Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    30/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

 

Come d'accordo, il giorno appresso Caterina e Giovanni partirono da Ravaldino di buon'ora, diretti verso la Casina.

Non volendo cacciare, non avevano con loro armi, eccezion fatta per il pugnale della Contessa e per una spada, che aveva voluto portare per sicurezza. Anche se la riserva di caccia era di sua proprietà, aveva comunque paura di qualche possibile imboscata, soprattutto ora che il Pandolfaccio era tornato in Romagna.

Attraversarono i boschi in silenzio, senza rivolgersi mai la parola. Fin dalla partenza, la Tigre era stata distratta, immersa nei suoi pensieri, e il Medici aveva preferito evitare di irritarla con domande inutili.

Ormai gli era chiaro che quando la moglie voleva dirgli qualcosa, glielo diceva e basta. Chiedere, quando non era lei stessa a dire spontaneamente, era uno sforzo inutile.

Viaggiavano su un unico cavallo, un turco molto agile che la Sforza aveva da poco fatto arrivare nelle sue stalle. L'unica licenza che Giovanni si prendeva, di tanto in tanto, era appoggiare il mento sulla sua spalla, sfiorandole la guancia con le labbra.

Quando giunsero infine alla Casina, la Contessa sistemò la bestia e lasciò andare avanti il marito che ne approfittò per accendere il camino e aprire un momento l'unica finestra, in modo da cambiare un po' l'aria.

Era una bella giornata settembrina, con l'aria fresca e il cielo terso. Anche se il terreno era ancora un po' fangoso per la recente pioggia abbondante e le foglie sulle piante fossero già imbrunite, si sarebbe potuto pensare che si fosse già all'inizio di una nuova estate e non ancora in autunno.

Quando la Tigre entrò nella Casina, Giovanni chiuse di nuovo la finestra e si voltò a guardarla.

I suoi occhi verdi sfuggivano quelli del marito e il modo nervoso in cui riattizzò le fiamme nel caminetto fece intendere al fiorentino che la sua mente era ancora lontana.

Malgrado ciò, senza molto preavviso, la donna andò verso di lui e, con impazienza, lo spinse fino a farlo appoggiare al tavolone su cui stavano in bella mostra un paio di calici e un piatto, lasciati lì l'ultima volta che avevano passato la giornata alla Casina.

Impattando contro il legno, Giovanni ricambiò a lungo i baci della moglie e non si oppose nemmeno quando lei gli tolse il mantello e poi cominciò a trafficare con i lacci delle sue brache, tuttavia, appena prima di lasciarsi trascinare via dalla sua repentina iniziativa, la fermò: “Aspetta, aspetta...”

Con gran riluttanza, la Leonessa smise di cercare di baciarlo e le sue mani, ormai intrecciate a quelle del marito, lasciarono i lacci ancora per metà annodati.

Incrociò lo sguardo del Medici per qualche istante. Le iridi chiarissime dell'uomo stavano cercando qualche risposta, ma Caterina, in quel momento, voleva solo prendere tempo e differire il discorso, che pur sentiva il bisogno di fare, il più possibile.

“Dopo...” gli sussurrò, sporgendosi di nuovo verso di lui che, per non perdere l'equilibrio, si puntellò al tavolo con il palmo della mano.

“Prima.” controbatté il fiorentino, con una certa fermezza, sottraendosi alla moglie in modo molto evidente.

Cercando di ricomporsi, la Tigre annuì stancamente e poi lasciò Giovanni vicino al tavolo, per andarsi a sedere sul letto: “Hai ragione. Meglio prima.”

L'uomo la incoraggiò con un gesto e si andò a mettere accanto a lei, zoppicando un po', dopo essersi sistemato un po' i riccioli castani che si erano spettinati all'assalto della moglie.

“Bianca ha capito che io e te aspettiamo un figlio. Mi ha consigliato di dirlo almeno a Ottaviano e Cesare, mentre lei lo avrebbe detto agli altri miei figli. E così ho cercato i due più grandi e ho fatto come mi ha suggerito lei.” spiegò la Sforza, prendendo una mano del marito tra le sue e cominciando a osservare le sue lunghe dita: “Ottaviano l'ha presa abbastanza bene, meglio di quel che credevo. Mentre Cesare...”

Il Medici sentì la moglie sospirare pesantemente. Lui non la stava guardando in volto, improvvisamente teso, conscio che per Caterina il confronto con i suoi figli più grandi aveva un peso notevole.

“Alla fine gli ho dato uno schiaffo.” concluse la donna, deglutendo rumorosamente.

A quel punto Giovanni si fece spiegare nel dettaglio il perché e il come e quando la moglie gli ebbe riferito tutto quanto, l'uomo si chiuse in un assordante mutismo per qualche minuto.

Alla fine, sollevando gli occhi verso di lei, chiese: “Pensi che ci si debba preoccupare?”

“Non lo so.” ammise con franchezza la Sforza, che da quando aveva colpito Cesare non faceva altro che tormentarsi proprio con quella domanda.

Fu il turno del Popolano di sospirare profondamente e poi, come a imitare il metodo usato dalla moglie per liberarsi la mente, accarezzò la guancia della donna con lentezza e, senza aggiungere altro, la baciò, riprendendo quello che lui stesso aveva interrotto poco prima.

Quando il sole era ormai al mezzogiorno, la Contessa e l'ambasciatore erano ancora a letto, in silenzio, entrambi con lo sguardo rivolto alle fiamme del camino, assorti in ciò che si agitava nelle loro menti.

Giovanni, distrattamente, accarezzava la spalla liscia della moglie, mentre Caterina, sul fianco, faceva altrettanto con il ventre, così piatto da parere rientrante, di lui.

“Posso provare a parlarci anch'io?” chiese il Medici, rompendo il silenzio tanto all'improvviso da far quasi sobbalzare la moglie.

“Lo faresti?” chiese Caterina, puntellandosi sul gomito e guardando il viso del fiorentino.

Aveva un accenno di barba, gli occhi tranquilli, malgrado tutto, e ora che lei si era messa a fissarlo, le sue labbra carnose si stavano anche sollevando in un sorriso: “Certo che lo faccio, se tu me lo permetti.”

“Potrebbe non essere facile.” lo mise in guardia la donna, appoggiandosi un po' di più a lui, sentendo il cuore battere molto più rapido di quello dell'uomo che si stava ancora una volta offrendo in aiuto.

“Non per criticare, Caterina, ma me la cavo un po' meglio di te, in certe cose.” ridacchiò il Medici, che sembrava aver dissipato ogni tribolazione.

Il fortissimo accento toscano che gli era uscito nel dire quella frase, fece spuntare un sorriso anche sulle labbra della Tigre che, rassicurata dalla sicurezza del marito, convenne: “Te la cavi meglio di me in moltissime cose...”

“E allora appena mi sembrano in buona – decretò il Medici, facendo voltare la moglie sulla schiena e passando una mano lungo tutto il suo profilo, dalla spalla fino alla coscia – parlerò sia a Ottaviano, sia a Cesare.”

Sentendo il peso del marito sopra di sé e le sue labbra sul collo, la Tigre ebbe appena la voce per dire: “A te daranno ascolto...” e poi ritornò a concentrarsi su Giovanni.

 

Bartolomeo sentiva dei crampi allo stomaco, ogni volta che passava davanti alla camera che era stata sua e di sua moglie.

Da quando Bartolomea era morta, non era più riuscito a dormire una notte intera, ma solo un'oretta ogni tanto e le pesanti occhiaie che cerchiavano le sue piccole orbite lo testimoniavano.

Stava mangiando in modo sregolato e tutti si erano accorti che era ancor meno loquace del solito.

Sia Carlo sia Gian Giordano Orsini l'avevano sostenuto molto, in quelle settimane, non lasciandolo quasi mai solo e provvedendo di persona alla sepoltura della loro zia, in modo da non dare troppi incomodi a quel vedovo che appariva tanto sconvolto.

Bartolomeo aveva apprezzato come entrambi i figli di Virginio avessero preferito restare a Bracciano con lui, piuttosto che gettarsi nell'ennesima guerra, lasciandolo solo. E parimenti aveva visto come un segno di caloroso rispetto il modo in cui avevano accettato la sua decisione di mandare all'aria la sua ultima campagna stipulando una pace che lo vedeva quasi un perdente, benché sul campo fosse stato sul punto di vincere.

Se da un lato tanto affetto lo aveva confortato, dall'altro lo stava facendo soffrire ancora di più.

Avrebbe potuto desistere e mandare tutto all'aria, restando in seno agli Orsini fino alla fine dei suoi giorni, ma sapeva che sua moglie aveva ragione e che diventare qualcuno era per lui l'unico modo per non andare a fondo. Gli Orsini, ormai, stavano scendendo la china.

E poi, l'aveva promesso a Bartolomea.

Mandando giù a fatica un po' di vino, Bartolomeo d'Alviano chiuse la lettera destinata a Giampaolo Baglioni, in cui rispondeva ad alcune domande organizzative riguardanti il matrimonio con Pantasilea.

Lo studiolo era freddo e l'uomo s'era dimenticato di accendere o almeno di far accendere da qualcuno il caminetto. L'unica fonte di luce era la candela che aveva davanti.

In quel castello, in notti come quelle, l'umidità e il freddo entravano nelle ossa, anche quando era solo settembre e non pioveva da giorni.

Stava facendo solo quello che gli era stato ordinato di fare, come si addice a un soldato.

E allora perché, chiudendo il messaggio, si sentiva solo un traditore?

 

Giovanni aveva aspettato con pazienza e finalmente, sul finire del mese, il momento propizio era arrivato.

Caterina si era fermata a palazzo fino a tardi, per via di certe annose questue riguardanti i soliti battibecchi tra artigiani che si facevano – a loro dire – concorrenza sleale e così era spettato al Medici supervisionare i figli della Tigre durante i loro addestramenti.

Aveva atteso che la sessione fosse finita e poi aveva seguito gli altri nella sala delle armi. Mentre il maestro diceva ancora qualcosa a qualcuna delle reclute, il Medici si avvicinò a Bernardino e gli scompigliò i capelli con fare scherzoso, complimentandosi con lui per l'energia che metteva nelle sue cariche.

Felice come una Pasqua, il piccolo si accontentò di quella manciata di secondi di gloria e poi se ne andò dall'armeria, per, a sua detta, riferire ai suoi amici – per lo più i bambini della servitù – quel che 'messer Medici' gli aveva detto.

Giovanni sapeva che Cesare, quel pomeriggio, era rimasto alla rocca per alcune lezioni di latino, per le quali la Tigre aveva cercato un precettore esperto di testi canonici, senza badare all'entità del suo ingaggio, dato che l'avrebbe pagato, come sempre, il Cardinale Sansoni Riario.

Cercando di stare il più possibile calmo, il Popolano avvicinò Ottaviano e gli disse: “Volete seguirmi un momento? Vorrei parlare a voi e a vostro fratello Cesare.”

Il Riario deglutì e guardò di sfuggita Galeazzo, che stava parlando con un soldato di falconetti, e così, non trovando appoggio nel fratello, guardò il fiorentino e annuì.

Il Popolano recuperò Cesare proprio mentre usciva dalla sala delle letture, dove aveva seguito le sue lezioni private e così invitò entrambi a seguirlo. Li portò in un angolo solitario della rocca, facendoli accomodare su una delle panche che stavano in corridoio.

Aveva preferito evitare una stanza chiusa, per distendere un po' l'atmosfera. In più, se anche qualcuno li avesse sentiti, il Medici non aveva intenzione di dire nulla di segreto.

“Vostra madre vi ha detto che aspetta un figlio.” iniziò, preferendo un approccio diretto.

Ottaviano abbassò lo sguardo, mentre Cesare sostenne quello del fiorentino, quasi con aria di sfida.

Dopo aver preso fiato, il Popolano cercò di convincere i due del fatto che la nascita di un nuovo bambino non avrebbe peggiorato la loro situazione, anzi, che probabilmente la Contessa sarebbe stata più morbida anche nei loro confronti.

Cesare ribatteva, di quando in quando, criticando il comportamento della madre e sostenendo che una donna nella sua posizione avrebbe dovuto accettare la sua vedovanza già alla morte del primo marito, invece di mettersi in ridicolo risposandosi due volte e avendo altri figli.

“Vostra madre – fece dopo un po' il Medici, stanco di giostreggiarsi tra mezze critiche e mezze minacce – sta facendo del suo meglio.”

Ottaviano, che non aveva mai aperto bocca, si inumidì le labbra e si grattò il lungo naso, prima di sussurrare: “Lo sappiamo.”

Cesare, invece, non pareva d'accordo, tanto che fulminò il fratello con un'occhiataccia e poi disse, rivolgendosi al Medici: “Una vita sconclusionata e violenta come la sua non è certo fare del proprio meglio.”

“Se vi aspettate che si chiuderà in monastero per espiare le sue colpe, allora potete vivere cent'anni e restare comunque a bocca asciutta.” fece Giovanni.

Una simile affermazione uscita dalla sua bocca pietrificò Cesare. Anche se il Medici non avrebbe voluto suonare critico nei confronti della moglie, aveva finalmente capito la chiave di lettura di quell'incontro con i due giovani Riario.

“Non potete pensare di cambiarla, come lei non potrà mai cambiare voi.” disse il fiorentino, con entrambi i ragazzi che lo guardavano, apparentemente sconvolti nel sentirlo parlare della Contessa in quei termini: “Lei ha tanti difetti quanti ne avete voi. Avete sbagliato tutti quanti, di continuo, ma adesso è inutile continuare a rinfacciarselo. Guardate a questo bambino come a un pretesto per ritrovare l'unità familiare. Vi ripeto e vi assicuro che vostra madre sta facendo tutto quello che può, per recuperare il rapporto con voi.”

Gli occhi di Ottaviano si stavano velando di lacrime, mentre Cesare aveva iniziato a passarsi tra indice e pollice il crocifisso che aveva al collo.

“Tenta di moderarsi. La sua rabbia è difficile da contenere, ma ci sta provando. Beve meno, anzi, non ha più toccato vino da un paio di mesi. Non ha più assunto le sue pozioni. Non ha più ucciso nessuno. Fa del suo meglio, per tenersi a freno e...” Giovanni si schiarì la voce e poi soggiunse, con un lieve rossore sul collo: “E ha un solo uomo.”

“E noi che dovremmo fare?” chiese Cesare, molto meno bellicoso di prima.

“Datele tempo e cercate di fare la vostra parte.” rispose subito il Medici.

Benché fosse certo che non sarebbe bastato quel misero dialogo per risolvere problemi tanto profondi, il modo in cui i due fratelli si guardarono lo fece ben sperare. Se non altro, almeno così gli parve, aveva scongiurato delle tensioni nell'immediato.

“Ci fidiamo di voi.” disse Ottaviano, schiarendosi la voce: “E vi stimiamo.”

“Lo stesso vale per me nei vostri confronti.” dichiarò il Popolano.

I due Riario si alzarono a tempo e così fece il Medici. Si scambiarono un cenno con il capo e poi, senza che vi fosse il bisogno di aggiungere altro, ognuno andò per la sua strada.

 

Paolo Orsini abbassò la testa, le mani giunte in grembo, mentre suo figlio Fabio veniva unito in matrimonio a Girolama Borja, pronipote di Sua Santità.

Quello sposalizio aveva riacceso in Roma una marea di chiacchiere su Rodrigo Borja e sulla sua presunzione di aspirare alla perfeziona cristiana, ripudiando nepotismi e corruzione, quando, invece, trasformava il matrimonio di una pronipote in un evento mondano degno di nota.

L'Orsini, passando le strade di Roma, prima di arrivare in chiesa, aveva rivisto dei luoghi che gli avevano riportato alla mente non solo la sua giovinezza, ma anche gli anni ruggenti delle guerre contro i Colonna.

Si era ricordato della giovane Sforza, che aveva accompagnato lui e Virginio in quella serie di scontri che li avevano portati fino alla fontana di Trevi.

Quel rimuginare lo aveva portato a chiedersi che cosa fosse diventato. Poteva ancora considerarsi un Orsini, uno che aveva voltato le spalle ai parenti per vendersi a Venezia e che poi aveva dato un figlio come garanzia della sua fedeltà ai Borja? Agli stessi Borja che, sicuramente, avevano ucciso Virginio?

Con un sospiro pesante, Paolo inspirò l'aria pregna di incenso e ipocrisia e ripenso alla lettera che Carlo, figlio di Virginio, gli aveva spedito qualche giorno addietro. Lo invogliava a tornare, a unirsi di nuovo al ramo di Bracciano e combattere insieme contro quelli che li volevano distruggere.

Guardando suo figlio, appena ventunenne, prendere per mano la sua novella consorte, Paolo si fece il segno della croce e si domandò cosa avrebbe dovuto fare: vivere da traditore, o morire da uomo?

 

Giovanni non aveva voluto dire di preciso che strumenti avesse usato per comunicare con Cesare e Ottaviano, ma la Contessa era stata comunque lieta di vedere che i suoi due figli maggiori si erano abbastanza calmati.

Per lo meno, non l'avevano più attaccata apertamente, e nemmeno implicitamente. Perfino Cesare, che di norma era prodigo di occhiatacce, le si rivolgeva in modo abbastanza pacato, tanto da farle sperare che le cose potessero davvero andare meglio.

Nel frattempo, però, si stava sciogliendo la tranquillità sul confine. Le sue spie le avevano detto che qualcosa cominciava a muoversi nelle fila del Malatesta e così la Sforza aveva voluto incontrare Achille Tiberti di persona, per istruirlo a dovere.

Si erano visti alla rocca di Forlimpopoli, in presenza di Piero Landriani. Caterina aveva tenuto molto che vi fosse anche suo fratello, in modo che fosse informato alla perfezione sui piani e potesse, con la sua guarnigione e le sue difese, arginare o dare man forte, in caso di necessità.

“Niente scorrerie. Non siamo barbari.” disse la Sforza, con decisione, quando Achille le propose di insidiare il Pandolfaccio partendo dalle campagne.

“Ma vi rendete conto che non si faranno mai vedere in campo aperto?” disse il Capitano, allargando le braccia.

“Ha delle rocchette e degli avamposti. Prendete quelli.” decretò la Tigre, indicando poi Piero: “Mio fratello vi presterà qualche piccolo pezzo di artiglieria, se vorrete. Non ne abbiamo molti, e ormai certi sono modelli superati, ma per indebolire il confine di Rimini basteranno.”

Tiberti strinse le labbra e insistette: “Le scorrerie sono la linfa per guerre come quella che volete fare voi. Senza contare che non potremo contare sulle vettovaglie di vostra Signoria, immagino...”

Ricordando il patto che avevano fatto, che voleva Achille suo debitore, Caterina confermò: “Sta a voi comprare il cibo per i vostri soldati.”

Tiberti sospirò e poi chiese: “Quando devo cominciare?”

“Iniziate a muovervi non prima di metà mese.” decise la Sforza, pensando che attendere il cuore di ottobre sarebbe stata una buona idea.

Tiberti annuì e poi, con una certa rigidità, chiese congedo: “Devo organizzare molte cose.”

 

Le palpitazioni che avevano preso Lucrecia erano tanto violente da farla quasi tremare. Suo fratello, le aveva riferito suor Girolama Pichi, la voleva vedere.

La Borja aveva cercato di negarsi, pregando la badessa di proteggerla e di rifilare una scusa a Cesare, ma la suora aveva rifiutato categoricamente, aggiungendo, a mo' di incoraggiamento: “Siete ancora piatta come una ragazzina. Vestite un abito largo e non capirà nulla.”

Quando sentì la mano ferma del fratello battere sulla porta, Lucrecia scattò in piedi. Attraversò la sua celletta in un paio di passi e aprì.

Temeva che la sua agitazione fosse rivelatrice e che Cesare avrebbe capito subito che qualcosa era diverso in lei.

Invece, quando il giovane Borja entrò nella cella, parve quasi non vedere Lucrecia e cominciò a parlare a raffica di quello che gli era successo a Napoli, delle febbri, dell'incoronazione e poi del loro padre, della sua freddezza e del modo in cui intendeva indurlo a favorirlo, convincerlo a spretarlo e a dargli in mano un esercito.

Il suo soliloquio era confuso e magniloquente, tanto da spaventare Lucrecia. Non aveva mai visto Cesare tanto sconvolto e stanco.

Prima che lei stessa potesse invitarlo a riposarsi, dopo aver parlato per quasi un'ora, il figlio del papa si buttò sul letto e disse: “Solo un momento di pace, per Dio...” e nell'arco di pochi minuti, si addormentò.

Lucrecia ringraziò il cielo per lo stato del fratello. In quella condizione, non avrebbe mai potuto capire che lei portava in grembo un figlio e così, almeno per quel giorno, la discussione sarebbe stata rinviata.

Prima che Cesare si svegliasse, Lucrecia andò alla cappella, lasciandogli solo un piccolo biglietto in cui si scusava, dicendo che si era recata a pregare per lui, affinché avesse maggior sorte presso il loro signor padre e nella vita più in generale.

 

La terra, sotto al portale della chiesa di Santa Stefano, si stava coprendo di sangue. Caterina sentiva il cavallo imbizzarrirsi e poi, appena voltava lo sguardo, si rivedeva davanti il corpo martoriato di suo padre, e poi quello del suo Giacomo e infine quello di Ludovico Marcobelli.

Si guardava le mani e le trovava imbrattate di rosso. Provava a pulirsele e non vi riusciva. L'odore della pelle bruciata dai ferri arroventati le riempiva le narici e le toglieva il fiato.

Si dimenava, colpiva, bestemmiava e più tirava calci, più il corpo a cui li stava dando assomigliava sempre meno a quello di Ludovico Marcobelli e sempre più a quello di Giacomo...

Senza fiato, fradicia di sudore, la Tigre si svegliò di scatto, mettendosi subito seduta sul letto.

Ci mise qualche secondo, però, per capire che nella stanza c'era qualcun altro a parte lei con il respiro veloce e irregolare.

Volgendo lo sguardo al suo fianco, trovò Giovanni con gli occhi chiusi, il morso contratto e i capelli incollati alla testa dal sudore.

Gli mise una mano sulla sua fronte e lo trovò rovente. L'uomo aprì appena le palpebre. Era sveglio, ma alla moglie fu subito chiaro che il dolore gli avesse tolto la parola.

Si alzò subito e accese qualche candela, rapida e precisa, come le capitava spesso nei momenti di panico.

Appena la camera fu più illuminata, tolse di scattò le coperte dal corpo del marito e guardandogli le gambe capì subito l'origine di tanta sofferenza. I tofi, che anche il giorno prima erano parsi infiammati, erano ancora più grossi, tutti quanti, gonfi e rossi. Guardando meglio, la Sforza si rese conto che un paio si erano aperti e ne usciva una sostanza lattiginosa.

“Vado a chiamare il medico di corte.” disse la donna, infilandosi in fretta la vestaglia.

Quando tornò, seguita a ruota dal dottore, il Medici era scivolato nell'incoscienza, forse per il dolore o forse per altro, difficile a dirsi.

Terrorizzata da quel che aveva davanti, la Sforza si inginocchiò accanto al letto e osservò il medico che, attento e preciso, purgava il male laddove gli pareva il caso di farlo e poi iniziò semplicemente ad aspettare.

Era quasi l'alba quando, ancora bruciante di febbre, finalmente Giovanni riaprì gli occhi e disse, un po' confuso: “Sono morto?”

“No, no, grazie a Dio no...” sussurrò la moglie, accarezzandogli la fronte e poi guardando il dottore.

Questi, le braccia incrociate sul petto, le fece un cenno e poi disse: “Vi lasciamo riposare un momento.”

“Poi torna qui, ti prego...” bisbigliò il fiorentino, tanto debole da non riuscire a sollevare nemmeno una mano.

La Tigre seguì il medico fuori dalla stanza e, dopo una lunga esitazione, il dottore le disse: “Per la mia esperienza, mia signora, per questa volta è fuori pericolo.”

Caterina si sentì quasi mancare per il sollievo, ma l'espressione grave del medico spense rapidamente il suo entusiasmo.

“Per questa volta, mia signora. Per questa volta.” ripeté l'uomo, incapace di essere più diretto.

La Sforza comprese appieno quel che intendeva e, attaccandosi disperatamente all'ottimismo che Giovanni stesso aveva a tratti cercato di passarle, ribbatté: “Basterà evitare che non ce ne sia una prossima.” e detto ciò, rientrò in stanza e si rimise accanto al marito, che, benché debole, non voleva riaddormentarsi, per paura di non risvegliarsi più.

“Leggimi qualcosa.” le chiese.

Senza esitazione, la Tigre si alzò, prese il Decameron dalla scrivania e sfogliò le pagine fino ad arrivare a una delle novelle che il suo Giovanni amava di più.

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas