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Autore: Applepagly    24/12/2017    3 recensioni
Il riposo è solo un pretesto per nascondere un segreto, una festa è l’occasione per svelarlo. La battaglia è finita ma non è mai finita davvero, e il male non è fuori ma dentro le mura... inizia la ricerca di ciò in cui è difficile credere. Inizia la ricerca del bello.
Genere: Commedia, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bloom, Nuovo personaggio, Tecna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Merry-go-round'
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I’ll take a quiet life
A handshake of carbon monoxide
With no alarms and no surprises
No Surprises, Radiohead
 
Il tragitto verso Solaria non era particolarmente lungo.
Musa scorreva le stelle con lo sguardo, alla ricerca di quella più luminosa, quella più azzurra e viva. Seduta su un sedile piuttosto logoro, unica passeggera di quell’autobus interspaziale, si lasciava cullare dalla sua musica in mondi preclusi a chiunque altro.
Quasi non riusciva a credere di essere riuscita a convincere il vecchio Ho-boé; pensò che si stesse rammollendo o che, forse, avesse finalmente deciso di lasciarla respirare.
Appena mise piede a terra respirò a pieni polmoni. L’aria di quel pianeta era così pura e piacevole che quasi avrebbe voluto restare lì per sempre.
Su Solaria le stagioni sembravano non esistere; le sagome della capitale erano immerse in una perenne estate luminosa. Forse iniziava a capire come Stella potesse avere il Sole nelle ossa.
Sfilò gli auricolari dalle orecchie e la realtà di quel luogo la colpì in viso. La stazione era alquanto affollata ed animata da un fitto chiacchiericcio che sembrava provenire da ogni dove, a mo’ di mercato del pesce; un po’ infastidita – Musa non sopportava quei disgraziati che non sapevano tenere un tono di voce basso – avanzò verso la strada principale che si diramava dalla piazza lì di fronte.
Ricevette diverse occhiate curiose; forse per i suoi abiti, o forse per i suoi delicati tratti melodiani. Non che avesse importanza.
Dopo circa un quarto d’ora si rese conto di aver imboccato la via che conduceva al quartiere benestante. Da ogni parte sorgevano palazzi in miniatura come fossero state erbacce; curati e colorati giardini ai piedi di mastodontiche abitazioni, cancellate che si estendevano per metri e metri di metallo chiarissimo e lavorato con finezza maniacale.
Non erano fatti suoi, certo; eppure, era difficile astenersi dal riconoscere quanto alcuni, baciati dalla fortuna, non avessero mai di che lamentarsi nonostante una bambina stesse piagnucolando e facendo una scenata alla madre, poco più avanti, per qualcosa che Musa non era certa di voler sapere.
Alzando il capo, in lontananza, poteva scorgere i contorni del castello farsi sempre più nitidi. Era preceduto, stando alle immagini che aveva trovato nel tentativo di documentarsi, da un fitto labirinto e diversi sprazzi erbosi.
Quando vi si trovò finalmente davanti si sorprese delle dimensioni della costruzione. Era perfino più imponente e maestosa di come appariva in foto.
Incerta sul da farsi, cercò di avvicinarsi a delle guardie per chiedere loro come muoversi. Una di loro, vedendola arrivare trafelata e con una valigia in mano, dovette intuire che si trattasse di una delle amiche di Sua Altezza; la principessa Stella Astrea Lucinda che, proprio in quel momento, si stava sbracciando da uno dei balconi degli ultimi piani del palazzo.
«Allora ce l’hai fatta, ad arrivare! Ci hai messo una vita!» esclamò, incurante della povera guardia che, in tono supplichevole la pregava di non sporgersi in quel modo per non farsi male.
«A metà strada ho valutato la possibilità di tornare indietro» rispose, sorridendo.
Doveva davvero ridurre gli occhi in due fessure, per poter guardare in alto senza restare accecata. La luce giungeva forte ed impertinente, proprio come la sua principessa.
«Fa’ meno la spiritosa ed entra, su… ma attenta agli scatoloni che potresti trovare all’ingresso. Contengono cose importanti!» le disse, per poi scomparire oltre a grande vetrata che precedeva la balconata.
Musa lanciò un’occhiata perplessa alla guardia che, stremata, sospirò. Doveva essere abituata ad episodi del genere, data l’eccentricità della sua principessa.
Senza dire una parola, le fece strada verso la maestosa entrata principale del castello. Non le piaceva rischiare di essere indiscreta, o ficcanasare in ciò che non la riguardava; tuttavia, sapeva riconoscere l’armonia nelle forme almeno quanto nelle note di cui si circondava.
La reggia di Solaria non era, contrariamente a ciò che si era forse aspettata, immersa in uno sfarzo eccessivo; rifulgeva di colori freschi e vivaci, piastrelle chiare e lustre in cui i lampadari sottili si specchiavano in tutta la bellezza di quei rami che si ripartivano da un unico fulcro perfetto, sospeso per aria da una quasi impercettibile catena di cristalli opachi.
Da ogni parte filtrava una luce genuina che si rifletteva in quel mosaico di specchi pendenti dal soffitto; un gioco di bagliori e toni caldi conferivano a quel luogo l’aria di un santuario la cui religiosa purezza corrispondeva all’esplosione di voci e suoni, vere anime del castello.
«Non stare lì impalata» in cima alla scalinata principale, la principessa.
Dietro di lei, notò, si stagliava un’ampia vetrata che offuscava la figura di Stella, ora vaga presenza sottile che si faceva via via più nitida, allontanandosi da un tripudio di luci che sembrava aver intrappolato nella sua lunga chioma.
Qualche volta, nei momenti in cui non si interrogava su questioni per le quali nessun’altra adolescente si sarebbe scervellata, Musa si domandava come dovesse essere.
Si chiedeva come ci si potesse sentire ad avere la consapevolezza di poter reggere tutto il mondo in mano, di poterlo stravolgere ad uno schiocco di dita, di poterne essere il fulcro semplicemente esistendo. Non ricollegava quelle facoltà al fatto che Stella fosse erede della corona.
No; si trattava di qualcosa che lei aveva da sempre in sé. Essere bella – bella, non normale; bella – e saperlo, valorizzarlo, sfruttare una bellezza esteriore viva seconda solo a quella interiore; come poteva essere?
Quella nobiltà, che la sua amica sembrava a volte dimenticare assumendo atteggiamenti disdicevoli, si riscopriva in quei momenti in cui la principessa era capace di incantare ad un solo gesto spontaneo della mano, ad una sola occhiata.
Qualche volta – ma solo qualche volta – Musa aveva l’impressione di invidiare quel mondo a cui non apparteneva; lei, che gli occhi su di sé non li aveva mai avuti, nonostante quel talento e quella tenacia che aspettavano solo di ridestarsi.
«Mi dispiace di essere arrivata solo oggi. È stata dura convincere mio padre» fece, iniziando a percorrere la scalinata.
Un incantesimo e la valigia stava già fluttuando, pronta per seguire la padrona. «Oh, no. Di quella non ti devi preoccupare, ora» la fermò Stella, battendo rapidamente le mani.
Proprio come dicevo.
Subito un domestico si precipitò verso di loro.
Uno schiocco di dita. Se poi le dita sono dieci, la velocità con cui accorrono è quintupla.
«E comunque non devi preoccupartene. Non ti aspettavamo di certo» riprese la bionda, fintamente annoiata.
Non erano mai state particolarmente vicine. Anzi, a ben pensarci, era quasi un miracolo che in quel momento stessero parlando così, serenamente.
Forse, rise Musa tra sé e sé, era solo una di quelle fortunate giornate in cui si svegliava di buon umore e riusciva a sopportarla; oppure l’altra era stranamente più gradevole.
Qualcosa di temporaneo in entrambi i casi, insomma.
Eppure, Stella si sentiva allegra come non mai.
«Sei arrivata giusto in tempo per la fine dei festeggiamenti del Soldì. Quelli non te li puoi proprio perdere!» trillò, estasiata.
Di lì ad un giorno ci sarebbe stata la grande parata che, come spiegò la principessa, fungeva da chiusura della festa del Soldì, che ormai si protraeva da un mese e più.
«Ci saranno fuochi d’artificio, spettacoli con il fuoco, giochi degli specchi e tante altre cose! Ora che ci penso, sono due anni che me li perdo» continuò, scortandola verso quelle che dovevano essere le sue stanze.
O meglio, l’ala del castello in cui lei dimorava.
Notò subito che, diversamente dalle aree della reggia che aveva appena visitato, qui i colori tendevano a pacarsi un poco; quasi a voler prendere una piega più serena e misteriosa e non per questo meno brillante.
Tende di una quasi impalpabile stoffa sottile sfioravano le ampie finestre che correvano lungo la sinistra. Una visione che suscitava nel profondo una sensazione di giocosa spensieratezza; qualcosa che solo le fresche notti di luna potevano evocare.
«Ecco, per di qua!» le indicò un infinito corridoio che si chiudeva con una porta alta e a vetri che alternavano il caldo dei toni del giorno ed il fresco di quelli della sera.
Era la sua stanza.
«Musa!» prima ancora che mettesse piede lì dentro, la sorpresa nelle voci di Bloom e Flora la travolse. «Temevamo non arrivassi più!»
«Voi lo temevate» puntualizzò Stella. «Io ci speravo, francamente»
Troppo intenta a sorridere – per qualche ragione che proprio non afferrava – non riuscì a non ridere. Forse era davvero un caso, oppure l’allegria di quel posto dalle mille tonalità; o, ancora, la bellezza nel vivere così, circondata da visi felici.
Ma non lo avrebbe mai ammesso, non platealmente; non con qualcosa di più di quell’emozione che le animava gli occhi scuri.
«Che ne è, di Tecna?» chiese.
Bloom si strinse nelle spalle. «È in biblioteca. Avresti dovuto vedere la sua faccia, quando ci è entrata per la prima volta» rise. «È piena di tutte quelle cose che piacciono a lei»
«Ma smettila…» l’apostrofò Stella. «Anche tu hai trascorso un’intera giornata lì dentro. Cosa ci sia di così interessante lo sapete solo voi… insomma, capirei si trattasse della mia stanza dei cosmetici. Oh, ma voi non l’avete ancora vista!»
Mentre la principessa si cimentava in una lunga descrizione di quella che, a parer suo, era la camera più degna di interesse del castello, Tecna era completamente immersa nella lettura di un file che aveva trovato nell’archivio di Solaria il giorno prima.
Nemmeno a dirlo, sembrava che le tecnologie di quel pianeta fossero quasi alla pari di quelle del suo. In una delle nicchie che davano su uno dei giardini sul retro, la fata scorreva con avidità le righe di un sapere così antico che quasi si perdeva nelle linee della storia.
La vita della dimensione magica. Magix ed i suoi natali; storie che aveva già letto e rivangato negli anni, qui presentate sotto una chiave completamente diversa.
Un itinerario che seguiva le più vecchie tecnologie e pareva farle risalire alla Terra; quel mondo diverso che incuriosiva Tecna e dal quale si sentiva talvolta chiamata. Si ipotizzava che Magix avesse dapprima conosciuto la tecnologia grazie a quegli sporadici contatti con gli umani, con le creature che non conoscevano più fate ma che ne conservavano il ricordo.
Un’arte, la loro, che poteva essere considerata una forma di magia vera e propria; un incanto che la dimensione magica aveva portato ai suoi massimi livelli solo in virtù di quegli incantesimi che, a differenza della Terra, non aveva dimenticato.
Ma la magia degli uomini era diversa, lo era sempre stata; era ciò che aveva Bloom e che a Tecna mancava da sempre: la facoltà di immaginare ciò che non era strettamente logico. L’immaginazione era il tipo di potere che lei non riusciva a far suo.
Quel file esplorava ed esauriva il suo contenuto così a fondo che, forse, per una volta, quasi poteva invidiare tutti quei detti assurdi e quelle immagini che provenivano dalla Terra e che le risultavano incomprensibili.
Dal database della biblioteca conseguì l’accesso in remoto al suo, salvando in una cartella tutte le informazioni lì contenute.
«Non so perché, ma un po’ mi aspettavo di trovarti qui»
Dava le spalle allo scaffale in legno rossiccio che la separava dal resto della biblioteca.
Nel ristretto spazio tra due libri adagiati su uno dei ripiani comparve un paio di occhi del colore di quella bevanda che a Bloom piaceva tanto bere nei giorni freddi e che, a quanto pareva, disponeva anche di una forma solida commestibile.
Brandon sorrideva da lì dietro.
Una delle prime cose a cui aveva faticato ad abituarsi quando, quattro giorni prima, aveva raggiunto la reggia di Solaria era… beh, era proprio veder comparire il ragazzo più spesso di quanto si aspettasse.
Da quel che aveva capito, lo Specialista e la fidanzata avevano trascorso il Soldì nella residenza della di lei madre – sul satellite più vicino ad uno dei Soli del pianeta.
Ovviamente, a quanto pareva, era stato dato per scontato che lui la seguisse anche durante la permanenza al castello e che, di conseguenza, presenziasse durante quello che Stella aveva bellamente proposto, stando alle parole di Bloom, come il “Randez-vous del Winx Club”.
Per questa ragione, talora, quando si ritrovavano la sera tarda sul balcone di uno dei salotti degli appartamenti della principessa, Brandon era una presenza ricorrente.
Tecna aveva lì per lì pensato che i due si sarebbero abbandonati ad effusioni e smancerie varie anche in quei momenti tutti femminili; al contrario, era quanto mai raro che non prendesse parte alla conversazione, dando sfoggio del lato civettuolo e pettegolo del suo carattere.
È uno dei principali elementi che rendono così affiatati quei due.
La questione che maggiormente la metteva in soggezione, dell’intera vicenda, consisteva nella volontà, da parte di lui, di mantenere la parola data nella seconda delle concise e-mail che si erano scambiati in occasione del Soldì: prestare più attenzione a lei.
Cercava spesso di coinvolgerla nelle sue ciance, di scoprire tasselli in più sul suo conto; cercava di… come lo si definiva? Riallacciare i rapporti.
Tecna era ben lontana dallo speculare, nella sua mente, su un simile comportamento da parte di Brandon – ormai poteva avere la presunzione di averlo giustamente inquadrato come uno di quei membri che, in una compagnia, si preoccupavano di non escludere nessuno; tuttavia, non poteva fare a meno di sentirsi in qualche modo agitata, di fronte a tutte quelle attenzioni.
«Stai leggendo lo stesso documento dell’altro giorno?» le chiese, da quello spiraglio.
Lei annuì. «È illuminante»
«Cosa non lo è, per te?» fece, più a se stesso. Lo aveva sussurrato, come uno di quei quesiti che non necessitavano di risposta e che, ciononostante, la mente non poteva trattenere.
Tecna lo sentì. Non era sicura di aver colto il significato di quella domanda.
Brandon fece il giro dello scaffale, raggiungendola. Prese posto accanto a lei, accasciandosi su una sedia come fosse stato di ritorno da una di quelle sessioni di allenamento che era solito dichiarare stremanti.
Si zittì e l’espressione sul suo viso parve farsi più cupa. La ragazza aveva imparato che spesso, quelli come lui – quelli che non erano come lei – potevano far corrispondere alla stanchezza fisica un dolore interiore.
Che fosse quello, il caso?
«Sei certo di sentirti bene, Brandon?» gli domandò.
Lui sollevò lo sguardo, abbozzando un sorriso. «Sì, sono solo… sono solo un po’…»
«…stanco» concluse al posto suo.
Per qualche istante lo guardò negli occhi, cercando di scorgervi il suo male. Scoprì, con non poco disappunto, di non esserne in grado.
Quel genere di cose erano di competenza di chi aveva più empatia di lei, di chi conosceva Brandon e condivideva con lui molto più di quanto lei avesse mai fatto. Un mondo che solo quelli come Stella potevano conoscere, che solo quelli come Sky potevano aver vissuto come parte di sé.
Incontrò un velo, e quel velo stabiliva con precisione la differenza tra l’amicizia e la conoscenza. Era la barriera che Looma cercava di oltrepassare quando conversava con lei e che Tecna, al contrario, cercava sempre di rinforzare.
Brandon era diverso. Innalzava barriere solo quando qualcosa lo turbava, per non coinvolgere anche gli altri; o, almeno, così aveva detto una volta Flora che, sicuramente, se ne intendeva meglio di lei.
Spettava poi a chi aveva a che fare con lui decidere di scavalcare quegli ostacoli per poterlo aiutare.
«Già» fece il ragazzo, dopo un po’. «Ma passerà, credo»
Sorrise e parve rianimarsi. Si alzò, sospirando.
Per qualche ragione, gli era sembrato che Tecna si fosse preoccupata per come si sentisse e non per come stesse. Il pensiero lo rendeva inspiegabilmente allegro.
Ora poteva indossare di nuovo la sua solita aria spensierata.
«Non ti stancare troppo con quelle storie» rise, sfiorandole la spalla.
Era sempre così, tra loro. Lei si preoccupava, lui si preoccupava.
«Oh, credo sia arrivata Musa»
Era proprio facile voler bene a Brandon.
Il ragazzo si allontanò, scomparendo oltre gli alti scaffali dietro di lei, lasciandola sola con i suoi pensieri. Decise di restare lì ancora un po’, prima di raggiungere le altre.
Cercò di concentrarsi nuovamente sui preziosi documenti che stava consultando; e, quasi senza che se ne accorgesse, la lettura l’aveva riassorbita completamente.
L’esperienza della creatura sotto Fonterossa aveva acceso in lei il desiderio di esplorare più a fondo quel mondo di incantesimi e sortilegi che si nascondeva dietro le semplici nozioni apprese a scuola. La stessa vicenda che aveva vissuto Bloom, l’estate precedente, lasciava intendere che vi fosse ben più di un interrogativo ancora aperto.
L’incanto che aveva permesso ai nuclei delle scuole di difendersi in caso di minaccia, ad esempio, restava un’incognita. Quando lei e la principessa Aisha erano venute a capo della vicenda, purtroppo, il testo che avevano trovato non esauriva l’argomento.
Chi l’aveva applicato? Come poteva dar vita a creature senzienti ed in grado di distinguere – tranne per quanto riguardava quella che avevano affrontato – i pericoli dalle presenze innocue?
Sulla base di quale criterio alcuni avvenimenti erano percepiti come ostili – e dunque presupponevano che il nucleo entrasse in azione – ed altri, al contrario, erano abbastanza superficiali perché le scuole se la sbrigassero da sole?
La mente affollata da quelle domande, Tecna prese a scorrere il file piuttosto rapidamente, alla ricerca del paragrafo che, presumibilmente, avrebbe trattato quella questione. Proprio in quel momento, un movimento sulla destra catturò la sua attenzione.
Brandon era tornato. Forse, pensò, aveva dimenticato qualcosa lì; eppure, quando aveva preso posto accanto a lei, prima, non le era parso che avesse qualcosa con sé.
«Cerchi qualcosa?» gli chiese.
Lui sgranò gli occhi; quasi come se si fosse appena accorto della sua presenza. Non era necessaria chissà quale empatia, per notare quanto strano fosse il suo comportamento.
Poi lo sguardo gli ricadde sul database che stava confrontando e sul suo pc, lasciato poco distante; ed un’espressione di puro orrore gli si dipinse in volto.
«Brandon?» fece, perplessa.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata ancora agghiacciata; dipoi, rapido come era tornato, se ne andò. Tecna aggrottò le sopracciglia.
La stanchezza doveva avergli dato alla testa; anche se una voce infantile le suggeriva che la questione non fosse semplice come appariva.
 
«Lo so, Looma, lo so. Sì, non fa niente; sarà per un’altra volta. Sì, è ovvio!» Stella era occupata in quella telefonata da una buona mezz’ora e, finalmente, sembrava intenzionata a darci un taglio.
Il Winx Club ora al completo si era ritrovato sul terrazzo che si affacciava su uno dei laghetti pensili del giardinetto sottostante, come ogni sera, per tirare le somme della giornata.
Quella mattinata era stata particolarmente intensa, poiché aveva visto Musa alle prese con alcune delle tanto decantate meraviglie di Solaria e, soprattutto, con le buone maniere che erano richieste a tavola; pignolerie che nemmeno DuFour ed i suoi stramaledetti insegnamenti sul bonton avevano previsto.
E, stranamente – anche se poi non sarebbe dovuto apparire poi tanto curioso – Stella le rispettava tutte.
«Ma certo… sì, loro vengono lo stesso. Ah, ma come? Non te l’ha detto? Lui non può esserci… sì, è tutta una scusa, lo so. Oh, ma non così!» ringhiò a quel punto la principessa contro la limetta incantata poco prima apposta perché si occupasse delle sue unghie.
Bloom ridacchiò. Ormai si era abituata ad episodi del genere.
«È l’ultima volta che faccio questa cosa con la magia!» sbraitò, richiudendo il cellulare.
Sbuffò, lanciando uno sguardo disperato al disastro combinato da quello stupido incantesimo sulle sue splendide dita. «Adesso quest’unghia è più corta delle altre!»
«Una vera tragedia!» sospirò Musa, imitando il suo tono.
«Su Melody va di moda?» chiese, gettando un’occhiata alle mani dell’amica. «Tutte le melodiane adottano il tuo stile da artigli monchi e solo sul pollice?»
«Gli “artigli monchi e solo sul pollice” mi servono per suonare la chitarra» ribatté subito. «Non mi aspetto che tu capisca»
«Voi due non siete contente, se non battibeccate?» fece Flora, interrompendo esasperata la sua lettura.
«No!» risposero all’unisono.
«Questo trambusto è piuttosto fastidioso» sbuffò Tecna. «Non si riesce a pensare in santa pace»
Quando aveva salvato le informazioni che aveva letto dall’archivio della biblioteca, per errore, il database non aveva registrato solo quelle che le erano necessarie, ma anche il resto delle pagine che aveva aperto all’inizio; ora i documenti erano sparsi per tutte le cartelle e non riusciva più a trovare ciò che le serviva.
Quasi come se si fosse volatilizzato.
Ricordava esattamente il messaggio che era comparso sullo schermo del suo pc, una volta copiato il file; era perciò da escludersi che il processo non fosse andato a buon fine.
Quando Brandon era andato via – dopo aver dato sfogo alle sue stranezze – Tecna aveva spento il database ed aveva raggiunto le sue amiche, dal momento che il download era concluso.
Strinse le labbra. Qualcosa non quadrava.
«Va tutto bene, Tecna?» fece Flora, perplessa.
«No, in effetti. Dov’è Brandon?» chiese, rivolta a Stella.
«Ha detto che era stanco e che sarebbe andato direttamente a dormire, per questa volta. Credo voglia riservare le energie per domani» rispose quella. «Non ha tutti i torti. Per assistere alle attrazioni più belle bisognerà restare svegli fino alle prime ore del mattino, e noi dobbiamo essere in piedi piuttosto presto… tra circa sei ore, in effetti»
Si zittì, passando un’ultima volta la limetta contro un’unghia. «Penso che seguirò il suo esempio» disse poi, alzandosi. «Voi potete restare quanto volete»
«Ti seguo. Ho un po’ di sonno» sorrise Bloom. «Buonanotte, ragazze»
«Buonanotte» replicarono le altre tre.
Tecna non allontanava gli occhi dallo schermo, facendosi sempre più irritata. Era certa che non si trattasse di un caso, o di un errore del suo computer; ma, d’altra parte, cosa poteva essere successo?
«Ci vuoi dire che ti prende?» sospirò Musa, avvicinandosi alla sua poltrona. «È tutta la sera che borbotti davanti a quel coso»
La ragazza sollevò lo sguardo per qualche istante, per poi focalizzarlo nuovamente sul problema. «È complicato» rispose, prima di decidersi a spiegare la situazione.
Da una parte, era convinta che fosse cambiato qualcosa quando Brandon l’aveva raggiunta nuovamente ed era inorridito alla vista dell’archivio della biblioteca; dall’altra, proprio non capiva come potesse – nel caso in cui fosse giusto sospettare di lui – aver maneggiato i suoi averi.
Soprattutto, non comprendeva per quale ragione lui potesse averlo fatto.
«È per questo che hai chiesto dove fosse Brandon, prima?» fece Flora, dopo il racconto.
L’altra annuì. «Ero intenzionata a domandargli se ne sapesse niente. Anche se mi pare davvero surreale che possa avere a che fare con questa storia»
«Infatti mi sembrerebbe un po’ strano. Anche perché, per quale motivo avrebbe dovuto?» rifletté la fata della natura.
Oltretutto, perché potesse cancellare quei documenti, avrebbe dovuto introdursi nella stanza di Tecna durante quelle ore in cui lei e le altre non erano rimaste al castello. Eppure, tutte e tre erano certe che lui avesse trascorso tutto il pomeriggio nel centro della città, ad assistere ad una competizione di magischerma.
«Perché non controlliamo prima nell’archivio della biblioteca?» suggerì Musa. «Se riusciamo a trovare quella parte del documento, significa che si tratta di un incidente e che ci stiamo facendo paranoie per niente. In caso contrario, vorrà dire che qualcuno ha manomesso sia il tuo pc, sia il database»
Tecna soppesò le sue parole. «Ha senso»
«Certo che lo ha!» rise l’amica, avviandosi verso l’interno. «Dobbiamo sbrigarci. Non so se la biblioteca sia ancora aperta, a quest’ora»
I corridoi del palazzo erano illuminati appena da dei lumini che fluttuavano per aria, scivolando lungo le pareti e diffondendo un bagliore freddo – dai riflessi di quella Luna che si specchiava nel cielo. L’atmosfera era nel complesso spettrale; un po’ la stessa della sera della festa sotto Fonterossa quando, per il tragitto che conduceva alla sala, le lanterne disposte a terra conferivano all’ambiente i toni sinistri di un pericolo incombente.
In verità, nessuna delle tre era certa del percorso da intraprendere.
Tecna, benché fosse dotata di una memoria fotografica e di un ottimo senso dell’orientamento, aveva sentito diverse storie che vedevano come protagonista proprio la reggia di Solaria.
«Non so se sia vero o meno» iniziò, in un sussurro. «So bene che bisognerebbe diffidare da queste leggende metropolitane; tuttavia, non sono mai riuscita a raccogliere informazioni sufficienti a sfatare questo mito»
A quanto pareva, gli specchi disseminati per ogni area del castello avevano ben più di una funzione semplicemente estetica. «Non ci avete fatto caso? Le pareti sono interamente rivestite di superfici riflettenti» fece notare. «Di giorno, mostrano la realtà; ma di notte…»
Di notte, quando la Luna inondava gli specchi della sua luce fioca, questi la assimilavano e si oscuravano, cessando di riflettere il mondo così com’era. «I bagliori che hanno assorbito danno vita a delle illusioni ottiche. Chi conosce il castello non ha nulla da temere; l’abitudine impedisce all’occhio di vederle»
Flora emise una sorta di mugugno, gettando di riflesso un’occhiata alle pareti circostanti. Si avvicinò e, con suo grande sollievo, riuscì a vedere la sua espressione rasserenata anche nel cristallo chiaro di fronte a sé.
«Che sciocchezza. Se fosse una storia vera, Stella ci avrebbe certamente avvertite… no?» ridacchiò Musa, cercando di nascondere quella sfumatura isterica che la sua voce aveva assunto.
Tecna non rispose; scambiò un’occhiata con le altre due, nel tacito patto reciproco di non fare più menzione di quella faccenda. Erano sempre pronte a fronteggiare mostri e creature di ogni tipo ma, quando si trattava di scherzi della mente e di meccanismi oscuri, qualcosa si agitava sempre in loro.
«È meglio che ci affrettiamo» concordarono, proseguendo.
Se solo Flora avesse guardato nello specchio un attimo più tardi, lo avrebbe visto cancellare la di lei immagine ed assumere il colore della notte.
 
This is my final fit
My final bellyache with
No alarms and no surprises
No Surprises, Radiohead
 
Non credo che nella dimora di Stella esista questa roba (specchi e testi rari)… e non lo crede nemmeno Tecna. O forse sì?
Perché Brandon sembrava tanto sconvolto? Ce la farà, Musa, a sopravvivere lì per ben… due giorni?
Ce la farò, io, a rispettare la tabella di marcia?
“No Surprises” me la immagino come la colonna sonora del viaggetto della nostra fatina per le strade di Solaria. Non lo so, ma mi piace troppo!
Per intanto, ringrazio tutti e prometto che risponderò ai vostri magnami commenti durante queste vacanze! Buona Vigilia a tutti!
7th
  
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