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Autore: Adeia Di Elferas    04/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Un dispaccio urgente dal confine!” urlò un messo, stando dietro alla pesante porta della stanza di Pandolfo Malatesta.

Il ventiduenne si svegliò di malavoglia, accecato dalla luce del sole freddo di ottobre che entrava dalla finestra, le cui pesanti tende erano rimaste tirate dalla sera prima.

Doveva essere almeno mezzogiorno, ma il signore di Rimini aveva ancora sonno e sentire di nuovo il vocione alla porta gridare: “Aprite! È cosa di massima urgenza!” gli faceva solo venire un gran mal di testa.

Accanto a lui, avviluppata nelle coperte, stava Violante che, lo sguardo preoccupato, fissava l'uscio senza avere il coraggio di esprimere la propria idea.

Quando il messaggero cominciò a battere il pugno sul legno, il Pandolfaccio decise che era tempo di rispondere e sbottò: “Un momento!”

Si tirò su dal letto con difficoltà, la testa ancora molto pesante per tutto il vino bevuto durante la notte. Sentendosi ancora troppo confuso per riuscire a infilarsi in fretta le brache, afferrò con stizza una delle coperte e se la mise addosso, come un lungo mantello, che lo coprisse dal collo alle caviglie, per proteggerlo tanto dal freddo, quanto da occhi indiscreti.

Quando finalmente andò ad aprire la porta, il messo allungò subito una mano, mostrandogli un dispaccio e poi, lanciando appena un'occhiata a Violante, che se ne stava ancora a letto, ben coperta e attenta, annunciò: “La Sforza ha aggredito i confini del nostro Stato.”

Il Malatesta, a quel punto, strinse le palpebre, quasi rifiutandosi di capire. Si grattò la testa, scompigliandosi i lunghi e unti capelli neri, e poi aprì il messaggio che, di certo, riportava in modo chiaro e ordinato i fatti annunciati da quell'uomo.

Siccome, invece, sulla lettera restava solo l'invocazione di un Capo Villaggio vicino al paese attaccato, che chiedeva il pronto intervento di Rimini nella difesa dei suoi sudditi, Pandolfo, guardò il messo interrogativo e chiese: “Che cosa è successo, di preciso?”

Quello, che si era preparato a una simile domanda, rispose con prontezza: “I soldati della Sforza, mostrando il suo stemma e urlando il suo nome, hanno saccheggiato e distrutto un villaggio e poi hanno proseguito verso quello vicino.”

Il Malatesta apparve subito abbastanza stupito. Alzando una mano, per chiedere un momento, si tolse la coperta di dosso, improvvisamente insensibile ai pudori che l'avevano convinto a mettersela poco prima, e cominciò lentamente a vestirsi.

Il messo guardò altrove per tutto il tempo, ma quando si accorse che il suo signore aveva finito tornò a rivolgerglisi: “Che cosa dobbiamo fare?”

“Spiegatemi che intendete con saccheggiato.” fece Pandolfo, prima di esprimersi in un senso o nell'altro.

“Ha fatto uccidere tutti gli uomini, ha lasciato che infierissero sulle donne, ha preso ogni cosa, soprattutto il cibo, e poi ha dato fuoco alle case.” spiegò il messaggero.

Il Malatesta respirò rumorosamente. Alle sue spalle, tesa, Violante aspettava di sentire cosa avrebbe deciso. Fosse stato per lei, avrebbe subito scritto a Venezia. Tanto, lo Stato l'avevano già svenduto al Doge, tanto valeva pretendere la protezione che era stata loro promessa.

“Per ora non facciamo nulla.” disse alla fine il signore di Rimini, massaggiandosi le tempie che pulsavano.

Quello era stato di certo un pessimo risveglio. Quanto avrebbe voluto potersene tornare a dormire beato, invece di dover subito archiviare la notte passata per far fronte a una pessima giornata.

“Nulla, mia signore..?” fece il messo, attonito.

“Nulla. Aspettiamo e basta.” concluse il Pandolfaccio, occhieggiando malevolo verso l'altro e congedandolo in fretta con un: “Adesso andatevene. Le mie decisioni non sono affar vostro.”

Il messaggero, inquietato dagli occhi venati di sangue del suo signore, si inchinò e poi uscì, senza osare aggiungere altro.

“Perché vuoi aspettare?” chiese Violante, la bocca un po' amara per quello che aveva bevuto la sera prima, ma la testa lucidissima.

Il marito si voltò verso di lei, e, con una certa aggressività, ribatté: “Sei proprio una stupida!”

La donna distolse lo sguardo, mortificata per i modi offensivi che il marito usava sempre quando si rivolgeva a lei.

“Non lo capisci che la Sforza non c'entra nulla?” proseguì il Malatesta, andandosi a sedere accanto a lei, quasi volesse farsi perdonare per l'esclamazione di poco prima: “Tutti sanno che non sono i suoi metodi. Qui c'è sotto qualcosa e voglio sapere cosa, prima di muovermi.”

“Ma tutta quella povera gente...” provò a dire Violante.

“Che si impicchino con un metro di corda.” buttò lì il marito, rimettendosi subito in piedi e cominciando a trafficare con il cinturone della spada: “Non erano così solerti, vero, quando dovevano pagare le decime? Adesso mi chiedono un aiuto immediato... Ebbene, potevano pensarci prima. Loro hanno detto di aver bisogno di più tempo, per pagare le tasse, ecco, adesso io ho bisogno del mio tempo per andare a difenderli.” e con quelle parole, ormai vestito di tutto punto, il signore di Rimini uscì dalla stanza.

Abbandonando la testa sul cuscino, Violante Bentivoglio cercò di calmare il respiro, ricacciando nel fondo della sua anima la paura che stava provando. Forse aveva ragione Pandolfo, forse era giusto aspettare.

Tuttavia, la sensazione di avere delle vite sulla coscienza, le impedì di riprendere sonno, come invece aveva sperato di poter fare e così fu costretta ad alzarsi e prepararsi a una lunga giornata.

 

Come se stesse tenendo fede a una rigidissima tabella di marcia, Giovanni si stava riprendendo un passo per volta e a un paio di giorni dal suo compleanno, era di nuovo in piedi e, seppur molto provato, in grado di muoversi abbastanza liberamente, tanto da provare a uscire dalla camera da letto.

Caterina lo aveva accompagnato fino alla sala delle letture, non arrischiandosi a fargli fare comparsate troppo pubbliche. Il Medici aveva comunque avuto modo di imbattersi in quasi i tutti i figli della moglie che, chi più chi meno, si erano mostrati felici di vederlo in via di guarigione.

“Hai detto ai tuoi fratelli del bambino?” chiese la Sforza, prendendo da parte Bianca, mentre il marito chiacchierava tranquillamente con Galeazzo, che era molto desideroso di metterlo a parte dei suoi progressi.

“Sì.” annuì la ragazzina.

“E come l'hanno presa?” chiese la Contessa, con una vena di tensione.

Non aveva ancora voluto discutere con il castellano, né con nessun altro. Prima voleva riprendere in mano le redini della sua famiglia, solo dopo avrebbe pensato anche al suo Stato.

“Direi bene. Anzi, in realtà Bernardino era proprio contento, di diventare anche lui un fratello maggiore...” sorrise Bianca, ricordando all'entusiasmo del bambino, a cui aveva dovuto spiegare che era meglio aspettare, prima di andare a dirlo a tutti, come invece avrebbe voluto fare lui.

“Galeazzo?” sussurrò la Tigre, osservando di soppiatto proprio lui, che stava ancora discutendo con calma assieme a Giovanni.

“Lo sapete com'è...” sollevò le spalle la figlia: “Vi assomiglia. È sempre difficile capire che pensa, ma credo ne sia felice anche lui.”

Caterina restò un po' spiazzata dalla semplicità con cui Bianca aveva parlato, paragonando lei e Galeazzo, ma annuì appena e chiese: “E Ottaviano dov'è?”

La ragazza fece un momento di silenzio e poi, con cautela, rispose: “Non lo so... Da quando vi siete ritirata per qualche giorno, ho sentito dire che passi molto tempo nei lupanari a bere e a... Fare altro.”

La Sforza strinse le labbra e poi ringraziò la figlia, finendo per mettersi a sedere assieme al marito, unendosi alla conversazione con Galeazzo, che, pur con una certa umiltà, stava elencando le sue abilità con la lancia.

“Contessa...” la chiamò Cesare Feo, stando sulla porta.

Bianca lo lasciò passare e la donna attese che il castellano dicesse qualcosa in più, ma il suo sguardo allarmato parlava per lui.

“Torno subito...” disse la Sforza, rivolgendosi tanto al marito, quanto ai figli.

Rialzandosi con pesantezza, seguì il castellano fuori e dovette attendere di essere quasi in fondo al corridoio, prima che lui si decidesse a fermarsi e dire: “Achille Tiberti ha attaccato i confini di Rimini.”

Il modo in cui la Leonessa restò immobile, confermò al castellano il dubbio che aveva avuto fin dal principio, quando era giunta la staffetta per dare quell'annuncio.

“Ha razziato un paesino. Un pugno di case, ma dicono che abbia fatto lo stesso un gran macello, mia signora.” continuò il Feo, mentre la Contessa stringeva i pugni lungo i fianchi.

“Ha fatto sapere qualcosa?” chiese, ricominciando a camminare, più per dar sfogo al nervosismo che altro.

“No. Quello che sappiamo, lo sappiamo per un messaggero che ci ha mandato vostro fratello da Forlimpopoli.” spiegò Cesare.

Caterina soffiò, infilando le scale, per andare al piano di sotto. Il castellano le corse dietro e dopo qualche momento di esitazione, decise di continuare il discorso senza attendere di essere invitato a farlo.

“Dicono che abbia attaccato presto, prima dell'alba, cogliendo i paesani di sorpresa. Ha dato fuoco a tutto e ha portato via tutto quel che si poteva, facendo scempio delle donne e uccidendo tutti gli uomini che non sono riusciti a scappare.” disse l'uomo, seguendo la Leonessa verso la sala delle armi: “E dicono che urlassero il vostro nome e portassero il vostro stendardo.”

A quella notizia in particolare, Caterina si fermò tanto di colpo che per poco il castellano non le inciampò addosso: “Il mio nome e il mio stendardo?” sussurrò.

Cesare fece segno di sì e poi riprese con dei conteggi che, a quel punto, alla Sforza interessavano solo relativamente.

Fino a pochi istanti prima, per cercare di tenere a freno la rabbia e impedirsi di prendere un cavallo e correre fino a Cesena, o dove accidenti fosse Tiberti per prenderlo di peso e portarlo a Ravaldino a pagare per la sua insolenza e il suo tradimento, aveva pensato di mettersi a tirar di spada contro un ceppo.

Non era una cosa razionale, ma le mani le tremavano, dalla voglia che aveva di spaccare qualcosa e per di più da giorni se ne stava chiusa in una stanza a prendersi cura di Giovanni, relegata alla totale inattività fisica.

Tuttavia, quelle parole parvero spegnere ogni sua velleità distruttiva: “Perdonatemi, io devo parlarne un momento con una persona.” disse, invertendo il senso di marcia.

“Che cosa dobbiamo fare, nel frattempo?” domandò il castellano, ricominciando a seguirla.

“Niente. Per ora non facciamo proprio niente.” disse la Tigre, irritata dal fiato sul collo del Feo, tanto che, arrivati alle scale, si voltò di scatto e gli disse: “E piantatela di seguirmi!”

Senza voce, il castellano si arrestò sul posto e la guardò mentre spariva al piano di sopra in uno svolazzare del gonnellone del suo abito da lavoro.

 

Lucrecia ascoltò con il cuore che batteva velocissimo. Le parole del paggio che aveva pagato per portarle notizie dal palazzo apostolico la stavano facendo sudare freddo.

Da un lato, era contenta che suo marito avesse scelto una via che potesse essere ritenuta onorevole per entrambi, ovvero chiedere l'annullamento con la scusa che il matrimonio non era mai stato valido, in quanto lei era già in compromesso con Gaspare d'Aversa.

In tal modo, Giovanni Sforza aveva dato una spallata all'accusa verso la sua scarsa virilità, sacrificando solo in parte l'onore di Lucrecia, che, in un secondo momento, avrebbe potuto dichiarare di non aver mai consumato il matrimonio proprio per timore che si rivelasse nullo.

Dall'altro, però, la giovane Borja era certa che non sarebbe bastato. Suo padre, forse, a quel punto avrebbe accettato di buon grado, se non altro per azzittire una volta per tutte Giovanni, che insisteva con le sue torbide accuse.

Era tutta la macchina Vaticana a spaventare Lucrecia. Troppa gente li vedeva solo come bocconi indigesti, o addirittura avvelenati. In quanti avrebbero voluto vendicarsi di loro per qualcosa?

E dunque, trovare impedimenti legali a quello scioglimento che era diventato un pensiero cardine del papa, non era un buon modo, per trovare soddisfazione?

Lucrecia diede una moneta d'oro al paggio e gli sussurrò: “Tornate a palazzo e appena avrete novità, correte subito da me.”

Il ragazzino annuì e sparì di corsa. Subito dopo, nella cella entrarono un paio delle dame di compagnia.

La giovane Borja le pregò di aiutarla a sistemarsi i capelli e a rassettarsi i vestiti: “Voglio essere in ordine – disse – per la Messa della sera...”

Mentre le mani ormai esperte delle sue dame la preparavano, Lucrecia sentiva come non mai la vita che cresceva dentro di sé. Le pareva quasi che protestasse per tutta quell'agitazione che lei aveva nell'anima.

Assorta, Lucrecia arrivò a chiedersi che cosa avrebbe fatto suo padre, se il Vaticano, per annullare le nozze, avesse chiesto prove concrete dell'invalidità del matrimonio tra lei e Giovanni.

Aveva un figlio in grembo. Come avrebbe potuto nasconderlo? Ogni giorno, il bambino cresceva di più, sempre di più, e malgrado la cura della sua dama di nome Pantasilea, così abile nel imbastirle abiti sempre più larghi, si sarebbe arrivati a un punto in cui la verità non si sarebbe più potuta nascondere.

Nemmeno a Sua Santità.

“Mia signora...” fece un'altra dama di compagnia, arrivando nella stanza con fare guardingo: “Qui fuori c'è messer Perotto... Chiede di potervi scortare lui a Messa.”

Lucrecia si irrigidì. Le sue guance persero colore e i suoi occhi si fecero distanti. Solo in quel momento, per puro caso, si era resa conto del pericolo che Pedro stava correndo. Non era più da sottovalutare, doveva farci i conti e agire di conseguenza.

“Ditegli che preferisco andare da sola.” decise la Borja, fingendo di cercare tra i suoi gioielli un anello in particolare.

“Come preferite...” fece la dama, uscendo subito per riferire il messaggio.

“Non dovreste trattarlo così... Messer Calderon è così gentile, con voi...” disse la giovane che le stava fissando i capelli biondissimi con una spilla di diamanti e oro.

L'altra dama, Pantasilea, fu più rapida di Lucrecia: “Sì, è un giovane molto gentile, ma a Messa si fa per pregare, mentre lui vorrebbe andarci per far chiacchiere.”

“Esattamente.” convenne la figlia del papa, ringraziando con uno sguardo rapidissimo l'unica tra le sue ancelle a conoscere esattamente quello che stava succedendo.

 

“Prendi le distanze.” consigliò Giovanni, dopo aver ascoltato con attenzione le parole della moglie.

Era chiaro che la condotta di Tiberti l'aveva adirata, ed era altrettanto palese che la sua decisione di usare il simbolo degli Sforza Riario l'aveva sconvolta. A quel punto, secondo il fiorentino, l'unica azione sensata era lasciare il Capitano al suo destino, dichiarandosi pubblicamente estranea alle sue azioni.

“Ha usato il mio nome.” ribatté la Sforza, restando appoggiata al davanzale della finestra, le braccia incrociate sul petto e gli occhi bassi.

Marito e moglie si erano ritirati nello studiolo del castellano, in modo da non essere disturbati da nessuno. Il Medici si era messo sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo Feo, così aveva potuto stendere un po' le gambe e riposare la schiena, mentre la Tigre aveva passato un primo momento a vagare senza posa da un angolo all'altro della stanza, salvo poi fermarsi contro la finestra.

“A maggior ragione.” fece Giovanni, le iridi chiarissime che cercavano senza successo quelle della moglie: “Se disapprovi l'azione di Tiberti, e sono d'accordo con te nel disapprovarla, allora è ancora più importante prendere pubblicamente le distanze.”

“E lasciare che tutti credano che un Capitano qualunque si sia permesso di contravvenire ai miei ordini, ammantandosi addirittura del mio stemma e del mio grido di battaglia?” chiese la donna, sollevando il mento, contrariata.

Il fiorentino alzò una spalla e provò a dire: “Meglio così che far credere che sia stata tu a voler attaccare in modo tanto vile Rimini. Ricordati che è un avamposto veneziano e che non siamo ancora riusciti a ottenere nessuna garanzia da Firenze.”

Giovanni, dopo che la moglie era uscita a parlare con il castellano, aveva trovato un momento per leggere il messaggio arrivato dalla sua città. Non era di Lorenzo, come credeva, ma di Semiramide, e quello che la cognata gli aveva scritto non aveva fatto altro che metterlo ancor più in ansia di quanto già non fosse, nel pensare alla situazione di Firenze.

“Temo che al momento sia più importante far credere che strettamente in pugno l'obbedienza del mio esercito, piuttosto che abbia grandi doti diplomatiche...” soppesò Caterina, mesta.

“Tutti conoscono la disciplina che dai ai tuoi soldati – le fece notare il marito, riappoggiandosi con pesantezza allo schienale della poltrona – nessuno potrà credere che sia stata tu a dare un simile ordine, quindi non credo che sarebbe difficile dare ogni colpa a Tiberti e...”

“Svegliati, Giovanni!” esclamò la Leonessa, facendo quasi sobbalzare l'ambasciatore: “Disciplina o no, tutti ricordano quello che ho fatto alla morte di Giacomo! Credi davvero che reputeranno assurdo che io abbia comandato il saccheggio di un villaggio abitato da gente che nemmeno conosco?!”

Mentre parlava, a tradimento, nella sua mente si alternavano le immagini che la ossessionavano ogni notte. Rivedeva le segrete di Ravaldino, il cadavere di Ludovico Marcobelli, la carne bruciata di Don Domenico, il corpo straziato di Giacomo. E poi si mescolavano a quelle di Mordano, al cimitero in cui si era trasformato quel paese. Caterina poteva risentire il tanfo dei morti in putrefazione e avvertiva di nuovo il freddo e la nausea e il ribrezzo e la rabbia che aveva provato nel vedere lo scempio fatto alle donne di Mordano. Ricordava ancora alla perfezione quel che aveva sentito dentro di sé, nell'attraversare la navata centrale della chiesa, circondata da corpi tanto sfigurati da essere quasi irriconoscibili. E così ritornava alla vista dei prigionieri fatti a pezzi e a quelli uccisi a calci e pugni. C'era poi tanta differenza?

Agli occhi del mondo, lei non era per nulla diversa dai francesi che avevano devastato Mordano.

Come spesso gli capitava quando veniva messo davanti al passato della moglie, il Medici parve perdere ogni volontà e sicurezza e allargando appena le braccia, soffiò: “A questo punto non so cosa consigliarti...”

“Non negherò di aver dato il mio appoggio a Tiberti.” decretò la Sforza, schiacciandosi con decisione gli occhi con la punta delle dita, fino a vedere solo lampi di luce: “Ma devo incontrarlo, perché si deve dare una calmata. Se dovesse contravvenire ancora una volta alle mie disposizioni, allora vedrò di farlo sparire una volta per tutte, e senza sollevare sospetti.”

“Se è quello che credi giusto...” fece il Popolano, vago.

Caterina lo aiutò ad alzarsi dalla poltrona e poi, quando furono occhi negli occhi, gli assicurò, con un tono urgente: “Non è una cosa che mi piace, Giovanni. Potessi agire come voglio, andrei là a prenderlo di peso e gli taglierei la gola con le mia mani. Ma non posso. Lo capisci?”

Con un sospiro pesante, il fiorentino l'abbracciò per qualche istante e poi annuì: “Sì, lo so. In guerra conta anche l'apparenza.”

“Purtroppo sì.” confermò la donna e poi, sforzandosi di sorridere, uscì dallo studiolo assieme al marito e poi scrisse una missiva per suo fratello, chiedendogli di organizzare subito un incontro tra lei e il Capitano Tiberti.

 

Raffaele Sansoni Riario si stava mangiando l'unghia del pollice, mentre aspettava il suo turno. Era molto teso, come gli capitava sempre, quando aspettava un incontro con il Santo Padre.

In più, quel giorno si era molto arrabbiato con l'artista che stava patrocinando, Michelangelo. Senza volerlo, aveva sentito dire che quell'arrogante andava in giro a dire che lui, il Cardinale più amante dell'arte di tutta Roma, era solo un ignorante e un meschino e che non aveva alcuna capacità di discriminare il bello dal brutto.

Purtroppo Raffaele non era mai stato troppo pronto, con la lingua, e dunque non era stato in grado di ribattere a tono, dicendo che quelle accuse andavano a scapito proprio di Michelangelo.

Se infatti non fosse stato lui, a innamorarsi delle capacità artistiche del Buonarroti, quel maledetto giovane uomo, così sciatto nel vestire e sboccato nel parlare, non sarebbe mai arrivato a Roma.

Inoltre, sempre gli stessi pettegoli l'avevano informato del fatto che Michelangelo stava cercando nuovi committenti 'con più buon gusto e più intelligenza', e il tutto senza dirlo né a lui né a Jacopo Galli che ancora lo ospitava in casa propria!

“Prego...” disse il cerimoniere, invitando con quella parola appena sussurrata il Cardinale a prepararsi.

Quando riuscì ad arrivare al cospetto del papa, Raffaele tirò un sospiro di sollievo nel vedere come fosse solo. Già temeva di dover fare il suo discorso davanti a una mezza dozzina di porporati.

Detestava dover parlare in pubblico, soprattutto se i presenti erano uomini che lo reputavano poco più che un inetto.

“Vostra Santità...” cominciò il Cardinale, dopo aver baciato l'anello piscatorio e aver toccato terra con il ginocchio.

“Siete qui per parlarmi di vostro cugino Giuliano Della Rovere?” chiese Alessandro VI, visibilmente molto stanco, la papalina un po' di traverso e le grosse dita della mano destra che tamburellavano impazienti sulla scrivania.

Siccome Raffaele si accigliò in un'espressione trasecolata, il papa capì non era lì per quello. E in effetti, come avrebbe potuto? Sarebbe stato più sciocco del previsto, se fosse stato così.

Le malelingue che circolavano in quelle settimane sul Cardinale Della Rovere non meritavano un colloquio ufficiale con il papa. E poi, finché era lontano dal Vaticano, a Rodrigo non interessava minimamente sapere se fossero vere tutte le voci che lo volevano presente a ogni festa francese possibile, e sempre, invariabilmente, scortato da paggi e valletti molto belli e molto disponibili...

“Volevo parlarvi di mio cugino Ottaviano Riario.” disse il Cardinale, prendendo il coraggio a due mani.

Se l'era ripromesso da mesi, ma adesso era arrivato il momento di agire. Voleva pagare il suo debito tanto con la Tigre di Forlì, quanto con i Medici. Quello sarebbe stato un ottimo inizio, secondo lui.

“E cosa volete dirmi del mio figlioccio?” chiese il Borja, ritrovando una certa vitalità, l'occhio che si accendeva e la schiena che si raddrizzava.

“Ecco, so che ormai l'annullamento del matrimonio di vostra figlia è alle porte – iniziò Raffaele, scegliendo con accuratezza le parole – e so anche che il Vaticano vorrebbe recuperare maggior presa sui signori che reggono le terre di questo grande Stato...”

Alessandro VI non disse nulla, restando in attesa. Era vero che l'annullamento era vicino, anche se la legge sembrava voler mettere i bastoni tra le ruote al suo progetto. Tanto per dirne una, durante la prima udienza avuta con gli esperti di legge canonica, il Santo Padre s'era già sentito dire che il pretesto scelto dallo Sforza non era sufficiente, per sciogliere il vincolo matrimoniale...

“Mio cugino, il Conte Riario, non è sposato ed è in età di prender moglie. Credo che sarebbe una buona scelta, un matrimonio tra lui e vostra figlia Lucrecia.” propose il Cardinale Sansoni Riario, chinando il capo ossequioso.

A quel punto si sentì qualcuno schiarirsi la voce e, da un angolo buio della sala, si fece avanti una figura che raggelò il sangue nelle vene di Raffaele.

Cesare Borja, il figlio del papa, mosse qualche passo verso di loro. Non indossava gli abiti cardinalizi, né altri segni che potessero far dire di lui che fosse un religioso. Aveva brache di cuoio scuro, stivali neri e giaccotto di raso imbottito del medesimo colore.

Alessandro VI sollevò una mano e il figlio si fermò: “Valuteremo questa possibilità.” disse, con voce piatta.

Il Cardinale comprese che non era il caso di insistere, così, ringraziando, fece un altro inchino e indietreggiò fino alla porta, sentendosi, anche una volta uscito, gli occhi di fuoco di Cesare Borja puntati contro di sé.

 
   
 
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