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Autore: Stella Dark Star    07/01/2018    1 recensioni
Delfina, figlia del banchiere Andrea de' Pazzi, ha solo quindici anni e nessuna vita sociale quando viene incaricata dal padre di entrare nelle grazie di Rinaldo degli Albizzi per scoprire ogni suo segreto e sapere in anticipo ogni mossa che farà in campo politico. Lei accetta con riluttanza la missione, ma ancora non sa che il destino ha in serbo per lei molto di più. Quella che doveva essere una semplice e innocente conoscenza, diventa ben presto un'appassionata storia d'amore in cui non mancano gelosie, sofferenze e punizioni. Nonostante possa contare sull'aiuto della madre Caterina (donna dal doppio volto) e della fedele serva Isabella (innamorata senza speranze di Ormanno), Delfina si ritroverà lei stessa vittima dell'inganno architettato da suo padre e vedrà i propri sogni frantumarsi uno dopo l'altro.
PS: se volete un lieto fine per i protagonisti, non dimenticate di leggere il Finale Alternativo che ho aggiunto!
Consiglio dell'autrice: leggete anche "Andrea&Lucrezia - Folle amore (da Pazzi, proprio!)" per vivere assieme ai protagonisti un amore impossibile.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Finale alternativo:
Verso un futuro roseo
 
Quel mattino sopportai pazientemente la funzione celebrata da Papa Eugenio. Alternai preghiere rivolte al mio Rinaldo a momenti in cui dovevo trattenere il respiro per non rischiare che il forte e nauseante odore d’incenso bruciato mi facesse rivoltare lo stomaco. Talvolta mi guardavo attorno e scrutavo i volti delle persone presenti. Nessuno di loro mi stava a cuore o poteva considerarsi mio amico. Speravo che ad Ancona io e Rinaldo avremmo fatto conoscenze migliori che non a Firenze. Quasi per caso il mio sguardo si posò sui componenti della famiglia Medici. Chiunque sarebbe stato una conoscenza migliore di loro! Un moto di rabbia mi salì fino al viso, facendomi avvampare.
Accorgendosi del mio stato e vedendo chi ne era la causa, mio padre mi prese per mano e chinò il capo di lato per sussurrare: “Respira, figliola. C’è un momento giusto per ogni cosa.”
Cercai di seguire il suo consiglio.
Mi persi in pensieri, chiedendomi dove si trovassero in quel momento Rinaldo e Ormanno. Se si erano fermati per una sosta, se il viaggio procedeva tranquillo o se avevano già nostalgia di casa. Sospirai, la noia della messa cominciava a pesarmi. Cercai di fare un calcolo approssimativo su quanto mancasse al termine. Non vedevo l’ora che la campana rintoccasse. Forse, a casa Isabella si stava dannando per dar da mangiare ai bambini, probabilmente elemosinando aiuto nelle cucine. Povera ragazza, avremmo dovuto aspettare prima di congedare la balia! Anche se sapevo che Levante era un bambino buono, o almeno lo era con me. Adoravo quando ero io stessa a nutrirlo, imboccandolo con un piccolo cucchiaio, e poi ammirare lo splendore delle sue guance piene mentre era intento a gustare la sua purea di mele. Sorrisi, coinvolta in quel pensiero piacevole e, per istinto, portai una mano al mio ventre come per condividere quel momento di gioia con la creatura che portavo in grembo.
Distrattamente sollevai lo sguardo e rimasi pietrificata nell’accorgermi dell’occhiata carica di odio che mi lanciò Madonna Alessandra. Sbirciai rapida alla mia destra e alla mia sinistra. Non c’erano dubbi, stava guardando proprio me. Deglutii. Perché mi stava guardando in quel modo? Certo, sapevo bene quanti motivi avrebbe avuto per farlo, ma in teoria lei no. O mi sbagliavo? Abbassai lo sguardo, troppo intimorita per sostenere il suo, e allora lo vidi. Indossavo il rosario di Rinaldo e lei doveva averlo riconosciuto.
La campana rintoccò in quel momento. Vidi Alessandra uscire dalla fila, il mento alto di donna fiera e ancora quello sguardo carico di odio puntato su di me. Uscì dalla Cattedrale prima che il Papa avesse terminato di celebrare la messa.
Posai la mano sul braccio di mio padre per richiamare la sua attenzione: “Padre, ho bisogno di uscire. Vi aspetto fuori.”
“Ma, io volevo approfittare dell’occasione per presentarti al…”
Non l’ascoltai nemmeno, feci il segno della croce e scivolai via dalla fila come una saponetta da mani umide. Volevo parlare con lei, volevo affrontarla apertamente. Glielo dovevo, in fondo.
Lembo della gonna leggermente sollevato, passi felpati per non attirare l’attenzione, mi affrettai a raggiungere l’uscita.
“Madonna Alessandra, aspettate.” La chiamai, continuando ad avanzare verso di lei.
Di fatto si fermò, ma rimase voltata dandomi di spalle, inoltre vidi i suoi pugni stretti lungo i fianchi. Non ero più molto sicura di volerle parlare, ma dovevo farlo.
Mi fermai ad appena due passi da lei e cominciai incerta: “Dovete perdonarmi, io…”
“Perdonarti?” Strillò voltandosi di scatto, permettendomi così di vedere sul suo volto tutto il disprezzo che provava per me. Quando riprese a parlare la sua voce mi parve il ringhio di un cane arrabbiato: “Come osi anche solo rivolgermi la parola dopo tutto ciò che hai fatto? Come osi chiedermi perdono quando continui ad offendermi mostrandoti in pubblico con al collo il rosario di mio marito?”
Non potevo negare che avesse ragione, anche se non era stata mia intenzione mancarle di rispetto, dato che lo avevo indossato solo per avere qualcosa che mi facesse sentire vicina a Rinaldo.
Vedendomi ferma e incapace di rispondere, Madonna Alessandra riprese a sputare veleno su di me: “Anche se ormai tutta la città è a conoscenza dell’adulterio, non ti permetterò di schernirmi.”
Replicai prontamente: “Non lo farei mai. Non sono il mostro che credete.”
Lei non diede importanza alle mie parole e proseguì: “E posso assicurarti che qualunque cosa ti abbia promesso mio marito, il tuo bastardo non porterà mai il nome degli Albizzi.” S’interruppe, le sue labbra s’inarcarono in un sorriso perfido: “Forse parlo inutilmente. E’ probabile che a mio marito non importi nulla!”
Sentendomi offesa, risposi per le rime: “Vi assicuro che Rinaldo ama profondamente i nostri figli!”
Figli?” Ripeté, guardandomi perplessa.
Mi pentii di aver parlato. Invece di sistemare le cose le avevo peggiorate ancor più. Strinsi le labbra per impormi di non dire più niente, ma non pensai di controllare anche il resto del mio corpo e non mi accorsi che in un gesto istintivo la mia mano si era posata sul ventre. Almeno fino a quando non mi resi conto della direzione dello sguardo di lei e il suo volto diventare esangue. Quando risollevò lo sguardo sul mio viso i suoi occhi stavano tremando, la voce le uscì strozzata: “Dunque le cose stanno così.”
Tolsi la mano dal ventre come se mi fossi scottata, il cuore mi mancò un battito. Proprio in quel momento dalle porte della Cattedrale cominciarono ad uscire le famiglie al termine della messa. La tensione tra me e Madonna Alessandra si poteva quasi toccare e di certo anche le persone che ci videro se ne accorsero.
Lei mi puntò il dito contro e sibilò: “Non rivolgermi mai più la parola, sporca sgualdrina.” E si voltò per andarsene.
“Questo posso prometterlo, Madonna.” Risposi con tono fermo, sapendo di dire la verità. Entro sera sarei fuggita dalla città e forse non vi avrei più fatto ritorno.
“Delfina.” Mi chiamò mio padre, venendomi incontro. Mi afferrò per un braccio e si sporse su di me: “Ma cosa fai? Vuoi dare spettacolo?”
Non mi permise di rispondere, semplicemente mi costrinse ad andare con lui e mia madre ci affiancò fingendo di non essere imbarazzata per quella situazione. Avevamo decine di occhi puntati contro. Ero certa che l’indomani quell’episodio sarebbe stato sulla bocca di tutti.
Percorremmo la strada restando in silenzio, io in particolare perché troppo timorosa di ricevere una severa sgridata. Se solo me ne fossi rimasta buona e tranquilla a seguire la messa invece di voler fare l’eroina… Ma come potevo sapere che Madonna Alessandra mi avrebbe aggredita in quel modo?
Rincasammo e, non appena la porta fu richiusa alle nostre spalle,  ecco che mio padre riversò su di me una colata di parole amare, con tanto di sopracciglia aggrottate e mani nervose: “Che cosa credevi di fare? La tua reputazione era già a rischio e ora grazie a questa trovata servirà un miracolo per pulire quest’onta!” Agitò le braccia in aria e sospirò rumorosamente: “Che cosa devo fare con te? Sembra che tu faccia di tutto per attirare su di te lo scandalo!”
Mia madre gli posò una mano sul petto e parlò con voce dolce per calmarlo: “Andrea, mio caro, troveremo una soluzione. Lei credeva di agire per il meglio. Dovreste comprendere quanto sia turbata.”
Lui rispose secco: “No, non lo comprendo.” Ci squadrò entrambe con serietà, intimidendoci.
“Ad ogni modo…” Riprese poi, con tono mite: “Ne discuteremo più tardi. Ora devo andare.”
Strabuzzai gli occhi per la sorpresa e scambiai un’occhiata con mia madre. Fu lei a dar voce alla mia curiosità: “Dove dovete andare, Andrea?”
“Guadagni mi ha invitato per pranzo. Probabilmente ho dimenticato di riferirvelo.” Minimizzò, quindi fece per andare: “Ora, se volete scusarmi…” Non fece nemmeno in tempo a voltarsi che io mi gettai su di lui per abbracciarlo. Non potevo fuggire senza prima averlo stretto un’ultima volta. Nonostante tutto volevo bene a mio padre e non sapevo se l’avrei più rivisto.
“Cos…?” Aveva tutte le ragioni per essere sorpreso dal mio gesto: “Se è un modo per farti perdonare, ti avverto che non funzionerà.” Nonostante le sue parole, però, rispose al mio abbraccio.
“Ti voglio bene, padre.” La voce mi uscì incrinata, avevo una gran voglia di piangere.
Lo sentii trattenere il respiro, nel tentativo di non lasciarsi andare e rispondere allo stesso modo. Era un uomo maledettamente orgoglioso. Mi sciolse lentamente dall’abbraccio: “Suvvia, non sono in collera con te. Sono solo contrariato per le tue azioni sconsiderate.” Mi guardò in viso e disse gentile: “Ne parleremo con calma questa sera, va bene?”
Mi morsi le labbra e ricacciai indietro le lacrime: “Magari domani.”
Accennò un sorriso e con le dita mi sfiorò una ciocca di capelli, un gesto che non faceva da molto tempo: “Ora devo proprio andare.” Chinò il capo in segno di saluto e uscì dal palazzo.
Rimaste sole, mia madre dovette pronunciare il mio nome tre volte prima che io mi destassi dall’effetto di quel momento. I miei sentimenti erano contrastanti. Ero abbattuta al pensiero che non avrei più rivisto mio padre, ma allo stesso tempo ero lieta di aver trovato l’occasione per fuggire.
Mia madre mi prese per mano e disse prontamente: “Tu vai ad avvisare Isabella e aiutatala a preparare i bambini, se necessario. Io faccio venire subito il cocchiere di fiducia con la carrozza senza insegne e gli faccio caricare il baule con le vostre cose.”
Feci un ampio cenno affermativo con capo, quindi ci avviammo prendendo direzioni diverse.
*
Bastò una mezzora perché tutto fosse pronto. La carrozza era modesta, di piccole dimensioni, e il cocchiere era un ometto di mezza età col volto coperto da una folta barba brizzolata e un cappello calato sugli occhi freddi, il cui compito era quello di scortarci fino ad Ancona[1] e poi dimenticare i nostri nomi. Anche se eravamo state accorte nello stabilire che mia madre avrebbe detto che eravamo partite per la tenuta di campagna, sapevamo che prima o poi mio padre avrebbe scoperto la verità, per ciò ci eravamo rivolte ad un estraneo che viaggiava molto e non poteva essere collegato a noi.
Il baule era stato ben legato sul retro della carrozza, mentre all’interno erano stati sistemati un cesto con le provviste per il viaggio e il necessario per il benessere dei bambini. Isabella fu la prima a salire con in braccio la paffutella e adorabile Gioia, essendo io occupata a salutare mia madre. Non sapevo cosa sarebbe accaduto e, come per mio padre, temevo che non l’avrei più rivista. Il cuore mi doleva come se fosse stretto in una morsa. Osservai i suoi occhi viola, i capelli corvini e lunghissimi, la pelle candida… Esternamente eravamo molto simili, ma solo di recente avevo capito che lo eravamo anche nel cuore e nell’anima. La vista mi si offuscò per le lacrime: “Madre, io…”
Lei mi posò un dito sulle labbra, quindi avvolse me e Levante in un unico abbraccio.
“Tu credi che ci rivedremo?” Chiesi, prima che un singhiozzo mi spezzasse la voce.
“Pensa solo ad essere felice, figlia mia.” Sussurrò al mio orecchio.
Sciolto l’abbraccio, vide delle lacrime corrermi lungo il viso, le scostò con le dita: “Ora vai. E ricorda quanto ti voglio bene.”
“Anch’io te ne voglio, madre.” La rassicurai. Accarezzò il visetto di Levante e stampò un bacio fra i suoi bei riccioli biondi. Il tempo era finito, era davvero il momento di partire.
Io e Levante prendemmo posto sulla carrozza e mia madre si occupò di richiudere lo sportello.
“Fate buon viaggio, mie care, e abbiate cura dei piccoli.” Si rivolse amorevolmente sia a me che a Isabella. Noi la ringraziammo con lo sguardo, cercando di trattenere le lacrime, cosa che si rivelò impossibile quando udimmo il cocchiere incitare i cavalli. La carrozza prese a muoversi nel cortile sul retro del palazzo e in breve fummo in strada.
Chiusi la tendina e volsi lo sguardo ad Isabella. Lei abbozzò un sorriso: “Andrà tutto bene. Stiamo facendo la cosa giusta.”
Sperai che avesse ragione. Guardai Levante, tranquillo sulle mie ginocchia e intento ad osservare Gioia che si dilettava a giocare con i capelli ricci della madre. Madre… I miei pensieri si rivolsero alla mia, alla donna che mi aveva dato la vita, che mi aveva ignorata per tutta la mia infanzia, che mi aveva imbarazzata coi suoi modi sfacciati e che poi si era rivelata all’improvviso una confidente, un’amica e una madre amorevole. Ero così presa da quei pensieri che ebbi un fremito nell’udire la voce del cocchiere dire: “Siamo fuori dalla città. Col vostro permesso, vorrei incitare i cavalli al galoppo.”
Mi portai una mano al cuore, il mio sobbalzo aveva spaventato Levante che subito aveva voltato il capo per guardarmi allarmato. Presi respiro e gli sorrisi per tranquillizzarlo, quindi mi rivolsi al cocchiere: “Sì, avete il mio permesso.”
Udii il forte schiocco delle briglie e le ruote della carrozza sotto di noi presero a girare con forza.
Scambiai un sorriso con Isabella: “Il primo passo è fatto.”
Lei si lasciò andare ad una risata liberatoria che coinvolse anche me. Ora che i nostri cuori erano leggeri sarebbe stato più facile affrontare il viaggio.
*
Rinaldo e Ormanno sostarono ad una locanda dopo un’intera giornata di viaggio a cavallo. La Signoria aveva stabilito che raggiungessero la città di Ancona entro sei giorni, il che significava che potevano procedere tranquillamente e fermarsi a riposare un paio di volte al giorno oltre che dormire durante la notte. Ma ugualmente avevano divorato il primo tratto di strada nella totale inquietudine e quasi senza rivolgersi la parola. A quell’ora, la sala principale della locanda era deserta, ma nessuno dei due aveva voglia di salire in stanza. Osservando il figlio così taciturno e cupo, Rinaldo arrivò a temere di essere lui stesso il responsabile. E ne aveva tutte le ragioni. Vederlo con quello sguardo vuoto e con le mani intrecciate attorno ad un bicchiere di vino ancora pieno, gli divenne insopportabile. Volse lo sguardo sul moncherino di candela che presto si sarebbe spento, se voleva parlare era meglio che lo facesse subito. Si lisciò la barba con la mano, dandosi il tempo di pensare a cosa dire, a come esprimere ciò che provava.
“Mi dispiace, Ormanno.” Parole semplici ma significative per cominciare il discorso.
Ormanno finalmente si mosse, sollevò lo sguardo su di lui: “Non è solo colpa tua, padre. Sei sempre stato ambizioso e hai agito credendo di essere nel giusto. Avrei dovuto fermarti o almeno tentare di farti ragionare.”
“Hai tentato, invece, e lo sai. Ma non è a questo che mi stavo riferendo.”
Ormanno gli lanciò un’occhiata interrogativa, perciò spiegò: “Tua madre, ragazzo. L’ho fatta soffrire e adesso mi accingo a ricostruirmi una vita con la mia amante, mentre lei resterà sola a Firenze a lottare contro le malelingue e a sopportare il peso dei miei errori.”
Suo figlio sospirò tristemente, abbassò lo sguardo: “Mia madre meritava di meglio. Da entrambi noi.”
Era una magra consolazione per Rinaldo sapere che suo figlio non lo odiava, ma dunque cos’altro era a tormentarlo? Come se Ormanno avesse letto nella sua mente, prese respiro e parlò: “Io non so davvero come comportami.” Prese a rigirare il bicchiere tra le dita, nervosamente: “Mi sono ritrovato padre all’improvviso e non ho idea di come rivestire questo ruolo.”
Allora si trattava di questo: la paternità! Rinaldo si sentì sollevato, abbozzò tranquillamente uno scherzo: “Temo che non esistano regole per questo!”
Ormanno proseguì più agitato: “Il fatto è che non ho un modello su cui basarmi. Voglio dire… Tu mi hai cresciuto con il pugno di ferro, mi hai addestrato al combattimento, ma questo io non posso farlo con una figlia femmina.”
Rinaldo posò una mano su quella del figlio, costringendolo così a smettere di torturare il bicchiere.
“Tu che cosa faresti per lei?” Gli chiese semplicemente.
Ormanno rischiò di andare nel panico per quella domanda, ma poi si soffermò a guardare la mano del padre sulla sua e capì.
“Voglio proteggerla da ogni male, darle il mio amore, il mio sostegno, e renderla felice.”
Rinaldo inarcò le labbra in un fiero sorriso: “E’ questo ciò che fa un padre.”
Lui gli fece un cenno col capo, sentendosi meglio. Anche se…c’era un’altra questione che lo inquietava. Un velo di tristezza si posò sui suoi occhi nel chiedere: “E riguardo Isabella?”
Rinaldo ritirò la mano e si accomodò meglio sulla panca: “Se è la madre di tua figlia qualcosa vorrà dire. Insomma, se hai passato una notte con lei deve avere qualcosa che ti attrae.” Si sentì a disagio nell’affrontare un argomento così intimo, ma d’altra parte era ora di affrontarlo.
Ancora più a disagio di lui, Ormanno dovette bere il vino tutto d’un fiato per trovare il coraggio di parlare: “Non è facile come sembra. Quella notte l’ho presa con la forza solo per vendicarmi di te e Delfina. Mi era sembrato astuto stuprare la sua serva per ferirla.”
“Ma che Diavolo…?” Rinaldo si portò una mano alla bocca per smettere di gridare o avrebbe svegliato tutti gli ospiti della locanda. Si sforzò di reprimere l’istinto di strangolare il figlio e si impose di discuterne con calma. Accese lo sguardo su quello di lui: “Cercherò di dimenticare questa abominevole confessione, benché io sia certo di non averti cresciuto come una bestia, solo perché so che quella donna è innamorata di te nonostante la tua pessima condotta.”
“Lo so, padre. Sono a conoscenza dei suoi sentimenti per me. Il punto è che io non sono innamorato di lei. Dopo aver scoperto dell’esistenza di Gioia è stato inevitabile che tra noi si creasse un legame ma…” Scosse il capo: “Non credo di volerla sposare.”
Rinaldo sottolineò: “L’amore non sempre è possibile. Quando io e tua madre ci sposammo per volere delle nostre famiglie eravamo due estranei.”
“E guarda come è finita!” Ormanno lo guardò con tanto d’occhi. Aveva scelto un pessimo esempio per convincerlo.
“E se io la sposo e poi trovo il vero amore come è accaduto a te con Delfina?” Insistette Ormanno.
Rinaldo si sporse verso di lui sul tavolo e disse diretto: “Io ti consiglio di cercare l’amore vicino a te invece che altrove. Potresti accorgerti di averlo a portata di mano.”
“Perdonatemi.” La voce li fece voltare entrambi. Si trattava di una giovane sguattera molto assonnata che si rivolse a loro timidamente: “Avete bisogno dei miei servigi, Messeri?”
I due si alzarono dalle panche, scambiandosi un’occhiata. Quella povera creatura eri rimasta lì per loro anche se era esausta. Rinaldo rispose: “No, puoi andare. Stavamo giusto per salire.”
La giovane fece una riverenza, cercando di nascondere la soddisfazione di potersi ritirare: “Vi ringrazio e vi auguro la buonanotte.”
*
Andrea Pazzi si svegliò tardi quel mattino. Il suo sonno era stato molto inquieto e di fatto si alzò più stanco di quando era andato a dormire. Nella mente ancora cupi frammenti di un sogno che aveva fatto, qualcosa di non piacevole che gli aveva lasciato dentro un senso di timore. Dopo l’abbraccio e la dichiarazione d’affetto che sua figlia gli aveva fatto il giorno prima, non sapeva più come comportarsi. C’erano questioni gravi da risolvere che pretendevano serietà, ma come poteva essere severo con lei dopo quel gesto? La sera prima non l’aveva vista poiché lei aveva consumato il pasto nella sua stanza e così lui aveva avuto più tempo per pensare sul da farsi. Si fece vestire dal proprio servitore con abiti semplici, visto che quel giorno non aveva intenzione di uscire da palazzo e tantomeno di ricevere qualcuno. Quando uscì dalle proprie stanze era praticamente ora di pranzo, perciò si recò nella sala dove trovò sua moglie ad attenderlo.
“Buongiorno, marito mio. Spero di aver fatto bene a lasciarvi riposare.” Gli disse sorridendo.
Lui prese posto a capotavola e fece cenno con la mano ad un servitore affinché questi gli versasse il vino nel calice. Poi si rivolse alla moglie: “Non ne sono sicuro. Necessito di riposo ma la mia mente si rifiuta di concedermelo.”
“Oh, ne sono dispiaciuta.”
Guardandola bene nemmeno lei sembrava aver passato una bella nottata. Era ben vestita e acconciata come sempre, però il suo incarnato era pallido e sotto agli occhi aveva due ombre scure.
Andrea volse lo sguardo altrove e cambiò oggetto d’interesse: “Dov’è Delfina? Vedo che non è apparecchiato per lei.”
Caterina quasi trasalì nell’udire il nome della figlia, strinse le mani in grembo e si impose di calmarsi. Pregò che la voce non s’incrinasse: “E’ partita presto per la tenuta di campagna assieme ad Isabella e i bambini.”
Andrea ne fu contrariato: “A fine estate? Perché mai? Cosa vuole dimostrare fuggendo?”
Caterina sussultò anche a quell’ultima parola, dovette schiarirsi la voce: “E’ molto provata, Andrea. Non si tratta solo della sofferenza per l’esilio di Rinaldo, se è ciò che credete. La sua decisione è stata suggerita anche dall’orgoglio ferito dopo quanto accaduto con Madonna Albizzi. Ora che tutti hanno avuto conferma che lei è l’amante di Rinaldo non oso immaginare quali offese le rivolgeranno, povera piccola. E’ naturale che abbia bisogno di tempo per riflettere.”
Andrea si adagiò sullo schienale della sedia e sospirò: “E noi nel frattempo dovremo impegnarci per far scoppiare questo scandalo come una bolla di sapone e salvare così la sua reputazione. Altrimenti non le troveremo mai marito.” Si portò una mano alla fronte e la massaggiò, era così stanco che gli stava per venire un’emicrania. Dopo un paio di minuti riprese: “Comunque, credo sia meglio che i due piccoli bastardi restino in campagna. Li faremo adottare dalle famiglie di contadini dei dintorni e almeno quel problema sarà risolto.”
Caterina trasalì: “E’ una cosa orribile.”
Lui la fulminò con lo sguardo: “Cos’altro dovrei fare? Se si sapesse della loro esistenza e che sono entrambi figli degli Albizzi, la nostra famiglia cadrebbe in rovina. Dovete capirlo, moglie. E soprattutto, dovete farlo capire a lei!” E nel terminare la frase puntò il dito in una direzione, alludendo a sua figlia.
Caterina abbassò lo sguardo, grazie a Dio Delfina era lontana e sarebbe stata salva.
*
Un altro giorno se n’era andato, un’altra sera era calata e noi non eravamo ancora a metà strada. Di certo non perdevamo tempo, anzi i nostri orari di viaggio erano molto rigidi dato che la mattina partivamo prima dell’alba e la sera ci fermavamo solo quando la strada non era più visibile nell’oscurità. Le soste giornaliere erano poche e brevissime, giusto quanto bastava per soddisfare le più urgenti esigenze fisiche e sciacquare i panni sporchi dei bambini. E loro erano fin troppo bravi considerando che lo spazio vitale in carrozza era alquanto ridotto. Sembravano aver capito l’inutilità dei capricci e si accontentavano del semplice divertimento della loro reciproca compagnia. Fra tutti noi, chi soffriva di più era la piccola creatura che portavo in grembo, costretta a sopportare il continuo urto provocato dalla carrozza e il disagio della mia posizione costantemente seduta dato che mi era impossibile stendermi sul sedile. La sera, quando potevo rinfrescarmi, trovavo delle macchie di sangue sulla gonna. Non era un buon segno, ma nemmeno grave, e poi almeno le nausee erano divenute più leggere.
“Resistete, Damigella.”
La voce dolce di Isabella mi destò dai miei pensieri. Volsi il capo sul cuscino e riuscii a scorgere i suoi occhi nel buio. Fra noi, sul lettone, vi erano i nostri cuccioli beatamente addormentati, il loro respiro risuonava leggero come una melodia.
Non avendo ottenuto risposta, lei si allarmò: “Vi sentite male?”
Risposi in un sussurro: “No. Non più di ieri. Vorrei che Rinaldo fosse qui con me.” Nel pronunciare quel nome gli occhi mi si riempirono di lacrime: “Ho tanta paura.”
“Presto saremo ad Ancona e potrete rivederlo.” Cercò di rassicurarmi lei.
“Ogni volta che chiudo gli occhi sono terrorizzata dal pensiero di risvegliarmi circondata dalle guardie di mio padre ed essere trascinata via con la forza.”
“Ma vostro padre non sa della fuga.”
“Ne sei certa?” Proseguii con tono molto serio: “Se mia madre avesse fallito? Se la menzogna della tenuta di campagna non avesse retto? Se lui fosse andato là personalmente a controllare e non mi avesse trovata?”
Ci fu un minuto di silenzio, poi udii Isabella prendere respiro per rispondermi: “Abbiamo comunque un buon vantaggio. Anche se avesse mandato le guardie, occorrerebbe loro tempo per cercarci e trovarci.”
“Sempre che non decidano di spargersi lungo il confine della Repubblica di Ancona per bloccarci il passaggio. In quel caso saremmo perdute e il cocchiere forse ucciso sul momento.” Ero così negativa che provavo disgusto per me stessa, ma come evitare di pensare al peggio?
Per fortuna Isabella non si lasciò intimorire dalle mie parole: “E’ la paura a farvi parlare così. Le vostre preoccupazioni sono infondate. Vedrete che arriveremo al confine senza incidenti e una volta dentro saremo al sicuro.”
Lo speravo tanto, ma quel momento sembrava così lontano… Posai una mano sul mio ventre e pensai: “Coraggio.”
*
Viaggiammo altri due giorni con lo stesso andamento, senza imprevisti, ma consapevoli che quel viaggio ci stava prosciugando delle energie vitali. Provavo ammirazione per quel cocchiere dall’incredibile resistenza ed ero sempre più convinta che meritasse un compenso più grande di quello che gli aveva dato mia madre, anche se si trattava già di una somma consistente. I miei pensieri, però, erano quasi sempre rivolti al mio bambino nel ventre. I dolori erano più frequenti  e più forti e le perdite di sangue sempre più abbondanti. Non ero ancora alla metà della gravidanza e il rischio di aborto era molto alto. Preoccupata per la mia salute, quel giorno Isabella tentò di convincermi a fermarci al tramonto e riprendere il viaggio l’indomani, ma io ribattei ostinata che proseguendo avremo raggiunto le mura di Ancona nel cuore della notte. Anche il cocchiere suggerì di fermarci, ma la mia risposta fu un deciso: “No. Riposeremo quando saremo arrivati.” Avevo un bisogno disperato di raggiungere Rinaldo e non riuscivo a ragionare con lucidità.
A contrariarmi ci pensò la provvidenza o Dio nella sua infinta bontà. Era da poco scesa la sera quando fummo travolti da una pioggia torrenziale che rese impossibile proseguire. Trovammo rifugio all’Abbazia di Chiaravalle in Castagnola, che di recente era entrata a far parte dei territori della Repubblica di Ancona, con mio sollievo. Fu l’unica consolazione, l’unico barlume di speranza che mi sfiorò il cuore prima di perdere i sensi.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in una sala dove erano una decina di giacigli disposti in ordine lungo le pareti più lunghe e un delicato aroma di erbe mediche aleggiava nell’aria. Mi sollevai piano, portandomi una mano al ventre con gesto abitudinario, anche se constatai che non mi doleva più. Dall’intensità della luce che entrava dalle alte e piccole finestre, doveva essere il mattino inoltrato di una bella giornata di sole. Sul mobile accanto al mio letto trovai un catino e una brocca colma di acqua fresca. Nessuna traccia dei miei abiti puliti e nessuna presenza nei paraggi. Mi alzai e versai abbondante acqua nel catino per farmi delle abluzioni. Mi resi conto di avere una fasciatura fra le gambe, la tolsi, vi era una traccia di sangue ma nulla di preoccupante. Evidentemente ero stata assistita dopo lo svenimento e curata per impedire un aborto. Mi rinfrescai il viso ed il collo, quindi passai alle parti intime e mi asciugai con un telo. Dovevo essere in condizioni pietose, soprattutto i capelli che non lavavo da giorni, ma in quel momento l’unica cosa che mi importava era riprendere il viaggio.
Uscii dalla sala e mi avventurai lungo un corridoio largo in stile gotico che trovai un po’ inquietante. Non avevo idea di dove stessi andando.
“Ma dove sono tutti i Monaci?” Sospirai spazientita. Giunta ad una diramazione, udii dei gridolini familiari, perciò li seguii fino ad arrivare all’uscita che dava sul chiostro. L’area quadrata era stata in parte occupata dalle corde su cui era steso il bucato. Riconobbi i miei abiti, quelli di Isabella e una distesa di abitini e biancheria dei bambini. Oltre il labirinto di stoffa udii chiaramente la risata cristallina di Isabella e il rumore di schizzi di acqua. Mi feci strada scostando di volta in volta gli indumenti sul mio cammino, fino a giungere a loro. In una zona nell’ombra vidi una tinozza dentro la quale Levante e Gioia stavano sguazzando felici, sotto lo sguardo allegro ma attento di Isabella che invece sedeva sul suolo.
Levante mi vide per primo e gridò: “Mamma!”
Isabella si alzò in piedi e fece un inchino cortese: “Buondì, Damigella. Vi sentite meglio oggi?”
Tutt’altro che allegra, mi avvicinai e risposi severa: “Affatto. Perché non mi hai svegliata?”
Lei abbassò lo sguardo umilmente: “Necessitavate di riposo per la vostra salute. Il monaco che si è preso cura di voi è stato molto chiaro. Perciò stamane ne ho approfittato per fare il bucato e il bagno ai piccoli.”
Invece di riconoscere il suo valore, continuai a rimproverarla: “A quest’ora saremmo già ad Ancona con Rinaldo e Ormanno invece di abusare dell’ospitalità dei Monaci. Gradirei che andassi a dire al cocchiere di preparare la carrozza. Scommetto che quel buono a nulla sta ancora dormendo.”
Isabella mi corresse con trasporto: “Veramente si è alzato all’alba ed è partito a cavallo per la città.”
Tremai: “Ci ha abbandonate qui?”
“Oh no no no, non è così! E’ partito per andare a cercare i Messeri Albizzi e avvisarli che li raggiungeremo prima di sera. Sapendo che noi non siamo a conoscenza di dove alloggino si è offerto di andare a cercarli.”
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Io lo avevo insultato e invece quell’uomo si era rivelato ancora una volta prezioso.
Isabella proseguì: “Da qui alla città vi sono solo un paio di ore di viaggio, non dovete preoccuparvi. Abbiamo tutto il tempo di fare una buona colazione. Inoltre ho chiesto ad un monaco di badare ai bambini mentre io mi occupo di voi e vi preparo un bagno.”
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Non meritavo davvero quelle premure dopo le cattiverie che mi erano uscite dalla bocca a sproposito. Abbracciai Isabella con gratitudine: “Ti ringrazio, amica mia.”
“E’ sempre un piacere per me, Damigella.” Una nota di commozione nella voce.
Sciolsi l’abbraccio e la guardai con nuova espressione sorridente: “Ti chiedo solo un’ultima cosa. Dopo che tu avrai aiutato me, permettimi di ricambiare. Lo meriti un bagno profumato! Inoltre…” Sfoggiai uno sguardo malizioso e terminai: “Devi essere al meglio per incontrare Ormanno!”
Lei arrossì fino alla radice dei capelli e abbassò lo sguardo: “Siete…mmmolto premurosa.”
“Orsù, ora rivestiamo i bambini prima che gli crescano le pinne!” Mi chinai per raccogliere un telo pulito e ripiegato che era posato sul muretto, quindi sollevai Levante dall’acqua e lo strinsi a me: “Anche tu dovrai essere impeccabile per il tuo papà.”
Lui sgranò gli occhioni chiari e provò a ripetere: “Pa-pa.”
*
Rinaldo e Ormanno erano arrivati in città il giorno prima, in tarda mattinata, dopo un viaggio che non li aveva affaticati molto essendo entrambi addestrati alla resistenza, come anche i loro cavalli. Appena scesi dai destrieri avevano chiesto immediatamente di essere ricevuti dai Signori della città per raccontare loro del motivo per cui si trovano lì e chiedere di poter acquistare una dimora in cui abitare al più tardi dal giorno successivo. Tali Signori, inizialmente poco propensi ad accogliere nella loro Repubblica due esiliati accusati di tradimento, avevano poi abbassato la guardia e, una volta stabilite alcune condizioni diplomatiche, li avevano congedati augurando loro buona giornata. Abbandonati a loro stessi, Rinaldo e Ormanno trascorsero il resto della giornata alla ricerca di una dimora, con molte difficoltà. Solo dopo numerosi tentativi trovarono una vedova che si mostrò ben disposta a vendere la propria casa anche se in tempi così brevi, dichiarando di essere lieta di lasciare la città per andare a vivere con una sorella. Per loro fu una manna dal cielo.
Seppur lontana dal lusso del palazzo in cui avevano vissuto, la casa era elegante e ben tenuta ed i pochi servitori avevano un aspetto affidabile. Nel frattempo avrebbero dovuto accontentarsi di dormire ancora una volta in una locanda, ma la cosa non gli importò gran che.
Si trovavano appunto lì, il mattino seguente, quando il cocchiere gli si piazzò di fronte. Una volta appreso che si trattava del cocchiere assunto da Madonna Pazzi, lo invitarono ad accomodarsi al tavolo per consumare la colazione assieme a loro e lui accettò di buon grado. Il buon uomo raccontò loro del viaggio nei minimi dettagli e diede notizie delle donne e dei bambini. Dopo aver azzannato la seconda coscia di pollo e aver svuotato il terzo bicchiere di rosso, si fermò per pulirsi la folta barba con la manica della camicia.
Volendo sapere la fine del racconto, Rinaldo lo spronò: “Stavate dicendo della pioggia. Dopo cosa è accaduto? Dove vi siete fermati?”
Il cocchiere infilzò una patata arrosto con il coltello e se la portò alla bocca per staccarne un bel pezzo. Ingoiò rumorosamente e riprese: “Dicevo, Messere, che la pioggia era talmente fitta che non vedevo più niente. Per questo ho fermato i cavalli all’ingresso dell’Abbazia poco lontano da qui. Damigella Pazzi non ne era contenta, era ansiosa di raggiungervi, ma io ho insistito. E ho avuto ben ragione! Ha quasi perso il bambino che aveva in grembo tanto era affaticata!” Terminò con tono quasi divertito, non perché lo fosse davvero, ma a causa del vino che cominciava a dargli alla testa.
Rinaldo a quell’ultima frase trasalì: “Cosa avete detto? Come vi permettete di parlare con un simile tono?”
Vedendo i suoi occhi di ghiaccio puntarlo, l’uomo si sentì rabbrividire e chiarì immediatamente: “Chiedo perdono, Messere, non volevo mancare di rispetto. Ad ogni modo, quando mi sono svegliato all’alba, ho parlato con la serva Isabella per dirle che sarei venuto qui  a cercarvi.”
Pensieroso, e con le dita intrecciate sul ripiano del tavolo, Rinaldo sembrava aver già dimenticato l’errore e nei suoi occhi ora non vi era altro che preoccupazione. Quando abbandonò i propri pensieri, chiese: “Sapete se Delfina si sente meglio? Se è in grado di viaggiare fin qui?”
Il cocchiere, più tranquillo, ingoiò quel che restava della patata ancora infilzata col coltello e rispose a bocca piena: “Quando lasciammo Firenze non ero a conoscenza delle sue condizioni. Il viaggio è stato molto pesante e mi chiedo come lei abbia potuto affrontarlo. Ma a quanto ho capito, un monaco si è preso cura di lei e dovrebbe essere fuori pericolo. Basteranno un paio di ore in carrozza per arrivare qui, sono certo che Damigella non vorrà restare all’Abbazia.”
Rinaldo scambiò un’occhiata col figlio, quindi si rivolse al cocchiere: “Portateli tutti qui sani e salvi e avrete la nostra gratitudine.”
Il cocchiere fece un segno di assenso col capo, quindi si mise in piedi: “Molte grazie per la colazione, Messeri. Riparto subito e vi garantisco che entro il primo pomeriggio tornerò con il prezioso carico che aspettate.” Fece un inchino un po’ goffo e si avviò verso l’uscita.
*
Un bagno fresco e un massaggio con oli profumati contribuì molto a migliorare il mio umore. Isabella mi lavò e spazzolò i capelli con cura, quindi io feci lo stesso con lei e in più glieli acconciai in una bella treccia adornata di nastri colorati che avevo recuperato dal nostro baule. Scegliemmo anche gli abiti migliori che avevamo portato, assaporando il momento in cui li avremo sfoggiati per i nostri amati che ci attendevano. Quando giungemmo alle mura delle città con la nostra piccola carrozza, ed il nostro fedele cocchiere a cassetta, il sole aveva appena cominciato la sua traversata verso ovest, perciò il tramonto era ancora lontano. Entrammo in città senza alcun problema, dato che le guardie non s’interessarono molto di due giovani donne fiorentine nubili che viaggiavano con i figlioletti. I cavalli procedettero al passo tra le vie, mentre il cocchiere si destreggiava per trovare la casa in cui avremmo vissuto, così noi ne approfittammo per aprire le tendine e guardare con curiosità le case e i palazzi di quella città a noi sconosciuta. Dopo un po’ la carrozza si fermò di fronte ad una grande casa.
“Pensi che sia questa?” Chiesi ad Isabella, piena di entusiasmo.
“Io…” Spalancò la bocca e gli occhi le si illuminarono. Seguii la direzione del suo sguardo e vidi che sulla soglia erano comparsi Rinaldo e Ormanno preceduti da alcuni servitori. Due uomini andarono subito sul retro della carrozza per prendere il grosso baule, mentre una donna venne ad aprirci lo sportello.
“Ben arrivata, Damigella. Mi presento, io sono Luisa e mi prenderò cura del vostro piccolo.”
Era giovane e aveva un viso simpatico dai grandi occhi castani.
La mia domanda fu d’obbligo: “Sei una balia, Luisa?”
Lei accennò una risata: “Oh no, Damigella, però ho un figlio di sette anni. Amo i bambini e quando Messer Albizzi mi ha chiesto se volessi occuparmi di un bimbo di un anno appena io ho accettato con gioia. Potete fidarvi di me, avrò cura di vostro figlio.”
Con una presentazione così come potevo essere sospettosa? Le sorrisi e le porsi Levante, il quale parve contento di trovare rifugio tra le braccia della donna. Prima di entrare in casa si fermarono accanto a Rinaldo, su sua richiesta. Lo osservai mentre baciava il nostro bambino e gli sussurrava qualcosa all’orecchio. Nel privato era sempre stato dolce con Levante e ora finalmente poteva esserlo anche alla luce del sole, senza temere il giudizio altrui. Dopo averlo salutato volse lo sguardo verso di me, i suoi occhi chiari sembravano brillare. Mi venne incontro e, giunto alla carrozza, s’inchinò e mi porse la mano per aiutarmi a scendere. Pochi istanti e mi ritrovai fra le sue forti braccia, al sicuro e protetta da qualunque cosa. Eravamo stati lontani solo per pochi giorni, eppure sentivo di aver bisogno del suo calore e delle sue attenzioni come mai prima. Mi sfiorò il viso con la sua morbida barba bionda, sussurrando: “Come ti senti?”
Le braccia attorno al suo collo, risposi anch’io in un sussurro: “Non preoccupati, stiamo bene.” Parlai al plurale, sapendo che la domanda era rivolta sia a me che al piccolo nel mio ventre.
Lui scostò il viso e mi guardò dritto negli occhi, con quello sguardo profondo che mi aveva fatto innamorare di lui due anni prima.  
“Saremo felici, te lo prometto. Non permetterò più alla politica di condizionare le nostre vite.”
Fra tutte le promesse che avrebbe potuto fare, quella era di certo la più importante. Sapevo che rinunciare alla politica e al potere sarebbe stato difficile per lui, ma io sarei stata al suo fianco e l’avrei aiutato. Forse era possibile una vita senza intrighi e imbrogli, anche se fino a quel momento non avevo osato sperarlo.
Accennai un sorriso e dissi: “Ti amo, Rinaldo degli Albizzi.”
Lui mi baciò dolcemente, quindi mi sorprese sollevandomi all’improvviso tra le braccia come avrebbe fatto un cavaliere. Lasciai una risatina.
“Desideri vedere la tua nuova dimora?” Chiese galante.
Io scossi il capo e dissi maliziosa: “Non ora.”
Tenendomi in braccio, mi portò all’interno della casa.
Essendo noi presi dal nostro momento romantico, fu Ormanno ad occuparsi delle questioni pratiche. Invitò il cocchiere a fermarsi  a riposare fino all’indomani, cominciando già a ringraziarlo per l’ottimo lavoro svolto, poi diede istruzioni ai servi su dove portare i bagagli, non solo gli uomini col baule ma anche le due donne che si erano unite ad aiutare raccogliendo la biancheria dei bimbi e altre cosette che avevamo tenuto all’interno della carrozza. Finito il dovere, finalmente poté dedicarsi alla propria figlioletta, stringerla al petto e riempirle i capelli di baci. Quella bambina dal viso tondo aveva i suoi occhi neri e profondi, tanto che poteva specchiarsi al loro interno.
“Mi prenderò cura di te, piccolo amore mio. Farò di tutto per essere un buon padre.” Le stampò un bacio sulla fronte con affetto.
“Sono sicura che lo sarete, Messere.” La voce di Isabella richiamò la sua attenzione.
Ormanno la guardò, scoprendo che quel giorno era particolarmente graziosa, forse per via della treccia, o per il lieve sorriso che le sfiorava le labbra come un bacio. Era come se la stesse guardando per la prima volta, con occhi nuovi.
“La cresceremo insieme e ci aiuteremo a vicenda nelle difficoltà. Nostra figlia merita tutto il nostro amore.” Disse sincero.
Lei fece un leggero inchino: “Sono pienamente d’accordo, Messere.”
Lui le prese una mano e la strinse amorevolmente nella propria. Inevitabilmente le guancie di lei divennero color porpora per quel gesto inaspettato.
“Ho avuto modo di riflettere in questi giorni e ho capito una cosa importante. Se il cielo ha voluto farci dono di una creatura così adorabile, non dobbiamo essere ingrati. Il modo migliore per rendere felice nostra figlia è provare ad esserlo noi per primi.”
Isabella aveva il cuore che batteva come un tamburo, cercò di parlare: “Mess…”
“Ormanno. Chiamami Ormanno. D’ora in poi sarai una donna libera e non dovrai più servire nessuno. Avrai una dama personale e ti mostrerai al mio fianco come mia compagna e madre di mia figlia, come è giusto che sia.” Era il discorso più serio che avesse mai fatto in vita sua e per la prima volta credeva davvero nelle parole che pronunciava. Nessun inganno, solo la verità. Strinse più forte la mano di lei, come per rassicurarla che era tutto vero, ma anche per timore che potesse svenire dall’emozione. Aggiunse giusto un’ultima cosa per terminare il discorso: “Non posso dire di provare per te lo stesso amore che tu provi per me, sarebbe una falsità, ma vorrei imparare a conoscerti e darti il rispetto che meriti. Se questo ti può bastare, per adesso.”
Delle lacrime sbocciarono dai suoi occhi e le attraversarono il viso, dalle sue labbra uscì una piacevole risatina: “Sì, Ormanno. Va bene così!”
Lui le sorrise e, mano nella mano, si avviarono insieme verso un futuro che si prospettava roseo e pieno di promesse.
 
 
[1]: Ho scelto Ancona per semplificare le cose, ma in realtà le tappe degli Albizzi sono state più numerose. Nel 1434 Rinaldo venne esiliato a Trani, Ormanno invece a Gaeta, e dopo poco tempo s’incontrarono per cospirare e insieme si recarono a Milano a chiedere l’aiuto del Visconti per riprendere possesso di Firenze. Dopo anni di fallimenti nel 1440 si stabilirono ad Ancona, dove Rinaldo morì due anni dopo (dopo aver intrapreso un viaggio in Terrasanta). 
  
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