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Autore: cliffordsjuliet    10/01/2018    0 recensioni
Era così, la Periferia. Io non ero Kendra Saint, non ero la figlia di Missi e Jackson.
Non c’erano nomi, in periferia. Eravamo tutti numeri, volti un po’ scambiati, copie sbiadite di chi, prima di noi, in quel posto ci era marcito.
Io non facevo differenza.
**
Me ne sarei tornata a casa, con calma, senza correre. Sarei arrivata lì e a quel punto non ci sarebbe stato Luke ad aspettarmi.
Pensavo che mi sarei sentita sollevata, invece mi sentivo solamente miserabile.

**
Pensavo che avrei smesso di odiarlo, di disprezzarlo con tutta la forza che avevo in corpo.
Pensavo che mi sarei abituata a quell'affetto sordo e un po' cieco che lentamente si stava facendo spazio in me.
Non mi abituai mai. In fondo io ero Kendra e lui era Ashton, ed era questo che sapevamo fare.
L'odio era l'unica cosa che non potevano toglierci.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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II. Far Away

I giorni che seguirono furono un inferno.
Mi sentivo una bestia, un diavolo spinto a calci nell’ultimo girone dell’inferno, l’ultima dei dannati. Ci avevo provato, io, con Luke. Volevo capire, volevo mandare a quel paese tutte le mie paranoie e ascoltarlo. Perché era la cosa giusta, ché era il mio migliore amico.
Pensavo che dovesse esserci una spiegazione a quella storia della quale io capivo sempre meno e mi sarei costretta ad ascoltarla, se avessi dovuto, gli avrei dato l’occasione di spiegarmi.
Eppure Michael e Ashton s’erano avvicinati a noi con quell’aria – l’aria sicura di chi una cosa del genere l’ha fatta tante volte – e non ci avevo visto più.
Mi alzai dal letto di scatto, il respiro ansante.
Ancora settimane senza nessun contatto col mio migliore amico.
Per sicurezza avevo detto a mia madre di non ammettere in casa neanche Calum – Cal, il mio Calum, il ragazzo così buono che probabilmente, se avesse saputo, si sarebbe fatto carico del mio tormento: stavo evitando anche lui. Una risata isterica mi sfuggì alle labbra mentre realizzai, apatica, quello che Luke mi aveva fatto. Aveva creato il vuoto intorno a me.
Mi alzai dal letto e lasciai la stanza di scatto, con movimenti febbrili. Sembravo un animale selvatico, mentre mi muovevo veloce e scoordinata lungo le scale, e poi giù, fuori dalla porta e sul vialetto di casa mia.
Erano le quattro del mattino. L’aria fredda mi faceva rabbrividire e tremare, mi stringevo le braccia intorno al corpo ma serviva a ben poco. Erano settimane, ormai, che avevo freddo.
«Non pensavo che t’avrei trovata sveglia così, a quest’ora»
Mi irrigidii immediatamente.
Era Luke, in piedi davanti a me, Luke con la sua camicia a quadri blu e il ciuffo scompigliato, Luke e il suo sguardo così indecifrabile che avrei voluto urlare e poi colpirlo, fargli male. Non era mai successo che non riuscissi a leggerlo, proprio io che ero la sua migliore amica, io che ero venuta su assieme a lui in mezzo al grigio del nostro mondo, come un rovo che s’attorciglia intorno ad una rosa e magari un po’ la soffoca, ma la rosa sopravvive, e in fondo è giusto così. Sono cresciuti insieme.
Scattai in piedi, feci per allontanarmi – non volevo sapere più nulla, avevo paura e volevo andarmene e volevo colpirlo ed ero sola, e non volevo saperne nulla.
Luke fu più svelto.
Mi raggiunse in pochi passi e mi bloccò per un braccio, strattonandomi.
«Ahia, cretino, mi fai male, no? Lasciami, lasciami ti dico» mi dimenavo come una pazza ma sussurravo, non avevo la forza per gridare, per farmi sentire da tutto il vicinato e magari ottenere aiuto. A m stessa dovevo pensare io, e forse non volevo neanche tanto farlo.
Luke continuava a scuotermi senza ritegno e intanto mi trascinava, e «No che non ti lascio, stavolta» continuava a ripetere febbrile.
Cercai di impormi coi piedi per terra, diventare di piombo. Non poteva fare così, costringermi ad accettare la sua presenza scomoda come aveva sempre fatto, facendomi fare carico delle sue assurde verità che mi facevano un male cane; non gliel’avrei permesso, avrei messo me stessa davanti a tutto il resto e non avrei accettato altro schifo.
Avrei accettato di andare avanti a metà, priva di una parte importante di me, ma libera dal dolore che provavo a causa sua.
«La smetti, ti sto dicendo che mi fai male» ribadii ringhiando, strattonando il braccio una volta di più. Ottenni solo di fargli stringere la presa.
«Ah, è così, eh? Ti faccio male, dici. Perché, tu cosa mi fai, Kendra? Cosa mi fai tu?»
La sua voce era intrisa di così tante cose che faticai a distinguere ogni sfumatura di essa. Aveva gli occhi spalancati, Luke, sbraitava e poi continuava a strattonarmi. Mi spinse verso una casa come tante, lì nella nostra periferia, una villetta bianca dal portoncino rossiccio un po’ scrostato. Una casa come tante – forse solo un po’ più pulita.
«Ma si può sapere che cazzo vuoi? Di chi è questa casa, allora, adesso ti dai anche alla violazione di domicilio? È questo che fai con i tuoi nuovi migliori amici?»
«Sei tu la mia migliore amica, cazzo!»
Quell’urlo fu capace di ferirmi come nient’altro era ancora riuscito.
Pensavo che fossi brava a sopportare il dolore. Avevo una soglia di sopportazione alta, dicevo. Pensavo che Luke mi avesse fatto tanto di quel male che ormai non avesse più nient’altro da scaricarmi addosso, ed io me ne sarei dovuta andare perché già mi aveva distrutta, avrei dovuto urlare affinché ci separassero, affinché la gente accorresse e vedesse il mostro trasfigurato dal tormento che il mio migliore amico era diventato.
E invece ero stata zitta, e Luke mi aveva ferita, dilaniata una volta di più. Perché ero stata Kendra Saint, una volta. Ero stata la sua migliore amica, il rovo intrecciato alla rosa che un tempo era Luke. Avevo respirato la sua aria, condiviso letto e vestiti e lividi, ed ero stata la sua migliore amica. Avevo smesso di esserlo quando lui aveva iniziato a tagliarmi fuori, però.
Almeno questo era quello che credevo.
«Io non sono la tua migliore amica, Luke, ficcatelo bene in testa» sbottai amara, le parole intrise del sapore di cianuro che sentivo in bocca. Le spalle del biondo si irrigidirono appena mentre apriva la porta della casa e mi spingeva dentro, ed io mi sentii felice, felice perché gli avevo fatto male. Felice perché qualcosa di Luke era rimasto, se ero riuscita a colpire nel segno.
Luke sospirò. «Sì che lo sei, brutta stronza»
«Non osare. Non permetterti di definirmi la tua migliore amica, Luke, gli amici non si distruggono così»
«Ma sentiti. Sei un’ipocrita del cazzo, lo sai, K? Sei sempre stata la più forte, tu. Mi hai sempre tolto tutto, sei sempre stata la prima ad andartene, a farmi male. Sarebbe stato così anche quando tu saresti andata al college ed io invece no, restando il povero idiota rinchiuso in questo buco di universo a marcire. Ho deciso di cambiare le carte in tavola, Kendra, non puoi biasimarmi per questo»
E invece ti urlerei contro per anni quanto la tua decisione faccia schifo, maledetto.
Gliel’avrei voluto dire ma non lo feci. Lo incenerii con lo sguardo, furiosa, nonostante la sua altezza che mi sovrastava, e non dissi niente. Mi strinsi le braccia intorno al corpo ed entrambi sapevamo che era qualcosa che facevo solo quando cercavo di non cadere in pezzi, tenendo il mondo fuori.
«No, questo non te lo permetto. Non mi tagli fuori un’altra volta» mi ammonì Luke, e si adoperò a sciogliere il nodo delle mie braccia. Mi staccai come avvelenata.
«Non mi toccare»
Lo sguardo sofferente che mi rivolse mi diede la nausea.
Erano ancora i suoi capelli biondi e il suo viso gentile, ma non era Luke – Luke la mia anima gemella nel modo più plateale al mondo, l’altra metà di me, quel Luke non esisteva più da tempo.
Mi guardai intorno per evitare i suoi occhi tristi.
Non poteva guardarmi così dopo che nella merda ci si era messo lui, non gliel’avrei permesso.
«Mi dici che diavolo è questo posto? Perché hai le chiavi di una casa non tua?» sbraitai poco dopo, cambiando argomento. Non avrei retto la tensione a lungo, prima o poi sarei scoppiata ancora una volta, ed entrambi sapevamo che non sarebbe finita bene.
Io sarei stata meglio. Luke no.
«Perché io qui ci abito, Kendra»
M’immobilizzai. «Che stai dicendo?»
«Mi hai sentito. È casa mia...» Luke prese un respiro, si sporse per premere un interruttore. «Speravo potesse essere la nostra»
La luce inondò quel posto che un po’ puzzava di umido, un po’ di cera e di qualcos’altro che non riconoscevo.
Sapevo di avere un’espressione ebete e stupita. La percepivo farsi spazio sul mio viso e avrei voluto che Luke non mi guardasse, non vedesse quanto stesse facendo effetto su di me.
La stanza era semplice. Un divano un po’ scambiato all’angolo, una porta bianca scrostata dall’altra parte. Un lampadario dalla luce fievole e ovunque cuscini e tappeti colorati: intorno al tavolino, sul divano, dappertutto.
Casa mia l’avrei arredata con cuscini e tappeti coloratissimi, e Luke lo sapeva bene.
«Spiegami cos’è questa storia. Spiegamelo una volta per tutte, Luke, perché io non so più chi sei»
Avrei voluto avere un tono duro, ancora distaccato, fargli capire che non mi aveva vinta, e invece la mia voce tremava. Tremava ed io mi feci schifo per questo, che a mostrare debolezza davanti a qualcun altro avrei sempre avuto da perdere, e poco importava se quello fosse Luke e gli volevo ancora bene, poco importava se quel posto sembrava riaccendere speranze.
Il biondo sospirò, scompigliandosi i capelli. «C’è poco da spiegare, K. L’ho fatto per me, e per noi. Per allontanarmi da quell’inferno che continuiamo a chiamare casa, per portarti con me. Lo sai che da sola non t’avrei lasciata. Volevo seguirti, se te ne fossi andata per studiare, ma i soldi da dove li avrei presi?»
Non risposi, non lo guardavo neanche in faccia.
Ci chiedevamo sempre da dove avremmo preso i soldi per andarcene e studiare, visto che quelli come noi un lavoro non lo ottenevano neanche a pagarlo oro, ma poi accantonavamo l’unica risposta possibile e ci fingevamo convinti che ce l’avremmo fatta. Sarebbe andata diversamente, per noi.
Io almeno qualche possibilità la avevo: sapevo che mia madre risparmiava da quando ero nata per potermi dare un giorno la libertà che sognavo.
La mamma di Luke, d’altra parte, il più delle volte era così ubriaca da non ricordare neanche il nome del figlio.
«Mio padre. È stato mio padre a mettermi in contatto con i genitori di Ash, e loro mi hanno trovato un lavoro. Questa casa è loro, sai. Posso starci quanto voglio, finché lavoro con loro. Non devo per forza restare con i miei. Volevo chiederti di venire qui con me, Kendra. Io senza di te non ci so più stare»
Luke non si mosse. Lo squadrai, annegai nel celeste limpido dei suoi occhi e vidi la fatica che gli era costata quell’ammissione, ad uno come lui, così fottutamente orgoglioso da lasciarsi andare a male anziché abbassare la testa. Eravamo identici, gemelli siamesi, la stessa persona in due corpi diversi, e a me questo non stava più bene. Stava diventando un affetto scomodo. La vicinanza con Ashton avrebbe peggiorato le cose.
«Dovevi dirmelo prima» affermai «Ti sei nascosto dietro un muro di menzogne per mesi, Luke, dovevi dirmelo prima»
Lui non rispose per un po’. Si limitò a squadrarmi, come ponderando la mia mossa successiva, ed io gli avrei voluto dire di smetterla con quella farsa, ché tanto aveva già capito che avevo abbassato le armi.
Ci mise alcuni attimi ad abbandonarsi ad un sospiro liberatorio; poi, come se qualcuno gli avesse dato il permesso di farlo, mi si scaraventò contro, stringendomi tra le sue braccia magre. Respiravo con la bocca, a denti stretti, per non essere costretta ad inalare quel profumo famigliare che, ne ero certa, mi avrebbe portata alle lacrime. Perché erano settimane che non stringevo così quel corpo, e ci stavo male. Luke era il mio migliore amico, la mia anima, era stato tutto e poi niente in poche settimane, ed io sarei crollata se me lo fossi permesso.
Così mi limitai a restare lì, inerme, stretta dalle sue braccia che quasi mi soffocavano, mi bloccavano come a non volermi lasciare andare più.
Sospirai. «Non farlo mai più»

 

 

Che Luke smettesse di mentire o nascondere la verità era praticamente impossibile, e questo lo imparai a mie spese. L’estate era finita e la scuola aveva ripreso il suo corso, e il mio migliore amico lo vedevo sempre di meno, anche se ci avevamo provato, per un po’, a far andare tutto meglio.
Mi aveva chiesto di vivere insieme. Avevo rifiutato. Nella casa di uno come Ashton non ci avrei messo piede neanche morta, e poco importava quanto colore e vitalità potesse portarci Luke. Lui comunque mi aveva lasciato una copia delle chiavi, in modo che potessi utilizzarla quando ne avessi sentito il bisogno.
Non l’avevo ancora fatto.
Le lezioni a scuola senza Luke erano, se possibile, ancora più una merda.
Tutto sembrò degenerare il giorno in cui nella mia aula ci trovai Ashton.
Mi bloccai sull’entrata della classe ancora semi vuota, lo squadrai da lontano come convinta che i miei occhi mi stessero mentendo. Bugiardi, fottuti bugiardi, cambiate immagine, ditemi che non è lui quello seduto lì, al mio posto.
Mi avvicinai lenta, guardinga, un animale selvaggio pronto ad attaccare.
Gli arrivai abbastanza vicina perché potesse sentirmi e «Che cazzo ci fai qui» proferii cattiva, lo sguardo pieno di rabbia malcelata.
Mi degnò di una sola occhiata. «Quello che fai tu. Cerchiamo di prendere un diploma, no? E meno male che Luke diceva che eri intelligente...»
Sentire il nome del mio migliore amico uscire dalle sue labbra mi mandò il sangue al cervello. «Se una testa di cazzo come te avesse frequentato questo liceo credo che me ne sarei accorta in quattro anni. E quello è il mio posto»
«Non sapevo l’avessi comprato»
«Si può sapere perché diavolo sei qui?» sbottai acida, un attimo prima che il professore di letteratura facesse il suo ingresso in classe. Con un’occhiata avvelenata in direzione di Ashton mi allontanai, sedendomi dall’altra parte dell’aula.
Lontano dalla finestra, la mia presa d’aria.
Quel ragazzo era stato messo al mondo per farsi odiare da me.

 

Mi sedetti sul muretto scorticato fuori al cortile del liceo, quella pietra ruvida che ci aveva ospitato tante di quelle volte, da bambini, e che aveva sentito tutti i piani che io e Luke facevamo insieme. Lui li aveva dimenticati, forse, accantonati insieme al legame che avevamo avuto. Io no.
«Che giornata di merda» proferii, non appena lui fu abbastanza vicino.
Luke mi diede una spinta «Cristo se la fai tragica»
«Parli bene tu, che un corso lo salti e l’altro pure. Tu non sei stato ore in un’aula con quel ritardato del tuo nuovo amichetto...»
Il biondo scattò, voltandosi verso di me. «Cos’hai detto?»
Ricambiai con uno sguardo perplesso. «Che salti tutti i corsi? Luke, che cazzo, non puoi negare anche questo»
«Che palle, K, non sto cercando di negare niente. Intendo dopo»
«C’era Ashton, in classe, e allora? A quanto pare si è trasferito qui. Perché?»
Luke non rispose. Si prese la testa tra le mani e stette zitto, e io lo spintonai con la mia solita grazia che comunque non l’avrebbe smosso di un centimetro, ma non poteva evitare di rispondermi. «Luke, parla» intimai, scendendo dal muretto per mettermi di fronte a lui.
Il suo sguardo era apatico quando rispose «Non sapevo che avrebbe frequentato qui, ecco tutto». Scrollò le spalle, poi «Domani riprendo a seguire anch’io, okay?» promise, ma per qualche motivo non mi sentii più tranquilla.
Luke aveva negli occhi un’ombra che non gli avevo mai visto.
Un’ombra che corrispondeva al nome di Ashton.

 

 

  
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