard, il cucciolo di Sherlock, con l'unico scopo di fare un dispetto al bambino. Sherlock l'aveva ignorata, sapendo che quello era l'unico modo per ferire sua sorella, ed era andato in biblioteca, a cercare qualcosa da leggere.

In seguito, si domandò più volte cosa avesse causato una tale svista da parte del Signor Holmes, quale colpo di fortuna avesse fatto in modo di fargli riporre malamente un grande tomo di pelle color marrone chiaro, catturando così l'attenzione di Sherlock che afferrò il volume senza troppe cerimonie, trovandovi dentro nient'altro che pagine private del loro cuore, guardiane di una chiave di ferro leggermente arrugginita nei margini. Gli ci volle poco per capire cosa aprisse; emozionato l'afferrò e la nascose nella tasca dei suoi pantaloni, prima di riporre il libro al suo posto con attenzione, proprio mentre l'auto dei genitori attraversava il vialetto, avvertendolo di dover rimandare la visita nella stanza misteriosa almeno per un altra manciata di ore.

L'attesa parve infinita mentre, seduto a tavola con il resto della famiglia, osservava lo scorrere del tempo, speranzoso di sentire presto i suoi genitori mandare tutti a dormire così da non farsi trovare svegli da Babbo Natale. Era una cosa stupida, se non avesse avuto altro per la testa avrebbe sicuramente espresso quel pensiero ad alta voce, ma finse di credere all'esistenza di un uomo sconosciuto, anziato, barbuto e pancione che sarebbe riuscito a calarsi dal camino per riempirli di regali. Una volta nella sua camera prestò attenzione al minimo rumore intorno a lui e, soltanto quando fu certo che anche i suoi genitori fossero andati a dormire, sgusciò fuori e si precipitò nel seminterrato.

Non sapeva bene cosa aspettarsi, immaginava si trattasse di un progetto di massima segretezza considerando la posizione dei suoi genitori nel governo Britannico – Mycroft lo ammorbava quotidianamente riguardo le sue prospettive di seguire le loro orme – ma di certo non avrebbe mai pensato di ritrovarsi davanti uno spettacolo del genere: decine e decine di persone prive di sensi e rinchiuse in delle sottospeci di enormi incubatrici, riempivano interamente la stanza rendendola in qualche modo fredda e lugubre.

Sherlock si sentì incredibilmente a disagio forse per la prima volta nella sua breve vita, rimase pietrificato e per un secondo, solamente per un secondo, fu terrorizzato da quello che aveva davanti e da quello che poteva significare. Si riscosse subito, comunque, seppur contrariato dalla vista di quelle persone di ogni età tenute in quel modo. Ma doveva fidarsi di sua madre e di suo padre, si disse poi, erano delle brave persone e non avrebbero mai voluto far del male fisico a qualcuno.

Camminò piano, tra quei corpi dormienti, un'incredibile numero di domande gli affollavano la testa, era desideroso di sapere chi fosse quella gente e perché si trovasse lì, se avessero fatto qualcosa di male o se tutto quello fosse fatto a fin di bene e per la loro salute, cercò di capire se fossero al centro di qualche strano esperimento, se ne fossero al corrente e se fossero consenzienti. E poi, per quale motivo venivano nascosti in casa loro?!

Sapeva che non avrebbe potuto formulare quelle domande né a suo fratello né ai suoi genitori, avrebbe dovuto ammettere di essere sgattaiolato in quella stanza proibita nel cuore della notte e dopo aver rubato la chiave di suo padre. No, non poteva avere delle risposte, almeno non da loro, non ora. Ma poteva provare a chiedere a – la sola idea gli suonava incredibilmente sbagliata e folle, poteva provare a chiedere a una di quelle persone.

Continuò ad avanzare di pochi passi, alla ricerca di qualche faccia interessante o un dettaglio in particolare che catturasse la sua attenzione, non sapendo bene con quale criterio scegliere. Poco lontano da lui notò un ragazzo, non molto più grande di lui, decise di tentare credendo che un adulto non gli avrebbe mai dato ascolto – probabilmente. Quando gli fu davanti, però, i suoi occhi si posarono sull'uomo alla destra del ragazzo: corti capelli biondo scuro, un'espressione stanca anche nel sonno, un maglione color panna dal dubbio gusto, dei jeans comodi e delle scarpe abbastanza consumate e scadenti. Uno schermino, al suo fianco, segnava il numero 16. Solamente 16. Sherlock fissò il numero per pochi secondi domandandosi cosa significasse: non poteva essere la sua età (quell'uomo doveva almeno avere 40 anni), così come non si trattava di un numero di successione (il ragazzo alla sua sinistra riportava il numero 47, mentre l'anziana signora alla sua destra il 4). Non riuscendo a risolvere quel puzzle con così pochi indizi, Sherlock poggiò la sua piccola mano sulla maniglia di ferro dell'oggetto e, dopo un piccolo, misero, istante di incertezza, si decise ad aprire.

Non successe niente di eccezionale, nessuna nuvola di fumo comparsa dal nulla, nessun rumore sinistro, nessuna luce che cominciava a lampeggiare all'improvviso come si vedeva nei film. Sherlock non si aspettava niente del genere, comunque. L'uomo rimase immobile per pochi istanti, tanto che il bambino cominciò a credere che fosse tutto inutile e che non sarebbe stato così semplice svegliarlo, ma poi i suoi occhi catturarono un leggere movimento di palpebre e, poco dopo, l'uomo era lì, a sbattere le ciglia per cercare di mettere a fuoco le cose che aveva intorno.

«È già ora?» Domandò subito, ancora frastornato, la nota speranzosa si confuse appena tra la sua bocca secca. Gli angoli delle labbra gli si incurvarono verso l'alto, gli occhi blu si illuminarono, si guardarono a destra e poi a sinistra e solamente alla fine, non trovando nessuno altro, incrociarono quelli di Sherlock, dopo che l'uomo ebbe abbassato lo sguardo, leggermente spaesato. «Oh» mormorò, sorpreso «ciao. Chi sei?» Gli chiese, gentile, nonostante la confusione.

«Sherlock Holmes» rispose il bambino, dandosi una certa aria di importanza, volendo forse mostrarsi più grande di quello che in realtà era. «Perché sei chiuso qui dentro?» Dritto al punto, inutile perdere altro tempo.

L'uomo parve colto impreparato, sbatté più volte le ciglia con un'espressione scombussolata, piccole rughe cominciarono a disegnarglisi sulla fronte e sotto gli occhi. «Beh, Sherlock, la definirei una storia piuttosto lunga» pronunciò infine, facendo contrarre il viso del bambino in una smorfia, evidentemente infastidito dalla mancata risposta. Come aveva pensato, agli adulti piaceva girare intorno alle questioni importanti, credendo che i più piccoli non avessero abbastanza sangue freddo da reggere certe notizie.

«Da quanto tempo sei qui?» Gli chiese subito dopo, senza dargli neanche il tempo di aggiungere qualsiasi altra cosa, supponendo fossero domande inutili. L'uomo parve impensierirsi.

«Che giorno è oggi?»

«24 dicembre 1987» rispose il ragazzino, senza batter ciglio «quasi 25, ormai.»

«È la vigilia di Natale?!» Fece l'altro sempre più sbigottito, ignorando senza volerlo la reale domanda che gli era stata posta. «1987, hai detto, quindi sono... Cristo!» Esclamò, portandosi rapidamente una mano sulla fronte e, in seguito, sulla bocca. «Scusami» sussurrò, pensando stupidamente che lui potesse in qualche modo sentirsi offeso o scandalizzato. «Sono qui da quasi tredici anni, quando ho accettato di ritrovarmi in questa posizione era gennaio del 1975.»

Seguirono attimi di silenzio, era chiaro come all'uomo servisse più di qualche minuto per accettare così su due piedi il passare di tutti quegli anni. Sembrava deluso, forse si aspettava di veder conclusa quella faccenda, di qualunque cosa si trattava, in un periodo di tempo più breve, e soprattutto di non essere costretto a risvegliarsi dopo più di un decennio. Sherlock, nel frattempo, fremeva dalla voglia di tempestarlo di domande, ma capì che non avrebbe mai ricevuto delle risposte, non quel giorno. «Come ti chiami?» Gli chiese, piuttosto.

L'uomo si riscosse dai suoi pensieri. «John. John Watson» gli rispose, simulando un piccolo sorriso gentile.

«John» memorizzò il ragazzino, a voce alta. Incredibilmente, avvertì le sue stesse labbra distendersi allegre, senza che quasi se ne accorgesse. «Ti va di uscire di qui e vedere com'è cambiata Londra in questi tredici anni?»

Non seppe mai spiegarsi come aveva fatto quella richiesta ad uscire fuori dalla sua bocca, così come non si spiegò cosa spinse John Watson, appena risvegliato da un sonno durato per ben 13 anni, ad annuire appena con il capo, prima di dirgli: «Mi piacerebbe molto, Sherlock.»


24 dicembre 2017


Era grato del fatto che Mrs Hudson fosse fuori città da sua sorella e dalla sua famiglia. Non era dell'umore adatto per averla intorno, lei e la sua smisurata gioia e gentilezza (che aumentavano, tra l'altro, sotto il periodo natalizio), non era dell'umore adatto di vedere nessuno, in effetti. Se ne stava lì da 24 ore, aveva suonato il suo violino quasi ininterrottamente, osservando a malapena la pioggia invernale che andava ad infrangersi contro il vetro della sua finestra. Mycroft aveva provato a contattarlo più volte, ma non si era presentato a Baker Street, capendo che suo fratello preferiva restarsene da solo – vederlo era l'ultima cosa che Sherlock voleva al momento. Non sapeva se Eurus fosse a conoscenza delle sua attuali condizioni, non avevano rapporti da quasi vent'anni ormai e Mycroft a malapena pronunciava il suo nome in sua presenza, ma poco gli importava, comunque, non era lei che voleva vedere un'ultima volta prima della fine.

Era lui, era sempre stato lui. John non lo aveva mai abbandonato per tutto quel tempo, era sempre rimasto al centro dei suoi pensieri. Come un'ombra, camminava con lui tra un caso e l'altro, senza lasciarlo neanche nei momenti più pericolosi; era al suo fianco in ogni attimo della giornata, immaginava la sua voce una volta nel suo appartamento vuoto, durante i pasti o prima di andarsene a dormire; suonava per lui, anche inconsciamente, ogni suonata era per lui e lui soltanto. Per John, per i suoi occhi, per la sua risata, per i suoi modi gentili e allegri nonostante tutto, per il suo modo di rimproverarlo ogni volta che diceva o faceva qualcosa di socialmente poco accettabile, per il suo buon umore, per il sorriso che gli rivolgeva, caldo e intenso.

Era crudele il destino che era capitato loro. Era crudele il fatto che John fosse l'unica persona di cui avesse bisogno, ma l'unico che non avrebbe mai più potuto rivedere. Non senza ucciderlo lui stesso.


25 dicembre 1993


John si era poi riaddormentato in quell'assurda macchina, la vigilia di Natale del 1987: avevano concordato, con Sherlock, di passare la giornata di festa insieme dato che il bambino, dopo la storia con Victor, non aveva la minima intenzione di restare con la sua famiglia a fingere che non fosse successo niente. La mattina dopo, quindi, Sherlock era sceso nello scantinato, in casa dormivano ancora tutti, ed aveva svegliato John, dandogli il tempo necessario di sgranchirsi un po'. Aveva lasciato un biglietto per i suoi genitori in salotto, dove li avvertiva che sarebbe tornato quella sera (era un ragazzino sveglio, per i suoi 9 anni, e tutti lo lasciavano fare liberamente a patto che tornasse prima che facesse buio).

Sherlock e John avevano passato insieme quel Natale, così come i successivi sei. John aveva visto Sherlock passare dall'infanzia all'adolescenza nel giro di una settimana, e la cosa gli aveva procurato non pochi problemi – aveva sempre bisogno di una decina di minuti per realizzare che il tempo, mentre lui restava congelato nella sua bolla, scorreva normalmente nella vita di tutti i giorni.

Quei sette Natali si erano svolti sempre allo stesso modo: Sherlock si svegliava di buon mattino, prima di tutta la sua famiglia per non rischiare di essere beccato; lui e John passavano la giornata nei luoghi più belli di Londra, passeggiando tra parchi e strade meravigliosamente addobbate per l'occasione; quando il sole cominciava a tramontare tornavano a casa, utilizzavano l'entrata posteriore e John tornava a dormire per un altro anno, mentre Sherlock fingeva poi di entrare dalla porta principale. Non erano mai stati beccati, complice il fatto che, mentre rincasava, i suoi genitori e i suoi fratelli erano soliti trovarsi nella grande biblioteca al secondo piano, riuniti tra giochi di società e attività simili.

Sherlock non aveva più fatto caso al numero che contrassegnava John che sette anni prima aveva catturato la sua attenzione. Non voleva più farci caso, a dir la verità, inconsciamente la sua mente evitava ai suoi occhi di posarvisi sopra per evitargli spiacevoli sorprese. Avrebbe notato, altrimenti, come quel numero 16 fosse diventato un 15, poi un 14 e ancora un 13 e un 12 e ancora un 11, mentre tutti gli altri numeri intorno a lui erano rimasti gli stessi. Avrebbe intuito, altrimenti, avrebbe dedotto e infine avrebbe capito, probabilmente interrompendo così ogni rapporto con John Watson prima che quella assurda infatuazione che aveva cominciato a nutrire nei suoi confronti potesse lasciarlo insonne nelle ultime vigilie di Natale, emozionato alla sola idea di rivederlo.

Quella giornata si era svolta allo stesso modo, Sherlock aveva riaccompagnato John facendolo entrare nella macchina, i visi di entrambi ancora infreddoliti dalle temperature invernali.

«Ci vediamo il prossimo Natale, John» aveva mormorato il ragazzo, ogni anno si faceva sempre più difficile lasciarlo andare.

«A domani, Sherlock» rispondeva l'altro, stupito di sé stesso, che in quel piccoletto – che in realtà cominciava ad alzarsi e ben presto sarebbe stato più alto di lui – aveva trovato un fratello minore da prendersi cura, un amico di trentanni, anno più anno meno, più piccolo di lui. John si addormentò all'istante, Sherlock sospirò appena, vergognandosi subito di se stesso, prima di uscire dalla stanza. Ma lì si pietrificò di botto: suo fratello Mycroft lo aspettava paziente, le mani dietro la schiena, un'espressione seria e scura in volto. Era ancora più alto di lui, questo gli concesse di poterlo guardare dall'alto in basso, studiando ogni suo movimento.

«Passato una piacevole giornata, fratello caro?» Lo apostrofò come prima cosa, con voce sarcastica. Sherlock lo fulminò con lo sguardo, restò in silenzio non avendo la minima intenzione di rispondere alla sua domanda o di giustificarsi con Mycroft, e passò oltre, desideroso di chiudersi in camera. «Credevi davvero di farla scampa, imbrogliandoci per tutti questi anni? Mamma e papà non ci fanno caso, te lo concedo, ma pensavi davvero che io non ti avessi tenuto d'occhio per tutto il tempo?» Sherlock continuò a camminare via e a dargli le spalle, il cuore che gli martellava nel petto. Ancora, non una parola uscì dalla sua bocca, sperava in questo modo di scamparla, ma il fratello gli andò dietro, con passo lento. «Ti ha detto cosa ci fa, rinchiuso lì dentro?» Sherlock si fermò, serrò i pugni e chiuse gli occhi. La verità non gli sarebbe piaciuta, lo sentiva, la temeva, l'aveva sempre temuta, fin da bambino. Era stato uno sciocco a pensare che non gli sarebbe mai arrivata dritta in faccia come uno schiaffo. «Sta morendo, Sherlock» sentenziò Mycroft, la voce questa volta più dolce, gli occhi bassi, dispiaciuto.

Sherlock si voltò verso di lui, sconvolto. Lo stava prendendo in giro, era uno stupido scherzo per dargli una lezione per tutti quegli anni di bugie. «Cosa hai detto?»

Mycroft gli si avvicinò posandogli poi una mano sulla spalla. «Sta morendo, stanno tutti morendo» Sherlock lo guardò dritto negli occhi, incapace di capire, eppure aveva tutti i pezzi, tutte le informazioni necessarie, lì davanti a lui, unirli era semplice, un gioco da ragazzi. Ma non voleva, continuava stupidamente a fuggire dalla verità, nonostante desiderasse più di ogni altra cosa saperla. «Si tratta di un progetto della massima segretezza, Sherlock, non devi farne parola con nessuno» il ragazzo non rispose, Mycroft lo interpretò come una promessa silenziosa. «Le persone che vedi in quella stanza, hanno tutte meno di un anno di vita. Hanno acconsentito a farsi addormentare, o congelare, come preferisci chiamarlo, in attesa che vengano trovate delle cure per i loro mali. Questa ricerca va avanti da più di vent'anni ormai, nostro padre l'ha cominciata e un giorno toccherà a noi portarla avanti. Sono stati fatti incredibili passi avanti, negli ultimi anni, anche se siamo ancora lontani dai risultati sperati.»

«John è... malato?» Il suo cervello sarebbe potuto scoppiare da un momento all'altro, il cuore era incontrollabile, il fiato spezzato. Si impose di non cedere agli occhi lucidi, non davanti a suo fratello, non avrebbe potuto permetterlo.

«Sì, suppongo. Avrai notato il numero sulla sua incubatrice, vero? Equivale ai giorni di vita che gli restano – non molti, a questo punto. Sherlock–»

«No» esclamò il ragazzo, coprendosi il volto con le mani. Aveva capito, quello che Mycroft gli stava dicendo e quello che lui stesso stava facendo. Lo aveva capito, ma non voleva sentirselo dire, sarebbe stato reale, sarebbe stato devastante.

«Sherlock» ripeté Mycroft, paziente «lo stai uccidendo.»

Corse via, Sherlock, andò a rinchiudersi nella sua camera dove ne sarebbe uscito solamente tre giorni dopo, vinto dalla fame e stanco di sentire sua madre battere continuamente contro la sua porta, preoccupata. Non avrebbe mai più rivisto John, aveva preso subito quella decisione, con il cuore spezzato. Non sarebbe mai più andato a svegliarlo, come avrebbe potuto? Gli restavano solamente 10 giorni di vita, non sarebbe stato tanto egoista dal consumarglieli tutti.


25 dicembre 2017


Nonostante le finestre chiuse, Sherlock riusciva ad udire perfettamente i bambini in strada intenti a cantare canzoni di Natale. Era annoiato, ancora in pigiama e vestaglia blu, se ne stava sprofondato nella sua poltrona, in attesa che succedesse qualcosa. Solitamente la criminalità non si fermava a festeggiare il Natale, solitamente passava la giornata a risolvere casi minori di Scotland Yard (era il regalo di Lestrade) oppure sceglieva i casi più stupidi e semplici che i clienti gli mandavano via email (era il suo regalo per loro). Quest'anno sembrava, invece, che ogni criminale si fosse preso un giorno di pausa per starsene con la famiglia. Cosa che lui non aveva la minima intenzione di fare, nonostante i numerosi appelli di suo fratello – che non aveva smesso di tempestarlo di chiamate nemmeno per un'ora nelle ultime 24.

Improvvisamente sentì il motore di una macchina parcheggiare proprio sotto il suo appartamento. Si alzò dalla poltrona appena in visibilio, speranzoso di veder comparire Lestrade, o Donovan, o persino Anderson, chiunque purché si presentasse con qualche furto, qualche sparizione, qualche sequestro, qualche omicidio.

L'entusiasmo si spense facilmente, però, vedendo la solita auto nera che usava Mycroft per farsi scarrozzare in giro per l'Inghilterra. Un istante dopo la testa di suo fratello comparve fuori dalla portiera e, poco dopo, il suono dei suoi passi riempirono l'atrio d'ingresso, annunciando il suo arrivo. Sherlock alzò gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente mentre andava in cucina a mettere su l'acqua per il tè – decise che quello sarebbe stato l'unico regalo che suo fratello avrebbe ricevuto quell'anno.

«Quante cerimonie, oggi» lo canzonò subito suo fratello, una volta arrivato sul pianerottolo e messo piede dentro casa, ritrovandolo ai fornelli.

«Non montarti la testa, lo faccio perché è Natale» ribatté all'istante il minore, alzando, ancora, gli occhi al cielo, senza girarsi per salutarlo o accoglierlo. «Tu piuttosto: due visite nell'arco di 48 ore, se non fossi in punto di morte penserei al peggio, magari che cominci a sentire la mia mancanza, o a provare una sorta di affetto fraterno, dopo quarant'anni.»

«È Natale» sentenziò Mycroft, duro e vago, osservando prima lui e poi l'interno del 221b, più disordinato che mai – una perfetta rappresentazione dello stato d'animo del suo proprietario.

«Questo lo avevamo già constatato» commentò antipatico Sherlock, tirando fuori il suo migliore servizio da tè. «Intendi dire che la tua visita è il mio regalo di Natale? Non dovevi disturbarti, Mycroft, davvero. Bastava anche una chiamata.»

«Se solo tu rispondessi.»

«La mia email è reperibile sul mio sito web, credevo lo sapessi» si voltò, per la prima volta, con un sorrisetto sarcastico. Mycroft sospirò e lasciò perdere, andò a sedersi sulla poltrona davanti a quella di Sherlock, aspettandolo in silenzio. Quando l'acqua fu abbastanza calda e il tè servito, si vide ricevere una tazza bollente, con un canzonatorio augurio di «Felice Natale, fratello caro!»

Mycroft serrò la bocca in una smorfia, prima di mormorare un flebile «Grazie» bevve un sorso, mentre Sherlock si sedeva davanti a lui, la sua tazza nel tavolino al suo fianco, gli occhi fissi sul fratello – aspettava che finisse di bere nella speranza di vederlo sparire in fretta. «È Natale» ripeté Mycroft, lasciando l'altro perplesso per la prima volta da quando era entrato.

«Ti senti bene? Stai cominciando a diventare ripetitivo, dovrei preoccuparmi?»

Mycroft sospirò, posando la sua tazza nel piattino di ceramica. «Potrebbe essere il tuo ultimo Natale» disse, a bassa voce, come se avesse il timore di farsi sentire.

«Togli quel potrebbe, Mycroft, non c'è bisogno di indorarmi la pillola. È il mio ultimo Natale su questo mondo, altra ovvietà. Vuoi dirne una terza?»

«Sherlock, per l'amor del cielo!» Sbottò l'altro, ricomponendosi subito dopo. Sherlock voltò lo sguardo da un'altra parte, scocciato, ricordando forse un bambino capriccioso – cosa che, con ogni probabilità, agli occhi di suo fratello era sempre stato. «Desideri vederlo?»

La domanda era criptica, solito di Mycroft, ma Sherlock capì al volo il soggetto di quella frase. «No.»

Il fratello maggiore simulò una risata amara, a quella risposta secca. «Non mi hai dato neanche il tempo di specificare a chi mi riferivo.»

«Non ce n'è bisogno, so perfettamente cosa vuoi insinuare, non fai altro da anni.»

«Sii ragionevole.»

«No, Mycroft» sbottò «tu sii ragionevole. Non voglio vedere John, non se significa infliggergli io stesso il colpo mortale.»

«Il dottore ha parlato di un mese, o poco più, di vita, Sherlock. Non avrai altre opportunità di salutarlo, di dirgli addio, di lasciarlo andare.»

«Non voglio consumare il suo ultimo giorno di vita per questo, per motivi egoistici. John merita di meglio, merita una vita lunga; sta tutto nelle mani della scienza, adesso» si alzò, non appena finito di parlare; diede le spalle al fratello e afferrò il suo violino, portandosi davanti la finestra: la discussione era conclusa, dal suo punto di vista.

«E credi che sia quello che vuole lui?» Provò ancora Mycroft, ignorandolo. Sherlock non rispose, abbassò la testa verso la strada vuota: aveva cominciato a piovere e i bambini se ne erano andati. Mycroft sospirò, Sherlock chiuse gli occhi cullato dal fatto che non potesse vederlo. Alla fine, il maggiore si arrese, si alzò in piedi, si sistemò il completo e gli lanciò un'ultima occhiata. «Ancora buon Natale, Sherlock» il detective, per tutta risposta, cominciò a suonare.

Mycroft afferrò il suo ombrello, indossò il suo cappotto e fece per andarsene, ma fu fermato dalla flebile voce di Sherlock, che aveva interrotto la sua musica soltanto per un breve momento. «Ha sempre sognato un Natale innevato» mormorò, e prima che l'altro potesse dire o fare qualcosa, riprese la sua lenta e triste suonata.


24 dicembre 1997


Sherlock ce l'aveva messa tutta per mantenere il proposito di non andare a svegliare John per nessun motivo al mondo, e ci era anche riuscito: per ben quattro anni aveva resistito alla tentazione di scendere in quell'assurdo scantinato anche solo per vederlo. All'inizio, e forse stupidamente, aveva pensato che sarebbe stato più semplice ignorarlo, man mano che il tempo passava. Aveva davvero creduto che lo avrebbe dimenticato con il trascorrere degli anni, o che almeno John Watson sarebbe stato messo in secondo piano nei suoi pensieri, fino a diventare nient'altro che un felice ricordo della sua infanzia. E invece più il tempo passava, più i giorni, le settimane, i mesi e gli anni si accavallavano, più avvertiva una specie di vuoto nel suo cuore, un vuoto incolmabile, un vuoto che non aveva posto per nessun altro all'infuori di John.

Era solo un ragazzino quando aveva cominciato a capire di essersi infatuato di quell'uomo, aveva pensato che ben presto quel sentimento sarebbe sparito, facendo posto a qualcos'altro. E invece sembrava rafforzarsi, farsi sempre più potente, tanto da fargli sentire la sua mancanza in ogni giorno della sua vita.

La verità era che quei Natali trascorsi con John, quelle giornate, erano state le più belle e felici di tutta la sua vita. Lui non amava particolarmente il Natale, John invece si era sempre mostrato entusiasta per quella festa, e forse era per quello che continuava a presentarsi da lui durante quella giornata, o che ora si ritrovava ad essere più malinconico del solito. Ma, nonostante tutto, teneva fede alla sua promessa: sarebbe stato abbastanza forte da non correre da John.

Questo fino alla vigilia di Natale del 1997.

Aveva diciannove anni all'epoca, suo padre era venuto a mancare all'incirca tre mesi prima e lui con la sua famiglia avrebbero dovuto passare le feste nel Sussex, dai suoi nonni paterni. Sua madre, Mycroft e Eurus erano partiti due giorni prima, Sherlock era rimasto indietro per salutare Victor, con la promessa di raggiungerli quanto prima. Ma poi Victor si era presentato da lui con la sorpresa più terribile, devastandolo.

Ed ora si trovava davanti al corpo addormentato in un sonno senza sogni di John, le guance arrossate dalle lacrime, gli occhi gonfi di pianto, le labbra macchiate da sangue per tutte le volte che se le era morse. Nonostante tutto, era ancora indeciso sul da farsi, ma alla fine il bisogno della presenza di John Watson vinse su ogni cosa – dieci giorni erano tanti, si disse, lo avrebbe svegliato per l'ultima volta, era una promessa.

«Chi... Sherlock?» John uscì fuori dall'abitacolo più confuso della prima volta in cui si erano incontrati. In effetti, aveva lasciato un giovane ragazzino in piena adolescenza, mentre adesso si trovava davanti ad un giovane uomo, dall'aspetto miserabile.

«John» mugugnò l'uomo, la voce spezzata dall'ennesimo lamento, dall'ennesima crisi di pianto. Cercò di farsi avanti incerto, mise le mani avanti ma poi si arrestò arretrando subito. Aveva bisogno di un abbraccio, di conforto, di sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene, ma non c'era mai stato quel tipo di rapporto e contatto con John, non sapeva decidere se fosse una mossa saggia o meno. Era stupido, forse, ma non si era mai trovato in una situazione così disperata, mai, non una volta in – quasi – venti anni. E tutto per amore.

John avrebbe voluto riuscire a stare al passo con tutto quello che stava succedendo, cercava di impegnarsi a farlo, e tutto in pochi secondi, ma proprio non ci riusciva. Era sconvolto, da troppe cose contemporaneamente, lo si poteva osservare dalla sua bocca che era rimasta spalancata tutto il tempo e dai suoi occhi sgranati, per non contare il suo modo nervoso di continuare a guardarsi intorno. Voleva sapere quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che aveva avuto gli occhi aperti, ma si limitò a fare un passo in avanti verso Sherlock, mettergli una mano sulla spalla e chiedergli, dolcemente: «Cos'è accaduto?»

Sherlock tirò su col naso, asciugandoselo sgraziatamente con la manica del suo cappotto. Tremava vistosamente, non riusciva a guardare John negli occhi, pertanto li manteneva fissi verso il vuoto, abbassati. «Victor se n'è andato, mi ha lasciato.»

«Victor... ti ha lasciato» ripeté John, cercando di mettere insieme i pezzi. Sherlock annuì, ma ciò non lo aiutò a capire meglio quello che stava succedendo. «Devi perdonarmi, Sherlock, ma ieri ti ho lasciato come un ragazzino ribelle che si opponeva ai suoi genitori e continuava a vedere di nascosto il suo migliore amico. Mentre oggi sei–» un uomo con il cuore straziato da quella che poi si era rivelata essere più di una semplice amicizia, avrebbe voluto dire. Sherlock lo interruppe prima che potesse dire qualsiasi altra cosa.

«Hai ragione, non avrei dovuto svegliarti. Non stavo pensando lucidamente, ti rimetto dentro–»

«No!» Esclamò John spazientito. Sherlock si zittì, lui sospirò sonoramente. «Sto solamente cercando di capire quanto tempo... In che anno siamo, adesso?» Domandò alla fine.

Sherlock si lasciò scivolare fino a sedersi sul pavimento, non osando guardarlo in faccia. «1997» disse solo.

«Novantasette» gli fece eco l'altro, una mano sul volto, prima di massaggiarsi le tempie. Quella faccenda lo avrebbe fatto diventare matto, o forse già lo era. «D'accordo» mormorò infine, sedendosi affianco al non più ragazzino che aveva lasciato soltanto un giorno prima – almeno dal suo punto di vista. «Dimmi cos'è successo, partendo dal principio, questa volta.»

Sherlock rimase finalmente senza parole, guardò John sorpreso, non riuscendo a capacitarsi del fatto che qualcuno – proprio John – volesse per davvero starlo a sentire. Annuì, infine, prima di cominciare a parlare.

E raccontò tutto, come un fiume in piena. Raccontò di come Victor lo aveva baciato, una mattina di due anni prima, ancora prima di dargli il buongiorno. Di come il loro legame si era evoluto, giorno dopo giorno. Di come fosse diventato ormai dipendente della sua presenza. Del modo in cui lo faceva sentire, felice, senza la minima preoccupazione per la testa. Di come lo aveva reso debole, e cieco. Di come non si fosse pentito di niente, nonostante tutto. John ascoltava attento, senza interrompere, e annuendo di tanto in tanto.

«Eravamo insieme, fino a poco fa. Gli stavo parlando di progetti futuri, progetti che riguardavano anche Victor, la nostra storia. Ma lui sembrava distante, così l'ho affrontato. Mi ha risposto che non avrebbe mai voluto dirmelo la vigilia di Natale, io ho insistito e mi ha rivelato di dover partire dopo le feste. Parigi, un corso di studi nella capitale dell'arte.»

«Sono sicuro che è difficile anche per lui» mormorò allora John, mettendogli una mano sulla spalla e cominciando a disegnare delicatamente piccoli cerchi con il pollice per rassicurarlo e confortarlo. Sherlock si accorse di essersi calmato, ormai, e tornò a respirare regolare sotto la carezza gentile dell'uomo.

«Sì, e questa è la parte peggiore.»

«Mi dispiace, Sherlock» affermò sincero, c'era poco che potesse dire o fare per farlo sentire meglio o per cambiare la situazione, questo lo faceva sentire inutile. Sherlock se ne accorse e si premurò di cambiare argomento. O almeno tentò.

«È a me che dispiace, non sarei dovuto correre in questo modo da te e disturbarti con le mie lagne» esclamò, accennando un sorriso tirato.

«Non devi dirlo neanche per scherzo!» Esclamò John, cogliendo se stesso e l'uomo di sorpresa. «Voglio dire... non devi farti problemi nel venire a vedermi. Certo... capisco che con il passare del tempo avrai cominciato a ritenere noiosa la mia compagnia, ma a me fa comunque piacere vederti. Abbiamo passato delle belle giornate, no?»

Sherlock si prese qualche secondo per osservarlo. Aveva un sorriso triste, addosso, pronunciare certe parole doveva avergli fatto male. Si rese conto che John non poteva sapere il reale motivo che lo aveva portato a non cercarlo più, forse una parte di lui doveva essersi sentita abbandonata nel sentire, nel vedere, quanti anni erano passati dal loro ultimo incontro. Si domandò anche se stesse parlando con lo Sherlock che aveva davanti, l'uomo, o con quello che aveva conosciuto, il ragazzino. Pensandoci, non era neanche sicuro che John avrebbe apprezzato la compagnia della persona che era diventato.

«Non è per questo se non mi sono più fatto vivo» confessò, abbassando gli occhi. John si accigliò.

«No?»

Sherlock scosse la testa «Stai morendo, John» constatò, probabilmente privo di tatto.

L'uomo si scurì, volse anche lui la testa da tutt'altra parte, limitandosi a sussurrare un leggero «Oh!» Entrambi rimasero in silenzio, non sapendo cosa fosse giusto aggiungere in un argomento come quello. Alla fine lo stesso John si decise ad aprire bocca. «Capisco, davvero. Non volevi passare altri giorni con un moribondo, non volevi rischiare di affezionarti ad una persona che è destinata a morire.»

Sherlock sgranò gli occhi e lo guardò come se fosse impazzito. Come dirgli che era troppo tardi, ormai? Che era stato al centro dei suoi pensieri fin dal primo giorno, in maniera totalmente innocente e disinteressata, prima, come un'ossessione, poi? Stupido John Watson, avrebbe davvero voluto non essersi affezionato così tanto a qualcuno che aveva i giorni contati (letteralmente). Proprio quel giorno aveva sperimentato cosa volesse dire ritrovarsi con il cuore spezzato, non moriva dalla voglia di riprovarlo di nuovo. Ma ignorare quella vocina che gli ripeteva che per John Watson ne sarebbe valsa la pena era ugualmente difficile.

«Non è per questo!» Esclamò alla fine «Non vorrei privarti di nessuno dei tuoi giorni, semplicemente.»

«Sentiti libero di farlo quanto vuoi, invece» sorrise amaro l'altro. Sherlock non capì cosa si nascondeva dietro quella richiesta, piuttosto gli offrì di passare le successive 24 ore insieme: per la prima volta avevano la casa a loro completa disposizione, avrebbero potuto cucinare insieme per poi mangiare nel grande salone illuminati dalle luci dell'albero di Natale, e Sherlock avrebbe potuto suonare con il suo violino le più svariate canzoni natalizie, osservando divertito di tanto in tanto l'espressione di John. Che, ovviamente, accettò entusiasta, senza pensarci due volte.


31 dicembre 1999


John non aveva conosciuto nessun membro della famiglia Holmes, all'infuori di Sherlock. Non aveva conosciuto neanche suo padre, la mente che stava dietro a quella misura particolare che lo teneva congelato in attesa di una cura. Era stato scelto, nel lontano '75, per pura casualità: lui ed altre persone malate o in fin di vita era stati selezionati, forse, lanciando una monetina e guardando i registri dei malati di tutti gli ospedali d'Inghilterra, non si era mai posto davvero la domanda “perché me?”, come c'era finito il suo nome in mezzo a tanti altri poco gli era importato, aveva pensato solamente ad una cura, a vivere, ed aveva accettato. Non avrebbe mai pensato, certo, che ci sarebbe voluto così tanto.

Non conosceva nessun Holmes oltre Sherlock, dicevamo, per questo restò sconcertato nel trovarsi davanti un uomo differente dal suo amico, un uomo dall'aspetto severo e gli occhi piccoli come quelli di un serpente, occhi inquisitori e attenti, e un'espressione grigia, inscrutabile, enigmatica. Per un folle istante immaginò che le sue sofferenze fossero finalmente finite, ma poi osservò meglio quell'uomo, quel portamento composto ed elegante e quello sguardo assorto, lontano e distante che aveva visto più e più volte in Sherlock, nel corso degli anni, magari in maniera più lieve e meno intensa, complice l'età. Quel sospetto servì a smorzargli l'entusiasmo e a rimetterlo coi piedi per terra.

«Dottor Watson» cominciò prendendolo nuovamente alla sprovvista – come faceva a sapere che fosse un dottore? «Non vorrei mai rubarle del tempo prezioso» John assottigliò le sopracciglia e lo guardò torvo, cogliendo la triste e mal velata ironia delle sue parole «ma non vedo alternative, purtroppo. Credo sia meglio sbrigarci, le spiegherò tutto strada facendo, ogni minuto è prezioso, dico bene?» Ancora una volta quella lingua lunga e acida lo toccò nel profondo.

Strinse i pugni e ingoiò saliva «Chi è lei?» Domandò piuttosto, facendosi vedere fermo e per nulla intenzionato a seguirlo.

L'uomo, che già si stava incamminato, si voltò per guardarlo con un sopracciglio alzato, sorpreso «Mycroft Holmes» disse solamente, prima di riprendere a camminare. Dopo qualche passo si girò di nuovo, lo guardò spazientito indicandogli la porta. «Non starei qui se non fosse una faccenda importante, mi creda. Riguarda Sherlock.»

Quelle parole bastarono a dargli la scossa che gli serviva, partì come una carica a seguire Mycroft fuori la grande villa di famiglia dove un'auto li stava aspettando, la portiera posteriore aperta. Vi entrò, rimanendo deluso trovando il suo interno vuoto: aveva sperato di trovarci il suo amico, ora cominciava a temere che fosse successo qualcosa di grave, o che si fosse cacciato in guai seri. L'auto partì nel completo silenzio, John si sentiva irrequieto e cominciava a percepire una sorta di strano e brutto presentimento in fondo allo stomaco. Sentiva le mani sudate, se le strusciò nervosamente sui vecchi jeans, gli occhi scrutavano ogni particolare della strada.

«Dove stiamo andando?» Domandò alla fine, stanco ed irritato di quella mancanza totale di informazioni.

«St. Barts» rispose solamente, facendolo sobbalzare.

«L'ospedale?» Mycroft annuì, senza guardarlo in faccia. Sembrava ascoltarlo a malapena. «Cosa diavolo è successo? Lui sta bene? Mi risponda!» Sbottò il dottore, visibilmente alterato. L'uomo al suo fianco sospirò.

«In questo momento è stabile, i dottori mi tengono informato e mi aggiornano sul suo stato ogni venti minuti esatti» cominciò a dire, lo sguardo perso fuori dal finestrino. John spalancò la bocca per chiedere altre informazioni, per urlargli di informarlo di cosa fosse successo a Sherlock Holmes, ma Mycroft riprese la parola, anticipandolo «Overdose» aggiunse. Quella parola lo colpì in pieno, se non fosse stato seduto probabilmente sarebbe caduto per terra.

«Cosa?» Fu tutto quello che riuscì a balbettare, la voce tremolante. L'uomo sospirò.

«Mio fratello non è nuovo alla droga, dottor Watson, fin dalla giovinezza ha sempre fatto uso di sostanze leggere – lo aiutavano a rilassarsi e a pensare, così dice lui. Ma da quando il signor Trevor è partito, Sherlock... all'inizio era semplice rintracciare le sue scorte di cocaina, gliele confiscavo di continuo. Poi è diventato più furbo, ma non si è mai spinto troppo oltre ed ogni volta mi faceva trovare una lista di tutto quello che assumeva, per farmi trovare preparato e per permettermi di aiutarlo qualora la situazione si fosse complicata. Qualche sera fa è stato trovato privo di sensi, e privo della benché minima lista: non contava di riaprire gli occhi, sperava di non farlo probabilmente» Mycroft gli illustrò la situazione con gli occhi fissi nel vuoto, John non osò fiatare, non mosse muscolo e gli parve di non aver sbattuto le palpebre neanche per una volta.

Non poteva credere a quello che aveva appena ascoltato. Sherlock, il suo amico Sherlock, il ragazzo, il bambino, che aveva passato (quasi) ogni Natale al suo fianco, aveva tentato di uccidersi. E ancora una volta la solita domanda tornò a tormentarlo: quanto tempo era passato dal loro ultimo incontro? Perché farsi del male in quel modo adesso? Perché abbandonarlo così? Si stupì dei suoi stessi pensieri, si stupì di sentirsi offeso da quel gesto, offeso perché, egoista, non aveva messo in conto delle ripercussioni che la sua morte avrebbe causato. John non poteva credere che aveva rischiato di risvegliarsi e di non ritrovarlo, di non rivederlo mai più.

Non era niente per lui, ne era consapevole, mentre Sherlock... per lui rappresentava una sorta di appiglio che lo teneva ancorato al presente. La sola presenza del bambino, poi del ragazzo e alla fine dell'uomo era diventata la sola certezza che aveva da... una decina di giorni, o vent'anni... non sapeva più come misurare il tempo.

Mycroft si era voltato ad osservarlo adesso, aveva notato il suo sguardo e letto tra le righe del suo silenzio. «I giorni di festa sono i più difficili da quando il signor Trevor lo ha lasciato» rivelò.

«Perché decidere di farla finita?» Si ritrovò a chiedere John, più a se stesso che all'uomo al suo fianco.

«Suppongo non avesse la minima intenzione di assistere all'arrivo del nuovo millennio» il nuovo millennio... si trovavano alle porte del 2000, quindi. Non lo aveva cercato per altri due anni.

Nessuno dei due parlò per il resto del viaggio e, una volta arrivati in ospedale, John si ritrovò a seguire Mycroft come un automa lungo i vari corridoi dell'edificio. Mycroft lo lasciò indietro, ad un certo punto, andando incontro ad una donna che salutò e ringraziò come Anthea, gli spiegò poi che aveva tenuto d'occhio Sherlock durante la sua assenza e che non c'erano stati peggioramenti nel frattempo. Alla fine lo lasciò entrare nella sua camera da solo.

John riconobbe lo stesso uomo che aveva visto il giorno prima, solo dall'aspetto più trasandato: era dimagrito a vista d'occhio, la carnagione già bianca era ormai pallida e gli forniva un aspetto cadaverico, trovandolo addormentato, i capelli erano cresciuti e, ad occhio, trascurati, la barba non veniva rasata da un paio di settimane, almeno, era strano vedergliela addosso. Notò le occhiaie, notò i buchi sul braccio destro che si trovava disteso lungo il fianco e fuori dalle coperte. Poteva quasi percepire tutta la sua disperazione.

Si domandò perché si trovasse lì, a quel punto. Perché il fratello lo aveva svegliato per informarlo della situazione? Credeva che potesse risollevargli il morale? Dargli un senso per vivere? Lui che non lo aveva visto neanche una volta negli ultimi anni? Che non sapeva cosa amasse, chi frequentasse, cosa facesse nel suo tempo libero. Perché voleva farla finita? Non lo sapeva, come avrebbe potuto? Le feste erano diventate difficili, aveva detto Mycroft, perché? Perché era rimasto solo? Perché, la sola ipotesi gli apparve inverosimile eppure gli fece contorcere le budella, colpevole, sentiva la sua mancanza?

La voce debole di Sherlock interruppe, all'improvviso, i suoi pensieri.

«Va via, Mycroft» sospirò, senza degnarsi di aprire gli occhi, stanco – dagli ultimi avvenimento o dalla presunta presenza del fratello.

«Non sono Mycroft» rispose allora John, titubante. Sherlock aprì gli occhi all'istante, ma non si voltò a guardarlo, temendo che la sua mente in astinenza gli stesse giocando l'ennesimo tiro «sono io, John.»

Solo in quel momento Sherlock si voltò, cercò gli occhi blu del dottore, studiò ogni suo dettaglio riconoscendoli e ritrovandoli tutti come li aveva lasciati. «John» mormorò estasiato, l'accenno di un sorriso. Sorriso che scomparve subito, così come un'ombra buia calò tra i suoi occhi grigi «No, non dovresti essere qui. I tuoi giorni–»

«Me ne rimangono ancora un po', non devi pensare a questo» sospirò spazientito per quella continua preoccupazione da parte dell'uomo. Prese una sedia e si sedette al suo fianco «Sono esattamente dove dovrei essere, adesso.»


24 dicembre 2010


Sherlock ricordò quella giornata e quella nottata per tutta la sua vita. John era rimasto con lui per le 24 ore successive anche se avrebbe preferito restargli accanto fino a quando non avrebbe lasciato l'ospedale (un paio di giorni dopo), ma Sherlock era stato irremovibile. Nei giorni successivi ce l'aveva avuta con Mycroft per essere andato a svegliarlo, a detta sua, senza motivo, con il solo scopo di farlo preoccupare per niente. In realtà, il fratello ci aveva visto giusto, la sola presenza di Watson aveva fatto tornare il sorriso a Sherlock e l'idea di deluderlo nuovamente lo aveva tenuto lontano dall'utilizzo di droghe pesanti – perlomeno in quantità eccessive.

Ci erano voluti anni per vederlo disintossicarsi completamente, ci era voluto un nuovo lavoro. Il 2007 era stato l'anno della svolta per Sherlock: si era imbattuto casualmente in un gruppo di poliziotti incompetenti su una scena di un delitto, si era avvicinato in silenzio, aveva osservato ogni dettaglio fino ad essersi fatto un'idea di come erano andate le cose, idea che poi si era rivelata corretta. Aveva illuminato l'agente di turno, era stato mandato a farsi fottere ma poi era stato richiamato. L'ispettore, Greg Lestrade si chiamava, si era scusato per i modi e le parole che la sua collega, Sally Donovan, aveva utilizzato e gli aveva chiesto se gli andava di collaborare con loro. Aveva accettato.

I casi che Scotland Yard gli rifilava erano diventati la sua nuova dipendenza, si era fatto un nome nel corso degli anni, aveva aperto un sito web e si era ritrovato sommerso da email che richiedevano il suo aiuto nel giro di qualche mese. Si era trasferito lontano dalla casa di famiglia, lontano da John, trovando in un appartamento a Baker Street l'unico posto che era riuscito a definire casa.

Erano passati 10 anni, ormai, da quando aveva visto John in quella camera d'ospedale. Era un uomo formato, adesso, ancora una volta ben diverso dalla persona che il dottore aveva lasciato. Si era raffreddato, nel corso di quegli anni; aveva tagliato i ponti con il mondo che lo circondava e se non fosse stato per il lavoro sarebbe a malapena uscito di casa. Trovava difficilmente negli altri una compagnia che lo aggradava. Erano davvero poche le persone da cui si lasciava avvicinare – tre, in effetti: uno era Lestrade, l'ispettore si era rivelato un uomo di cui potersi fidare, la figura più vicina ad un amico che avesse; Mrs Hudson, la sua padrona di casa, una donna gentile ma bacchettona, si premurava di vederlo costantemente in salute e spesso e volentieri si intratteneva a chiacchierare; e infine c'era Molly, un medico legale che aveva conosciuto al Barts, aveva una cotta per lui e gli concedeva di raccogliere campioni per i suoi esperimenti dai cadaveri dell'ospedale.

Non era mai stato popolare, certo, non aveva mai avuto troppi amici intorno, ma in seguito alla storia con Victor si era maggiormente chiuso in se stesso e gli risultava difficile fidarsi.

Si domandava, spesso e volentieri, cosa avrebbe pensato di lui John, vedendolo adesso, in quello stato. Sarebbe stato orgoglioso, da una parte, ma triste dall'altra, ne era certo. Era sicuro che gli sarebbe dispiaciuto saperlo solo al mondo, mentre a lui poco importava ad essere onesti. Soprattutto perché l'unico che avrebbe voluto intorno non poteva averlo, e allora cosa se ne faceva di tutto il resto del mondo?

Pensava a John incessantemente, più volte nel tempo, preso dalla noia o da particolari crisi, aveva sentito l'impulso di rintracciare i suoi vecchi pusher, ma poi pensava a quell'uomo, a quei suoi occhi preoccupati e allo stesso tempo delusi ma anche sollevati di vederlo ancora vivo. Era più semplice dire di no a quegli impulsi, con la sua immagine fissa in testa.

Aveva anche smesso di provare a non pensare a lui, ogni sforzo si era rivelato inutile in passato. Il legame era forte, l'affetto che provava per John Watson superava qualsiasi altra cosa, il suo lavoro, la sua famiglia, la sua intera vita. Era innamorato? Forse. Sentiva di non provare più quell'infatuazione adolescenziale che lo aveva accompagnato per anni, né quell'attrazione che aveva provato poi in seguito. Era diverso, era più forte, un sentimento che andava oltre il tempo, l'età, la distanza, oltre la vita. Non voleva chiamarlo amore, sarebbe stato riduttivo, riteneva.

Per anni aveva resistito alla tentazione di tornare da lui, per fargli sapere quante cose erano cambiate, come era migliorato e come peggiorato. Aveva resistito, spaventato da quel conto alla rovescia che aveva ormai salutato la doppia cifra. Ma, ancora una volta, la vita aveva per loro altri piani.

La mattina del 24 dicembre 2010 Mycroft si presentò alla sua porta a Baker Street, con un fascicolo in mano. Glielo consegnò, dopo averlo salutato ed essersi accomodato senza un invito. Sherlock, infastidito, lesse distrattamente di cosa si trattava: era il certificato di morte di una donna sconosciuta, Mary Morstan.

«Con ciò?» Domandò scocciato, posando il foglio sbadatamente sul tavolino al suo fianco.

«Quello che vedi è il certificato di morte della signora Watson» affermò l'altro, lento e distaccato, come se gli stesse dicendo che sarebbe venuto a piovere di lì a poco. Sherlock avvertì un tuffo al cuore, provò a ribadire, a far uscire qualsiasi suono dalla sua bocca ma si ritrovò completamente muto «O almeno lo sarebbe stata, se lui non si fosse fatto ibernare un mese prima del matrimonio. È venuta a mancare questa notte, in seguito ad un infarto.»

Aprì la bocca e la richiuse tre volte, Sherlock, alla fine scosse la testa e riuscì a darsi un contegno. «Perché mi stai consegnando questi documenti? Cosa dovrei farmene?»

Mycroft fece spallucce «Ho pensato che John Watson dovrebbe e vorrebbe saperlo; volevo informarlo da me, ma ho ricordato il modo in cui hai reagito l'ultima volta, conciò...»

«È la vigilia di Natale, Mycroft, non posso andare da lui e dirgli che la sua compagna è morta la vigilia di Natale!»

«Fa quello che ritieni più adeguato, Sherlock» pronunciò alla fine, lasciandolo solo e tornando al suo importantissimo lavoro segreto, a stretto contatto col governo britannico. Sherlock fissò quel foglio bianco per le successive due ore, prima di prendere una decisione.

Nel pomeriggio si ritrovò, quindi, nella sua vecchia casa, le gambe molli e le mani tremanti. Stava per rivedere John, il suo John. Non importava più niente in quel momento, né i giorni di vita del dottore, né le circostanze che li avevano portati a rivedersi, tutto era passato improvvisamente in secondo piano.

«Sherlock?» La sua voce era esattamente come la ricordava, il suo sguardo stupito lo fece sorridere inaspettato.

«Sono io» affermò con un cenno del capo. John si massaggiò la testa, Sherlock cercò di non ridere per la sua confusione «Sono passati dieci anni, John, oggi è la vigilia di Natale dell'anno 2010.»

«Cristo, Sherlock» proruppe l'uomo «dieci anni? Eri un bambino fino a dieci giorni fa!» Esclamò sconvolto, il detective si tolse l'espressione divertita dal volto, capendo solo in quel momento la reale inquietudine dell'altro. Non doveva essere facile, gli era difficile soltanto immaginare come potesse essere vedere qualcuno invecchiare letteralmente da un giorno all'altro, non c'era niente di buffo in effetti.

«Hai... hai bisogno di un minuto?» Chiese, provando ad essere gentile e ad andargli incontro, risultando più titubante del solito, la voce roca. John, nonostante tutto, scosse la testa.

«No, voglio dire, ne avrei bisogno, ma credo che sprecherei l'intera giornata per riprendermi come si deve e probabilmente domani saremo punto a capo, magari avrai anche i capelli bianchi, questa volta!» Esclamò. Sherlock si morse la lingua, non doveva dirgli che quell'incontro era sbagliato, che era intenzionato a non vederlo mai più, per il suo bene. Non poteva farlo, non quando doveva dirgli di Mary.

Ma prima che potesse aggiungere qualcosa, il telefono cominciò a vibrargli nella tasca dei pantaloni. Lo tirò fuori, cercando di ignorare lo sguardo esterrefatto dell'uomo che non aveva mai visto un iphone o un telefono touchscreen – o forse lo stesso telefono cellulare, si scusò prima di allontanarsi per rispondere. Tornò da John poco dopo provando in tutti i modi di non farsi vedere emozionato ed esaltato da quello che gli avevano appena comunicato.

«Chi era?» Gli chiese, comunque lui, vedendo come la sua espressione fosse mutata completamente dopo quella telefonata.

Sherlock sospirò «Scotland Yard» John strabuzzò gli occhi, sbattendo le ciglia ripetutamente. Il moro simulò un sorriso «Collaboro con loro, adesso. Consulente investigativo. Mi chiamano quando non sanno che pesci pigliare – sempre, praticamente.»

«Come adesso?» Domandò ancora l'altro, una strana luce si era accesa nei suoi occhi.

«Come adesso» confermò, annuendo con il capo. «L'ispettore Lestrade ha accennato ad un furto, non è una cosa inconsueta sotto le feste.»

«Quindi... devi andare sulla scena? Ispezionare la zona e aiutarli?» Continuò John, incantato. Sherlock assottigliò lo sguardo, non si era minimamente aspettato quella reazione.

«Sì, dovrei. Ma posso anche restarmene in disparte questa volta, dipende da...» si bloccò per guardarlo: i suoi occhi erano più grandi rispetto al solito, più luminosi, più radiosi; il viso era rilassato, eccitato, emozionato; ogni muscolo del suo corpo fremeva, cercava in tutti i modi di restare fermo sul posto riuscendoci a malapena. «Vuoi... vuoi venire con me?»

«Oh, Dio. Sì!»


In realtà il caso si era rivelato più semplice del previsto, Sherlock non si era fatto troppi problemi nel non nascondere la sua irritazione per essere stato disturbato per una stupidaggine del genere. Aveva presentato John a Lestrade, definendolo un suo collega – era stato corretto dallo stesso John, che si era definito un suo amico, e gli aveva fatto provare ad avanzare delle deduzioni. Il tentativo si era rivelato un completo disastro, ma l'uomo sembrava comunque divertito dalla giornata appena passata. Erano arrivati poi a Baker Street, John non aveva fatto accenni al disordine e Sherlock aveva messo su il tè per entrambi.

«Allora, mi dirai mai perché proprio oggi?» Gli domandò John, dopo aver preso la sua tazza bollente tra le mani ed aver osservato Sherlock sedersi sulla poltrona davanti a lui.

«Proprio oggi cosa?» Chiese di rimando l'uomo, soffiando piano sulla bevanda, ancora il sorriso per quelle ore passate insieme sulla bocca.

«Non mi hai svegliato per dieci anni, Sherlock. Cosa ti ha fatto cambiare idea oggi?» Era rilassato, John, sinceramente curioso da quel fatto e soprattutto allegro come lo era stato poche volte prima di allora. Proprio per questo, Sherlock non sapeva da dove cominciare per dargli la notizia.

«Io... è successa una cosa» provò, posando subito la tazza sul tavolino e tornando serio. Come avrebbe reagito? Avrebbe pianto? Dio, no, ti prego. John non gli fece pressione, capendo la delicatezza della situazione. Cominciò a preoccuparsi vedendo come l'uomo non riuscisse ad affrontare l'argomento, posò anche lui la sua tazza e si fece appena in avanti con il busto, in attesa. «John, si tratta di Mary» disse infine.

Apparve sorpreso, John, più che altro sorpreso di scoprire che Sherlock sapesse di lei, della sua esistenza «Oh» mormorò in un primo momento. L'altro non riuscì ad aggiungere niente, sperava che John riuscisse a mettere insieme tutti i pezzi da solo. E lo fece, quasi subito. Vide le rughe della fronte spuntare fuori insieme alla sua espressione pensierosa, lo vide cominciare a calcolare quanti anni erano effettivamente passati dall'ultima volta che l'aveva vista, quanti anni aveva lei e a quanti ne avrebbe dovuti avere lui, di quei tempi. «Oh» fece, quindi, un tono di voce più cupo rispetto a prima.

Sherlock sospirò «Mi dispiace, John.»

«Quando è successo?» Chiese, senza guardarlo in volto.

«Questa notte.»

«76 anni, se non vado errato» proruppe dopo un momento di silenzio «Dio. Io ne dovrei avere quasi 80 ormai, e invece guardami. Sono passati più di trent'anni e non sono cambiato di una virgola. Trent'anni... ad aspettare delle cure che probabilmente non arriveranno mai. È tutto così sbagliato» si era alzato in piedi ed aveva cominciato a camminare per il salotto come se si trovasse a casa sua. Sherlock lo lasciò fare, ascoltò il suo sfogo in silenzio, non osò disturbarlo o interromperlo.

Quando lo riportò a casa Holmes, si sentì fare una richiesta eccezionale e assurda al tempo stesso: John lo implorò di non aspettare altri dieci anni, per vederlo, piuttosto di tornare da lui, l'anno seguente, per passare ancora una volta il Natale insieme. Sherlock apparve titubante, ma l'altro insistette fino a strappargli quell'assurda promessa.


31 dicembre 2017


Mycroft e Greg si presentarono a Baker Street nel tardo pomeriggio dell'ultimo giorno dell'anno, portandosi al seguito Clara (la figlia nata dal primo matrimonio dell'ispettore) e Henry, il bambino che avevano adottato più di due anni e mezzo prima. Certe volte Sherlock si pentiva di aver fatto in modo che si conoscessero, da quando si erano messi insieme Mycroft era diventato piuttosto insistente sul tema “famiglia” – anche se, non lo avrebbe mai ammesso, era contento che quei due si fossero trovati.

Il motivo della visita era lo stesso di ogni anno, fargli gli auguri e invitarlo a passare il capodanno a casa con loro. Sherlock, come al solito, aveva declinato l'invito. Solitamente il discorso sarebbe stato troncato lì, ma suo fratello quell'anno aveva deciso di pressarlo fino all'ultimo giorno della sua vita, probabilmente. Continuò ad insistere, Greg gli diede manforte, ma Sherlock apparve comunque irremovibile.

Salutò i bambini e Greg, a fine visita, accigliandosi subito vedendo quest'ultimo scambiarsi uno sguardo di intesa con Mycroft, prima di lasciarli da soli nell'appartamento. Sherlock alzò gli occhi al cielo, doveva aspettarsi che suo fratello non avrebbe gettato la spugna così facilmente.

«Non verrò a casa con voi, Mycroft, te lo ripeto: non ho la minima intenzione di–»

«Lo so, non è di questo che volevo parlarti, Sherlock» lo bloccò subito il fratello, rivolgendogli uno sguardo che gli fece accapponare la pelle, per la prima volta nella sua vita.

«Allora cosa c'è?» Domandò, cercando di farsi vedere scocciato piuttosto che preoccupato da quelle che sarebbero state le successive parole di suo fratello.

Mycroft si prese qualche secondo prima di parlare, questo non fece altro che aumentare il nervosismo di Sherlock. Alla fine, dopo un respiro profondo, si decise ad aprir bocca. «Ci ho pensato molto in questi ultimi giorni: vorrei inserirti nel programma.»

«No» rispose l'uomo, secco e glaciale. Non si era immaginato una simile proposta, non credeva che Mycroft potesse riflettere su una questione del genere, neanche lui era mai stato sfiorato da quell'idea. Era impensabile, dal suo punto di vista, andava contro ogni cosa in cui, entrambi, credevano.

Il fratello maggiore emise un altro sonoro respiro «Immaginavo che avresti reagito in questo modo» mormorò scontento «ma pensaci: la medicina negli ultimi anni ha fatto passi da gigante raggiungendo traguardi inimmaginabili solamente vent'anni fa. Tu stesso sei in possesso di ogni dato, Sherlock, ti chiedo soltanto di pensarci.»

Il detective scosse la testa, alzando la mano per bloccarlo. «Non ho bisogno di pensarci, qui non stiamo parlando di settimane, o mesi. Stiamo parlando di anni. Ci vorranno altri venti, o forse addirittura cinquant'anni prima che la medicina raggiunga i risultati sperati. John è rimasto addormentato per tredici anni prima che io lo svegliassi e ricordo ancora la sua espressione inorridita nel scoprirlo. E quell'espressione non lo ha mai abbandonato negli anni successivi: osservava Londra, una città a lui sconosciuta, ammirato sì, ma sentendosi fuori posto, come un turista. Non potrei mai farlo, Mycroft, non potrei mai risvegliarmi tra vent'anni per ritrovarmi in un posto che non conosco» il fratello aveva ormai smesso di guardarlo, la sua attenzione era per il caminetto acceso alla sua sinistra, pareva meditabondo. Sherlock continuò «Mi è capitato di pensare a tutte quelle persone congelate nel nostro scantinato: sono in quello stato da oltre cinquant'anni, come credi che sarà il loro risveglio? Il loro male sarà stato curato, sì, ma saranno chiamati a ricominciare tutto da capo, a rifarsi una vita da zero, in una città che non conoscono più. È sbagliato, è tutto sbagliato. Questo programma è stato un errore, un progetto malato. Nostro padre non aveva la più pallida idea di cosa stava cominciando. Per questo mi sono tirato fuori, anni fa, lo sai.»

Mycroft annuì a quelle parole, non che Sherlock gli avesse chiesto una conferma. Chiuse gli occhi, la guancia appoggiata alle mani unite sul bastone del suo inseparabile ombrello nero. Sembrava sconfitto, ma allo stesso tempo per nulla sorpreso. Quando tornò a guardarlo, aveva gli occhi lucidi. Quello fu il momento esatto in cui Sherlock capì l'amore che suo fratello aveva sempre provato nei suoi confronti; quella scoperta lo irrigidì, spiazzato, si sentì quasi mancare.

«Immaginavo» disse l'uomo «dovevo comunque tentare» aggiunse poco dopo, prima di ripiombare in quella coltre di ghiaccio gelida che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Si alzò, dirigendosi verso la porta «Vieni a cena da noi, Sherlock. Per i bambini.»

Sherlock scosse la testa «Dovrei festeggiare l'arrivo dell'anno che segnerà la mia morte? Grazie, ma credo che passerò» scherzò, stringendosi nelle spalle. Mycroft annuì, prima di lasciarlo solo.


25 dicembre 2015


Nonostante tutto, Sherlock aveva mantenuto la promessa fatta a John. Per i successivi 5 anni, si era presentato da lui durante il giorno di Natale, in modo da passare quelle 24 ore insieme. Aveva riscoperto l'entusiasmo che lo aveva accompagnato da bambino, quando aspettava con ansia l'arrivo delle feste perché significavano rivedere finalmente quell'uomo gentile che lo trattava come suo pari e che, col tempo, era diventato così importante ed aveva fatto breccia nel suo cuore senza che potesse impedirlo in qualsiasi modo.

Il peso del conto alla rovescia che segnavano i giorni di vita del dottore gravava ancora su di lui come un macigno, ma faceva di tutto per non pensarci, lo stesso John gli aveva chiesto di non farlo. Egoisticamente parlando, Sherlock era felice di vederlo, di passare quelle giornate con lui e nessun altro. Attendeva quel giorno per tutto l'anno, diventando ansioso e intrattabile nelle ore che precedevano l'arrivo del Natale. Non aveva mai davvero realmente apprezzato quella festa, ma con John era tutto diverso, l'entusiasmo dell'uomo si rifletteva in lui, procurandogli sorrisi continui e risate sciocche.

Era una persona diversa insieme a John, una persona migliore, entrambi lo avevano capito, con il tempo. Anche se Sherlock non riusciva davvero a spiegarsi cosa spingesse quell'uomo a consumare gli ultimi giorni della sua vita, a sprecarli, in sua compagnia. Se era stanco di vivere e desiderava morire, poteva semplicemente dirglielo, così come poteva trovare un modo migliore per passare le sue ultime ore. Invece, la cosa che lasciava il detective di stucco, era che John sembrava davvero contento durante le loro giornate, tanto da intristirsi guardando il sole tramontare e ammutolirsi sulla via di ritorno a casa. Eppure Sherlock non poteva realmente credere che John fosse felice in sua compagnia, aveva le prove davanti, ma non riusciva ugualmente a crederlo.

Dato che John sembrava aver apprezzato passare il Natale all'inseguimento dei criminali, Sherlock aveva chiesto a Greg di tirare fuori vecchi casi archiviati, così che potesse studiarli con largo anticipo e accingersi a risolverli insieme a John. Lestrade aveva acconsentito, non avendo niente da perdere e così, per anni, Sherlock e John avevano passato la giornata ad andare da una parte all'altra di Londra, rincorrendo intere famiglie di criminali o vecchi ladri di gioielli. John aveva apprezzato ogni caso che Sherlock gli aveva propinato, se non altro amava vederlo blaterale senza sosta, impegnato a spiegargli cosa era andato storto o quale errore era stato commesso da parte dei vari delinquenti.

Sherlock adorava essere al centro dell'attenzione e John lo lasciava fare contento, estasiato, incantato. Il detective sapeva di non essere mai stato così tanto felice in tutta la sua vita. John era una persona eccezionale, completamente fuori dall'ordinario, che amava l'azione ma allo stesso tempo rilassarsi davanti ad una tazza di tè bollente. Quando era con lui, Sherlock si sentiva la persona più fortunata sulla faccia della terra. Lo amava, così come non aveva mai amato nessuno, neanche Victor che era stato il suo grande amore. Avrebbe fatto di tutto, per John. Avrebbe addirittura preso volentieri il suo posto, morire lui stesso per lasciarlo vivere. L'unica cosa che poteva fare, però, era cercare di tenerlo al sicuro.

Per questo, quell'anno, mentre riaccompagnava John a casa decise di mettere un punto a tutto, seppur a malincuore.

«John» pronunciò incerto, catturando l'attenzione dell'uomo che già stava rientrando nella macchina «non sarò qui il prossimo anno.»

Il dottore si accigliò «Hai altri progetti?»

«No» rispose l'altro con un sospiro, sperava che gli rendesse le cose facili «Ti è rimasto un solo giorno.»

«Lo so» il detective alzò gli occhi al cielo, per il momento gli stava complicando tutto.

«John, è il tuo ultimo giorno. Dopodiché morirai» pronunciò piano e lentamente, come se stesse spiegando un concetto complicato ad un bambino usando la maniera più semplice. Cercò comunque di nascondere il tremolio della voce, pronunciando certe parole.

«Ripeto, lo so. Non mi stai dicendo niente di nuovo» il dottore appariva tranquillo e rilassato, quasi confuso del fatto che Sherlock non lo fosse. E quell'atteggiamento faceva impazzire il detective.

«Maledizione, desideri così tanto morire?! Non ti importa niente di–» si fermò appena in tempo, riuscendo ad impedire a quel misero me di saltare fuori, pietoso. Era ovvio che non gli importava niente di lui, come poteva essere il contrario? John lo conosceva solamente da 15 giorni, a conti fatti, e probabilmente per lui era sempre rimasto il bambino noioso del giorno uno. Quella verità lo colpì come uno schiaffo, tanto che ebbe l'impulso di massaggiarsi la faccia. «Non ti importa niente di vivere?» Aggiustò il tiro, subito dopo, rivolgendogli un'occhiata triste.

John respirò forte. «Sono un ex soldato, Sherlock, non credo di avertelo già detto» Sherlock evitò di dirgli che lo aveva capito ormai da anni, restò in silenzio per lasciarlo parlare «non ho paura di morire, in guerra impari ad andare in contro alla morte, a saperla affrontare. È stata Mary a convincermi a farmi congelare, credeva di vedermi guarito nel giro di cinque anni massimo. Ma io non sono mai stato troppo entusiasta del programma» gli spiegò, con un sorriso amaro che cominciava a spuntargli sul viso. Sherlock non batteva ciglio, troppo impegnato a controllare il suo cuore che aveva cominciato a battere all'impazzata sentendo il nome di Mary. Era uno stupido ad essersi innamorato di un uomo che non avrebbe mai potuto ricambiarlo.

«Non volevo morire, non voglio» continuò poi John «È solo che, ora come ora, non ho nessun motivo per continuare a vivere, per continuare a lottare. Per questo ti chiedo di tornare da me, il prossimo Natale. Fammi questo regalo.»

Sherlock restò in silenzio ancora per un po'. Era chiaro, John era rimasto completamente solo al mondo ora che aveva perso la sua compagna. Non si immaginava di sentirgli dire che avrebbe continuato a vivere per lui, ma, ancora una volta, la triste realtà dei fatti lo trafisse.

«Ho capito. È normale, Mary è morta e così hai deciso di lasciarti morire anche tu.»

John scosse la testa, deciso. «No, non ho scelto di morire per lei. Non capisci? Ho scelto di vivere i pochi giorni rimasti con te, credevo che lo avessi capito.»

Si sentì mancare «C–cosa?» Fu tutto ciò che riuscì a balbettare, stupido.

«Siamo onesti» rincarò il dottore «la strada verso la medicina che può curarmi è ancora lunga e io non voglio rischiare di non ritrovarti al mio risveglio – o di ritrovarti, ma più vecchio, sarebbe davvero troppo da affrontare!» Sherlock rimase a guardarlo, inebetito. Quell'uomo lo lasciava senza parole, tentò di trovare una cosa sensata per poter replicare, ma sentiva il cervello andargli a fuoco, incapace di pensare. John sorrise «Promettimi solamente che tornerai, domani. O meglio, il prossimo anno.»

«Va bene, lo prometto» sussurrò, in trance.

«Bene. Buon Natale, Sherlock.»


29 gennaio 2018


Aveva compiuto quarant'anni, poco più di 20 giorni prima. Non avrebbe visto l'alba dei 41, ma gli andava bene così. Doveva andargli bene così.

Aveva ripensato spesso, negli ultimi tempi, alle parole che John gli aveva detto tre anni prima: non ho nessun motivo per continuare a vivere. Allora non aveva voluto capire, Sherlock, accecato dall'affetto che nutriva nei confronti di quell'uomo aveva rifiutato anche soltanto l'idea di saperlo morto. Ma ora che si trovava nella sua stessa situazione, non poteva non dargli ragione.

Aveva il suo lavoro, certo, ma non gli era mai bastato per essere davvero felice. Sarebbe stata dura dover salutare John, però, e forse per questo non voleva farlo. Un ultimo giorno insieme a lui sarebbe significato la morte di entrambi, perché Sherlock sarebbe morto con lui, anche se non letteralmente. Con John sarebbe andato via il suo ultimo appiglio alla vita, era inutile girarci intorno.

Le ultime parole che si era scambiato con quell'uomo non facevano altro che tornargli alla mente, dopo la discussione con Mycroft. Aveva promesso a John che sarebbe andato a svegliarlo, ma non ne aveva avuto la forza. Voleva vederlo e mantenere fede alla sua parola, ma allo stesso tempo non voleva segnare la fine dell'uomo che era stato al centro dei suoi pensieri per anni. Voleva dirgli addio, ma non voleva sentirselo dire. D'altra parte, sapeva che John non gli avrebbe mai perdonato la sua dipartita nell'ombra. Ma cosa poteva farci, lui?

Si ritrovava davanti ad un bivio, uno di quelli senza uscita. Qualunque cosa avesse scelto, ne avrebbe sofferto. Non faceva altro da tutta la vita, del resto, sarebbe stata una perfetta chiusura del cerchio.

Mentre suonava una melodia malinconica che poco sapeva di festa, sentì vibrare il telefono nella tasca dei suoi pantaloni. Finì di suonare, prima, dopodiché afferrò l'apparecchio per poi leggere un messaggio da parte di suo fratello: “È prevista neve, domani.”


Non era ancora del tutto convinto di quello che stava facendo. Mrs Hudson era salita a controllarlo più volte, quel giorno, credendolo con ogni probabilità uscito di senno. In effetti, addobbare la casa come se fosse Natale il 29 gennaio non doveva apparire come una cosa intelligente, solamente un folle lo avrebbe fatto. Ma lui aveva rassicurato la donna per tutte e sette le volte, nell'ultima ora e mezza, accogliendola spazientito e rifilandole un commento leggermente maleducato, per farle capire di non essere impazzito del tutto.

Stava aspettando John ed era agitato. Quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe visto, nonché ultimo giorno dell'uomo sulla faccia della terra e voleva che fosse perfetto. Aveva chiesto a Mrs Hudson se poteva cucinare qualcosa per cena, e magari sfornare qualcuno dei suoi deliziosi biscotti – tutto pur di far impressione. Aveva indossato il suo completo migliore e si era fatto portare dai leccapiedi di Mycroft l'abete migliore in circolazione. Lo aveva addobbato da solo e pensava di aver fatto un lavoro eccellente, per essere la prima volta. Aveva posto decorazioni sparse in giro per l'appartamento e adesso si trovava sulla porta d'ingresso per ammirare l'opera.

John doveva credere che fosse Natale, come ogni anno. I primi fiocchi di neve cominciavano a scendere, come previsto. Un bianco Natale, doveva esserlo almeno per loro due: tutto quello che John aveva sempre sognato.

L'orologio scattò le 13, Sherlock non stava più nella pelle. Continuava ad andare avanti e indietro per tutto l'appartamento e a passarsi una mano fra i capelli, nervoso. Niente doveva andare storto, aveva addirittura preparato un programma: dalle ore 13:45 alle 15:00 avrebbero lavorato per Scotland Yard su un caso di suicidi/omicidi seriali (Sherlock aveva individuato l'assassino e sapeva come impossessarsi della prova decisiva, aspettava soltanto la presenza di John per vantarsene visto che era il caso migliore che gli fosse capitato negli ultimi mesi); dalle 15:00 alle 18:00 avrebbero passeggiato per Londra nei luoghi che avevano visitato negli anni precedenti, o almeno quelli più importanti; sarebbero tornati così a Baker Street per consumare la cena di Natale e – prepararsi? Non lo sapeva, i suoi piani si fermavano qui e, francamente, non voleva pensare a cosa sarebbe seguito dopo la cena.

La neve cominciava ad attaccarsi sulla strada, mentre una macchina parcheggiava proprio sotto casa. Sherlock scattò sull'attenti, controllando l'orologio: erano in perfetto orario.

«John!» Lo salutò una volta essersi precipitato giù dalle scale, indossando il suo cappotto alla svelta per andargli incontro.

L'uomo era appena sceso dall'auto e si era guardato intorno frastornato. «Sherlock!» Aveva esclamato vedendolo arrivare «Cosa succede?» domandò, confondendolo.

«Cosa vuoi dire?»

«L'ultima volta che sono stato svegliato da tuo fratello era perché ti ritrovavi in un letto d'ospedale, ricordi?»

«Oh, no. Sto bene» la prima menzogna della giornata: non aveva la minima intenzione di mettere al corrente John della sua malattia, l'informazione avrebbe soltanto rovinato il clima di festa, o così riteneva. «Sono stato alle prese con un caso importante fino ad un momento fa, perciò ho chiesto a Mycroft di portarti qui per risparmiare tempo» mentì pronto.

«Capisco» pronunciò il dottore, scettico o ferito, o forse entrambe le cose. Non si metteva bene.

«Lestrade ci sta aspettando a Scotland Yard, vieni. Ti piacerà il caso di oggi: il serial killer ha fatto di tutto per far passare i suoi delitti come suicidi. Ma ha commesso un grave errore!»

«Un piccolo dettaglio sfuggito a Scotland Yard che però tu hai notato subito» commentò John, divertito ed esasperato al tempo stesso, scuotendo appena la testa, mentre lo seguiva ed entrava di nuovo nella macchina nera concessa loro da Mycroft.

«Esattamente» esclamò concitato Sherlock, mentre si lanciava in un resoconto dettagliato del caso in questione.

«Quindi sai già chi è, cosa aspettavi a farlo presente a Lestrade?»

«Mi serviva prima la prova finale per incastrarlo, mi serve ancora» cercò di sembrare convincente quel tanto che bastava per non fargli capire che, a conti fatti, aspettava unicamente lui.

«Ti sei tagliato i capelli» constatò John, dopo pochi istanti di calma.

«Un po'» sorrise Sherlock, colto di sorpresa «tu invece sei la stessa ed identica persona che ho conosciuto trent'anni fa.»

«E questo è un bene o un male?» Domandò, nascondendosi dietro un sorriso amaro.

«È un bene, credimi.»


Purtroppo la giornata che seguì fu un fiasco totale. Ovviamente Sherlock (spinto da Mycroft, più che altro) aveva già rivelato a Lestrade il nome dell'assassino, proprio quella mattina, facendosi però promettere che lo avrebbero aspettato per arrestarlo. Nonostante ciò, Greg aveva avuto il buonsenso di far sorvegliare il killer (un tassista di mezza età che istigava le sue vittime ad ingoiare un rarissimo veleno letale), scoprendolo impegnato ad attuare un nuovo colpo.

Risultato: quando Sherlock e John arrivarono a Scotland Yard, incrociarono Lestrade e Donovan con in manette il loro uomo. Sherlock andò su tutte le furie, John invece si fece da parte, costernato. Riuscì a calmarlo, poco dopo, davanti ad una tazza eccessivamente bollente di tè nel primo bar che avevano trovato.

«Mi dispiace per il caso» aveva mormorato Watson, ad un tratto, non senza un certo timore.

«Perché mai?!» Aveva, quindi, biascicato l'altro «Sono stato io a risolverlo, senza di me sarebbero ancora ad un punto morto, convinti di aver a che fare con dei semplici suicidi. E invece senti i notiziari: Scotland Yard evita l'ennesimo suicidio! Meraviglioso! Cosa avete da guardare?» Aveva alzato la voce senza rendersene conto, suscitando l'attenzione delle persone intorno.

«Sì, magari facciamoci vedere felici per mancato omicidio, però. Cosa ne dici?» Tossì John, nascondendo un sorrisetto dietro il pugno chiuso.

Sherlock sbuffò, afferrando un biscotto offerto dal locale che non sapeva di niente – rimpianse il vassoio caldo che Mrs Hudson doveva star sfornando proprio in quel momento. In realtà a lui non importava nulla del merito per la risoluzione del caso, gli interessavano poco la fame e i compensi, era solamente infastidito del fatto che John si fosse perso tutta l'azione. Non che l'uomo sembrasse scontento, anzi, era impossibile cancellargli quel sorriso dal volto. Sherlock si perse ad osservarlo e la sua rabbia si placò insieme all'indignazione.

Il resto della giornata non fu più fortunato. Rimasero bloccati nel traffico londinese per poi scoprire che la maggior parte dei luoghi da loro visitati negli anni erano chiusi per allerta maltempo – “È scandaloso! Per qualche fiocco di neve?!” aveva sindacato Sherlock. Faceva troppo freddo per dedicarsi ad una semplice passeggiata nei parchi, così dopo un paio d'ore si arresero e decisero di tornare a casa.

Cenarono prima, Sherlock presentò John alla sua padrona di casa visto che non ce n'era stata ancora l'occasione, dopodiché suonò un po' per lui qualche canzone natalizia, cercando di ignorare il suo sguardo rilassato e provando a non fantasticare su quell'aria sognante che aveva messo su. Ancora una volta fu interrotto dall'arrivo di un messaggio: lo lesse e poi lo ripose nella tasca con una smorfia, riprendendo il violino.

«Non rispondi?» Gli chiese, giustamente, John.

«È soltanto Mycroft, si dice contrariato del mio comportamento di oggi e vorrebbe che mi scusassi con Gregory. Loro due sono sposati, ora, nel caso tu–»

«Lo sapevo, sì. O meglio, stavano insieme nel nostro ultimo Natale, se non vado errato» Sherlock annuì, scostando lo sguardo. Sapeva che John non fosse uno stupido e che doveva aver intuito ormai che qualcosa non andava. «Quanto tempo–»

«Tre anni» lo anticipò rapido il detective.

«2018, quindi?» Sherlock annuì ancora, silenzioso «Beh, hai fatto progressi dall'ultima volta, devo concedertelo. Almeno non mi hai fatto aspettare altri dieci anni!» Scherzò.

Sherlock non rise, anzi. Si perse ad osservare le corde dello strumento che aveva tra le mani, scuro in viso. Aveva appena ricordato il reale motivo per cui aveva aspettato ben tre anni ed adesso si malediva per non aver saputo mantenere i nervi saldi, lasciandosi manipolare dai suoi sentimenti e dalla sua voglia di rivederlo un'ultima volta prima di andare dal creatore.

«Cosa c'è che non va?»

Sherlock si voltò verso di lui, senza però guardarlo. «Niente, sto bene» rispose con un'alzata di spalle.

«Sì, questo lo hai detto anche ore fa, poco prima di affaticarti dopo una passeggiata di un'ora scarsa. Devo ricordarti che sono un dottore?»

«Cosa vuoi che ti dica, John?!»

«Tanto per cominciare» pronunciò con un sospiro «spiegami il motivo di questa farsa» Sherlock lo guardò in faccia, finalmente, notò la sua preoccupazione e tutta la sua angoscia. Aprì la bocca ma non parlò «Non sono arrabbiato se è questo che pensi. Per nulla, davvero. Vorrei soltanto capire il motivo.»

«31 anni fa, nel 1987, dopo la nostra prima giornata passata insieme e davanti ad una cioccolata calda, ti sei lasciato sfuggire un commento: è stata una giornata perfetta – certo, lo sarebbe stata di più, se avesse nevicato!»

«Te lo ricordi ancora alla lettera?»

«Ho una buona memoria» scherzò «Non ricordo le parole esatte, ovviamente, ma il concetto di base era quello. Volevo aspettare un Natale innevato per svegliarti, ma mi sono reso conto che rischiavo di non vederlo mai arrivare. Ho approfittato della prima giornata di neve prevista, ho organizzato tutto in poche ore» spiegò, infine.

«Che giorno è oggi?»

«29 gennaio, 2018.»

«Naturalmente avevi messo in conto che mi sarei accorto subito che la tua casa sarebbe stata l'unica addobbata in tutta Londra, vero?»

Sherlock si massaggiò la testa con l'archetto «Io... certo!» Esclamò, sbrigativo.

«Non posso crederci» rise l'altro «Sherlock Holmes, l'uomo che ha fatto della sua attenzione ai dettagli un lavoro, non aveva pensato a questa prevedibile opzione.»

«Non ho avuto il tempo per pensarci, è diverso!» Fece offeso, mentre l'altro se la rideva «Oh, va al diavolo!»

«Lo farò, fra non molto» mormorò amaramente John, con il solito sorriso tranquillo. Il detective si sentì morire.

«Mi dispiace.»

«Di cosa? Non è mica colpa tua.»

«In realtà lo è, sono stato io a consumare i tuoi ultimi giorni. I primi anni non ero a conoscenza dei dettagli, ma poi... Sono stato egoista, John, troppe volte. Mi dispiace davvero, è come se ti avessi ucciso io.»

«Smettila di scusarti» si era alzato e lo aveva raggiunto alla finestra, posandogli una mano sulla spalla «per prima cosa sono stato io a chiederti di continuare a venirmi a trovare. E secondo, non mi stai uccidendo tu, la malattia lo sta facendo. La macchina di tuo padre ha solamente rimandato l'inevitabile, lo avrebbe rimandato per sempre ed io ero stanco di aspettare delle cure che non sarebbero mai arrivate» Sherlock sospirò, ancora non del tutto convinto «non hai nessuna colpa, Sherlock. Piuttosto dovrei ringraziarti per essere stato al mio fianco, per avermi regalato questi ultimi giorni che, in un caso diverso, avrei passato in un letto d'ospedale. A questo proposito, non dovrei sentirmi fiacco o cose del genere?»

«È uno dei tanti vantaggi della macchina di mio padre, non far provare dolore e cose simili» spiegò Holmes, cercando di smetterla di darsi la colpa per tutto quanto e, soprattutto, trattenendo l'istinto di dirgli che lo amava. Sarebbe suonato stupido e patetico, in un'occasione del genere, pensò. «Vuoi... vuoi uscire fuori?» Gli chiese alla fine, la strada era completamente bianca, adesso, e stava ormai smettendo di nevicare.

John annuì, afferrando la sua giacca. Sherlock gli prestò dei guanti che gli andarono larghi e una sciarpa per non lasciarlo congelare, prima di seguirlo fuori. Per un po' restarono entrambi in silenzio, impegnati ad osservare il cielo e gli ultimi fiocchi di neve che cadevano sulle loro teste. Sherlock ne approfittò per pensare a quello che gli aveva detto, sperò di riuscire a togliersi quel senso di colpa da dosso, prima che fosse troppo tardi, magari.

Abbassò lo sguardo e lo fissò, rapito. Osservò il suo sorriso sincero e caldo e i suoi occhi che brillavano come quelli di un bambino che assisteva alla prima nevicata della sua vita. Immaginò a come potessero essere stati quei suoi ultimi 16 giorni, dietro un bambino, ad un ragazzo, ad un giovane uomo con tendenze autodistruttive e a un uomo, poi. Sembrava felice, molto più di come lo aveva trovato durante il loro primo incontro. La sua sola compagnia poteva averlo fatto stare meglio davvero? Gli suonava impossibile, eppure era quello che sembrava. Sentendosi osservato, probabilmente, John si girò a guardarlo. Si guardarono muti, occhi negli occhi. Lo amava, era inutile nascondersi, lo aveva sempre fatto. Avrebbe voluto vivere al fianco di quell'uomo per tutta la vita, anche in silenzio e come un semplice amico, e il fatto che non potesse farlo lo uccideva più di quanto stava facendo la malattia scoperta soltanto un mese prima. E proprio per questo aveva accettato quella fine, se non poteva stare con John, che senso aveva vivere?

«John... posso chiederti una cosa un po'... insolita?» Gli domandò, alla fine. L'uomo annuì «Balleresti con me? Adesso?» Fu difficile interpretare il suo sguardo, per una volta. Lo fissò serio per un po' senza dire una parola, chiedendosi se fosse impazzito o da dove avesse tirato fuori un'idea del genere con ogni probabilità. Alla fine sorrise e allungò una mano verso di lui. Sherlock l'afferrò.

Quello che seguì diventò il ricordo più prezioso che possedeva. Le ultime ore con John Watson, il corpo dell'uomo contro il suo, le loro mani intrecciate, unite, il respiro sul suo volto, gli occhi grandi specchiati nei suoi. Nelle lunghe giornate precedenti la sua morte, aveva ripensato spesso, molto spesso, a quel momento. Chiudeva gli occhi e gli sembrava di riviverlo, i suoi cinque sensi avevano memorizzato tutto, dal freddo della sera, alla voce della televisione alta di Mrs Hudson che usciva dall'appartamento, all'odore di John – cannella e tè.

Il cuore gli batteva ancora forte quando ripensava ai loro visi vicini, sotto la neve, e alle labbra calde dell'uomo contro la sua guancia fredda, che gli lasciavano un tenero bacio di cui avrebbe portato il segno per sempre, mentre la sua voce gentile e delicata gli mormorava piano «Buon Natale, Sherlock.»

Note dell'autrice: E buon Natale anche a voi!
Finirò di rivisitare puntate di Doctor Who in chiave Johnlock, lo prometto. Lavoro a questa one shot da un mese esatto (giorno più, giorno meno), non avevo assolutamente previsto che sarebbe venuta fuori così lunga, avevo messo in conto un 14/15 pagine... ed invece me ne sono ritrovate 10 in più!
Mi sento di dover fare un piccolo appunto: mi rendo conto che è insolitamente triste per essere una storia natalizia, dopo qualche pagina mi sono anche chiesta se postarla o se aspettare, magari, il 29 gennaio. Alla fine mi sono detta che Natale è sinonimo di speranza, e la speranza la si cerca e trova nei momenti più bui della nostra vita. Sherlock e John la hanno trovata l'uno nell'altro, nel momento in cui ne avevano più bisogno, so, questo è anche il mio augurio per tutti voi. Cercate di ritrovare il sorriso, o anche solo un motivo per sorridere, in ogni momento no che vi aspetta nel prossimo anno. Tutto vi sembrerà meno brutto, parlo per esperienza personale.
Ma adesso basta, ho parlato troppo! Ancora tanti auguri di buon Natale e felice anno nuovo, grazie per aver letto fino a qui, se vi va lasciate una recensione ♥
A presto,

Ps. MANGIATE TUTTO QUELLO CHE POTETE! NO REGRETS!

  
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