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Autore: audreyny    25/06/2009    7 recensioni
La vita di Oscar e Andrè narrata per bocca dei due protagonisti; una carrellata dall'infanzia alla maturità, tratteggiando quelli che per me sono stati i punti salienti della loro storia individuale e della loro storia d'amore. Perchè Oscar e Andrè sono una persona sola e la loro è un'unica vita, narrata a due voci.
Genere: Romantico, Erotico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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AVVERTENZA: Questo capitolo riprende il famoso (o famigerato…) episodio della camicetta strappata, ma lo fa a mio personalissimo gusto

AVVERTENZA: Questo capitolo riprende il famoso (o famigerato…) episodio della camicetta strappata, ma lo fa a mio personalissimo gusto. In altre parole le cose qui vanno in maniera assai diversa da come le conosciamo noi, o meglio il risultato è lo stesso ma le motivazioni divergono completamente. Questa storia è una “what if…” pertanto sebbene gli episodi di partenza siano tutti tratti dall’anime, la loro descrizione è completamente differente, incentrata sul “minuetto d’amore” tra Oscar e Andrè, che li porterà fatalmente l’uno nelle braccia dell’altra e che non trova spazio per terzi intrusi, vedi tronco di pino svedese. Ecco perché ho scelto di non parlare affatto del ritorno di Fersen dall’America, perché non mi interessava e, nella mia storia, non interessava nemmeno ad Oscar (e quindi figuriamoci ad Andrè…).

Ho voluto fare questa precisazione perché forse nel riassunto della trama non sono stata molto precisa a riguardo e non vorrei che qualcuna leggendo rimanesse stupita o peggio ancora delusa! Tra l’altro a un certo punto in questo capitolo Oscar dice che si sente in colpa per aver in un certo senso “istigato” Andrè a quasi violentarla. Attenzione: si tratta di una istigazione meramente morale, frutto dei sensi di colpa e degli “inturcinamenti” psicologici di Oscar, sia chiaro che non volevo insinuare niente di brutto!

Buona lettura!

 

 

 

Ho ventisette anni e ancora non conosco l’amore.

 

Ieri il mio amico di una vita, il mio Andrè, mio fratello, il mio compagno di risate spartite e di giochi condivisi, di confidenze, di chiacchiere, di attimi rubati all’etichetta ed ai doveri di corte, di nascondigli, di momenti che solo io posso ricordare, si è rivelato ai miei occhi sotto una luce del tutto nuova, diversa.

Per la prima volta ho notato le differenze tra di noi, e non parlo di differenze di classe sociale o di rango, no, quelle non mi hanno mai nemmeno sfiorata o minimamente interessata, sto parlando di differenze sottili, più profonde, marcate, dannatamente incancellabili, così profondamente radicate da fare male più di uno schiaffo in pieno viso.

Lui è un uomo ed io una donna e la cosa non mi è mai sembrata tanto dolorosamente evidente quanto ieri sera.

Faccia a faccia, l’uno di fronte all’altra, mi sovrastava di tutta la testa, è più alto di me, Andrè, più forte, più robusto; mi viene il sospetto che in tutti i nostri duelli mi abbia sempre volontariamente lasciato vincere, perché ieri sera non ha avuto la minima difficoltà ad avere ragione di me in pochi secondi.

Mi ha stretto i polsi con le mani, mi faceva male, ed un lampo come di cattiveria è passato nei suoi occhi di solito così buoni, così tanto verdi da non sembrare quasi occhi di essere umano, se non fosse per la dolcezza infinita che si legge sempre nel suo sguardo.

Ma non c’era dolcezza, ieri sera, negli occhi di Andrè, solo ansia e desiderio, un desiderio felino di possedermi.

Mi voleva, voleva prendermi e lo ha fatto senza chiedere; per la prima volta non ha chiesto permesso, non ha chiesto scusa, non si è giustificato per il peccato originale, incancellabile ai suoi occhi, di essere l’uomo sbagliato al momento sbagliato.

“Così mi fai male, Andrè” ho mormorato mentre lui stringeva sempre più, immobilizzando le mie mani, facendomi sentire impotente, vulnerabile, non potevo reagire, non potevo difendermi.

Ma lui non ha allentato la presa, non ha detto una parola, si è limitato a guardarmi con quel suo sguardo tutto nuovo, ancora non sono abituata al ciuffo di capelli neri che gli copre metà volto e nasconde quell’infame cicatrice che per colpa mia si porterà dietro per tutta la vita.

Ha continuato a guardarmi e poi si è stretto a me e mi ha baciato.

Andrè mi ha baciato.

E non è stato un bacio goffo, timido, tremante, incerto, oh no! È stato un bacio prepotente, imperioso, che si accorda così malamente col carattere dolce dell’amico che conosco.

È stato un bacio che sapeva quello che voleva e come lo voleva e che ha deciso di prenderselo, in quel momento, senza curarsi di null’altro che del suo desiderio. Persino io che non conosco l’amore, che non so che cosa vuol dire abbandonarsi al caldo abbraccio di un uomo innamorato, persino io che sono così inesperta e poco incline ai gesti d’affetto, persino io sono stata capace di leggere il desiderio che straripava da quel bacio.

È stato soltanto un bacio.

Le sue labbra erano morbide esattamente come le avevo immaginate imparandone a memoria il contorno senza averle toccate mai e la sua lingua, mio Dio, la sua lingua era umida, forte, si è fatta strada nella mia bocca senza esitazioni, con una prepotenza che non sapevo potesse appartenere all’unico uomo che io abbia mai guardato.

La sua lingua ha preso a giocare con la mia e la cosa mi ha talmente stordita, stupita e così mortalmente imbarazzata che non ho avuto modo né tempo di rendermi conto di quello che stava succedendo.

Un colpo ancora, una spinta, non dolce, non delicata come solo Andrè sa essere, ma anch’essa arrogante,  prepotente ed ero sul letto.

Il suono sordo della stoffa che si lacera ed ero nuda di fronte a lui, che ansava vistosamente e non era certo per lo sforzo, esiguo, che aveva fatto per buttarmi sul mio giaciglio scomposto e levarmi di dosso quella camicia sottile, unica residua difesa tra il mio pudore e gli occhi di fuoco del mio amico.

Il suo ansito era di desiderio e non c’era modo di fraintenderlo.

Nuda davanti ad Andrè, il mio seno per la prima volta esposto ad uno sguardo che non era il mio, non so che cosa ho provato, sbigottimento, paura, vergogna, terrore. Non so nemmeno che cosa ha provato lui che mi guardava con ferocia e sembrava non più in grado di rientrare in sé.

Ho iniziato a piangere e sinceramente ancora adesso non so il perché.

Ho pianto per lui, perché mi ha rivelato questo amore cresciuto dentro di sé piano, germogliato in tutti questi anni in maniera tanto inconfessabile quanto inesorabile, per la disperazione nella sua voce, che non ha pensato nemmeno per un istante di provare a dare una possibilità a quell’amore; per il fatto di averlo indotto a pensare che quella dimostrazione di violenza fosse l’unico, il solo modo per rendersi mio pari e per farmi finalmente uscire dalla mia ottusità e capire quanto io sia importante per lui; ho pianto perché ho costretto una persona dolce e buona ad andare contro la propria natura e l’ho quasi moralmente istigato a compiere un gesto di cui si sarebbe inevitabilmente pentito; ed infine ho pianto per me, che non so che cosa voglia dire amare, ma soprattutto essere amata, che ho questi sentimenti chiusi a doppia mandata nel cuore, ma non ho la chiave per tirarli fuori. Ho pianto perché i duri anni di disciplina militare che mi hanno imposto di non rivelare mai le mie debolezze si sono sgretolati con la facilità di una gelata al sole; ho pianto per la confusione che porto dentro, per i miei sentimenti arroccati dentro di me intorno a montagne di perbenismo e di formalità, complicati da convenzioni sociali e doveri familiari e militari che mi impediscono di vivere in maniera spensierata un sentimento così stupefacente, eppure così semplice e così comune come l’amore fisico.

Ho pianto per tutto questo e non per quello che stava accadendo in quella stanza tra lui e me, ma le mie lacrime devono averlo risvegliato da un sonno profondo, dal trance in cui era caduto dal momento in cui mi ha toccato, perché immediatamente si è riscosso, mi ha coperto col lenzuolo leggero del letto ed ha pronunciato parole contrite e confuse richieste di perdono.

Era sconvolto e disgustato da se stesso, incapace di credere di avermi potuto fare una cosa simile e non ho trovato una parola, nemmeno una, tra i milioni che mi sono stati insegnati a scuola da quando ero bambina, per fermarlo, per spiegargli il vero motivo delle mie lacrime, per non farlo andare via con un senso di colpa sbagliato, così come sono sbagliata io, tutta quanta, dalla mia nascita fino ad oggi.

Se n’è andato e mi ha lasciata lì, indifesa e nuda, sola e angosciata, a domandarmi che cosa era successo e che cosa stava per succedere, a disperarmi della mia stessa disperazione. Mi ha lasciata piena di domande frustrate e di desideri inconfessabili ed inespressi e di dubbi atavici, tutti attorniati e circondati da una sola, incrollabile certezza.

Sì, perché in quel momento tutto avrei voluto, fuorché il mio Andrè mi lasciasse sola.

L’odore del suo corpo così vicino al mio ed i suoi contorni mai sentiti prima così nitidi e precisi mi hanno fatto sciogliere un calore liquido tra le gambe che mi ha riempito il corpo di spasmi di desiderio e la testa di pensieri che non oserei esprimere a voce alta nemmeno se da questo dipendesse la mia vita.

Che Dio mi perdoni, ma ieri sul quel letto avrei voluto che il mio Andrè andasse fino in fondo, che finalmente mi prendesse e facesse di me la sua donna da sempre e per sempre…

 

   
 
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