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Autore: Adeia Di Elferas    10/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Aspetta, che metto un po' di legna nel camino...” fece Caterina, muovendosi per alzarsi dal letto, ma Giovanni la fermò.

“Aspetta, resta qui un po'... Non fa neanche tanto freddo...” le disse, convincendola a rimanere accanto a lui.

“Non dovresti prendere freddo. Copriti, almeno. Sei tutto sudato...” ribatté la Sforza, guardando nella penombra il marito la cui pelle, in effetti, era madida di sudore.

“Ho sudato così tanto solo perché sono ancora debole.” sussurrò il Medici, per chiudere in fretta la questione: “Per il resto sto bene, anzi, benissimo.”

La Contessa sorrise, allungando una mano per sfiorare il petto dell'uomo, che saliva e scendeva lentamente, assieme all'addome. Lo accarezzò, sentendo il suo leggero brivido. Per quanto potesse negare, era chiaro che Giovanni cominciasse ad avere freddo.

Mettendosi contro lui, sia per scaldarlo, sia per sentirlo di nuovo addosso come una seconda pelle, Caterina gli disse: “Mi mancavi.”

“Io sono sempre stato qui.” fece notare il Popolano, deglutendo in silenzio, un po' in difficoltà.

“Hai capito che intendo.” disse la Contessa.

“Anche a me mancavi. Moltissimo.” fece eco Giovanni, decidendo che fingere di non capire lo avrebbe solo messo ancor più in imbarazzo.

“Ero quasi sul punto di non resistere più.” confessò la Leonessa, il respiro un po' spezzato sul collo del marito.

Il Medici si morse le labbra due volte, prima di riuscire a chiedere: “E se quel punto fosse arrivato?”

“Ma non è arrivato, quindi non c'è neanche da parlarne.” minimizzò Caterina, già pentita di aver sollevato la questione.

Giovanni prese una ciocca dei capelli della moglie tra le dita e, mentre ne saggiava la morbidezza, s'impuntò: “No, voglio saperlo. Se fossi arrivata al punto di non resistere più, e io non fossi stato in grado di... Soddisfare i tuoi bisogni, diciamo... Tu che avresti fatto?”

La Tigre restò in silenzio per un lunghissimo minuto, durante il quale il Medici riprese a sudare, ma in modo decisamente spiacevole, questa volta.

Alla fine, staccandosi di colpo da lui e, dopo essersi infilata la vestaglia, la Sforza andò al camino e, cominciando a trafficare con la legna e i ferri, dichiarò: “Non lo so.”

“Mi avresti tradito?” chiese il Popolano, cedendo finalmente al freddo e coprendosi fino alla gola, gli occhi che seguivano le forme generose della moglie.

“No...” rispose dopo ancora qualche istante Caterina: “Non avrei potuto. Però magari avrei fatto qualche altra sciocchezza. Io, però, non ti tradirei mai.”

“Almeno finché sono vivo.” precisò il fiorentino, con una spina di amarezza.

A quello, volendo essere del tutto onesta con Giovanni, la Contessa preferì non rispondere.

Nella speranza di risollevare un po' il morale dell'uomo che amava, la Sforza si lasciò scivolare via la vestaglia e si rimise a letto, sotto le coperte con lui. Cercò la sua mano, indagando con un velo di tristezza il piccolo gonfiore che non era più scomparso dopo la sua ultima crisi e poi, con dolcezza, se l'appoggiò sul ventre, premendo un po'.

“Lo senti?” chiese.

Il toscano delimitò con le lunghe dita la piccola protuberanza che denunciava la presenza di una nuova vita e soffiò: “Sì...”

“Sai, i miei genitori avevano quattro anni di differenza, come noi.” iniziò a raccontare la donna, tenendo la mano del marito stretta nella sua: “Mia madre, quando sono nata, aveva ventritré anni, e mio padre diciannove.”

“Quattro anni di differenza. Come noi.” sorrise piano Giovanni, già dimentico della breve schermaglia di poco prima.

La Tigre annuì, ma non sapeva come continuare.

Per fortuna ci pensò il fiorentino: “I miei avevano qualche anno di differenza in più. Una decina, più o meno. Mio padre era molto più giovane di mia madre.”

“Erano una coppia unita?” chiese Caterina, sentendo finalmente il tepore del camino riempire la camera.

Tutt'attorno a loro era silenzio. La notte era nel suo pieno, e non si sentiva nemmeno l'ultima eco della festa che forse iniziava a spegnersi, nella sala dei banchetti.

“Mi hanno sempre detto di sì...” fece l'uomo, un po' vago: “Avrei voluto averli come esempio. Ho sempre visto mio padre da solo. Una volta rimasto vedevo, non ha mai cercato altre donne. O almeno, credo. E questo mi fa pensare che fosse davvero innamorato...”

La voce del Medici si spense pian piano, mentre sia lui sia Caterina si trovavano a pensare che lei, a differenza dell'integerrimo Pierfrancesco Medici, si era risposata quasi subito, dopo la morte tanto del primo odiato marito, quanto del secondo, che era stato amatissimo.

“Comunque, ho avuto l'esempio di mio fratello e mia cognata.” disse Giovanni, schiarendosi la gola: “Anche se il loro è stato un matrimonio combinato da nostro cugino Lorenzo, è stato sempre un matrimonio molto felice. Sono stati molto fortunati.”

Lo scoppiettare dei ciocchi di legno nel camino faceva compagnia alle parole del Medici, che stavano diventando man mano più basse e velate da un ché di malinconico: “Tutto quello che sono, io lo devo a mio padre, prima, e a mio fratello, poi. A parte l'aspetto fisico. Sai che dicono tutti che assomiglio poco ai Medici? Come colori e anche come fisico. Da loro ho preso solo la gotta.”

Caterina si impose di fingere di non aver affatto sentito l'ultimo inciso e domandò, seriamente incuriosita: “Quindi assomigli alla famiglia di tua madre?”

“Probabilmente sì.” annuì lui, tornando con la mano a cercare il ventre della moglie, come per accertarsi che il loro piccolo esistesse davvero: “Sai, una volta mio padre aveva detto a me e a Lorenzo, quando eravamo piccoli, che un giorno avremmo dovuto cercarci due mogli che fossero donne forti e capaci di cavarsela da sole. Due donne di cui ci potessimo fidare ciecamente. In tal modo, diceva, saremmo stati certi che se fossimo morti prima del tempo, loro sarebbero state capaci di sopravvivere da sole e di proteggere da sole i figli.”

“È per questo che mi hai scelta?” chiese la Sforza, ragionando tra sé su quanto fosse un discorso cupo, da fare a dei bambini, specie se orfani di madre.

Il Medici scosse con forza la tesa e, dopo averle dato un bacio sulla fronte, rispose: “No, io ho solo avuto fortuna. Mi sono innamorato, e la sorte ha voluto che fosse di una donna che incarna alla perfezione ciò che mio padre si auspicava per me.”

Sistemandosi ben bene, pacificata dal calore del camino e da quello della pelle di Giovanni, la Tigre trattenne uno sbadiglio e sottolineò: “Tra noi due quella che è stata fortunata temo di essere io...”

 

I metodi di Achille Tiberti erano cambiati in modo tanto repentino da essere per Pandolfo Malatesta un messaggio più che chiaro.

Quella mattina, fredda e nebbiosa, stava portando nell'animo di Pandolfaccio molte ombre.

Fino a quel momento si era convinto che le azioni del Capitano si sarebbero spente una volta che la Sforza avesse saputo quel che stava facendo in suo nome, e invece il forlivese aveva continuato a conquistare terreno, annettendo in modo meno cruento, ma altrettanto efficace, molti paesi del riminese.

Il Malatesta si strinse nella vestagliona da camera con cui si era coperto per far fronte a quel freddo, tanto pungente da essere quasi fuori stagione.

Paradossalmente, avrebbe voluto che Violante fosse al suo fianco. Pur senza darle la soddisfazione di farla credere utile agli affari di Stato, avrebbe cercato di capire che ne pensava e avrebbe agito di conseguenza.

Invece la donna era con il loro medico di corte. Aveva il sospetto di essere finalmente incinta e così aveva chiesto di essere visitata al più presto.

Pandolfo non avrebbe mai avuto la faccia di chiederle apertamente un aiuto, e dunque, siccome la decisione andava presa subito, doveva fare per conto proprio.

Si portò con lentezza una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio, affondando ancor di più il lungo naso nelle pagine in cui si elencavano le azioni di Achille Tiberti e si sentì prendere dalle vertigini.

Però sapeva che cosa Venezia si aspettava da lui. Se si fosse fatto mangiare brandelli di Stato per troppo tempo, alla fine il Doge avrebbe chiesto spiegazioni.

Prendendo un pezzo di carta nuovo, sospirò e intinse la punta della penna nell'inchiostro e cominciò a vergare l'ordine di mettere a sacco 'non meno de sette' paesi della Sforza.

Però, precisò, che fossero quelli di confine, non molto difesi né troppo importanti. Se la Tigre era sveglia come tutti dicevano – Pandolfo compreso – allora avrebbe capito l'avvertimento e quella stupida guerricciola si sarebbe chiusa lì.

“Mio signore...” fece il medico, arrivando nello studio del Malatesta con le mani allacciate dietro la schiena e un'espressione indecifrabile sotto alla lunga barba grigia.

“Allora?” chiese Pandolfo, finendo di scrivere, apparentemente disinteressato.

“Credo che sia possibile dire che vostra moglie è gioiosamente in attesa d'un figlio.” fece il vecchio, con un profondo inchino.

Il Malatesta, a sentir ciò, firmò in fretta il dispaccio, gridò il nome di un servo che arrivò di corsa per prendere il messaggio e consegnarlo a chi di dovere e poi corse fuori dalla sala, verso la camera di Violante.

“Il dottore mi ha appena detto...” fece Pandolfo, la voce che mancava per via della corsa.

Anche se le sue gambe erano lunghe e secche, non aveva il fisico adatto a quel genere di sforzi improvvisi.

Violante annuì appena. Era seduta sul letto, una mano sulla pancia e gli occhi pensierosi.

Smosso da una sensazione che non sapeva ben decifrare, il Malatesta le si avvicinò e tentò di baciarla, per vedersi, però, subito respinto: “Ti darò un erede. È quello che volevi no? Fino a che non sarà nato, non devi chiedermi di fare altro, per te.”

“Ma io pensavo che...” cominciò l'uomo, confuso.

In quell'ultimo periodo, si era convinto che anche sua moglie cominciasse ad apprezzare la sua compagnia. La freddezza delle sue parole, però, diceva l'esatto opposto.

“Fammi un favore – fece Violante, a denti stretti – per qualche mese, evita di pensare. A me, perlomeno.”

Il signore di Rimini fece per bloccare di forza la consorte, che si era alzata per andare in un'altra stanza, ma la donna gli scivolò via, redarguendolo: “Ricordati che ogni percossa che sai a me, adesso la dai anche a tuo figlio.”

Comprendendo solo in quel momento il potere subdolo e innegabile che sua moglie ormai aveva su di lui, il Pandolfaccio restò immobile come una statua di sale e non ebbe la prontezza di dire altro se non: “Hai ragione...”

 

Ottobre stava volgendo al termine e quel pomeriggio, dopo giorni in cui si erano alternate nebbie e piogge, era uscito un timidissimo sole.

Caterina ne aveva approfittato per sbrigare la sua corrispondenza sfruttando la luce che arrivava dalle finestra, evitando di rovinarsi gli occhi sotto le fiammelle tremule delle candele, come invece aveva fatto nella settimana appena passata.

Si era così messa, appena dopo il mezzogiorno, nello studiolo del castellano e lì, assieme a Giovanni, aveva cominciato a passare in rassegna tutta la posta che si era accumulata sulla scrivania.

Il Medici si era messo sulla poltrona che era stata di Giacomo e vagliava in prima istanza tutti i messaggi di carattere commerciale. Purtroppo non erano molti, ma erano comunque molto complicati. Sempre meno Stati, infatti, sembravano inclini a fare grandi transazioni commerciali, tanto meno con Forlì.

Dall'ultimo ragguaglio fatto da Simone Ridolfi, il commercio a Imola era un tantino più vivo, ma le tensioni che premevano sui confini e i malumori dei Bolognesi – solo in parte spiegati dall'oratore presente nello Stato della Sforza – avevano tarpato le ali a molti imprenditori.

La Sforza aveva appena messo da parte una noiosissima lettera arrivata da suo cugino Raffaele Sansoni Riario, che la invogliava per la terza volta in un mese a lasciare definitivamente lo Stato nelle mani di Ottaviano e di 'mostrar buon volto' al papa, quando con uno sbuffo si abbandonò un momento contro lo schienale del suo scranno.

“Lettere noiose?” chiese Giovanni, sollevando gli occhi da una richiesta di permesso di compravendita di alcuni pellami.

La moglie scosse il capo e sbuffò di nuovo, aprendo la missiva successiva, quasi senza badare al fatto che il sigillo recasse lo stemma di suo zio Ludovico.

“Sai dove andava Bernardino?” chiese la Contessa, spiegando il foglio, ma aspettando a immergersi nella lettura: “L'ho visto che usciva con Galeazzo, finito di mangiare...”

Il fiorentino annuì e, facendo uno scarabocchio in fondo alla lettera sui pellami, come a dire che l'aveva vista e che secondo lui Caterina avrebbe fatto bene ad avvallare la proposta, rispose: “Sì, è andato dalla famiglia da cui stava prima.” spiegò.

La Tigre capì che si riferiva ai popolani che lo avevano curato quando era piccolo, ma la cosa le suonò parecchio strana: “E che ci va a fare?”

“Lui e Galeazzo sono amici con i figli di quelle persone...” fece Giovanni, sbrigativo: “Ogni tanto ci vanno... Giocano, per lo più. Non c'è nulla di male.”

“No, infatti.” convenne la donna, senza riuscire a mascherare del tutto la propria irritazione.

Era rivolta solo a se stessa, però, perché Caterina trovava assurdo il non essersi mai accorta di quella consuetudine che, da come ne parlava suo marito, doveva essere di vecchia data.

Mentre i suoi occhi verdi scorrevano con disinteresse sulle parole che aveva davanti, lentamente la Leonessa prese coscienza del fatto che quella che aveva davanti era una lettera scritta di proprio pugno dal Moro.

Sistemandosi sulla sedia, in modo tanto repentino da attirare l'attenzione di Giovanni, la Contessa ricominciò da capo, con molta più attenzione.

Rispondendo, seppur con largo ritardo, al suo mezzo attacco fatto tramite l'oratore milanese in Forlì, il Duca di Milano le aveva scritto per dirle che era dispostissimo a un dialogo personale e diretto, come lei chiedeva.

Passava poi a elencarle i motivi per cui temeva che lei avesse intenzione di prendere marito, in particolare un Medici di Firenze, mettendola in guardia circa i secondi fini che 'taluni omini' avevano nei confronti di donne 'sole et indifese' come lei.

Caterina lesse in fretta tutte quelle frasi, tanto retoriche da essere imbarazzanti, e arrivò al punto più importante.

'Sicché noi vi chiediamo, adorata nipote, di tenere noi informati su vostre decisione matrimoniali et di Stato, ché in momento di gran guerra che s'avvicina è di necessità per noi Sforza di restare uniti.'

Il velo di minaccia era così palpabile che la Sforza trattenne il fiato. Seguiva poi una chiarissima precisazione, con cui Ludovico la informava che perfino il signore di Pesaro l'aveva capito e che lei era in una posizione ancor più delicata.

'Quando i cannoni esploderanno i loro colpi – aveva aggiunto in fondo – né Firenze né Venezia vi tenderanno una mano sincera. Milano sarà sempre la vostra casa.'

Massaggiandosi con lentezza la fronte, incurante di Giovanni, che la osservava preoccupato, la Sforza prese subito carta e penna e cominciò a stendere una risposta.

Fu diplomatica, tenne un tono molto disteso, ribadendo il suo attaccamento a Milano e pregando suo zio di esserle sempre buon amico, tuttavia, quando arrivò in fondo e firmò con un lapidario 'Caterina Sforza', le parve che non fosse la risposta giusta da dare.

Sollevò un momento gli occhi verso il marito, le cui iridi chiarissime le erano puntate addosso e in quell'istante capì che cosa avrebbe davvero fatto capire al Moro come stavano le cose.

Lui diceva tanto a lei di stare attenta a non ritrovarsi sola, ma anche lui aveva sempre i francesi che premevano sul confine, ora proponendogli accordi, ora annunciando un attacco. Poteva fare la voce grossa, ma tutti sapevano, ormai, in che stato fosse. La morte della moglie gli aveva tolto lucidità e Caterina era certa che, se ancora stava cercando la sua alleanza, era solo perché si sentiva insicuro.

La voleva come cuscinetto difensivo in centro Italia. Magari sperava di avere da lei dei soldati. In fondo, ormai in molti conoscevano il suo metodo militare e certi parevano apprezzarlo. Erano meglio cento soldati ben addestrati e molto disciplinati, piuttosto che cinquecento impossibili da comandare e tanto inesperti da non saper ricaricare un falconetto.

Così, sapendo che quella mossa, tanto piccola, eppure tanto forte, avrebbe potuto fare da ago della bilancia, la Tigre intinse ancora una volta la punta della penna nell'inchiostro e aggiunse alla firma una parola.

Alla fine, dopo aver lasciato asciugare, quel che si leggeva in calce era: Caterina Sforza Medici.

Con un lieve soffio, la donna chiuse il messaggio e lo mise tra quelli che andavano sigillati e spediti.

“Tutto bene?” chiese Giovanni, che aveva assistito senza poter intervenire a quella silenziosa battaglia interna della moglie.

La Sforza annuì e fu sul punto di spiegargli quello che aveva appena deciso di fare, quando sulla porta arrivò Cesare Feo: “Mia signora, posso parlarvi un momento?”

“Prego.” lo invitò Caterina, gli occhi che, inconsciamente, continuavano a correre un po' al marito e un po' alla lettera – la prima – che aveva firmato come moglie di un Medici.

“È arrivato adesso un dispaccio urgente dal confine.” fece il castellano, rivolgendosi in modo così spiccato solo alla Contessa, che Giovanni, un po' in imbarazzo, finse di tornare a leggere le lettere mercantili: “Malatesta ha messo a sacco e ha preso sette dei nostri borghi.”

“Ci sono stati molti morti?” domandò la donna, sentendo la bocca che si asciugava.

Il castellano fece segno di no: “Non hanno trovato resistenza e così hanno preso i terreni senza bisogno di essere brutali.”

La Sforza si premette le dita sugli occhi e poi chiese quali fossero. Dopo l'elenco, si morse le labbra e scambiò un'occhiata con il marito.

In quel momento si sentiva confusa e indebolita. Tuttavia, proprio mentre stava per ammettere di non sapere che fare, il figlio che portava in grembo si mosse un po', riportandola presente a se stessa in un lampo.

Sapeva che lei e Pandolfo parlavano la stessa lingua e dunque provò a pensare come probabilmente aveva pensato lui nell'ordinare quell'attacco.

Alla fine, battendo le mani sulla scrivania, disse al castellano: “Riferite al Capitano Golfarelli che porti subito il messaggio a mio fratello a Forlimpopoli: che cerchi Tiberti e gli ordini di ritirarsi all'istante. Questa guerra finisce qui.”

Sentendo una vaga nausea salirle dalla gola, Caterina si alzò dalla scrivania e si congedò in fretta tanto dal marito, quanto dal Feo.

Il castellano stava per chiedere a Giovanni se ci fosse da temere per la salute della Contessa, dato che appariva pallida, ma il fiorentino stava sorridendo, intimamente molto felice per la decisione della Tigre, che lui condivideva in pieno.

“Mia moglie è solo stanca.” la scusò il Medici, alzandosi a sua volta, lasciando la piccola pigna di lettere sulla poltrona: “Sapete com'è... Abbiamo avuto molte cose a cui pensare...”

“Certo, certo...” fece Cesare, ma, quando l'ambasciatore lasciò lo studiolo, al castellano restò addosso una strana sensazione.

Nel vedersi sfilare accanto la Contessa, gli era parso di notare qualcosa di diverso in lei. Ci pensò e ripensò e alla fine si rese conto di aver notato il suo ventre, più prominente del solito. L'abito, abbastanza succinto, che portava, lasciava intravedere chiaramente qualcosa...

“Oh boia mondo...” soffiò Cesare Feo, passandosi una mano sulla fronte leggermente sudata.

 

Gian Giacomo da Trivulzio si sedette con pesantezza sullo sgabello da campo. Era stufo di Asti, stufo del nord Italia, stufo della vita da soldato, stufo perfino di se stesso.

“Che avete da guardare così?!” sbottò, guardando storto il trentacinquenne Troilo che gli stava accanto, ancora in armatura, le mani congiunte e appoggiate sull'elsa dello spadone che portava al fianco.

Il vecchio condottiero tirò su con il suo naso ricurvo e poi occhieggiò di nuovo con malagrazia verso il suo secondo: “Allora?”

“Volevo solo sapere, mio signore, com'è andata con il Duca.” spiegò Troilo Rosso, o, come molti lo chiamavano da tempo, Troilo De Rossi, in modo da rendere più altisonante la sua ascendenza decaduta: “Sono giorni che vi aspetto qui ad Asti...”

“Come volete che sia andata?! Quel caprone d'uno Sforza!” grugnì Trivulzio, sputando in terra dopo un colpo di tosse.

Troilo, il mento coperto di barba chiara e corti e ordinat capelli castani, puntò i suoi occhietti allungati e acuti in terra, provando ribrezzo per i modi del suo superiore e commentò: “Capisco.”

“Venire qui con ottocento lance francesi per intimargli di firmare questa dannata pace, e lui comincia a blaterare di cose che non conosce nemmeno!” riprese Gian Giacomo, i capelli grigi alle spalle che ondeggiavano furiosi assieme a lui: “Si mette contro il papa, si mette contro i suoi parenti, si mette contro la Francia! Altro che uomo illuminato! Era sua moglie la testa del Ducato!”

Troilo si passò la lingua sulle labbra, un po' screpolate per via di tutto il freddo patito nell'ottobre astigiano e disse, quasi tra sé: “Sempre detto che ci vuole una gran donna, per fare un grand'uomo.”

Il suo comandante lo sguardò storto, poi, sbuffando come il vecchio noioso che era, gli ordinò: “E voi, portatemi il necessario per scrivere. Il re vorrà sapere che razza di caprone è diventato, il suo caro Ludovico...”

 
   
 
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