Capitolo
8°
Tell
me angel
Il
respiro mi usciva rantolante e rumoroso dalla bocca e dal naso, mentre
l’adrenalina si scioglieva pian piano e si diluiva nelle
membra per poi
scomparire. Mi sentivo come se avessi appena percorso cento miglia di
corsa in
meno di un paio d’ore. O come se fossi precipitato da un
altissimo crepaccio.
Stordito, sbalordito, senza fiato… e affamato.
Sì, perché l’odore che mi aveva
attirato così bruscamente nel cimitero non mi aveva ancora
abbandonato, bensì
continuava ad aleggiarmi sotto al naso impertinente e punzecchiante. E
intanto
la bocca della stomaco mi si chiudeva e mi si seccavano le labbra. Non
riuscivo
a darmi pace: dovevo avere assolutamente qualcosa da mangiare. O
meglio, da bere. Alzai uno sguardo
ardente su
Carlisle, seduto immobile sulla panchina di fianco a me. Sembrava una
sfinge e
non pareva minimamente turbato dall’accaduto. Voglio dire,
avevo appena tentato
di uccidere un uomo (il pensiero mi lasciava tutt’ora
sconvolto) e ne bramavo
ancora il sangue… e lui se ne stava lì seduto
tranquillo ad aspettare che mi
riprendessi dalla shock. Be’, non che sembrasse poi molto
tranquillo, mi dissi appoggiando
la testa al tronco dell’albero che mi sosteneva; continuava
ad essere teso come
le corde di un violino, con tutti i sensi allerta in attesa di cogliere
anche solo
un minimo rumore, come un felino a caccia. Non so di preciso come abbia
fatto a
trascinarmi fin lì contro la mia volontà:
infatti, mentre correvamo via a
perdifiato dal cimitero, sentivo che avrei potuto rivoltarmi contro di
lui ed
avere facilmente la meglio, visto che mi sentivo forte e devastante
come un
torrente in piena. Ma non l’avevo fatto. Forse
perché erano successe troppe
cose insieme e non ero riuscito ad incanalare le mie nuove forze nella
giusta
direzione, quella del sangue pulsante che mi chiamava insistentemente.
O forse
perché… non riuscivo a spiegarmelo: non riuscivo
a spiegarmi perché fossi così
attratto da quella nuova e strana fonte di sostentamento, non sapevo
perché ero
diventato improvvisamente così forte, veloce, dotato di
sensi così fini, non
capivo perché Carlisle si comportasse in maniera
così strana, non potevo
comprendere perché non fossi stato capace di versare lacrime
per mia madre e
onorarla del cordoglio che meritava. Era un ginepraio che non potevo
più
sopportare. E c’era sempre quell’odore, quel sapore
quasi afrodisiaco che mi
seguiva come una scia e che mi imponeva di tornare al cimitero e fare
piazza
pulita. Ma mi trovavo come in mezzo a due poli magnetici apposti:
quello del
sangue rosso e caldo e quello di Carlisle, che al momento mi pareva
perfino più
invitante. Sì, infatti lui possedeva le risposte.
Tentennai
per un attimo e alla fine mi alzai dal tronco per andarmi a sedere
sulla
panchina di fianco al mio compagno. Ci trovavamo ancora nel parco,
anche se
dalla parte opposta con tutta probabilità, in un angolo
appartato nascosto ai
vialetti di solito più frequentati durante il giorno da
grandi cespugli di
biancospino, che in quel periodo erano fioriti ed emanavano a ondate un
profumo
dolciastro e delicato. Se non altro con quei fiori tutto attorno era
più
difficile pensare alla mia nuova tentazione… Mi appollaiai
sul bordo della
panchina di pietra e continuai a fissare Carlisle con lo stesso sguardo
di
fuoco di prima.
«Carlisle…
Mi devi delle spiegazioni, parecchie spiegazioni». Quasi mi
sorpresi del mio
tono sicuro e coinciso con il quale ero andato direttamente al sodo
senza i
miei soliti tentennamenti.
Lui
non si voltò neanche a guardarmi, come avevo notato che
faceva sempre da quando
mi ero risvegliato, anche se uno strano sorriso amaro gli sorse sulle
labbra.
«Sapevo
che l’avresti detto» sussurrò.
«Mi
sembra il minimo dopo… dopo tutto».
Non sapevo nemmeno come definirlo, quel cambiamento. Erano avvenute
così tante
cose tutte insieme.
Carlisle
sospirò scuotendo il capo e lasciandosi perfino andare ad
una risatina leggera
e decisamente fuori luogo. Mi stava prendendo in giro? Senza neanche
pensarci e
preso all’improvviso da un impulso folle e animalesco,
scattai in piedi e,
camminando avanti e indietro davanti alla panchina spazzando con i
piedi il
terreno dalle foglie morte, mi misi quasi ad urlare.
«No,
non mi devi delle spiegazioni, le pretendo! Cosa credevi, eh? Di potermi
trascinare da una parte all’altra della città,
fare il bello e il cattivo tempo
senza dirmi niente? Niente?!?».
Ma
lui continuava a fissarmi in silenzio, anche se avevo notato uno strano
movimento delle sue labbra: era come se stessero tremando, indecise
sulle
parole da rivolgermi e quale segreto rivelarmi.
«Voglio
sapere perché sono qui e non all’ospedale. Voglio
sapere perché non sto morendo
e non solo sembro in buona salute ma ho acquisito perfino delle strane
capacità. Voglio sapere perché mia madre
è morta e io sono ancora qui. Voglio
sapere cosa sono diventato e cosa devo fare. Voglio sapere
perché continui a
tacere. E soprattutto voglio sapere perché…
perché voglio bere sangue umano».
Dissi
queste parole con tono appassionato e voce rotta, mentre fermavo il mio
avanti
e indietro. Carlisle si umettò velocemente le labbra con la
lingua e mi fece segno
di sedermi accanto a lui. Ora sembrava più disteso, anzi no,
forse
semplicemente consapevole di quello che doveva fare e come lo doveva
fare.
Potevo quasi osare affermare che avesse riacquistato un po’
della sua antica cera
da dottore. Mi sedetti senza protestare.
«Dunque…
da dove potrei cominciare?» esordì passandosi una
mano sul mento con fare
pensieroso.
«Dall’inizio?»
suggerii timidamente.
«Be’,
se dovessimo partire dall’inizio dovremmo tornare al 1600,
anzi no, agli albori
dell’umanità e sarebbe una storia abbastanza
lunga».
«Non
stiamo andando da nessuna parte e di tempo ne abbiamo quanto ne
vogliamo, no?».
«Sì,
hai ragione. Non sai quanto hai ragione».
Appoggiai
i gomiti sulle ginocchia, bevendo ogni singola parola che fuoriusciva
dalla
bocca di Carlisle. Un brivido mi percorse la schiena: sentivo che
sarebbe stata
una storia interessante. Intanto il cinguettio di un usignolo ci
provenne
dall’oscurità dei cespugli di biancospino come un
breve interludio musicale.
«Per
prima cosa potresti dirmi cosa siam… sono»
sussurrai.
«Cosa
siamo, sì, hai detto
bene. Be’, di
sicuro anche tu avrai notato che non siamo creature totalmente umane:
non ci
vuole un genio per capirlo. Per quanto riguarda il resto… Da
piccolo ti
raccontavano mai le favole, Edward?».
Nel
sentire pronunciare il mio nome un pizzicorino mi percorse il collo.
Era per
caso un'altra delle sue domande trabocchetto come quella sul buio? Una
cosa era
certa: quell’uomo riusciva sempre a cogliermi di sorpresa.
Be’, uomo o
qualunque cosa fosse.
«Sì,
certo» risposi come se fosse la cosa più naturale
del mondo.
«Anche
quelle che facevano paura?».
Esitai
un attimo. A dir la verità le storie spaventose non erano
mai state le mie
preferite, anche perché, devo ammetterlo, ero sempre stato
un bambino piuttosto
fifone. Però ricordo qualche rara occasione in cui ne avevo
origliata qualcuna,
come durante le feste di Halloween. Mi rivedevo ancora, come se ne
avessi
davanti una fotografia, insieme ad alcuni miei amici in qualche stanza
buia al
lume baluginante di una sola candela nella nottata più
spaventosa dell’anno a
raccontarci storie dell’orrore a vicenda, sgranocchiando
caramelle e altri
dolciumi. E io, ovviamente, ero sempre quello rintanato
nell’angolo più in
disparte.
«…sì».
La mia risposta arrivò un po’ in ritardo.
«E
ti ricordi qualche personaggio in particolare?».
Mi
spremetti le meningi cercando di ritornare alla diapositiva di prima,
in quel
tempo che sembrava appartenere a un’altra vita. Streghe,
zombie, fantasmi…
tutto ciò cosa c’entrava mai con me? Non credevo
certo di portare un buffo
cappello a punta e di volare su una scopa lanciando malefici oppure di
infestare qualche antico castello spaventando a morte la gente nei loro
letti.
«Ti
ricordi se c’era qualcuno che… beveva
sangue?».
Bastò
quella parola, sangue,
perché la
risposta mi piombasse addosso come un ciclone. Ricordavo un Halloween
in
particolare quando Benjamin Hayley, il figlio dei nostri vicini di
casa, aveva
rubato a sua madre un vasetto di marmellata di fragole, dicendo che era
indispensabile per rendere perfetto il suo travestimento. Ricordavo
quando tra
le risate mi aveva confessato che l’avrebbe utilizzato come
sangue finto per il
suo costume da…
«Edward».
La
voce di Carlisle mi giunse come lontana anni luce e disturbata mentre
iniziavo
a tremare. Dunque ero… ero diventato…? No, non
poteva assolutamente essere,
senza dubbio doveva trattarsi di uno scherzo! Ma chi volevano prendere
in giro?
Quella roba era pura fantasia!
«Ci
sei arrivato allora?».
«Credo…
forse… Non ne sono sicuro».
«Magari
se mi dici quello che stai pensando ne possiamo discutere».
Scossi
la testa e abbassai lo sguardo in imbarazzo. «No,
è solo una fantasia assurda».
«Be’,
presto scoprirai che certe fantasie in realtà non sono poi
così assurde.
Dillo».
Chiusi
gli occhi per un momento, tentando di mantenere la calma ed inspirando
a fondo
fino a riempirmi completamente i polmoni. Nel caso seppur remoto che
quella
fosse stata la verità e non una totale presa in giro,
pensai, sarebbe stata la
rivelazione più sconvolgente della mia vita. Senza contare
che avrebbe spiegato
molte cose.
«Su,
coraggio» m’incitò ancora Carlisle.
Presi
un altro profondo respiro per poi buttare fuori tutto, aria e parole,
senza
pensarci troppo.
«V...
Vampiro».
Ecco
l’avevo detto e ora? Aspettai con ansia una risata di scherno
da parte di
Carlisle davanti a quella mia teoria così avventata, ma
nessun rumore provenne
dal mio fianco. O magari l’avevo talmente sorpreso con la mia
immaginazione
così fervida da lasciarlo senza parole; si trattava giusto
di qualche secondo e
avrebbe lanciato un’esclamazione di sorpresa. Invece non udii
altro che uno
strano suono che non riuscii a classificare, forse si trattava di un
grugnito,
subito seguito da un borbottio sommesso.
«Bravo,
Edward. Sei riuscito a sorprendermi, davvero. Non ti facevo
così perspicace».
Sempre
più impaurito e turbato osai lanciare un’occhiata
nella sua direzione. Stava
con le mani intrecciate dietro la testa comodamente appoggiato contro
lo
schienale della panchina, con i capelli biondi e fini che sfioravano il
bordo
di quest’ultimo, sul quale il capo era adagiato
nell’immagine stessa della
calma. Visti da quella prospettiva i suoi lineamenti sembravano ancora
più
affilati e perfetti, mentre la luce fredda di alcune stelle che
facevano
capolino tra le fronde alte degli alberi si rifletteva nei suoi occhi
profondi
come due pozzi senza fondo.
«Quindi
non è uno scherzo?» dissi ma tacqui subito nel
cogliere un tremore di paura
nelle mia voce.
Solo
allora Carlisle si decise a lasciar librare nell’aria qualche
nota di una
risatina rauca, quindi si tirò su dalla sua posizione
semisdraiata per
guardarmi dritto in faccia.
«Ti
sembra che stia scherzando?».
Scossi
immediatamente il capo visto che la risposta era sottointesa, dovevo
ammetterlo. Anche se lo conoscevo da poco, non credevo che Carlisle
fosse
capace di scherzi di così pessimo gusto. O anche
semplicemente di scherzi in
generale, credo. Dunque era tutto vero: mi sembrava impossibile,
incredibile.
Era come camminare in un sogno dove qualunque cosa ti dicano, anche la
più
improbabile e fantasiosa come quella, era invece la verità e
tu dovevi crederci
incondizionatamente che ti piacesse o meno. Così cadeva
anche quella debole
consolazione a cui mi ero sempre aggrappato da bambino, in particolare
quando mi
scontravo con quelle storie di paura, secondo cui almeno nel mondo
reale e
razionale di tutti i giorni non dovevo temere creature demoniache del
genere. E
ora ero io stesso una di quelle creature demoniache: così
avrei potuto mettermi
paura da solo, pensai ironicamente. Eppure, a parte il fatto di aver
bramato
del sangue umano, non mi sentivo molto diverso da prima. Voglio dire,
per certi
aspetti ero ancora l’Edward Masen di una volta, con il suo
carattere mite ed
insicuro, le sue innumerevoli domande e paure. Non mi sentivo del tutto
trasfigurato in uno di quei mostri di cui avevo tanto sentito parlare.
Non mi
sentivo il cattivo della situazione… e credevo che nemmeno
Carlisle lo fosse.
Ma probabilmente era solo questione di tempo prima che vedessi riflessa
nello
specchio la mia vera immagine, dovevo solo abituarmi alla mia nuova
identità. E
cosa sarei diventato? Cosa sarebbe stato della mia vita precedente,
anzi della
vita normale? Come potevo conciliare il leggendario e il quotidiano?
È inutile
dire che tutte queste nuove domande che iniziavano a germogliare nella
mia
mente più che incuriosirmi non facevano altro che
spaventarmi ancora di più,
mettermi addosso un’ansia terribile, tanto che mi venne il
fiato corto e mi
sentii soffocare. Ma tutto questo ruotava attorno a un’unica
domanda
fondamentale: cos’avrei fatto ora?
Intanto
Carlisle era uscito dal suo guscio di silenzio e riservatezza per
instaurare un
lungo e complicato discorso, che il mio cervello seguì
soltanto a metà talmente
era occupato a tentare di mettere un po’ di ordine tra tutte
quelle idee. Lo
sentii che diceva che sapeva benissimo come mi sentivo, frastornato ed
impaurito, perché c’era passato anche lui ormai
qualche secolo fa. Così mi
raccontò con calma la sua lunga storia. Era nato a Londra
negli anni Quaranta
del diciassettesimo secolo, figlio di un pastore anglicano accanito
sostenitore
della caccia alle streghe, sua madre era morta di parto, mentre lui era
stato destinato
a continuare la carriera del padre nella persecuzione dei cattolici,
dei
seguaci delle altre religioni e soprattutto delle incarnazioni del
male. Questo
finché il “Male” non era venuto a
bussare alla sua porta. Aveva ventitre anni,
l’età che effettivamente dimostrava ancora, notai
con un certo sconcerto,
quando in una di queste cacce s’imbatté in un covo
di veri vampiri, ben diversi
da tutti gli altri poveri innocenti ingiustamente accusati di avere a
che fare
con il maligno. Nella colluttazione che ne seguì cadde
vittima di uno di loro
e, morso, si rifugiò in una cantina dove attese. Attese tre
giorni e quando ne
uscì non era più quello di prima, disse.
Viaggiò molto in Europa, passò la
Manica ed arrivò in Francia e in Italia, per approdare alla
fine lì in America.
Fin dal primo istante era rimasto disgustato e turbato dalla sua nuova
natura,
proprio come stava accadendo a me, e soprattutto non sopportava di
dover
nutrirsi di sangue umano e quindi uccidere per il proprio
sostentamento. Voleva
rendersi utile: studiò giorno e notte e diventò
medico, così almeno avrebbe
potuto dare un senso a quella sua nuova esistenza immortale e
sovrannaturale. E
così aveva incontrato me. Era perfino riuscito a non
dipendere più dagli
omicidi per la sua sussistenza, nutrendosi invece di sangue di animale.
Ovviamente non era la stessa cosa e nei primi tempi era stato difficile
abituarsi a quella nuova dieta “vegetariana”, come
la chiamava lui. Però, con
gli anni aveva perfezionato la tecnica e ora era quasi del tutto immune
da
quella tentazione. Anch’io con il tempo avrei potuto
raggiungere un livello di
autocontrollo pari al suo e convivere bene con la mia nuova
identità, senza
avere la coscienza sporca di crimini intollerabili e riuscendo a
convincermi di
non essere un mostro terribile. Comprendeva i miei sentimenti in quel
frangente,
continuò, più di quanto credessi e disse anche
che non dovevo preoccuparmi per
il futuro perché avrebbe pensato lui a me. Avremmo lasciato
al più presto
quella città, che ormai non significava più
niente né per lui né per me. Ormai,
mi ricordai con una certa amarezza, non avevo più nessuno ad
aspettarmi a casa,
senza contare che gli ultimi rimasti che mi conoscevano probabilmente
mi davano
per morto. Una vita intera sfumata in poche notti. Saremmo andati
lontano e
avremmo iniziato una nuova vita, perché forse era meglio che
dimenticassi tutto
e, anzi, mi rendessi conto di quanto fossi fortunato ad essere ancora
“vivo”.
Saremmo stati una famiglia, dovevo solo fidarmi di lui; avrei
abbandonato il
mio vecchio cognome di Masen per prendere quello di Cullen e mi sarei
presentato
come il fratello minore di Carlisle. Ma come potevo accettare tutto
ciò così su
due piedi? Fino a un paio di giorni prima ero un umano qualsiasi e ora
mi
ritrovavo Edward Cullen il Vampiro. Carlisle continuava a tracciare a
grandi
linee il nostro futuro con notevole entusiasmo; diceva che era felice
di avere
finalmente un compagno con il quale condividere i suoi segreti dopo
così tanti
anni, anzi secoli, di solitudine. Ma io pensavo ad altro.
«Perché
mi hai trasformato?» sbottai all’improvviso
interrompendolo.
Lui
si zittì e tutto l’entusiasmo che aveva accumulato
fluì via in un secondo,
mentre si soffermava a guardarmi a bocca aperta. Di certo non si
sarebbe mai aspettato
una domanda del genere.
«Perché
non mi hai lasciato al mio destino?». Come doveva essere.
Perché?
Era
letteralmente rimasto a bocca aperta, con lo sguardo smarrito perso nel
vuoto:
forse era la prima volta che lo coglievo impreparato.
Intrecciò le dita sotto
al mento ed esitò un momento prima di rispondere.
«Nella
mia lunga esistenza ho incontrato tante persone, tanti malati come te.
Però… a
essere sincero non so darti una risposta precisa. Forse è
stato egoismo o forse
qualcosa di più. Fatto sta che appena ho incontrato te e tua
madre ho subito
capito che avevate qualcosa di diverso dagli altri. Come ti ho
già detto, è
tanto tempo che cerco un compagno, ma non ho mai avuto il coraggio di
fare a
qualcun altro quello che hanno fatto a me. Lo trovavo
sbagliato».
«Allora
perché con me…?».
«Te
l’ho già detto. Non mi sono mai affezionato
così profondamente e in così poco
tempo ad una persona. E non potevo sopportare di vederti
morire… lì, ancora
così giovane ed innocente. Forse perché ti amavo
troppo: ormai eri diventato
come un figlio per me; un figlio di cui non potevo fare a meno di
prendermi
cura. Non potevo lasciarti andare, Edward, anche se ciò
voleva dire addossarti
il peso che anch’io porto».
«Ma
perché solo io?!?» esclamai.
«Perché io sì e lei no?».
Gli
occhi di Carlisle si fecero se possibile ancora più
profondi, inghiottendo le
mie parole con pacata razionalità. «Non hai idea
del tormento,
dell’indecisione… Da una parte mi dicevo che non
era giusto assistere così
indifferente alla morte di due innocenti, ma dall’altra
consideravo anche che
non era meno sbagliato rubare le vostre vite senza permesso. Ma poi tua
madre
mi ha convinto che anche quella, la scelta di trasformarti, era di
certo meglio
al nulla a cui stavate andando incontro. Ma purtroppo per lei era
già giunto il
momento… Mi rimanevi solo tu e non potevo assolutamente
venire meno alla
promessa che le avevo fatto di salvarti».
All’improvviso
sentii bruciarmi gli angoli degli occhi come se vi si fosse insinuato
del sale
o della sabbia. Sentii le lacrime premere invano contro le palpebre per
uscire
e sforzarsi per appannarmi anche solo un poco la vista. Indubbiamente
le
intenzioni di Carlisle erano state buone e generose nei miei confronti,
ma io
ancora stentavo a credere che quella fosse la mia strada. Dopotutto
quando ero
malato avevo passato la maggior parte del mio tempo a convincermi che
quella
sarebbe stata la mia fine, tanto che quest’idea mi si era
profondamente
radicata sotto la pelle ed ora era difficile se non impossibile
estirparla.
Quella era una deviazione che non avevo previsto e a cui mi sarei
dovuto
abituare, anche se non era il tipo di esistenza a cui aspiravo. Sarebbe
già
stato difficile abituarsi all’idea di appartenere ancora al
mondo di qua,
figurarsi digerire quella di essere un mostro, un vampiro bevitore di
sangue e
creatura della notte. Però Carlisle aveva ragione, avrei
potuto imparare ad
essere come lui e ad apparire normale e quasi umano.
«E
tu credi che diventare un mostro sia preferibile alla morte?»
domandai e quella
forse era uno dei quesiti che mi premevano di più.
Il
mio amico non rispose subito, bensì mi si fece un
po’ più vicino e mi passò un
braccio attorno alle spalle con fare paterno e riprese a parlare solo
dopo
essersi avvicinato al mio orecchio tanto che potevo udire il suo
respiro
leggero.
«Sarò
sincero con te, Edward, giusto perché ormai ti considero
come un figlio. Non lo
so. Non so cosa sia la morte non avendola mai provata e quindi non
posso fare
un paragone oggettivo. Però so che a noi è stata
data un’alternativa, quella di
essere vampiri. C’è la vita, la morte e
l’essere vampiri. Per moltissimo tempo
mi sono odiato per la mia natura, perché credevo di essere
un abominio della
natura: mi chiedevo quale bene potesse mai costituire una creatura che
beve
sangue. Apparentemente nessuno, mi ero più volte risposto.
Ma poi sono
diventato medico, ho scoperto uno nuovo stile di vita eticamente
corretto e
sono giunto alla conclusione che, se anche i vampiri sono gli esseri
malvagi
per antonomasia, questo non è corretto in tutti i casi. Tu
sei ancora molto
giovane, Edward, ma con il tempo capirai che non sempre quello che a
prima
vista sembra sbagliato lo sia davvero; spesso si tratta solo di
apparenza e
pregiudizi».
«Sì»
risposi. «Ma non hai ancora risposto alla mia
domanda».
«Be’,
per forza! Ho già detto che non posso rispondere. Comunque
nel tuo caso ho deciso
per questa via, anche se è stata una decisione terribilmente
sofferta di cui
ancora adesso sono incerto, perché ritenevo che tu meritassi
di più di un
cimitero. Non mi piace al gente che teme la morte e fa di tutto pur di
rinviarla e non credo di essere di quella schiatta, ma penso di saper
riconoscere quando è giunto il momento di
un’anima. E in ospedale ho capito che
non era il tuo momento. Non chiedermi perché, lo sapevo e
basta».
«Be’,
se in ospedale non era ancora giunto il mio momento, quando lo
sarà? Hai detto
che siamo eternamente giovani ed immortali, no? Ciò
significa che non sarà mai
più il mio momento, che sarò intrappolato qui per
l’eternità nel corpo di un
diciassettenne. Questo vuol dire che non rivedrò mai
più le persone che ho
amato in paradiso… che sarò per sempre separato
da loro». Ora la mia voce aveva
acquistato una sfumatura di rabbia e di amarezza mentre
l’immagine sorridente
di mia madre mi baluginava davanti agli occhi come un fantasma fatto di
vapore
proveniente direttamente dall’aldilà.
«Solo
perché viviamo a lungo non vuol dire che non possiamo
morire… essere uccisi»
sussurrò ancora Carlisle al mio orecchio, ma quasi non lo
udii.
«Anche
se fosse credi che ci sarebbe mai un posto in paradiso per noi,
Carlisle?».
Lui
non rispose e per l’ennesima volta cadde il silenzio, in cui
però aleggiava una
mezza risposta.
«Te
lo dico io: no. Cosa credi?
Guardami,
guardaci! Siamo vampiri e anche se possiamo decidere per un'altra
strada
rimaniamo pur sempre progettati per uccidere e per bere sangue! Tuo
padre era
un pastore, ti ho sentito pregare… quindi credo che tu
sappia meglio di me in
cosa consista un peccato capitale». Ero affannato, mi era
venuto il fiatone
come se avessi corso per chilometri e in uno scatto repentino mi
staccai dal
mio amico, alzandomi in piedi ed allontanandomi dalla panchina.
«Ma
lassù ci giudicano per quello che facciamo, non per chi
siamo» rispose lui con
il capo chino
Sospirai.
«Se fossi stato ancora Edward Masen non avrei mai desiderato
sangue umano».
La
casa era silenziosa e vuota. Le luci esterne proiettavano sulle pareti
sbiadite
strane forme in un divertente gioco di ombre cinesi. Ormai era quasi
l’alba:
potevo scorgere il cielo colorarsi di rosa al sopraggiungere
dell’aurora
attraverso le fessure delle persiane del salotto. Carlisle era tornato
in
ospedale per dare le dimissioni e sarebbe tornato di lì a
poco, magari con
qualche animale che avrebbe potuto placare il mio appetito lacerante.
Perciò mi
trovavo da solo in casa, in quello stesso salotto dove pochi giorni
prima avevo
abbandonato le mie spoglie mortali; si potevano scorgere ancora
parecchie
tracce di sangue rappreso, il mio, sul divano e sul pavimento, ma non
avevo il
coraggio di mettermi a pulire nell’attesa. Presto saremmo
partiti per un’altra
città e una nuova casa mi avrebbe fatto dimenticare quelle
poche stanza buie. Mi
alzai dalla mia posizione rannicchiata nel vano della finestra ed
iniziai a
vagabondare per la stanza: ero curioso di fare una prova. Volevo
proprio vedere
se certe dicerie erano vere oppure solo leggende. In fondo alla stanza,
subito
dietro la porta, c’era uno specchio grande quanto me, con
un’antica cornice in
legno di ciliegio decorato a volute. Mi ci piazzai davanti a occhi
chiusi. Pian
piano ne aprii uno e costatai che c’era qualcosa riflesso
nello specchio:
dunque voleva dire che la leggenda secondo cui vampiri e streghe non
possono
specchiarsi non era altro che una baggianata. Soddisfatto della
scoperta
schiusi anche l’altro occhio e quando, tranquillizzato, feci
per tornare al mio
angolo, fui colto invece di sorpresa. Chi era mai l’individuo
riflesso su
quella superficie? Non mi assomigliava affatto. Tornai a fissare quella
che
doveva essere la mia immagine letteralmente a bocca aperta.
L’unica cosa che
riconobbi erano le occhiaia che ormai mi accompagnavano da tempo, da
quando la
malattia mi aveva accolto tra le sue braccia. La carnagione,
però, pur nel suo
candore, non aveva più quella sfumatura grigiastra e
malaticcia, bensì aveva
acquistato la lucentezza della perla e la pelle al tatto era
più morbida del
velluto più pregiato. I capelli ramati e scompigliati
avevano molte più
sfumature di rosso di quante parevano esistere in natura. I lineamenti
parevano
raddrizzati e limati e il mio nuovo volto geometricamente perfetto
assomigliava
a una di quelle antiche statue greche. Anche il fisico aveva subito
parecchi
cambiamenti: ero più magro, leggermente più alto
e dinoccolato ed atletico. Potevo
sentire i muscoli delle braccia e del petto guizzare appena sotto
pelle. Sarei potuto
rimanere lì a rimirare la mia immagine per ore: il contorno
delle labbra, del
mento, i denti bianchissimi e affilati. Se non fosse che un particolare
mi
ricordò il perché di quel cambiamento. I miei
occhi avevano ormai del tutto
abbandonato il verde giada che li aveva caratterizzati nella mia vita
precedente e davanti al quale ogni ragazza non poteva fare a meno di
sospirare:
ora erano rossi. Non
color ambra come quelli
di Carlisle, ma rossi come braci ardenti: gli occhi di un demone. Mi
allontanai
spaventato dallo specchio con un salto e tornai nell’angolo
vicino alla
finestra, ansante. Un vampiro, mio Dio, ero un maledetto vampiro
succhiasangue!
Mi coprii quegli occhi immondi con le mani, rannicchiandomi con le
ginocchia
pigiate contro il petto, quasi sperassi si sparire per sempre. Poi,
unico
rumore proveniente dalla strada sopra il ronzio delle prime macchine
che
iniziavano a circolare e allo sbattere di qualche imposta, mi giunse
una voce
stonata e roca. Sicuramente si trattava di un ubriaco, pensai.
Sì, un ubriaco
che non ancora stanco della sua notte di bevute aveva scelto proprio
quell’angolo
di strada per cantare la sua serenata stonata e cacofonica. Era la
musica
peggiore che avessi mai udito, ma le parole, probabilmente inventate
sul
momento, mi arrivarono al cuore come un dardo.
Tell me angel, tell me why
Why I can’t recognize this world,
this town
This awful hands beyond my eyes
Forse perché nemmeno io riuscivo a riconoscermi.
Ok aggiorno di corsaaaaa! Capitolo piuttosto lungo anche perchè le cose da dire erano milioni e mi scuso per il solito ritardo ma questa volta è stata anche colpa dell'ispirazione che faceva le bizze. Spero di aver reso bene la scena, di non aver saltato parti importanti che magari potevo approfondire e di non essere stata troppo noiosa. Il prossimo chap si baserà sui diari di Edward, per ora non dico altro: sopresa! Ho notato che siete stati scarsini con le recensioni questa volta eh? Be' almeno questo recensitelo per bene! Ringrazio: Wind e Jadis96 (mi dispiace non poter stare qui a discutere di più sulla tua domanda ma davvero vado di corsa; comunque all'inizio del chap c'è la risposta: spero sia abbastanza esauriente! scusa!).
Al
prossimo!