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Autore: Avareil    13/01/2018    4 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Spettri e ombre

Una chioma scomposta dal vento, il frusciare delle ali, il respiro leggermente affrettato, il pulsare di un cuore in agitazione: era come se il divo alato fosse lì, al loro cospetto presso le camere private del dio di quei luoghi.

Vivido e tangibile, Persefone lo percepiva distintamente sebbene quello si trovasse lontano, presso il sacro altare del divino Ade.

Hermes era infine giunto per far rispettare le promesse, quelle stesse promesse che solo pochi secondi prima erano state infrante, sostituite con una ben più pericolosa e intima che la vedeva legata all’Averno:

il frullare di quelle piume, il respiro di quel corpo, il monito del Flagetonte, tutto in lei vibrava e riverberava come un colpo, cadenzato e scandito, inferto alla cassa di un tamburo di guerra.


 

Era angosciante.


 

Davanti agli occhi, ora velati dalla vista offertale dal regno che la reclamava come regina, vedeva la giovane e scomposta figura del messaggero, preoccupato dal compito affidatogli.

Ne aveva sentito la voce distintamente e, anche se non ne fosse stata in grado, avrebbe saputo leggere il linguaggio di quelle labbra tirate reclamanti udienza.

Dinnanzi, intorno a lei vi era un regno che

si faceva appendice del suo corpo: questo il dono dell’ambrosia nera.

Questo il vincolo che la legava in eterno a quei luoghi.


 

Spaventata da sé stessa, turbata dal piacere che le solleticava il cuore al solo sapersi non più ospite, ma abitante amata e ben accolta, si era alzata di scatto dal talamo sfatto lasciando in sospeso quella domanda bisbigliata in un singulto strozzato.

 

“Ade, cosa avete fatto?”

Cosa avrebbe mai dovuto fare?

Ti ha salvato la vita, ingrata dea, e tu punti il dito contro di lui.

Quanto sei codarda? Il tuo cuore sussulta per la gioia, sei felice di questo imprevisto corso degli eventi eppure, nemmeno adesso, sei capace di assumerti

la responsabilità delle tue azioni.

 

Tu non hai richiesto l’ambrosia, né hai deciso di berne, ma la promessa che hai suggellato con Ade è più antica di questi nuovi risvolti-

 

Solo perché adesso sei in grado di veder oltre non divenire una codarda.

 

Assumiti le tue responsabilità.


 

Angosciata e impaurita dalle conseguenze che quelle azioni avrebbero potuto scaturire, tormentata dal ricordo del monito del Flagetonte, si era quasi imposta di

di ignorare la figura del sovrano, ancora muto al suo cospetto.

Aveva ben chiaro in mente di cosa avrebbe dovuto fare o dire ma, bloccata da sé stessa e dai propri timori, era riuscita solamente ad alzarsi freneticamente dalle coltri morbide e scomposte dove aveva fino a quel momento riposato.


Ade era rimasto ad osservarla, rigido come una statua di marmo e al contempo nebuloso e oscuro come un’ombra che sta sempre in agguato dietro le porte, sotto i giacigli: più simile ad uno spettro che ad un dio.

La sua sola presenza congelava l’etere.


Nel silenzio più profondo si potevano udire i sospiri agitati della dea intenta a lisciare le vesti rovinate, le dita sottili correre verso i capelli scompostamente adagiati sulle spalle nel vano tentativo di riordinarli: nel silenzio di quella camera si poteva udire l’assenza di battito in quel cuore turbato di dea, disperatamente alla ricerca di un contegno che la paura, sottile e strisciante, andava man mano logorando.

“Quali sono le vostre intenzioni?”,

una voce atona e apatica era fuoriuscita dalle labbra severe del dio nero che, rimanendo sempre di fianco al letto, aveva impercettibilmente volto il capo verso la dea agitata.

“Andrò da Hermes come stabilito. Raggiungerò mia madre, tornerò a casa: quello è il posto che il Fato esige che io abiti”.

“Mentite”,

una parola, un affondo di spada: Ade, il dio della morte non aveva proferito altro.

“Come osate darmi della bugiarda?”,

“Io so cosa ho visto, so con che propositi nel cuore ho agito. Il Fato vi ha designata come mia regina”,

“Il Fato non ha considerato i miei legami, legami vincolanti che nemmeno voi, potente dio, potete tranciare”.

“Mentite”.

Esasperata dall’ennesima fredda accusa che la bucava dentro, Persefone si era voltata furente verso di lui, ancora rigido e scuro in volto

“Vi avevo detto di essere prudente e lungimirante. Questa volta siete voi incapace nel vedere oltre. Almeno io devo mantenere la promessa che voi avete infranto”.

Che motivo aveva di ferirlo a quel modo?

Quale il bisogno di puntare il dito contro il dio che aveva agito per il suo bene?


Lui non sapeva del Flagetonte, questa la sua colpa.

Non era con lei quando la succube aveva affondato i suoi artigli nella sua morbida carne: questa la sua colpa.

L’amava, come lei amava lui,

questa 
la loro colpa: ciò che li aveva resi vulnerabili e stupidi e ciechi dinnanzi ai giochi del Fato.


“Bene, andate allora, e badate a non far più ritorno. Mi assumerò la responsabilità delle mie azioni. Io e io soltanto, non ho bisogno di voi”.


Non una parola di più, non una di meno era uscita dalle labbra strette e livide del signore dell’Averno, ora più simile ad una maschera nera che a un divino.

Non aveva avuto il coraggio di guardalo in faccia mentre sentiva la risposta alla sua provocazione, non aveva avuto il coraggio di girarsi verso di lui nemmeno quando aveva sentito il suo passo marziale da re soldato, dirigersi verso le grandi porte per poi sbatterle alle sue spalle.

Era sempre questo il problema: lei non aveva il coraggio.

Non lo aveva mai avuto, del resto a cosa le sarebbe servito? Sua madre la proteggeva da ogni male.

Menzogna.

Aveva vissuto sulla sua pelle la falsità di quella credenza.

Sua madre non l’aveva saputa proteggere dal Fato, un Fato che

quella le negava con tutte le sue forze.

Con un sorriso di sdegno dipinto sulle labbra tirate, Persefone aveva provato un

immenso odio nei riguardi di sé stessa e della propria codardia.


Com’era possibile che la sua vita fosse una costante rinuncia?

Perché ogni volta le venivano imposte condizione che prevedevano sempre il sacrificio di un qualcosa a lei caro?


Perché non poteva semplicemente vivere per sé stessa e per i propri desideri?

 

Si era voltata troppo tardi.

Di Ade, in quelle stanze, vi era solo la grande assenza.

E pesava come un macigno sul cuore.

Lo hai accusato ingiustamente, pur sapendo la verità.

Vergogna.

 

Un singhiozzo era sfuggito alla dea, fin troppo angustiata dalla consapevolezza di aver ferito l’unico essere così affine a lei da poterne sentire l’essenza scorrere per le sue stesse vene.


 

Ma che altro avrebbe potuto fare?

Il Flagetonte era stato chiaro:

Non mangiare figlia, piuttosto…”

Piuttosto cosa?

Aveva bisogno di andar via da quelle camere, una necessità cogente che la spingeva a correre e a sbattere con noncuranza la porta alle sue spalle.

Via, via da lì, da quei luoghi capaci di risvegliare nel suo animo un profondo senso di colpa che, a poco a poco, piano piano, le mangiucchiava la coscienza già sporca, già turbata.


Come era stata capace di arrivare a quel punto? Sua madre soffriva, lei soffriva, il suo amato dio soffriva.


E tu che ti illudevi di essere “pura”, stupida, stupida e infantile dea, ogni scelta è una responsabilità, ogni azione comporta conseguenze, speravi forse di essere esente da un conto del genere?”,

aveva mormorato a denti stretti quel mantra amaro sulla lingua per tutto il corridoio che l’avrebbe condotta presso le sue stanze.

Con rancore e disprezzo verso sé stessa aveva notato e odiato il momento in cui la camera e tutti i suoi elementi le si erano rivelati con più calore e familiarità: sentiva l’Averno sulla pelle come un caldo benvenuto che lei sentiva di non meritare sebbene le piacesse, maledettamente. Per tale motivo un’imprecazione leggera le era sfuggita dai denti serrati.

Perché rinunciare a quella dimora amara?

Perché dover sempre sacrificare una parte della sua vita?

Irata con sé stessa, con il Fato meschino e trasparente persino all’occhio dei divini, aveva sollevato la vaste dal corpo infreddolito e scosso da fin troppe sensazioni spiacevoli e l’aveva scagliato contro la grande cassettiera di fianco al focolare.

Turbata aveva raggiunto la camera da bagno dove una tinozza di acqua gelida l’attendeva per una rapida abluzione; la dea non aveva badato al delicato rumore metallico susseguito al lancio della tunica.

L’oggettino al suolo aveva atteso paziente il ritorno della proprietaria della veste scagliata con forza che, solo dopo aver rimestato frettolosamente nella cassettiera alla ricerca di una veste scura, l’aveva infine scorto al suolo, pericolosamente vicino al focolare.

Un fermaglio.

Uno dei fermagli di cui il dio le aveva fatto dono era lì, caduto per colpa della sua ira e della sua angoscia.

Un singhiozzo strozzato aveva accompagnato la dea, chinatasi a raccogliere quel prezioso monile, ma ecco che questo, al suo semplice e delicato tocco aveva tremolato, mettendo in evidenza il danno causato dalla caduta violenta.

La sottile e delicata trama di pietre preziose che sapientemente ricreava fiori in boccio, risultava in parte lesionata, in parte tremolante mentre molti preziosi giacevano al suolo, proprio nel luogo in cui si era registrato l’impatto.

Quello che ora reggeva con dispiacere tra le mani ben poco aveva a che vedere col gemello, ben al sicuro lontano dalla veste appallottolata e gettata contro il mobile.

Uno scheletro, uno scheletro spogliato delle sue vesti più belle, ecco cosa reggeva tra le mani.

Un dono che non aveva saputo proteggere, lo spettro di una promessa che non avrebbe potuto mantenere se non a caro prezzo.

Un nuovo sacrificio sarebbe stato compiuto, non da Ade, non dalla madre tanto amata eppure soffocante ma da lei, parte mediana di una relazione d’odio tra opposti.

Vestiti e vai da Hermes, sbrigati e rendi più veloce questa separazione angosciante.

Rapida e a capo chino aveva lasciato alle sue spalle le stanze fredde.

Stringeva al petto, proprio sopra il cuore, il piccolo superstite scheletrico mentre al suolo di quella camera brillavano milioni di pietre preziose,

un cielo stellato nell’Averno nero.


 

°°°


 


 

Aveva aspettato sul limitare delle grandi mura nere che la dea lasciasse i suoi alloggi per potervici ritornare senza il pericolo di incontrarla.

La sua immagine, anche la sola possibilità di cogliere i suoi tratti di sfuggita, innescavano in lui un’ira cieca che nemmeno Eros, con le sue frecce infallibili sarebbe riuscito a placare; anzi, forse proprio quel farabutto alato stava giocando con lui, ferendolo prima con punte d’oro e dopo, a tradimento, colpendo lei con la lega di ferro nero.

Rise sdegnatamente di sé immaginandosi quale nuovo Apollo, amante non corrisposto.

A denti stretti, mostrati in un ghigno di bestia, e dopo un tempo che non avrebbe saputo quantificare, aveva nuovamente mosso dei passi marziali verso le sue stanze: doveva cambiarsi, vestirsi con le nobili vesti nere, simbolo del suo ruolo e del suo essere e, infine, indossare la kunee, di metallo nero dal cimiero di sangue.

La furia che lo intrappolava in spire strette e soffocanti lo rendeva incapace di qualsiasi gesto, qualsiasi parola:

non aveva la forza di dire nulla né di fare alcunché, troppo lo sconvolgimento e troppa la delusione che quelle parole, dette con paura e timore da una bocca un tempo amica, avevano generato nelle sue più tenebrosa profondità.

E non serviva a nulla cercare per l’ennesima volta la giustificazione per un comportamento di quel tipo, non serviva provare a sollevare dalle spalle della dea la responsabilità delle parole proferite:

semplicemente si sentiva tradito, deluso per l’ennesima volta, come se fosse scritto nelle sue ossa il destino di esser creduto un traditore dei patti e delle promesse.

Con quanta fede aveva agito? Fede nella bontà dei propri intenti, fede nella bontà dei propri sentimenti e di quelli della dea stesa al suo cospetto in un sonno di morte.

Giudicato senza giustizia.


Come se lei, con quello sguardo sottile e impaurito gli avesse gridato in faccia:

“Mi avevi promesso di essere ragionevole. Guarda invece in che tormento mi hai sprofondata”.

Cos’altro avrebbe potuto fare in una situazione del genere?

Una mano era corsa al volto contratto e a mo’ di schermo aveva oscurato gli occhi stanchi e brucianti come bracieri infernali.

Il signore dell’Averno non riusciva a riguadagnare a sé il controllo e la pacatezza che lo Stige gli aveva cucito addosso.

Era stanco di subire quella sorte, stanco di venir considerato la peggior feccia.

Sdegno gli avvelenava la lingua, una bile nera che risale dallo stomaco e corrode le labbra, mute e strette a celare denti digrignanti, una bile che risaliva su, negli occhi, tingendoli di un nero putrido e insondabile.


Abbastanza


Ne aveva abbastanza.

Perché anche lei doveva essere come tutti gli altri, perché il suo destino era quello di non venir mai creduto nella sincerità delle proprie azioni.

Abbastanza.

Che destino balordo era stato scritto per lui?

Le mani lungo i fianchi fremevano vistosamente, l’intera sua figura veniva scossa da lunghi e sottili brividi di rabbia che facevano tremare le ossa, il sangue, i muscoli.

Com’era possibile che quelle labbra, rosse e succulenti, si fossero permesse di insinuare il dubbio su di lui e sulle sue azioni?

Quella dea, meravigliosa e terribile, lo avvelenava col suo amore: un veleno di cui lui non avrebbe saputo fare a meno ma che, ovviamente, lo mangiava a poco a poco, come un tarlo.

Giunto infine presso i suoi alloggi si era spogliato con scatti agili e precisi, disfatto della veste semplice aveva afferrato la tunica regale e nera; la kunee lo attendeva sul piccolo davanzale del camino ravvivato da un fuoco fiacco e poco brillante.

Il cimiero rosso sangue lo richiamava al vero della sua esistenza.

Giudica e fai rispettare le norme dell’invisibile.

Sei il sovrano, per te non è stata predisposta alcuna gioia.

In malora le profezie.

Eppure uno strano calore aveva iniziato a bruciargli nel petto, all’altezza di quel cuore che se fino a poco prima sentiva battere a stento, ora invece, aveva ripreso a pulsare con forza, forse ravvivato dalla traccia profumata lasciata dalla dea in quei luoghi.

Proprio lei gli fluiva dentro, i suoi pensieri, le sue parole e i suoi sentimenti.


Un sorriso sincero e stupito aveva sostituito il ghigno animale:

dovevi ferirmi per capire i tuoi desideri, piccola dea?

Non più Kore ma una kore nell’animo.

Sei ancora una bambina, mio amore.


 


°°°


“Hermes, da molto i miei occhi non venivano solleticati dalla luce d’ambra che emana un corpo di superficie, vi rivolgo il mio cordiale benvenuto”.

Persefone, regale e composta, aveva varcato la soglia della grande cella avernale in cui un giovane dio dai calzari alati fremeva visibilmente per l’attesa.

“Mia dea, non pensavo di vedervi così, senza prima dover costringere lo zio a rivelare il suo tesoro più prezioso”.

Hermes, sollevato nel vedere la giovane piuttosto che il dio nero e imperturbabile, le si era fatto da presso mostrandole un sorriso sollevato a trentadue denti.

“Siete pronta per ritornare presso la dimora materna, mia signora? Demetra sacra vi aspetta con impazienza, teme che un ripensamento possa mandare in frantumi i buoni propositi del signore di questi luoghi”.


 

“Nessun ripensamento alcuno impedirà al mio ospite, nonché signore, di rispettare i patti stipulati. Hermes, è del dio dell’Averno che stai parlando, un dio ben più antico di noi che esige rispetto e reverenza.

Nemmeno mia madre dovrebbe osare dubitare di lui in maniera così sciocca”,

con una determinatezza che non era propria, Persefone aveva risposto spazzando via ogni sciocchezza, ogni mancanza di rispetto che fino a quel momento fin troppi dei, sua madre compresa, avevano osato riservare al dio al quale il fato l’aveva legata.

“Non volevo offendervi, mia signora”, mortificato, il dio alato aveva poggiato i piedi per terra mentre il sorriso che fino a quel momento aveva illuminato il giovane volto, adesso aveva lasciato il posto ad un’espressione più seria, quasi da uomo adulto.

“Non è vostra la colpa ma dei pregiudizi che abitano l’Olimpo. Sarà mia premura sradicarli uno ad uno, come erbe malate e cattive”,

un sorriso saggio aveva tirato il volto della signora al cospetto del messaggero che, forse colpito da quella padronanza di modi e dalla compostezza delle parole, era stato come fulminato da una qualche illuminazione balzana e pericolosissima.


Persefone non sembrava più Persefone.


Cinereo in volto, Hermes l’aveva osservata attentamente e, con reverenza, le aveva rivolto una domanda

“Mia signora, vi prego, consolate un messaggero timoroso. Nulla vi è stato fatto, nulla vi è stato offerto di questi luoghi dal ritorno di Ade?”.

Colpita da quella domanda, la dea aveva distolto lo sguardo per poi spostarsi a passo lento verso il grande altare al centro della cella buia, illuminata da fuochi pigri.

“Mia signora?-”

“Non posso rispondervi sapendo che mentirei spudoratamente, preferisco tacere e prender posto presso al luogo che meglio si confà alla mia anima, ora nera, ora luminosa come la tua. Sono vincolata a questi luoghi, messaggero, non per promessa infranta ma per la tutela della mia esistenza. Il sovrano dell’Erebo mi ha salvata dalla morte eterna promettendomi all’invisibile”.

“Promettendovi a sé, siete la sua sposa dunque-”

“No, sono solo un’anima di questi luoghi ma non una sposa: nessun rito nuziale è stato compiuto, nessuna benedizione ci vincola, sono la sua sposa perché sono fatta della sua stessa sostanza e dalle sue mani ho bevuto la nera ambrosia di questi luoghi, ma no: non sono sposa benedetta da alcuna unione sacra ai MIEI luoghi”.

“Ma...vostra madre-”

“Ho arrecato a mia madre fin troppi dolori e, sebbene anche a me non ne sia stato risparmiato alcuno, desidero che non dalla vostra bocca ma da me e me soltanto ella venga a conoscenza di una siffatta situazione”.

Come sprofondato in una voragine, Hermes si era lasciato cadere al suolo: le gambe troppo deboli per sorreggere il peso di quella intuizione veritiera.

“Vostra madre se ne accorgerà?”, il dio aveva bisbigliato quel timore a mezza voce temendo come la dea madre avrebbe mai potuto reagire a quella notizia.

“Mia madre non appena mi avrà al suo fianco non baderà a null’altro e io spero, in cuor mio, di essere abbastanza brava nel mascherare il mio turbamento”.

“Quale turbamento, mia dea?”

“Non avrei mai voluto abbandonare questi luoghi”.


Il silenzio era caduto come un macigno sullo stomaco di entrambi:


Hermes vedeva e sentiva la diversità di quella figura un tempo così simile a lui, bella e amante del cosmo superficiale; non che ora fosse brutta, anzi, una nuova bellezza, una nuova consapevolezza quasi di donna brillava in quegli occhi gialli più profondi e saggi di quelli della Kore un tempo conosciuta.

Persefone, invece, capiva anche grazie al fido messaggero, quali grandi problemi avrebbe rischiato: la madre non avrebbe dovuto sospettare quel legame con l’oltretomba mai, non avrebbe mai dovuto leggerle il cuore alla ricerca di un qualche sentimento verso il sovrano del regno che l’aveva salvata promettendola a sé e all’Averno; almeno in principio.

Almeno per quei due mesi non avrebbe mai e poi mai dovuto mostrare la profondità di quel sentimento così a lungo covato e da tutti, sempre, osteggiato, perfino dal Fato che li voleva insieme, perfino da lei che aveva osato dubitare della bontà delle azioni del suo amato.

Quanto poteva essere sciocca? Come osava mettere in dubbio l’agire dell’unico dio che l’avesse mai considerata come persona e non come oggetto da disporre, una bambolina nelle mani di una madre fin troppo asfissiante?


Eppure il Flagetonte l’aveva ammonita:

Dividi il tuo cuore piuttosto, Persefone, ma non mangiare...


No, non avrebbe mangiato il melograno sacro seppellito nel suolo avernale.

Ci avrebbe provato almeno, anche se sentiva distintamente il pulsare di quel regno dentro di sé.

Faceva male sapere che ogni sua azione, volente o nolente, feriva qualcuno: sua madre, il suo dio, sé stessa.

Sarebbe stato meglio rimanere nell’ignoranza, forse.

Almeno avrebbe ferito solo sé stessa, assumendosi la responsabilità di un cuore diviso, facendo l’egoista e tentando almeno di essere felice.

Perché l’egoismo doveva essere solo di Afrodite? Perché solo lei poteva disporre di ogni vita senza preoccupazioni, senza sensi di colpa per il “dopo”, mentre lei, vincolata dal Fato ad un essere che si riscopriva ad amare, era costretta ad allontanarsi nel vano tentativo di salvare il salvabile?

“Allora? Abbiamo un patto? Prometti che in nessun modo, mai, nemmeno sotto tortura, svelerai quanto successo in questi luoghi?”, Persefone ora osservava il divo alato, ora al suolo intento a distrarsi accarezzando una piuma dei calzari.

“Ve lo prometto”,

“Grazie, adesso sarà meglio andare, mia madre ci attende, riesco distintamente a sentire la sua voce e quella delle altre in corteo”, si era allontanata dall’altare giusto di qualche centimetro quando Hermes, leggermente turbato, l’aveva ridestata dai pensieri

“Non attendiamo che il sovrano di questi luoghi ci raggiunga? Del resto siete stata la sua ospite”,

“Il sovrano di questi luoghi al momento mi ha in odio, come pretendere un saluto da lui?”,

“In odio?!” Hermes, tiratosi di scatto in piedi, aveva spalancato gli occhi per l’angoscia e la sorpresa,

“Voi sareste felice se la persona che avete a lungo atteso, e che avete servito e riverito come una regina, vi avesse trattato come il peggiore degli impostori con una sola frase di dubbio? Sareste felice se vi dicessi addio senza la sicurezza di un ritorno?”

“No mia signora ma...”

“Allora andiamo via, questi luoghi che tanto amo al momento non sono più casa”.


 

Avevano camminato in silenzio, Hermes davanti a mo’ di guida per lei che, a testa bassa, procedeva ben sapendo dove i suoi piedi di volta in volta si stessero poggiando.


 

Quanto aveva vissuto in quei luoghi?

Evidentemente abbastanza per conoscerne ogni anfratto, ogni via, ogni odore o voce di sottofondo; anche i lamenti, un tempo spaventosi alle sue orecchie, adesso risuonavano con la loro vera voce: sembravano persone in preghiera, lodare o invocare il loro dio assente o distante.

Chissà dove si trova

Sperava in cuor suo di ritrovarlo alle grandi mura ma quando queste erano divenute una vaga altura alle sue spalle il cuore si era riempito di amarezza e, ad ogni passo che l’avvicinava al traghettatore, cresceva la speranza che almeno lì, sul fiume delle anime, lo avrebbe trovato in attesa.

Le sarebbe bastato uno sguardo, un cenno, anche solo averlo lì, ad osservarla con odio o disprezzo, ma che fosse lì per lei: questo bramava.

Ma Ade non era nemmeno su quelle sponde e quando ormai i passi si facevano più lenti e affaticati per colpa della salita verso la superficie ecco, Persefone sentiva distintamente il cuore sprofondare in un abisso nero fatto di dolore e rimpianto.

Avrebbe voluto vederlo, parlargli, implorarlo di perdonarla. Gli avrebbe spiegato il perché di quella fuga ingloriosa, se avesse dovuto gli avrebbe raccontato anche del Flagetonte: gli avrebbe detto tutto pur di fargli capire che non per carenza di sentimenti ma per paura che qualcosa di terribile li funestasse, lei stava andando via, in cenrca di una madre ingiustamente abbandonata senza alcuna spiegazione.

E sarebbe tornata, avrebbe fatto di tutto per ritornare da lui, tra le sue braccia; avrebbe cavato il cuore dal petto di quel demone infame e a chiunque avesse osato tenerla lontana da quel regno ormai divenuto casa.

Gli avrebbe detto tutto solo se avesse potuto averlo lì.

“Mia dea, un aiuto?”

Hermes, continuando a guardare dinnanzi a sé, aveva rivolto quell’invito a Persefone che, dietro di lui, procedeva sempre più lentamente, come se milioni di lacci la stessero tenendo legata all’Averno nero.

“No, vi ringrazio. Andate avanti, vi raggiungo subito”.

A stento era riuscita a trattenere le lacrime amare, formulando quella risposta nella maniera più composta possibile.

Ma le doleva il cuore, il buio le oscurava l’animo ad ogni passo verso la luce: più camminava più sentiva come braccia possenti e invisibili tirarla indietro.


“Non pensavo che il vostro cuore fosse diventato così oscuro, Persefone, devo aver avuto una cattiva influenza su di voi”.


 

Quella voce


 

Quella voce sapeva bene a chi appartenesse eppure non lo vedeva,

la luce che intravedeva lontano in superficie l’infastidiva già rendendola incapace di distinguere da dove provenisse quel suono tanto amato e ricercato.

“Non vi vedo”,

“Io vi vedo e sento chiaramente ogni vostro pensiero, ve ne eravate già dimenticata?”.


 

Una mano l’aveva afferrata per un polso richiamandola indietro, lontano dalla luce di superficie, lontano da Hermes che, ignaro, aveva proseguito fin sopra.

Avvolta in una nube nera e travolta dal suo profumo di anice e ambra, la dea si era lasciata afferrare, stringere e trascinare contro la parete della lunga grotta, collegamento tra l’aldilà e l’ al di qua.

“Pensavate veramente che vi avrei fatto andare via dai miei regni senza nemmeno un saluto?”,

“Credevo foste arrabbiato, sono stata spregevole ma-”

“Si, lo siete stata, ma fortunatamente il vostro cuore è molto più sincero e determinato di quanto non riusciate a palesare a parole”.


 

Lui aveva letto il suo cuore, la sua mente, il suo animo.

Le loro vite, ora fuse in una, comunicavano in una maniera così profonda che quei pensieri, proferiti nel cuore della dea con violenza e angoscia, erano riverberati nel cuore di pietra del dio infondendo una nuova speranza.


 

Cosa aveva pensato con tanta intensità?

Cosa aveva spinto quel dio ad afferrarla per un polso e a spingerla contro la parete bloccandola tra la nuda terra e il suo petto rivestito di metallo da guerra?


 

A pochi centimetri dalle sue labbra l’aveva sentito mormorare

“cavereste veramente il cuore a colui o colei che osasse tenervi lontano da me?”

Tentatore e malefico come un serpente aveva messo a nudo il suo animo, il suo cuore, la sua determinazione, facendola sprofondare nell’imbarazzo.

“Veramente lo fareste per me? Colui che vi ha bloccata contro la vostra volontà nel suo regno di ombra e morte?”, questa volta la voce del dio sembrava più seria, profondamente sarcastica e cattiva.


 

Voleva punirla, farla soffrire.

“Si, il mio stesso cuore su un vassoio d’oro. Sono stata spregevole. Non meritavate un tale trattamento”.

A testa alta e con un filo di voce la dea aveva mormorato quella risposta non scostandosi dalla vicinanza che lui, col suo corpo, aveva creato.

“La mia promessa è ancora intatta: sono il vostro sposo e a voi mi sono promesso, non venite meno voi alle vostre parole. Tra due mesi sarò qui, su questo uscio, ad attendere il vostro ritorno con un melograno tra le mani. Mancate e mi avrete perso per sempre”,

“Ma ho bevuto l’ambrosia di questo regno, sono già vincolata all’Averno”,

“Si, è vero-”,

a quel punto il dio si era fatto ancora più vicino, il respiro caldo le solleticava le labbra invitandole a schiudersi,

“si è vero- siete vincolata all’Averno, ma non a me. Siete una sposa non benedetta, mia dolce Persefone. Se verrete meno a questa promessa rimarrete da sola,

nell’Erebo, preda di mostri e demoni, e io non potrò fare nulla per voi”.

“Siete bugiardo e cattivo, signore dell’Averno”.

Questa volta Persefone, maliziosa e sorridente, aveva alzato le braccia per cingergli il collo e spingerlo contro di sé, esigendo un bacio d’addio che la tormentasse nei mesi di lontananza.

“Verrete da me?”, Persefone aveva mormorato quella supplica dopo essersi allontanata dalle labbra fameliche del dio nero.

“La superficie mi è preclusa”, frustrato Ade, aveva iniziato a baciarla sulla linea del collo cercando di imprimere nella mente l’odore nuovo e maledettamente eccitante che quella dea emanava.

“Venite, vi prego, trovate il modo”, Persefone lo aveva infine bloccato e, con le mani delicatamente poggiate sul volto ispido, l’aveva guardato negli occhi.

“Credete solo al mio cuore d’ora in avanti e non alle parole. Il mio cuore vi ama” una di quelle mani era ora scesa ad afferrarne una del dio, poggiata sul suo fianco, e l’aveva spostata sul suo petto, all’altezza del cuore, tra i seni piccoli.

Imbarazzata da sé stessa e dalla propria intraprendenza, la dea aveva mormorato

“questo cuore su un piatto d’oro se osassi venir meno a quanto promesso”.


 

Poi l’aveva spinto via, improvvisamente, e aveva iniziato a correre verso Hermes, ormai fuori dalla grotta nera.

Da ultimo, ancora travolto dalla dichiarazione della dolce dea, Ade aveva sentito un mormorio divertito sfuggire alle labbra del nipote alato

Sono felice che siate almeno venuto a salutare la vostra amata, a presto zio”


 


 

°°°


 


 

Sarebbe stato meraviglioso poter godere della luce del sole in silenzio, circondata dal rumore del sottobosco e delle acque chete del lago Pergusa ma, sfortunatamente, un coro di giovani ninfe intonava canti di benvenuto in suo onore, distraendola dalla pace naturale che il cuore ricercava.

Forse per quello, forse per il timore e la vergogna, aveva provato in tutti i modi a distrarsi, ad evitare di incrociare gli occhi umidi e lucidi della madre che, poco più indietro, la attendeva con le mani strette sul grembo.

Vergogna e sensi di colpa: il cuore di Persefone era dilaniato da quelli così come dalla consapevolezza di aver lasciato un pezzo di sé alle proprie spalle, nel buio dell’Averno nero.

“Madre…”, pochi passi ed era al cospetto della dea delle messi.

La trovava diversa, cambiata, più smunta e magra e da un insolito colorito giallognolo che poco aveva a che vedere col solito incarnato di pesca che la faceva brillare di salute.

“La mia bambina, la mia piccola Kore… Ti ho cercata per tutto il globo per poi scoprire che eri lì, sempre vicina eppure lontanissima sotto i miei calzari. Ho temuto per la tua essenza”.

Due braccia forti ma morbide l’avevano circondata con delicatezza infondendo nel suo corpo uno strano calore.

Le era manca, le aveva fatto del male.

Eppure perché sentiva un certo fastidio nei riguardi delle parole da quella pronunziate?

“Non sono stata costretta a rimanere in quei luoghi, cara madre. Sono stata un’ospite, trattata nella migliore delle maniere”, un sorriso tirato aveva segnato il volto della giovane dea, stranamente più rigida tra le braccia materne.

“...Parleremo di questo in un altro momento, Kore”, l’aveva presa per mano e, seguita dal corteo in festa, avevano iniziato la lunga passeggiata verso il tempio a loro dedicato.

“Persefone”, la dea promessa all’Averno aveva mormorato quel nome.

“Come hai detto, scusa?” Demetra, distratta dalla felicità, non aveva badato al tono leggermente irritato con il quale la ragazza aveva mormorato il suo nome.

“Non sono più Kore, madre. Il mio nome è Persefone”

Il gelo aveva ammutolito il corteo mentre un calore nuovo le incendiava il petto di un orgoglio non suo.



Ade, sotto di lei, seduto sul trono del suo regno, aveva nuovamente sentito.




 

  
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