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Autore: Echocide    08/01/2018    2 recensioni
Tikki è condannata a un'esistenza immortale e susseguita di morti: è una sirena e il suo unico scopo è dare in pasto delle vite umane al Mare, suo Genitore e Sposo. Ma dopo l'ennesima morte, nel piccolo villaggio in cui si ferma, incontra qualcuno...
Plagg odia il mare che gli ha portato via la sua famiglia e odia anche la nuova arrivata, che odora di salsedine, ma allo stesso tempo non può stargli lontano...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Plagg, Tikki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: La sirena
Personaggi: Tikki, Plagg, Altri
Genere: mistero, sovrannaturale, romantico
Rating: G
Avvertimenti: Alternative Universe, longfic, Original Characters
Wordcount: 2.145 (Fidipù)
Note: Penultimo appuntamento con La sirena: ebbene sì, il prossimo capitolo sarà l'ultimo di questa storia breve che ha visto come protagonisti Plagg e Tikki: devo ammetterlo, mi sono veramente divertita ad avere Plagg come protagonista e...beh, penso proprio che questa non sarà l'unica fanfiction con il bel kwami 'versione umana' che scriverò. In vero ho già un progetto in mente...
E come al solito, le classiche informazioni di rito: vi ricordo la pagina facebook per rimanere sempre aggiornati e ricevere piccole anteprime dei capitoli o dei miei scleri e il gruppo Two Miraculous Writers, aperto e gestito con kiaretta_scrittrice92.
Come sempre ci tengo a ringraziarvi tutti quanti per il supporto che mi date: grazie a tutti voi che mi leggete, commentate e inserite questa storia (e le altre) nelle vostre liste.
Grazie tantissimo!

 

Nooroo poggiò il bicchiere capovolto sul piano di lavoro in acciaio, gettando una veloce occhiata alla testa china sul bancone e poi facendo vagare lo sguardo sui pochi avventori del bar: presto avrebbe dovuto cominciare a mandare tutti fuori e chiudere dopo una giornata di lavoro, ma quello non era problematico perché la clientela abituale era conscia dei ritmi e presto avrebbero cominciato ad andarsene da soli.
No, il problema era la persona che era seduta al bancone, con la testa china e la mano stretta attorno al bicchiere semivuoto.
«Plagg» mormorò, avvicinandosi e allungandosi, dando una scrollata all'amico e osservandolo mentre tirava su la testa e si guardava attorno confuso, sbattendo più volte le palpebre: «Amico, dovresti andare a casa e…» si fermò, cercando qualcosa da dire ma trovandosi completamente senza parole, incapace di dire qualcosa. Cosa poteva mai dire a qualcuno distrutto dal dolore come era Plagg?
Aveva cercato Tikki ovunque, non trovandola da nessuna parte, e quasi come se si fosse reso cosciente che non avrebbe più avuto notizie della ragazza, aveva cominciato ad abbandonarsi all'alcool: ogni sera era lì, pronto a stordirsi fino al punto di non ragionare più.
«Immagino che sei contento» biascicò Plagg, con la voce alterata, strascicando le parole e mangiandosene alcune: «In fondo a te piaceva.
«Plagg, io non…»
«Ci sei rimasto di meda quando ha scelto me e ora starai facendo i salti di gioia, eh?»
«Sei ubriaco, Plagg. Va a casa.»
«No. Tu…»
Nooroo, poggiò lo straccio con cui stava asciugando i bicchieri sul bancone, incrociando le braccia al petto e fissando l'altro: «A me piaceva Tikki, è vero, ma era una cosa da niente, non…beh, non certo come te: io non mi sono dato all'alcolismo perché aveva scelto un idiota come te.»
Plagg si alzò, barcollando e sbattendo le palpebre, afferrando lo sgabello sul quale era seduto con entrambe le mani e scuotendo la testa: «Io…»
«Sei ubriaco, amico. Vai a casa e dormici su» dichiarò Nooroo, voltandosi e adocchiando, fra i pochi nel locale, qualcuno che poteva aiutarlo: «Wayzz, puoi portarlo a casa, prima che mi vomiti sul pavimento?»
«Posso abbandonarlo per strada?»
«Se vuoi.»
«Siete due coglioni…»
«Sarà» commentò Wayzz, avvicinandosi e osservando l'amico mentre ondeggiava paurosamente e sembrava avere problemi a inquadrarlo: «Ma non saremmo tuoi amici, sennò.»
«Vai a quel…»
«Andiamo, amico. Quasi quasi prendo la panoramica e ti faccio fare una romantica passeggiata sotto le stelle.»
«Vai a quel paese, Wayzz.»


Ansimò, strisciando verso la parte asciutta della spiaggia, e strinse le labbra quando avvertì una fitta al fianco; affondò le dita nella sabbia, lasciandosi andare contro di essa e inspirando a pieno, sputando poi i granelli di sabbia che aveva ingerito e girandosi sulla schiena, rabbrividendo alla brezza fredda che si era levata e le carezzava il corpo completamente nudo: dove era? Dove si trovava?
Aprì appena le palpebre, osservando il cielo terso e azzurro, sinonimo di una bella giornata, e le richiuse, lasciando andare un respiro e voltandosi, rannicchiandosi su se stessa e cercando di trattenere così il poco calore del corpo.
Strinse i denti per non farli battere, mentre cercava di stringersi maggiormente e ignorare il dolore che saliva dalle dita: non sapeva definirlo, non riusciva a dare una denominazione a quella sensazione, sapeva solo che faceva male. Tanto male.
Sarebbe finita lì?
Uccisa dal freddo?
Così si sarebbe conclusa la sua vita?
Chiuse le palpebre, serrandole con forza e abbassando il volto, nascondendolo nell'intreccio delle braccia, raggomitolandosi maggiormente su se stessa, e cercando un minimo di conforto nel proprio calore che, con velocità, si stava disperdendo.
Avrebbe dovuto alzarsi, ma non ne aveva la forza.
Perché era così stanca? Non lo comprendeva?
Così come non riusciva a dare un ordine ai suoi pensieri, troppo impegnata a cercare di non soccombere al bisogno di lasciarsi andare: sapeva che non doveva farlo, da qualche parte dentro di lei, sentiva il ricordo di un vecchio monito, anche se non riusciva a comprendere dove l'avesse sentito e perché.
Strinse le gambe, ansimando appena e tirando su la testa, aprendo un poco le palpebre e osservando la spiaggia che si estendeva davanti a lei: la strada sembrava così lontana e non aveva assolutamente le energie per riuscire a percorrere quel tratto che la separava.
Cosa poteva fare?
Sciolse l'intreccio delle braccia, stringendo un pugno e affondandolo nella sabbia, tirandosi su e strisciando sulla rena, ignorando il leggero pizzicore che avvertiva sulla pelle, ben poca cosa rispetto al freddo che provava, e cercò di avanzare, arrivare un po' più vicina.
Si fermò, chinando la testa e inspirando a fondo, sentendo il proprio respiro affannato per colpa dello sforzo: ancora, doveva continuare ad avanzare. Allungò il braccio sinistro e poi il destro, usandoli come perno per strisciare di qualche altro centimetro, per poi lasciarsi andare nella sabbia una seconda volta.
Doveva farcela.
Doveva continuare.
Non doveva abbandonare tutto ora.
Batté i denti fra loro, stringendo di nuovo la mascella con forza e inspirando profondamente, il corpo che ormai le sembrava un blocco di ghiaccio e mille spille le bucavano la pelle, causandole dolore: doveva…
Doveva…
Chiuse le palpebre, sentendo il bisogno di lasciarsi andare farsi forte e carezzandola con la quiete dell'oblio: doveva cosa? Per cosa stava lottando così duramente? Cosa stava cercando di fare? Perché non si lasciava semplicemente andare?
Lasciò andare il respiro, voltandosi di lato e rannicchiandosi, seguendo il corso dei suoi pensieri e la decisione di abbandonarsi alle offerte che il sonno le proponeva: se avesse dormito un po', avrebbe recuperato le energie e sarebbe potuta andare dove voleva.
Avrebbe potuto raggiungere la strada.
Già, doveva solo dormire.
Solo…
«Tikki!»
L'urlo forte, acuto e femminile, la scosse, riportandola al presente: con fatica si girò nella sabbia, voltandosi e aprendo le palpebre, osservando la figura di una ragazza correre verso di lei, appesantita dalla sabbia, che faceva affossare gli stivali rosa.
Conosceva quella persona, era a lei cara.
La guardò mentre si chinava su di lei e si portava le mani al cappotto, muovendole frenetiche sui bottoni e slacciandoli uno dopo l'altro; ne seguì i movimenti mentre si toglieva l'indumento e usava per coprirla, ben attenta a infilare i bordi sotto al suo corpo: «Tikki. Cosa ti è successo?» le mormorò, allungando una mano e sfiorandole la guancia, mentre sorrideva e gli occhi azzurri le si velavano di lacrime: «Pensavo che non ti avrei più rivista, che…»
Tikki sorrise, socchiudendo gli occhi e osservando la ragazzina chinarsi su di lei, avrebbe voluto dirle qualcosa, ma non aveva la forza e si abbandonò, completamente al sicuro e certa che, da quel momento in poi, non le sarebbe capitato niente di male.


La testa pulsava e sembrava anche andare a ritmo con il rumore sordo e ripetitivo, che sembrava provenire da qualche parte al di fuori di lui: non era la prima volta che si abbandonava all'alcool nell'ultimo periodo, trovando quasi confortante l'oblio e quella sensazione anestetizzante che non gli faceva provare assolutamente niente.
Era bello non sentire ogni tanto.
Ma la realtà bussava ogni mattina e lo faceva nel modo peggiore possibile.
Mugugnò, inspirando profondamente e cercando di riuscire a uscire dalla nebbia: si tirò a sedere sul letto, ignorando le fitte che gli attraversavano la testa e il continuo martellare sembrava non volerlo abbandonare. Era lì, costante e continuo, quasi come se qualcuno stesse bussando contro il suo cranio.
Biascicò, storcendo le labbra al sapore orrendo che si sentì: «Devo smettere di bere» mormorò a se stesso, sbattendo più volte le palpebre e strizzando gli occhi, portandosi entrambe le mani al volto e strusciandolo, tentando in qualche modo di far scomparire ogni traccia dei bagordi notturni.
Doveva andare al lavoro, continuare con la sua vita, anche se tutto ciò che voleva fare era annegare da qualche parte, possibilmente con una bottiglia con un tasso alcolico alto.
Il rumore riprese, facendolo grugnire e voltarsi verso la porta della camera e comprendendo, solo in quel momento, che qualcuno stava bussando all'uscio del bungalow.
Bofonchiò qualcosa, non curandosi minimamente del senso della sua stessa frase, e si alzò dal letto, barcollando leggermente e aggrappandosi al comò, evitando così a se stesso di cadere. Strinse con forza il bordo del mobile, scuotendo la testa e cercando di schiarirsi le idee: socchiuse le palpebre, inspirando a fondo e riaprendo poi gli occhi, lasciando andare la presa sul comò, un dito dopo l'altro, trovandosi nuovamente in piedi senza l'aiuto di niente.
La stanza giava ancora leggermente, mentre si avventurava per l'abitazione e raggiungeva la porta d'ingresso, addossandosi contro di questa e respirando profondamente, quasi come se la camminata avesse esaurito tutte le sue forze.
La persona all'esterno, dopo un momento di pausa, riprese a bussare e Plagg trattenne a stento un ringhio, mentre posava la mano sulla maniglia e apriva con violenza la porta: «Tu» grugnì, osservando Adrien e storcendo la bocca di fronte all'espressione di pura felicità che l'altro aveva spalmata in volto: «Senti, moccioso, non ho voglia di stare ad ascoltar…»
«Marinette…»
«Ecco. Appunto. Non ho voglia…»
«Marinette ha trovato Tikki!»


Si sentiva al sicuro, cullata dal tocco gentile di Marinette, ascoltando le voci che parlavano in un punto imprecisato sopra di lei: la ragazza aveva chiamato il dottore e Adrien, facendo correre lì il primo e mandando il secondo a casa di Plagg.
Plagg.
Dov'era Plagg?
Perché non era lì?
Voleva Plagg.
Dov'era lui?


Il cuore gli batteva con forza nel petto, mentre scendeva velocemente i gradini che portavano alla spiaggia e si fermò alla fine, piegandosi sulle ginocchia e inspirando a fondo: le parole che Adrien gli aveva detto si ripetevano dentro di lui, mentre si tirava su e faceva un passo, affondando il piede nella sabbia fine e si guardò attorno, con il terrore di non trovare nulla, di essersi immaginato tutto o di stare sognando e svegliarsi poi nel suo letto, completamente solo.
No. Tikki doveva essere lì. Per forza.
Lei doveva essere tornata da lui e, non appena l'avesse vista, le avrebbe dato una strigliata: se ne fregava di quello che gli aveva detto Fu, di quello che lei doveva essere secondo il medico del paese, si era allontanata da lui e l'avrebbe pagata per questo.
Inspirò, adocchiando due persone sulla spiaggia, molto vicine al bagnasciuga, e corse riconoscendo le figure di Marinette e Fu sulla sabbia, poi il fagotto fatto di coperte che era fra loro: non si curò di nessuno, mentre li raggiungeva e il suo sguardo era completamente rivolto alla ragazza addormentata.
Tikki era lì, con la pelle diafana e i capelli rossi.
Si chinò, allungando le braccia e passandole sotto al corpo della ragazza, tirandola su e sistemandosela contro il corpo: poggiò la testa contro quella di Tikki, cercando di metterla il più comoda possibile e sfiorandole la tempia con le labbra.
Lei era lì.
Lei era tornata.
La strinse con più forza, chinando il capo e sfiorandole con il naso la guancia, avvertendo il respiro contro la pelle: «Io non so cosa dire» commentò Fu, facendogli nuovamente alzare la testa e posare lo sguardo sull'anziano: «Io non pensavo…»
Plagg scosse il capo, chinandolo di nuovo verso Tikki quando la sentì muoversi appena fra le sue braccia: la guardò, osservando le palpebre della ragazza fremere e poi aprirsi lentamente, mentre lo sguardo di lei gli si posava addosso: «Ciao, rossa» mormorò, sfiorandole la guancia con il pollice e scostando una ciocca cremisi: «Dobbiamo parlare.»
Tikki annuì, aprendo le labbra e bloccandosi, richiudendole e scuotendo appena la testa: «Dillo, rossa» mormorò Plagg, avvicinando il volto a quello di lei e sfiorandole il naso con il proprio: «Dì il mio nome.»
Poteva farlo?
Poteva chiamarlo con la propria voce?
Inspirò, stringendo le labbra e aprendole di nuovo, lasciando andare l'aria e aspirandone una nuova boccata, provando a dire qualcosa e sentendo solo un verso rauco fuoriuscire dalla sua bocca: «Plagg, non è sicuro» mormorò Fu, avvicinandosi e chinandosi accanto a loro: «L'ho visitata e mi sembra sia tutto…normale, diciamo. Ma…»
«Dì il mio nome, Tikki. Voglio sentirtelo dire.»
Tikki scosse il capo, stringendo le labbra e sentendo gli occhi pizzicare per le lacrime trattenute: non voleva parlare, il dottore aveva ragione e, ora che poteva concentrarsi su altro, ricordava quanto letale era la sua voce.
Non voleva metterlo in pericolo.
Non voleva mettere nessuno di loro in pericolo.
«Dì il mio nome, Tikki.»
Eppure non riusciva a resistere a quel richiamo, a non dire quella semplice parola che lui invocava: lo guardò negli occhi, socchiudendo le labbra e piegandole appena in un sorriso: «Plagg» mormorò, sgranando poi lo sguardo e sentendo la sua voce come se fosse diversa: non più quel canto ammaliatore che avrebbe condotto chiunque alla morte, ma piuttosto la voce comune di una donna.
Lo guardò, notando che non era caduto nella trance tipica delle sue vittime ma che, piuttosto, la fissava con un sorriso in volto: «Bentornata, Tikki.»

 

   
 
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