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Autore: Adeia Di Elferas    08/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Achille fece un respiro profondo e poi, stringendosi la cappa nel collo, infreddolito dalla pesante nebbia che si stendeva su Forlimpopoli, si fece riconoscere dalle guardie ed entrò.

Il castellano Landriani era stato molto vago sul motivo di quella convocazione, ma nella sua lettera aveva lasciato intendere che si trattasse fondamentalmente di un incontro voluto dalla Contessa Sforza per accordare finalmente un giusto compenso al Capitano.

Tiberti ci credeva fino a un certo punto, ma, tra tutti i difetti che aveva, la codardia non c'era. Così, pur immaginando di essere in procinto di cacciarsi in un guaio, aveva accettato di recarsi alla rocca.

“Vi sta aspettando...” disse il giovane Piero Landriani, accompagnando Achille fino alla porta di una delle stanze più calde della rocca.

“La Contessa è qui?” chiese il Capitano, sentendo la bocca seccarsi.

Aveva avuto qualche sospetto in più, quando, dopo essere entrato, gli era stata presa la spada ed era stato perquisito per accertarsi che non avesse altre armi con sé.

Il castellano annuì appena, senza lasciar trasparire particolari emozioni, e poi bussò un paio di volte. Senza attendere risposta, aprì e lasciò Tiberti al suo destino.

Non appena entrò, l'uomo sentì un tepore molto piacevole, in netto contrasto con l'umidità gelata che aveva trovato lungo la strada. Tuttavia, la vista della Tigre, seduta in silenzio davanti al camino, le mani in grembo e lo sguardo vitreo rivolto alle fiamme, lo fecero di nuovo tremare di freddo.

Achille restò vicino alla porta, indeciso se fosse o meno il caso di annunciarsi in qualche modo. Fu un movimento appena accennato della Contessa a fargli capire che non era necessario.

“Perché avete attaccato il confine a quel modo?” chiese Caterina, la voce bassa e senza intonazione.

Il Capitano detestava quando gli parlavano a quel modo. Avrebbe preferito cogliere la sua rabbia o anche la delusione, ma il non capire che cosa stesse davvero pensando lo faceva impazzire. Era come giocare a carte con qualcuno che conosce regole solo sue.

“Ve l'avevo detto che era l'unico modo per riuscire nell'impresa.” disse Tiberti, sforzandosi di apparire molto sicuro di sé: “E sto avendo ragione. Stiamo mangiando terreno al Malatesta e lui non ha ancora alzato un dito per difendersi. Vuol dire che è solo e non ha abbastanza soldati per contrattaccare un aggressione così violenta.”

“Oppure vuol dire che sta aspettando le truppe di Venezia.” ribatté la Sforza, alzandosi con un sospiro dal divanetto su cui si era sistemata e avvicinandosi ad Achille.

Siccome l'uomo non trovò nulla con cui ribattere, la Contessa lo squadrò da capo a piedi. Lo trovava un po' invecchiato e su uno zigomo aveva un graffio profondo e abbastanza recente, che probabilmente si era procurato durante uno degli ultimi assalti.

“Siete al mio servizio da anni – riprese la donna, fissandolo con insistenza, ormai tanto vicina che Tiberti poteva quasi sentirne in fiato sul collo – e credevo che ormai aveste capito che i miei ordini non vanno presi alla leggera. Quando mai ho ordinato di prendere a sacco un paese in quel modo?”

Con l'orgoglio di chi teme di aver già perso tutto, Achille raddrizzò ben bene la schiena e, sostenendo lo sguardo glaciale della sua signora, disse: “Non mi avete dato soldi, né cibo, né uomini del vostro esercito. Non sono ricco. Ho dovuto aggiustarmi con quelli che ho trovato e per tener calma certa gente, bisogna permetter loro di far bottino, insozzar le donne e sfogarsi su quel che resta.”

La Leonessa chiuse un momento gli occhi, le narici che vibravano appena e le labbra strette a diventare un filo.

“Voi siete in debito con me. Ricordate, quello che avete chiesto per salvare vostro fratello? E ricordate il modo in cui non avete rispettato i patti?” chiese la donna, il viso trasformato in una maschera di difficile interpretazione.

Il soldato ricordava benissimo, eppure non si diede per vinto e tentò un'ultima volta di far valere le proprie ragioni: “Debito o non debito, quello che mi avete chiesto è troppo!”

“Se foste stato assennato, alla fine vi avrei concesso quel che vi serviva.” controbatté la Sforza, appena più accesa.

“Sì, forse, e chissà quando!” sbottò l'uomo, su cui la tensione e la paura cominciavano a fare brutti scherzi.

Da quando era ragazzo, le armi erano state il suo mestiere e così aveva imparato a tenere a freno certi sentimenti sgradevoli. Tuttavia, forse l'età o forse la consapevolezza del rischio che stava correndo, quel giorno si sentiva completamente in balia di se stesso e non riusciva più a tenere la bocca chiusa.

“Sapete qual è il vero problema?” fece Tiberti, ormai senza freni: “Che sia io sia i miei uomini siamo stanchi di aspettare i capricci di una donna sciocca e volubile quanto voi!”

Prima che se ne potesse rendere conto, il Capitano sentì il freddo filo di una lama contro il collo.

Veloce e silenziosa come pochi sapevano essere, la Contessa aveva estratto il suo pugnale da sotto le gonne e l'aveva puntato contro il suo interlocutore.

Convinto che ormai il suo destino fosse irrimediabilmente segnato, Achille chiuse un momento gli occhi, deglutì, sentendo il metallo tagliare appena la sua pelle e far scorrere giù qualche rivoletto di sangue, e poi sussurrò: “Uccidetemi pure. Ma non andrà a vostro onore, mia signora. Sono disarmato. Tagliandomi la gola adesso, non sarete migliore di quanto sia stato io con quella gente...”

Caterina non abbassò l'arma, ma sibilò, tenendo il viso così vicino a quello del Capitano da far quasi fatica a guardarlo negli occhi: “Avete ragione voi, Tiberti. Sono una donna sciocca e volubile e proprio per questo dovreste stare molto attento a quello che dite e a quello che fate.”

Con un fortissimo strattone, che gettò l'uomo contro il vicino muro, facendolo quasi cadere in terra, la Tigre lasciò andare Achille e si rimise con calma il pugnale laddove l'aveva preso.

Incredulo di essere ancora vivo, il Capitano restò immobile, incapace perfino di asciugarsi il sangue che gocciolava ancora dalla piccola ferita che aveva riportato.

“Continuate ad attaccare. Non negherò di avervi supportato fin dall'inizio. Ma esigo più ordine, chiaro? Ormai voglio vedere che succederà e come reagirà Pandolfo, ma se dovessi venire a sapere che avete usato ancora certi metodi, non crediate di cavarvela una seconda volta.” disse in fretta Caterina, guardando in terra: “Vi darò i soldi necessari per stipendiare gli uomini, così non avrete nemmeno la scusa del danaro per coprirvi le spalle.”

Siccome la Tigre non disse più nulla, Tiberti, ancora molto scosso dal modo in cui la conversazione si era conclusa, ringraziò e fece per uscire.

“Mio fratello vi farà avere il denaro. Da oggi pretendo che qualsiasi vostra azione passi prima per la sua approvazione.” lo congedò la Sforza.

Dopo un po', Piero arrivò nella saletta e, stando appoggiato allo stipite della porta, chiese alla sorella: “Ti fermi a cena?”

Caterina scosse il capo e, con un mezzo sbuffo, smise forzatamente di pensare a Tiberti e ai guai che forse le avrebbe portato e disse: “No, domani è il compleanno di mio marito e voglio essere a casa con lui. Compie trent'anni. Ci tiene.”

Landriani annuì appena, senza fare commenti. Attese che la Contessa lo raggiungesse sulla porta, prima di chiederle se, allora, volesse ripartire immediatamente.

Lei annuì e poi chiese, con un filo di titubanza: “Secondo te, se ci fosse nostra madre, cosa mi avrebbe consigliato di fare?”

Il castellano della rocca di Forlimpopoli restò spiazzato, ma poi, sollevando le sopracciglia e aggrottando la fronte rispose: “Credo che lei avrebbe bocciato in partenza la tua idea di iniziare una guerra, quale che fosse.”

La Tigre sospirò e poi, dando un mezzo buffetto alla spalla del fratello a mo' di gesto affettuoso, gli diede ragione: “Sì, lei non avrebbe approvato nulla di quello che sto facendo...”

“Forse avrebbe approvato il tuo matrimonio.” la contraddisse Piero, pensieroso: “Sai, lei ti voleva felice.”

La donna fece un debole sorriso e poi concluse: “Già, forse Giovanni le sarebbe piaciuto, come genero.” e dopo quella considerazione fece capire a Piero che era per lei arrivato il momento di ritornare a Forlì.

 

Ludovico Sforza si tormentava la barba corta e ispida della sera, che, nel ricrescere, gli pizzicava le guance e il mento.

Aveva atteso anche troppo e quello che il suo ambasciatore a Roma, Stefano Taverna, gli aveva di nuovo scritto non gli lasciava più dubbio alcuno.

Incurante dell'ora tarda, il Moro mandò a chiamare subito Bartolomeo Calco affinché lo consigliasse e affinché scrivesse per lui un paio di missive che non potevano essere ritardate oltre.

Il cancelliere arrivò dopo una mezz'ora buona, assonnato e anche un po' stordito per essere stato svegliato tanto improvvisamente.

“È scoppiata qualche guerra?” chiese l'uomo, prendendo posto alla scrivania nella camera del Duca, pensando che quello potesse essere l'unico motivo per cui il suo padrone avrebbe potuto chiamarlo a quell'ora.

Ludovico non colse la serietà della domanda, credendola un motto di spirito e così si adombrò all'istante.

Chiudendosi ben bene la vestaglia sul pancione prominente, si andò a sedere sul letto sfatto e da lì disse, tra i denti: “Non burlatevi di me, Bartolomeo! Se aveste in animo quel che ho io, anche voi perdereste in fretta il sonno e da lì a non riconoscere più il giorno e la notte, vi assicuro che il passo è breve...”

Il cancelliere non perse tempo a spiegare che non voleva essere irrispettoso, e passò subito al dunque: “Cosa desiderate, mio signore?”

“Per prima cosa, voglio che prepariate un permesso per Tommaso Torniello. Che vada a Pesaro e che spieghi al nostro parente Giovanni che non è il caso di insistere ancora.”

Calco prese nota e poi, siccome guardava con gli occhi ancora cisposi il suo signore, il Moro si sentì in dovere di dare più spiegazioni.

“Taverna mi ha detto che Giovanni continua a scrivere al papa, sostenendo che se accetta di sciogliere il matrimonio è solo perché c'è la questione legale del precedente compromesso – disse il Duca, stancamente – ma si ostina in ogni modo a non sottoscrivere un semplice documento in cui ammette di non aver mai consumato il matrimonio. Una forma semplice, mi dicono. Sulla pagina ci sarebbe scritto solo che accetta lo scioglimento quod non cognoverim Lucretiam. E invece lui continua a dire che non può, perché non è così e che se faranno visitare la ragazza, tutti finiranno a dargli ragione.”

“Quindi volete che Torniello lo faccia ragionare.” parafrasò Calco, con un mezzo brivido di freddo.

L'ottobre a Milano era sempre un mese ingrato: freddo e umido, carico di nebbia, quando non già di neve, e il cancelliere desiderava solo potersene tornare a letto.

“Precisamente. E che gli sia chiaro che se non firmerà quel dannato pezzo di carta, potrà dimenticarsi la mia protezione. Per sempre.” decretò il Moro.

“C'è altro?” chiese Bartolomeo, intravedendo la possibilità di andare a riposare.

“Sì. Voglio che raccogliate bene tutte le informazioni che abbiamo su mia nipote Caterina. Voglio scriverle, per capire che accidenti ha intenzione di fare con Firenze, ma non voglio dire cose campate per aria. Quella ragazza ha un diavolo per capello e mi coglierebbe subito in fallo, se mi azzardassi a parlare a vanvera.” disse il Duca.

Calco non parlamentò sul fatto che la Sforza ormai non fosse più 'una ragazza', ma una donna in età matura. Tutto, pur di tornare a dormire presto.

“C'è altro?” chiese di nuovo il cancelliere, sperando di sentirsi dire di no.

“Solo una cosa... Ma è più un consiglio che vi chiedo...” fece lo Sforza, con una certa ritrosia.

“Ovvero?” domandò, un po' impaziente, Bartolomeo.

“Isabella d'Aragona sta facendo molte uscite per Milano assieme ai figli, vero?” chiese Ludovico, tornando a grattarsi la barba scura.

L'altro annuì, non capendo a cosa volesse alludere, ma si sentì in dovere di specificare: “Dicono che i milanesi stiano familiarizzando molto con lei. I suoi bambini sono molto graziosi e questo piace particolarmente ai vostri sudditi.”

Il Duca si morse il labbro e poi chiese: “Secondo voi, se ci fosse ancora Beatrice, lei che farebbe?”

Calco avvertì un brivido lungo la schiena che nulla aveva a che fare con l'umidità gelata di quella stanza dalle spesse pareti: “In tutta onestà, mio signore, credo che se vostra moglie Beatrice fosse ancora viva, di questo tempo le teste di madonna Isabella e dei suoi figli sarebbero già su una picca, in bella mostra sulle merlature del castello di Pavia.”

Ludovico accolse quelle parole con un'espressione dura e fredda e dopo qualche secondo di pesante silenzio, scacciò il cancelliere con un: “Andate a far quel che vi ho detto. Che Torniello sia pronto a partire entro domani all'alba.”

 

Quel 21 ottobre stava passando in modo tranquillo, a Forlì. Giovanni aveva trascorso gran parte della mattina a badare alla complessa corrispondenza con alcune città della Romagna. In veste di responsabile dei traffici fiorentini in quella zona, stava cercando, con un discreto successo, di mediare una serie di compravendite – per lo più di generi alimentari – che si stavano dimostrando impegnative quanto proficue.

Era soprattutto convinto che, finalmente, il suo lavoro come ambasciatore sarebbe stato riconosciuto dalla Signoria e che questo avrebbe potuto ristabilire un po' un contatto tra lui e i potenti della città, riavvicinandoli ai Medici e, di conseguenza, anche a Caterina.

Nel rispondere a Semiramide, il Popolano si era scusato per il ritardo nello scrivere, attribuendolo solo alla mancanza di tempo, senza far menzione alla sua malattia, e aveva poi chiesto di tenerlo informato sugli sviluppi politici della città.

Avrebbe proposto formalmente lui Ottaviano, mediando in prima persona un'alleanza con la Tigre, ma lo avrebbe fatto solo quando sua cognata gli avesse riferito che il momento era propizio.

Per il resto del giorno, poi, Giovanni aveva semplicemente trascorso il suo tempo con la moglie.

Arrivata la sera, una volta certa che il marito fosse in grado di reggere un impegno del genere, Caterina aveva chiamato a corte qualche musico e aveva chiesto alle cucine di far servire qualcosa di speciale.

Come Giovanni aveva a volte espresso il desiderio di fare, la Contessa aveva chiesto a tutti i suoi figli di presentarsi nella sala dei banchetti alla stessa ora e così aveva fatto con alcuni dei Capitani che non erano di turno, estendo l'invito alle loro relative famiglie.

Dopo una certa ora, poi, come spesso accadeva durante le feste alla rocca, avrebbe aperto i battenti della sala anche alla servitù.

“Le calzabrache che avevi indosso a Carnevale mi piacevano...” soppesò la Sforza, mentre aiutava il Popolano a scegliere i vestiti per quel piccolo banchetto in suo onore.

Il Medici le guardò con un po' di incertezza, poi scosse il capo e fu costretto a dire: “No, si vedrebbe troppo il gonfiore alle ginocchia e alle caviglie. Sono troppo strette.”

La donna gli diede ragione, maledicendosi per aver parlato senza ragionare: “Mettiti queste, dai, allora...” gli propose, allungandogli un paio di brache di cuoio spesso, di fattura fiorentina, molto caldi e coprenti, ma allo stesso tempo di una certa eleganza.

L'uomo li trovò adatti e se li infilò subito, mentre la moglie prendeva un camicione dalle lattughine non troppo vistose, e un giaccotto imbottito coi colori dei medici che a Giovanni stava sempre molto bene.

“Tu come ti vestirai?” chiese il Popolano, mentre finiva di sistemarsi.

La moglie stava trafficando con il suo piccolo forziere pieno di gioielli, ma a quella domanda si bloccò e rispose, arrossendo appena: “Ho pensato di mettermi il vestito rosso, quello scollato.”

Giovanni deglutì appena e poi sorrise: “Trovo che sia un'ottima idea.”

Quando la Leonessa ebbe scelto i monili del caso, chiese al Medici di aiutarla a vestirsi. Lo fece più per averlo vicino, che non perchè le servisse davvero.

Da quando si era rifiutata di avere di nuovo una serva personale fissa, il più delle volta faceva da sé, ed era uno dei motivi per cui aveva cominciato a indossare quasi esclusivamente abiti molto semplici.

Dopo averla aiutata a infilarsi l'abito e chiudere il fermaglio della collana, Giovanni la guardò un momento e sussurrò, mentre i suoi occhi scivolavano verso la scollatura, forse eccessiva, per una donna nella posizione della Tigre: “Questo vestito è molto... Mette molto in risalto il tuo...” si passò in fretta la lingua sul labbro, come per sciogliersi e poi concretizzò il suo pensiero confuso con un veloce: “Mette molto in risalto la tua collana.”

La Sforza sorrise davanti all'imbarazzo del marito, intimamente compiaciuta di fargli quell'effetto, e gli si avvicinò.

Dopo avergli dato un rapido bacio e averlo stretto a se per qualche istante, con una certa baldanza lo afferrò per la cintola con una mano, posandogli l'altra sul fianco e rise: “Meno male che abbiamo scelto queste brache di cuoio... Sono molto più discrete delle altre.”

Il Popolano deglutì. In quel momento non gliene importava più della festa. Si sentiva forte e vivo e avrebbe solo voluto starsene con sua moglie. Ma il modo in cui lei lo lasciò quasi di colpo e poi lo prese per mano, gli fece capire che avrebbe dovuto aspettare.

“Andiamo... Ci staranno aspettando.” disse la Leonessa, tranquilla, ma felice di aver ritrovato nello sguardo del marito quella scintilla che gli era mancata, nei giorni in cui era stato così male da non riuscire quasi a muoversi.

La cena iniziò in modo molto tranquillo, con la musica in sottofondo, così come il Medici aveva chiesto alla moglie. A Caterina era parsa una cosa troppo ricercata, per una corte come la sua, ma per una volta si poteva fare uno strappo all'eccezione.

Le portate che arrivavano dalla cucina erano tutte eccezionali, ben divise tra carni e verdure. I figli della Contessa, perfino Cesare e Ottaviano, si stavano dimostrando affabili e inclini a fare chiacchiere abbastanza leggere e ogni volta che la Tigre guardava il marito, lo trovava sorridente e tranquillo e quello era tutto ciò che desiderava per lui quella sera.

“Sicuro che vuoi ancora carne?” chiese la Sforza, un po' preoccupata, quando Giovanni le chiese di passargli ancora un po' di cervo.

“Sì, e anche ancora un po' di vino...” fece l'uomo: “Tanto, hai visto anche tu: anche se sto attento, non cambia nulla. Quindi, almeno stasera, voglio far quel che mi pare.”

La Tigre non discusse oltre, e mise nel piatto del marito una discreta quantità di stufato, mentre anche Bianca, accanto a loro, si serviva di nuovo.

“L'hai cacciato tu, vero?” chiese il Popolano, dopo aver deglutito un pezzo particolarmente polposo.

Caterina annuì: “Sì, un po' di tempo fa... Le cuoche l'hanno fatto frollare a dovere...”

Il fiorentino bevve qualche sorso e poi alzò il calice: “E questo è il vino che fai produrre a Fortunago, o sbaglio?”

“È proprio quello. È arrivato un paio di giorni fa.” confermò la moglie, che, però, non aveva lo stomaco pronto ad assaggiarlo.

Non le era mai capitata una simile avversione per qualcosa, quando aspettava gli altri figlio. Forse, si disse, il bambino che portava in grembo sarebbe stato uno di quei rari uomini che disdegnavano i piaceri del vino.

Perchè, nel profondo, era certa che si trattasse di un altro maschio.

La sala era immersa in un piacevole chiacchiericcio, mentre i servi portavano via gli ultimi vassoi vuoti e solo quando la Contessa si alzò per annunciare che potevano cominciare le danze, i presenti si permisero di alzare la voce e ridere tra loro con maggior fragore.

“Avanti, balla anche tu...” disse il Medici, mentre la moglie osservava in silenzio tutti quelli che scendevano in pista, sua figlia Bianca compresa.

“No, senza di te non voglio.” lo liquidò la Sforza e in un attimo il fiorentino si mise il cuore in pace, accomodandosi meglio sulla sedia e mettendosi a osservare gli altri.

Tra quelli che ancora non avevano trovato una dama – le donne erano molto poche, rispetto ai cavalieri – c'erano il Capitano Rossetti e Golfarelli.

“Non si stacca da lui nemmeno per il tempo di un ballo.” disse quest'ultimo, il calice in mano e la schiena appoggiata al muro, indicando con un'occhiata la Contessa.

“E allora?” fece Rossetti, sollevando le spalle: “Che male c'è?”

L'altro incurvò appena le labbra e poi buttò lì: “Nulla, nulla... Solo mi chiedevo se la sua vicinanza con quel fiorentino sia davvero un bene, per noi.”

“Venezia sarebbe meglio?” chiese, retorico, Rossetti: “E poi, diciamocela tutta: da che c'è quel Medici, la Tigre s'è fatta più assennata.”

Golfarelli dovette dirsi d'accordo, ma, proprio in quel momento, al tavolo d'onore, a cui erano rimasti solo la Contessa e il fiorentino, i due si stavano parlando coi volti tanto vicini l'una all'altro da dare l'impressione di essere del tutto estranei a ciò che li circondava.

Proprio mentre la Leonessa e il Popolano si avvicinavano ancora di più, baciandosi senza apparentemente alcuna paura del giudizio di eventuali occhi indiscreti, Golfarelli sospirò: “Più assennata, ma non più discreta.”

“Chi è dei due l'indiscreto?” sorrise Rossetti, che non era affatto scontento di vedere la sua signora così presa dal suo nuovo uomo, amante o marito che fosse: “Ricordiamoci che all'ultima festa tenutasi alla rocca, è stato lui a baciarla, e in mezzo alla sala.”

Golfarelli allargò le braccia, scolò quel che restava del suo vino e poi, vedendo una dama che si liberava dal suo accompagnatore, fece un cenno all'altro Capitano e si immerse nella danza.

Come da permesso della Contessa, a una certa ora si presentarono anche alcuni dei servi e delle serve e la festa prese un taglio decisamente più popolano.

Giovanni e Caterina intervallavano momenti in cui osservavano i ballerini, a momenti in cui parlavano tra loro di niente o di cose che avevano letto insieme, a lunghi baci, e a silenzi in cui le loro mani si sfioravano appena, mentre i loro occhi si parlavano senza bisogno di dar fiato alla bocca.

Era ormai sera avanzata, praticamente notte, quando la Sforza disse al marito: “Che dici, ci ritiriamo?”

Il Popolano, che in quel momento stava osservando Bianca, già alla terza danza di fila con uno dei servi addetti alla manutenzione ordinaria della rocca, si voltò verso di lei e con un sorriso un po' stanco, annuì: “Sì, andiamo in camera.”

Senza fare annunci, sicuri che come sempre ci avrebbe pensato il castellano a chiudere la serata, il Medici e la Tigre si ritirarono alla chetichella, lasciando il salone mentre la maggior parte dei presenti era coinvolta in un caotico e allegro girotondo a tre file.

Giovanni, per tutta la strada, tenne un braccio attorno alle spalle della donna, ufficialmente per tenerle calde, visto che erano scoperte, ma in realtà sia per trovare in lei sostegno nel camminare, sia per sentire la sua pelle liscia e tiepida.

Quando finalmente si chiusero la porta alle spalle, il Popolano non lasciò alla Sforza nemmeno il tempo di riattizzare il fuoco. La strinse a sé con urgenza, baciandola in un modo molto più vorace di quanto non si fosse permesso di fare nella sala dei banchetti.

Caterina aveva capito alla perfezione quello che il marito voleva fare e, se da un lato non vedeva l'ora di accettare la sua richiesta, dall'altro temeva che lui fosse ancora troppo provato dalla malattia.

Il Medici colse la sua incertezza e così, intrecciando le mani con le sue, le sussurrò piano nell'orecchio: “Ti prego...”

A quella preghiera, fatta con voce strozzata, la Tigre non riuscì più a resistere. Le labbra di Giovanni sapevano un po' di vino, ma la cosa non le dava alcun fastidio. Sentiva il desiderio pulsante dell'uomo che le stava davanti e avvertiva anche il proprio.

Gli passò con lentezza una mano tra i corti ricci castani, lasciando scivolare poi le dita sul suo collo, sul petto e poi sull'addome.

Dopo un primo momento in cui la sensazione viva e presente dell'uomo che amava le aveva fatto dimenticare tutto il resto, la donna si ricordò delle reali condizioni di suo marito e di quanto anche il medico l'avesse messa in guardia, invogliandola a non coinvolgere il marito in attività troppo stancanti.

Seguendo così la sua vena pratica, che non l'abbandonava quasi mai, la Leonessa ci pensò un istante e poi, lentamente, cominciò a spogliare il Popolano.

Quando ebbe finito, si ravviò i capelli e gli chiese di slacciarle i primi nodi dell'abito. Si tolse i gioielli che portava e poi lasciò scivolare il vestito rosso in terra.

“Stenditi.” gli ordinò, con voce un po' perentoria: “Stanotte devi lasciar fare tutto a me.”

Il Popolano si coricò, come gli era stato detto di fare e ringraziò il cielo per avergli dato una moglie come la Tigre di Forlì.

 
   
 
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