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Autore: penny berry    26/06/2009    3 recensioni
"E salverò i ricordi. Quei ricordi… che hanno impresso nella mente di chi sapeva ascoltare, il tuo sorriso. La tua risata rumorosa. Il tuo sopracciglio corrugato ad una domanda imbarazzante. Le tue mani affusolate sui tasti di un pianoforte. La tua sbadataggine per l’affanno di afferrare ogni singolo sorso di vita..."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Robert Pattinson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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01
Titolo: ~ and I’ll be Remembering you
Genere: Romantico, Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 1° capitolo – Foto ricordo
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Eccomi qui!  Come avevo già avuto modo di dirvi, ho trasformato la shot iniziale in una prefazione di una storia alla quale tengo molto… È il racconto di un semplice ragazzo di ventitre anni che cresce, che matura attraverso i suoi errori, attraverso un lavoro che lo pone sotto i riflettori, e che vive a contatto con quelli che sono i suoi amici e affetti di sempre… e i nuovi incontri fatti sul cammino.
Ma non voglio anticiparvi di più, altrimenti è già finito il divertimento ^_^
Spero che possa piacervi…
Un bacione e buona lettura <3















1
“Foto ricordo”










Era una stanza ampia, spaziosa… e illuminata di sole. Le tende azzurro chiaro gettavano una piccola penombra sulle pareti aranciate, piene di stampe di cartoni animati e macchie di colore irregolari.
Nel centro quattro file ordinate di lettini facevano la loro figura, dove avvolti in copertine formato minuscolo dormivano o scalciavano i nuovi venuti al mondo. Erano così piccoli… così perfetti… così profondamente puri e unici. Nell’aria riecheggiavano le loro prime risatine, risuonavano i loro brevi pianti di sconcerto e brillavano i loro sorrisi timidi…

Oltre la vetrata che occupava metà di una parete, stavano eccitati ed emozionati i papà che, con le mani incollate sulla superficie trasparente, quasi avessero delle ventose, continuavano a ripetere fieri “Quello è mio figlio… Eh già, assomiglia tutto a me!”. E alle volte capitava anche di veder spuntare dal bordo del vetro della manine più piccole e sguardi altrettanto entusiasti, mentre si sentiva dire, “Papà è quello lì il nuovo fratellino?”
Sembrava di essere in una di quelle cosiddette isole felici, che spesso vengono narrate dagli scrittori come luoghi di pace. Era quel ritaglio di terra in cui l’esplosione della pura essenza della felicità raggiungeva l’apice e portava l’animo al di là di ogni possibile preoccupazione… Inebriava la mente, scendeva ad illuminare gli occhi e poi allargava il cuore.

E anche quella mattina, vicino all’angolo della vetrata, attorniato da altri papà impazienti, stava un uomo alto e dai capelli ramati che a passo lento si avvicinò e sussurrò alla creaturina di un anno che stringeva in braccio “Hei… piccolo, guarda lì”, indicando uno fra gli infiniti lettini dall’altra parte. “Vedi quella culla lì? La vedi si? È lei… è la piccola Charlotte. La figlia di James e Alice” sorrise, “La vedi, campione? È appena arrivata, dovrai fare il bravo con lei, è una personcina speciale” aggiunse prima di posare un bacio delicato sulla fronte del figlio.





Quattro anni dopo…

Un bimbetto stava seduto a terra, con i pantaloncini blu zuppi di fango. La melma lo ricopriva per i tre quarti del corpo, le braccine magre erano letteralmente scomparse, per non parlare dei capelli biondi ridotti ad un’unica chiazza marrone intenso. Era felice. Profondamente felice.
Le manine impastavano nella terra con precisione, e quel sorrisino di vittoria posato sul viso paffuto gli dava un’aria da conquistatore del mondo ancora in fasce. Stava costruendo una pista… o forse era un fossato per il suo castello immaginario, lui lo trovava bellissimo.
Ed era così intento nel suo lavorio da non accorgersi che, pian piano, una bambina con un paio di treccine gli si avvicinava, per poi fermarsi e dondolarsi sul posto con faccia titubante.
Il bimbo alzò il capo arruffato e piantò gli occhioni verde acqua sul viso della nuova arrivata.
“Sì?”
“Poffo ‘ocare anche io?” domandò lei incrociando le gambine, rossa di vergogna. Era carina, simile ad una di quelle bamboline di porcellana che si collezionano per intrappolarne la perfezione nel corso del tempo. I capelli corvini formavano un ciuffo ribelle sulla fronte e le nascondevano in parte il volto candido, segnato da due pomelline.
L’altro la osservò per un poco, con il ditino sporco di fango appoggiato sul mento a mo di grande intenditore. Infine esordì con un sonoro, “No”.
“E picchè?”
“Picchè hai quella!” esclamò indicando la gonnellina a fiorellini rosa della bambina.
La poverina sgranò gli occhi color cioccolata, si osservò il vestitino nuovo comprato dalla mamma, alzò lo sguardo già colmo di lacrime sul bambino… e cominciò a piangere a pieni polmoni: una trivella a pochi centimetri dall’orecchio sarebbe stata un suono più delicato.
Dal canto suo, il provetto architetto trasalì e si schiaffò le mani sul viso con espressione di sgomento, pari a dire “Oh cielo, che ho combinato!”.
“Charlotte!” si sentì urlare dal portico dall’altra parte del giardino. La signora Sullivan si affacciò con sguardo preoccupato. “Cosa succede?”
“ROBERT!” si sentì sopraggiungere più deciso dalla zona del barbecue, il signor Pattinson. “Cosa le hai fatto?”





Cinque anni dopo…

Una ragazzina con una buffa zazzera di capelli scuri si dondolava su un’altalena in un piccolo parco giochi, al tramonto di una tiepida giornata autunnale.
Si lanciava in aria, sempre più in alto dandosi la spinta con le gambe minute e gridando di gioia ogni qual volta lo stomaco si chiudeva per l’ebbrezza del volo.
Chiuse gli occhi, ed immaginò di essere una di quelle nuvole tinte d’oro e amaranto, lassù nel cielo d’Ottobre, sospinta dalla ali del vento… e portata chissà dove, su quali terre straniere e ancora inesplorate.
“Fammi salire”. Una voce la riportò bruscamente a terra.
Aprì gli occhi castani e fissò davanti a lei un ragazzetto immobile a braccia incrociate, appoggiato contro il tronco di un albero, i capelli ramati spettinati e la bocca storta in una smorfia di disapprovazione. “Fammi salire”, ripeté.
La ragazzina non vi badò e continuò a dondolarsi.
“Ci sono salita prima io”.
“È un anno che sei là in cima. Scendi” sbuffò lui, “O lo dico alla mia mamma”.
“Lasciami in pace”
“Se non scendi ti tiro giù per i piedi”.
“Prima devi riuscire a prendermi” ribatté lei, dando spinte più forti. Il vento le fischiava fra i capelli e le solleticava il collo.
“Se ti prendo ti lego intorno all’albero”.
“Prima devi riuscire a prendermi”.
“Ho detto scendi, l’altalena non è tuaaa!” puntò i piedi il ragazzino.
“Ci sono salita prima iooo!”
Accadde così che il rosso prese la carica e si lanciò come un razzo verso la ragazzina sospesa per aria; si aggrappò con tutte le sue forze ai piedi ciondoloni dell’altra e si lasciò trascinare avanti e indietro come un sacco morto strillando come un disperato. E a lui si unirono le grida isteriche della mora che si avvinghiava alle corde dell’altalena.
“Scendiiii!”
“Lasciamiiii!”
Continuarono nel loro minuetto per oltre due minuti. Minuti in cui i jeans del ragazzino divennero una tavolozza di colori impensabili, e le mani dell’altra si sbucciarono, costringendola a rovinare a terra portandosi con se l’amichetto. Quando furono distesi, lei ricevette in testa il contraccolpo del seggiolino dell’altalena con un sonoro “TONG!”. Ovviamente pianse…
E dall’altra parte del parco, come consueta abitudine, giunse una voce che pressappoco diceva così: “ROBERT cosa le hai fatto stavolta?”





Quattro anni dopo…

Sette e mezzo del mattino. Colazione attorno al tavolo della cucina di casa Pattinson.
Robert era vestito di tutto punto con la camicia bianca immacolata stirata dalla madre il giorno prima, e il nodo della cravatta ben centrato nel colletto… Spalmava tranquillamente una manciata di marmellata di fragole su un fetta di pane tostato con insolita tranquillità. Sembrava quasi che spalmare marmellata fosse la sua unica preoccupazione, e il sorrisino calmo sul viso lo rendeva estraneo a quell’atmosfera terrena.
Appoggiò il coltello sul piatto con cura, fece per avvicinare la fetta di pane alla bocca e…
“SPLAT!”
Fu il buio per un istante. Un lunghissimo istante che al ragazzo parve un’eternità… sentiva il volto invaso e appiccicoso e la mano, ancora a mezz’aria, gli tremava violentemente.
“Ma che…” mormorò fra se, colmo di sgomento. Ma presto la consapevolezza lo raggiunse. Ingoiò l’amaro che pian piano gli era ribollito in gola e… aprì gli occhi verdi. Dapprima ciò che intravide fu solo una massa informe color rosso, le ciglia sottili incollate fra loro, mentre nelle narici sentiva sempre più l’odore dolciastro delle fragole.
Una risata repressa giunse accanto a lui.
Robert si irrigidì e quel che rimaneva del pane venne distrutto nel pugno della sua mano, come un misero granello di sabbia.
Ancora un risolino strozzato.
“Io ti uccidoooo!”

La sedia si ribaltò a terra a mezzo metro dal tavolo con un fracasso inimmaginabile.
Robert scattò come una vipera e corse dietro a quella che sembrava essere un piccolo diavoletto dai capelli corti e spettinati. Rideva come una pazza.
“Io ti prendo! Ti prendo e ti ammazzoooo!”
“Eh dai, per così poco?!” ribatté lei scansando un pugno e rifugiandosi sotto il tavolo, per poi sbucare dall’altro lato della cucina. “Sono stata un’incapace: hai ancora la camicia pulita!”
“Tu…” la puntò con un dito il ragazzo, appoggiato al bordo. “Tu… oggi non andrai a scuola… viva!”
“Minaccia?” sorrise allegra Charlotte.
“È  una promessa, perché ti uccido!”
Preso dall’ira, il ragazzo afferrò la prima cosa sulla tovaglia e la scagliò contro la giovane: ci mancò poco che la scatola del burro le spaccasse il naso.
“Che ti prende? Come mai sei così scorbutico stamattina?” lo canzonò lei, “Hai promesso a Sophie che avreste pranzato assieme? Il rosso ti dona sulle guanciotte… Sei sempre così pallido, dimmi grazie almeno!”
Un secondo. Un misero, sciocco secondo. Charlotte non fu abbastanza pronta e non bastarono i suoi grandi occhi scuri sgranati a salvarla: il barattolo dell’orzo le arrivò dritto in viso, facendo “TONG!”.
“Ah-ah-ah…” fu la risatina di vittoria dall’altro lato del tavolo. Robert la spiava seminascosto dietro il bordo con occhi traditori.
E se prima la ragazza era allegra e gonfia di vittoria, quello che ne conseguì fu il fini mondo.
Con uno strillo che non invidiava nulla ad una trivella, fece leva sull’unica sedia rimasta in piedi e si lanciò sul tavolo fra le posate e i cereali, per poi gettarsi di peso addosso al nemico che la guardava terrorizzato dal basso. Sembrava la reincarnazione della dea della guerra, coperta di orzo in polvere.

Si presero per i capelli e a pugni sul naso, se ancora non erano rotti, si tirarono le guance e, mentre Robert la prendeva per il colletto, lei lo strozzava con la cravatta.
“Chiedi scusa!”
“Mi hai picchiato con l’orzo!”
“Mi hai rifatto con la marmellata!”
“E non mi hai ancora chiesto grazieee!”
Continuarono per almeno cinque minuti, quando finalmente dall’altra stanza accorse un uomo dai capelli ramati, come quelli di Robert, con la camicia scomposta, la faccia trafelata e una mazza da baseball in mano. Non appena scorse il motivo del baccano e si accorse che non erano ladri, abbassò la mazza… alzò un sopracciglio e diede un colpo di tosse.
La magia si spezzò e i due si fermarono come colpiti da una scossa elettrica. Voltarono lentamente il capo verso la porta… sfoggiarono un sorriso sbilenco e falsa aria innocente.
“È colpa sua” aggiunse infine Char, indicando Robert, mentre ancora lo teneva stretto per la cravatta.





Tre anni dopo…

Ottobre. Il cielo era cupo e il vento soffiava forte fra le piante che costeggiavano la via di fronte a casa.
La strada era bagnata e il rumore umido che arrivava dal passaggio delle auto che scorrono, rendeva insopportabile ogni singola cosa…
Il portoncino blu di casa Sullivan era serrato e le tende alle finestre erano tirate.

Dentro il silenzio aleggiava in ogni stanza, in ogni angolo nella penombra delle lampade a luce bassa. Un silenzio pesante, un silenzio che scoppiava, scalpitava e bruciava di dolore. Un silenzio che strillava e strideva lungo il corridoio, sul tavolo della cucina… vicino ai quadri in soggiorno e dentro lo specchio nel bagno. Ovunque.
E quello stesso silenzio camminava. Strisciava sui gradini di legno della scala e sibilava mentre percorre e sorpassava le porte della varie stanze, fino a fermarsi di fronte all’ultima di colore bianco.
Due persone. Immobili, una col viso nascosto nel petto dell’altra, restavano muti accanto al muro, il volto sfigurato dall’orrore e una sola domanda negli occhi: “Perché?”
Il silenzio si attorcigliava, si arrampicava e stringeva i corpi delle due figure, facendoli gemere e soffrire ancora di più. Una sofferenza che forse non si sarebbero mai più cancellati dal cuore.

“Dov’è?”
Una voce scosse i due, mentre dalla fine delle scale comparve un ragazzo alto e magro. “Dov’è Charlotte, papà?” ripeté.
L’uomo scostò il viso dai capelli della moglie e con un lieve cenno del capo indicò la porta bianca.
“N-non p-parla”.
Il ragazzo annuì. Represse un capogiro e dovette appoggiarsi al muro.
“C-com’è successo?”
Sua madre ebbe un tremito e gemette. Fu il padre a rispondere una seconda volta: sembrava invecchiato d’improvviso di vent’anni e parlare gli costava molto più dello stesso respirare.
“Stavano tornando dalla conferenza. Quella del vecchio professore di Alice, ricordi?” domandò con occhi gonfi. Si passò una mano sulla fronte e per poco Robert credette di vederlo crollare a terra. “Hanno sbandato sull’asfalto bagnato… e… li hanno trovati contro un albero… Non c’è… stato… nulla… da fare. Io…”
Il ragazzo si avvicinò. “Va bene… basta così”. Batté la mano sulla spalla del padre e… represse le lacrime.

Non poteva piangere. Non poteva soffrire, no, non poteva farlo. Non ora che stava per entrare da lei. Ingoiò la paura e il vuoto che si allargavano a macchia d’olio nell’animo, sempre più veloci e voraci; strinse le mascelle e batté un pugno sul muro, ignorando il male.
Poi aprì la porta. E la richiuse alle sue spalle.
La luce era spenta e solo il filtrare della pioggia grigia illuminava la stanza di un colore tetro e sinistro.
Il letto era intatto. I libri impilati sulla scrivania… I vestiti abbandonati come sempre sulla sponda del piccolo divano rosso. Solo una cosa stonava in quella calma apparente: una piccola cornice riversa al suolo con il vetro infranto.
Il ragazzo si passò una mano tremante fra i capelli lunghi e spettinati e ricacciò indietro un gemito. Il respiro gli strozzava la gola e sentiva chiaramente il cuore morirgli nel petto.
Fece vagare lo sguardo lungo la stanza, scrutando ogni angolo nelle penombra, fin quando non la trovò.
“Char…” mormorò.
Era rannicchiata a terra, fra il muro della finestra e il divano; la testa nascosta fra le ginocchia ed un lieve dondolio interrotto.

Robert avanzò a passo strascicato. Oltrepassò la sedia della piccola scrivania, superò il letto e si avvicinò a lei con calma… Si inginocchiò di fronte a lei con occhi arrossati e umidi, una lacrima argentea che non era riuscito a frenare…
“C-char” la chiamò con la voce rotta.
Lei continuava a dondolarsi, a cullarsi in quel silenzio rotto in lontananza dal rombo del tuono. Non smetteva di abbandonarsi a quello stato di totale agonia, al rifiuto di alzare il capo e aprire gli occhi di fronte all’evidenza. Come un graffio che, minuto e minuto, diventava sempre più lungo, sempre più profondo fino a scavare sotto la pelle e raggiungere il cuore.
“Char” chiamò ancora lui.
E lei dondolava.
Robert non poteva sopportarlo. No. Non poteva accettare l’idea di vederla ridotta in quello stato, spettro di se stessa, ombra di un ricordo che ancora gli riecheggiava nelle orecchie e nella mente, frammento spezzato di un quadro che, fino a quel mattino, continuava a sfoggiare colori vivaci ed accecanti.
“Char, ti prego” gemette.
Allungò una mano con timore… fermandosi ad un soffio dalla sua testa. Chiuse gli occhi verde azzurro e stanchi, cercando di svuotare la testa, e senza riuscirci… le sfiorò i capelli.

L’incantesimo si ruppe.
Charlotte sollevò il capo, rivelando il suo volto.
“Oh… tesoro” mormorò Robert.
Aveva le gote rosse e sanguinanti, forse si era graffiata. Due righe spesse di lacrime scivolavano lungo il mento e sul collo, e gli occhi… i grandi occhi scuri erano dilatati e spettrali per l’orrore.
Si fissarono per un lungo istante senza dire nulla. La pioggia batteva ritmica sui vetri della finestra e i tuoni erano ormai sopra la casa.
E infine, forse per l’aver trattenuto troppo a lungo un uragano di paura che piano la dilaniava, o forse per il dolore che sempre di più realizzava concreto, la ragazza si scostò e si gettò di peso fra le braccia di Robert, stringendogli la maglietta e lasciandosi andare in uno grido terribile.
“Va tutto bene. Ci sono qui io” disse lui, stringendola forte. “Va tutto bene. Passerà… vedrai che passerà. Lo so che fa male… ma non devi lasciarti andare, non puoi. Non voglio… che muoia anche tu, resisti. Fallo per te. Fallo… per me. Io non me ne vado”.
E mentre sussurrava le ultime parole, anch’egli pianse, rimanendo con lei sino al mattino dopo.
 




Tre anni dopo…

Charlotte apparecchiava la tavola per la cena. Allineava le posate accanto ai piatti canticchiando fra se un motivetto allegro, fresco… simile ad una nenia dolce.
Si allontanò per andare verso il frigo e prendere l’insalata e gli affettati, poi aprì il forno per ritirare la pasta appena cotta… La sfilò con cura, le mani fasciate dalle pattine, e la appoggiò sui fornelli con aria soddisfatta.
“Nonna? È pronto in tavola!” chiamò servendo da bere e affrettandosi a portare il resto in tavola.
Ed era talmente indaffarata e concentrata che non si accorse dell’ombra che le scivolò dietro le spalle e, dopo averle circondato le spalle con un braccio, le schioccò un bacio sulla guancia.
“Hei! Mi fai il solletico” scivolò via lei, voltandosi e incontrando uno sguardo colmo di affetto.
“Ciao”
“Ciao. Quando sei tornato?”
“Dieci minuti fa” rispose lui con un sorriso.
“Il solito, sempre all’ultimo minuto” alzò gli occhi al cielo lei. Lo allontanò poi con un buffetto e tornò a sistemare in tavola.
Dal corridoio nel frattempo giunse una voce arrochita ma ancora vispa, seguita da dei passi leggeri e lenti, “Bambina, Robert è tornato?”
“È qui nonna” rispose Charlotte, “Siediti… adesso porto la teglia” aggiunse poi rivolta al ragazzo. E stava per dirigersi verso il piano cottura, quando si sentì afferrare per il polso e fu costretta a girarsi.
I loro volti si trovarono di nuovo l’uno di fronte all’altro, lo sguardo intenso e profondo di lui contro quello interrogativo e pensieroso di lei.
“Rob…”
“Devo dirti una cosa” sillabò quasi a fatica. Non accennava ad abbassare gli occhi azzurri.
“N-no puoi aspettare dopo cena?”
“No”.
Intercorse un nuovo attimo di silenzio, durante il quale la mano lunga ed affusolata del ragazzo restava sempre stretta attorno al polso di Charlotte.
“Ho deciso… di fare il provino”.
“Di cosa?” sospirò lei. Un nuovo lavoro. Una nuova partenza, lo sapeva già. E ancora una volta, una parte di lei sarebbe morta.
“Di quel film tratto dal libro di vampiri. Twilight…” spiegò lui, abbassando ora lo sguardo. “Lo stavi leggendo la settimana scorsa”.
Charlotte lo osservò con un sopracciglio alzato.
“Dove dovrai andare se ti prendono?”
“Non è detto che mi prendano” rispose lui, sollevando il capo.
“Dove…” ripeté ferma.
Robert sospirò afflitto, “In America… probabilmente Vancouver”.
“Ne parliamo dopo cena” fu la risposta brusca ed improvvisa. La ragazza cercò di divincolarsi, ma lui strinse ancora di più. “Mi fai male”.
“Voglio che tu venga con me”.
Lei sgranò gli occhi e sporse le labbra in un’espressione di sorpresa.
E stava giusto per rispondere, quando sua nonna entrò nella cucina con un sorriso posato sul viso e un’espressione felice: Robert non era suo nipote, ma del resto lo aveva visto correre e giocare con la piccola Charlotte sin dai primi giorni di vita… che ormai, averlo sotto lo stesso tetto, era come dichiararlo suo.
“Ragazzo, finalmente! È una settimana che non ti si vede!” esclamò.
I due si irrigidirono, la mano si scostò dal polso ed entrambi si avvicinarono alla donna come nulla fosse, mentre Charlotte ripeteva sussurrando “Ne parliamo dopo cena”.















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piccolo spazio per i ringraziamenti :)

> leghy : come ogni volta il tuo sostegno, il tuo affetto... e la tua forza mi danno una gioia ed una carica unica. beh... che gli altri possano trarre insegnamento da quello che scrivo o dico, non lo so ^_^'' ma se aiuta ad essere più sereni e credere maggiormente in una causa giusta... allora ben lieta di dare una mano. Grazie sorella, cm sempre <3
> millape : ti ringrazio davvero tanto, e anche per il paragone con la Meyer, troppo buona *_* spero che anche questo chap possa esserti piaciuto, un bacione :)
> armony_93 : tesoro. ho fatto solo quello che ritenevo giusto, ti ho detto la verità: perchè davvero, credo che dare vita ai propri sentimenti, indirizzarli verso qualcuno... non importa che sia presidente di chissà che o un medico, un mendicante o un attore (in queso caso), beh... credo sia la cosa più bella del mondo. Lui (e sto parlando del tuo lui) sarebbe raggiante se ti avesse accanto, perchè sei semplice e pura, carica di forza e amore... Coraggio, non perdere mai la speranza. D'altro canto, siamo tutte qui; lo dico io, ma lo può dire chiunque... Un bacione :)
> Lady_Malfoy : uhuuu... ciao Lady *__* ahi i brividabadibidi, hihiih... grazie per aver letto e commentato, gentilissima <3
> Railen : beh tu ringrazierai me, ma... io ringrazio te per aver speso tempo nel leggere e commentare *_* eh si, anche io a volte faccio il tuo stesso errore, che vuoi farci xD  yuuuuhuuuu!! ti intrigo, mwahahahah, chissà nei prossimi chap allora, dehihih xD beh, grazie ancora... il tuo commento mi ha resa davvero felice ;)
> Hermone : avresti pagato per cosaaaaa??? O_o se mai Patty avesse davvero assistito ad una cosa del genere, mi faceva rinchiudere in prigione, no anzi... in terapia intensiva per psicopatici xD Oh, c'mon J, sei troppo forte... Mi rendi sempre così importante, quando alle volte mi sento una gran perdente, susu... non farmi arrosssssssireeeeee *corre via rossa come un pomodoro* Bando alle ciance, grazie. Grazie davvero. So che quello che hai scritto viene dal cuore, e ti voglio bene fratellino. <3



*beth*




  
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