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Autore: Neferikare    23/01/2018    1 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Avviso: regà, non potete nemmeno immaginare l’immane quantità di disagio presente dall’inizio di questo capitolo alla parte scritta in grigio, non potete :’D

Onde evitare traumi generali (?) o paure per cosa verrà dopo, rassicuro tutti sul fatto che peggio di così a Phobos non può proprio andare, NON può raggiungere un picco del disagio peggiore di questo, non è umanamente possibile: il culmine è quello che troverete scritto qui, non verrà nulla di paragonabile a tanta follia, giuroH! :’D

Se proprio non siete avvezzi al disagio della sottoscritta, volendo potete saltare direttamente alla parte scritta in grigio chiaro anziché nero, che tanto dai discorsi si evince comunque ciò che è successo :)

Buona lettura, si spera! :’D

 

 

 

_________________________________________________________________

 

 

 

“Cosa cazzo stai aspettando?”

Eh, bella domanda: cosa cazzo stava aspettando? Un invito scritto? L’autorizzazione firmata da mamma e papà come a scuola?

Guardò il pugnale poggiato lì a terra, quasi ipnotizzato dalla lucentezza dell’acciaio che risplendeva sotto le macchie di sangue ora secco e rappreso, ora ancora fresco e dai colori vividi e brillanti: la lama lo stava chiamando, lo stava facendo da svariato tempo ormai, ma lui -codardo com’era- non si era ancora deciso a rispondere a quella chiamata.

Non si poteva dire che non provasse almeno ad alzare la cornetta, però: il coltello sul polso o sul collo o dovunque ci fosse una vena o un’arteria da recidere lo posava pure, ma ogni volta finiva per fermarsi. Non sapeva perché, non aveva idea di cosa lo trattenesse dallo spingere a fondo nelle carni quella maledetta lama fino a vederla affogare nel sangue scuro e denso, sapeva solo che -appena sulla pelle comparivano i tagli provocati dal metallo affilato che la sfiorava- gettava via tutto e si rannicchiava a piangere, e piangere, e piangere, finché la gola non gli bruciava ed il respiro si faceva affannoso.

Anche allora pregava di morire soffocato dalle sue stesse lacrime, dal muco che gli si riversava dal naso gocciolante alla gola, ma pure lì le sue speranze si infrangevano contro il suo corpo che -quasi volesse fargli uno sgarbo- si riprendeva pian piano, normalizzandosi e tornando nelle stesse condizioni in cui lo aveva lasciato poco prima dell’ennesima crisi.

Voleva farla finita, eppure non ci riusciva.

Sarebbe bastato poco, così poco, accidenti! Un taglio nel punto giusto, uno soltanto, e avrebbe raggiunto Thorax nell’aldilà prima ancora di rendersi conto di stare morendo.

Allora e solo allora, Phobos sarebbe stato un uomo libero, o almeno così la vedeva lui: nessun problema a cui pensare, nessun martellio incessante nella testa quando cercava di ricordare qualcosa del suo passato, nessun sentimento di vendetta che lo logorava incessantemente a causa della consapevolezza che -se le cose fossero andate come l’ultima volta- ciò che avrebbe ottenuto sarebbe stata solo un’umiliazione dopo l’altra. Una morte altrui dopo l’altra.

Inevitabilmente, lo sguardo gli si posò sul cadavere del leone nero davanti a sé; prese ad accarezzarlo con cautela, lentamente, come a non volerlo svegliare. Anche perché questa volta il pericolo che si svegliasse non c’era proprio.

Forse non aveva ancora metabolizzato il lutto, ma Phobos continuò a fare le carezze alla propria bestia come se nulla fosse, si comportava nello stesso modo di quando il fedele compagno gli dormiva in grembo e non voleva svegliarlo perché ora russava in modo alquanto buffo, ora sbavava muovendo le zampe come se stesse sbranando una preda, o -più semplicemente- perché adorava guardare Thorax sonnecchiargli vicino; gli piaceva la sensazione di accoglienza che emanava la sua pelliccia, a volte infilava la propria testa nella sua criniera anche solo per sentire il pelo che gli solleticava il volto, anche solo per sentire il calore di una casa, di una famiglia, di qualcuno che lo amasse.

E quel qualcuno era morto.

Per lui, fra l’altro, come se potesse valere la pena dare la vita per un soggettone quale lui stesso era! Un tale spreco avrebbe dovuto essere ritenuto illegale!

Del resto era solo un uomo buono solo a collezionare una figura di merda dopo l’altra, a mandare al macello gli altri al posto suo, ad annegare i propri dispiaceri fra una cassa di birra e uno shot di AK-47 e un numero indefinito di bottiglie di whiskey che era finite per annebbiargli la vista, la mente, l’anima: stava bene, da sbronzo, stava bene come non era mai stato. Talmente bene che i suoi occhi -anziché rivolti a quel povero leone che gli giaceva in grembo- erano già alla ricerca del prossimo alcolico da ingurgitare, della prossima botta da dare a quel suo povero fegato nella speranza di vincere quel braccio di ferro che stava protraendo col suo stesso fisico: se proprio doveva finire all’altro mondo, voleva farlo da ubriaco.

Allungò una mano verso la prima bottiglia che gli capitò a tiro, sollevandola con le mani tremanti come se fosse lo sforzo più immane che avesse mai fatto.

«Con questa» indicò l’etichetta della bevanda, una vodka Spyritus che -a detta sua- Halley doveva avergli lasciato prima di sparire dalla sua vista, forse un regalo per scusarsi «o andiamo all’altro mondo, o prendiamo fuoco. In entrambi i casi, ceneremo nell’AdeH!... o in qualsiasi buco di culo si finisca da morti, insomma» asserì bloccandosi qualche istante. Guardò il compagno «Secondo te finirò in paradiso o all’inferno, eh?»

Thorax, ovviamente, non rispose.

«Per gli dei, come sei malmostoso!» gridò seccato agitando la bottiglia aperta, schizzando vodka ovunque. Improvvisamente, iniziò a ridere come un deficiente «Ho capito, ho capito: vecchio bastardo, ne vuoi un bicchiere anche tu! Ti ho scoperto!» diede una pacca sulla spalla della bestia «Aspetta eh, ora te lo verso, abbi pazienza».

Seduto com’era, alzò il braccio fino ad incontrare i bordi del tavolo dove ricordava esserci qualche bicchierino per superalcolici. Troppo pigro per alzarsi, Phobos andò a tentoni con la mano provando ad afferrare uno di quegli shot: ci sarebbe pure riuscito, se non fosse stato ubriaco fradicio, ma la sua coordinazione degna di un bradipo fece cadere tutto a terra, o meglio, addosso.

Probabilmente l’ubriacatura anestetizzava efficacemente il dolore provato dalle schegge piantate fra i capelli, sul collo e sul volto, fatto stava che si mise a frugare tranquillamente fra i pezzi di vetro alla ricerca di un bicchiere integro come se nulla fosse.

Quando alzò la mano, questa era costellata di frammenti scintillanti insanguinati, ma di un ambito bicchierino nemmeno l’ombra.

«Al diavolo i bicchieri! Sono da fighette con le palle atrofizzate!» tuonò tirando un pugno alla gamba del tavolo con la mano ferita, visibilmente furioso.

Non solo le schegge gli penetrarono ancora più a fondo nelle carni, non solo si rese conto -continuando a ridere- di aver perso la sensibilità di un dito o due a causa dei nervi recisi, ma suddetto tavolo di legno massiccio finì pure per crollargli in testa.

Sentì qualcosa di caldo colargli dalla tempia fino al labbro. Lo leccò: sangue.

Improvvisamente, Phobos iniziò a ridere in modo folle, rumoroso, a tratti inquietante, quasi fosse inebriato dall’odore ferroso dei rivoli rosso intenso che gli scendevano dall’attaccatura dei capelli al naso fino ad insinuarsi fra gli abiti logori e strappati, dove andavano svanendo fondendosi col colore cremisi delle vesti zuppe d’alcol. Lui rideva, e rideva, e rideva ancora, e rise ancora di più quando -tastandosi la fronte- notò come un frammento di legno di modeste dimensioni si fosse conficcato su di essa; lo studiò qualche istante, poi vi versò sopra una bottiglia mezza vuota di Everclear.

Alcol di grano puro al novantacinque percento. Benzina, in pratica.

«Thorax! Thorax! Guardami, dannazione!» incitò il leone scattando in piedi, il cadavere dell’altro che rotolò giù dalle sue gambe fermandosi quando incontrò una pila di casse di birra. Ovviamente vuote. Il rosso iniziò a ballettare come se fosse in preda alle convulsioni «Guardami! Sono un fottuto unicorno! Un unicorno! Ihihihihihihihihihihi!» nitrì entusiasta, le braccia piegate a sembrare ali di una gallina.

Iniziò a razzolare tutt’intorno, chiocciando come suddetto animale; si strappò gli abiti di dosso, mostrando il marchio sul braccio che andava sempre più diramandosi sul resto del corpo.

«Alla salute, amico mio, e a nemmeno mezzo di questi giorni!» esclamò verso il leone, portandosi al contempo la vodka di prima alla bocca e mandandola giù tutto d’un fiato.

O almeno provandoci, dal momento che -complice la sbornia triste- un terzo dell’alcolico finì a terra, un altro terzo sul suo petto mischiandosi al sangue e, infine, solo un ultimo terzo gli finì in gola. Ma fu più che sufficiente, fu pure troppo.

 

Aveva perso la dignità, e poteva pure starci.

Aveva perso la ragione, e -tutto sommato- non era nulla di così grave rispetto a ciò che stava facendo ora.

Ma il rispetto per l’unica creatura che lo rispettasse a sua volta, quello, lo stava perdendo solo ora.

E la situazione era a dir poco tragica.

 

Razzolando  e sbandando, chiocciando e nitrendo, Phobos infine si avvicinò al corpo esanime di Thorax, ovviamente fermo dove l’aveva sbattuto poco prima; si chinò su di lui. Non per accarezzarlo, non per accovacciarsi fra la sua pelliccia morbida e calda, ma solo per servirsi delle sue enormi zanne per aprirsi un paio di birre, una delle quali gliela ficcò in bocca.

«Chi non beve in compagnia, o è amico di Harmonia o l’ha dato via!» brindò insieme a lui, se non fosse che -con tutta la forza che aveva messo in quel brindisi- le bottiglie finirono per impattare con violenza e spaccarsi vicendevolmente.

Iracondo, lanciò un paio di imprecazioni che avrebbero fatto impallidire qualsiasi divinità, dando un pugno sul muso della bestia. Un crack provenne da quest’ultimo, ma nemmeno lui stesso capì bene se fosse la mascella del leone ad aver ceduto o qualche altro osso della sua mano ad essere stato ulteriormente scavato dal vetro.

«Vaffanculo, cazzo! Dannato animale bavoso mangiato dalle mosche, guarda cosa mi hai fatto! Guarda, mannaggia al settebello!» imprecò premendo il palmo sul pelo nero, rendendolo appiccicoso per il sangue che sgorgava da esso. Tirò un altro paio di imprecazioni, poi gli lanciò addosso ciò che rimaneva del contenitore: gli si piantò in mezzo agli occhi, a Thorax, prendendone di striscio uno che iniziò a colare una sostanza gelatinosa.

Phobos gli rise in faccia senza ritegno, tenendosi lo stomaco dalle grasse risate che si stava facendo ad umiliarlo da morto.

«Ben ti sta! Così impari a metterti contro il boss, cazzo! Non si fotte l’unicorno!» gridò, mettendosi in quella che doveva sembrare una posa epica da stallone-che-monta-il-mondo ma che, in fin dei conti, era qualcosa di più simile ad un My Little Pony con una brutta ulcera perforante allo stomaco.

Trotterellando a zig zag, arrivò finalmente ad un armadio rovesciato a terra: lo aprì. Rum e cola alla mano, si rovesciò direttamente le bottiglie semi vuote in bocca, mettendosi a fare i gargarismi mentre frugava pazientemente nel sacco della spazzatura.

«Bingo!» gridò entusiasta, sollevando in aria un lime già spremuto e coperto di muffa.

Violando una serie non meglio definita di norme igieniche, rischiando di prendersi svariate delle malattie elencate nella lista dei rischi derivati dal consumo di alimenti marci in decomposizione, andando contro ogni singola punta di ragione umana che poteva essergli rimasta nel suo delirio alcolico, Phobos se lo ficcò in bocca. Iniziò a masticarlo per far uscire il succo rimasto in quel pezzo di lime secco e macerato, assumendo un’espressione alquanto goduriosa -letteralmente, perché dalla macchia sull’inguine pareva essere davvero venuto- nel farlo.

Voleva un Cuba Libre? Aveva avuto un Cuba Libre.

Mandò giù tutto in un colpo solo, sospirando e facendo schioccare la lingua sul palato quando lo finì come apprezzamento.

Restò qualche minuto a fissarsi i piedi, dondolando, come se stesse tentando di mettere a fuoco la terra sotto di sé che ora sentiva mancargli; si chinò, tastandosi le gambe dai polpacci, al ginocchio, alla coscia, risalendo poi sul torso nudo finendo a toccarsi il volto lercio e maleodorante.

Lo esplorò a lungo, sembrava che avesse improvvisamente dimenticato la sua stessa fisionomia e avesse bisogno di riconoscersi, le dita insanguinate che scorrevano sulla pelle butterata dalle ferite lasciando dietro di sé scie rossastre dal sapore metallico; insistette per diverso tempo, prendendo poi un pezzo di vetro nel quale si specchiò. Sorrise.

Silenzioso, Phobos si accasciò nuovamente vicino al leone nero, portando con sé una vecchia radio che -dopo qualche tentativo- si convinse a funzionare. Giocherellò un po’ con i pulsanti per trovare una stazione che trasmettesse qualcosa che gli piacesse, ma -vedendo che quell’aggeggio infernale non collaborava- abbandonò presto la ricerca.

Si frugò nella tasca, tirandone fuori due sigari mangiucchiati; se ne mise in bocca uno, l’altro lo diede a Thorax. Li accese.

Lasciò cadere la testa all’indietro, socchiudendo gli occhi: che il fato scegliesse per lui.

 

“Nightfall covers me, but you know the plans I'm making

Still overseas, could it be the whole Earth opening wide

A sacred why, a mystery gaping inside

A week is why, until we dance into the fire!”

 

«Ottima scelta», sussurrò, facendo il segno di “ok” rivolto alla Luna che si specchiava nei frammenti colorati ai suoi piedi.

Inspirò profondamente una, due, tre, cinque, dieci volte, finché non avvertì chiaramente l’odore pungente del tabacco riempirgli i polmoni e le narici di fumo scuro e denso, finché non consumò tutto il sigaro. Se lo spense sul palmo, incurante del dolore.

«Quello lo fumi?» domandò alla bestia indicando il suo, di sigaro. Attese qualche istante, poi fece spallucce ridendo «Chi tace acconsente, vecchio mio, per cui» glielo tirò fuori dalla bocca avvicinandolo alla propria, la cenere che gli cadeva sul petto bagnato dall’alcol e dal sangue e dalla schiuma rosea che gli colava ai lati della bocca.

Si pulì con un braccio, compiaciuto.

«Imminente coma etilico, intossicazione cronica da etanolo, reni e fegato al collasso: sto una meraviglia, insomma» rise forte, sempre più forte, fino a che tante risate non gli contrassero il volto in una smorfia divertita e impaurita allo stesso tempo.

Quell’espressione aveva del grottesco, vista in quel preciso contesto da far accapponare la pelle: Phobos mezzo nudo che trasudava letteralmente alcol da tutti i pori, Thorax zuppo quanto il padrone per le birre spaccategli in testa, gli abiti fradici abbandonati sulle macerie anch’esse bagnate dalle bevande rovesciate o vomitate in due giorni di bevute selvagge, persino il suolo si era impregnato talmente tanto degli alcolici da puzzare quanto quest’ultimi.

Eppure lui rideva, e rideva, e rideva ancora, e intanto piangeva, e piangeva, piangeva come non aveva mai pianto in vita propria: non sapeva il perché, ma lo faceva stare meglio.

La radio smise di funzionare qualche istante e lo interruppe, ma non fu nulla che un colpetto non potesse risolvere.

 

“A chance to find a phoenix for the flame

A chance to die but can we dance into the fire!”

 

Si tolse il sigaro dalle labbra, osservando come ipnotizzato la parte del tabacco che ancora bruciava, gli occhi oro opaco ora ravvivati da quel luccichio arancio-giallastro.

Era sempre stato affascinato dalla danza delle fiamme, dal modo in cui si contorcevano come bestie feroci in quella lotta fatta di scintille e lapilli e calore intenso, poteva dire di trovare quasi eccitante il modo in cui il fuoco consumava ogni cosa sul suo cammino lasciandosi dietro una scia di sangue e morte e distruzione. Ogni cosa, e ogni persona.

Si leccò le labbra, il gusto pungente dell’alcol puro che gli fece pizzicare da lingua da quant’era forte: Spyritus ed Everclear, un connubio perfetto. Per morire, si intende.

Gettò il mozzicone acceso per terra. E allora fu l’inferno.

 

“Dance into the fire,

that fatal kiss is all we need!

Dance into the fire

to fatal sounds of broken dreams!

 

Era uno spettacolo a dir poco meraviglioso: le macchie scure sul terreno che improvvisamente si tramutavano in un caldo tappeto di fuoco dalle curiose sfumature azzurrognole e verdastre, i vapori dell’etanolo che bruciavano accendendo l’aria in un effetto domino sempre crescente, sempre più vasto, sempre più fuori controllo, fino a formare un vero e proprio muro che s’innalzava fino al cielo e oltre.

E lui lì, appoggiato a delle scatole vuote ed al cadavere del suo leone coperto di larve di mosca che già lo stavano mangiando, che attendeva di diventare parte del combustile che avrebbe alimentato suddetto magnificente e poetico spettacolo naturale chiamato “incendio”.

Che poesia, che scena, che pomposità!

 

“Dance into the fire

that fatal kiss is all we need!

Dance into the fire

when all we see is the view to a kill!”

 

Quando le fiamme iniziarono a ghermirgli le gambe divorandogli la pelle e scavandogli le carni, Phobos sorrise con tutta la serenità del mondo; non urlò, non emise nessun suono, nessun lamento, molto semplicemente si strinse a Thorax, accarezzandolo.

«L’amore è uno schifo», gli disse ridendo.

La radio fu l’ultima cosa a bruciare.

 

 

 

«Hai combinato un bel casino».

Si svegliò di colpo, guardandosi intorno: nero, era tutto nero, nemmeno uno sprazzo di luce in tutto quel paesaggio sconfinato.

Guardò in basso, notando come il pavimento -o qualsiasi cosa fosse- su cui se ne stava paresse acqua, a giudicare dai cerchi concentrici che si diramavano dai suoi piedi quando si dondolava per bilanciarsi. Phobos girò e rigirò su se stesso a lungo, talmente a lungo che la testa finì per girare insieme a lui, ahimè senza risultato: non aveva idea di dove si trovasse, non sapeva a chi appartenesse la voce sentita poco prima di svegliarsi, a dirla tutta non ricordava nemmeno cosa stesse facendo prima di… prima di fare qualsiasi cosa che stesse facendo ora, insomma.

Avvertì un certo bruciore e calore su tutto il corpo, ma non riuscì a spiegarsi da cosa dipendesse; ci provò pure, a fare mente locale degli ultimi minuti prima di svegliarsi, ma nella sua mente c’era solo e soltanto un vuoto più vuoto di quel posto: nessun riferimento spazio-temporale, nessun ricordo, niente di niente.

“Forse sto solo sognando”, pensò, e in effetti poteva pure essere una spiegazione piuttosto plausibile.

«Benvenuto, bellezza, ti stavo aspettando».

“Questo però non me lo sono sognato”, rettificò poco dopo, sentendo molto chiaramente la voce di poco prima dietro le sue spalle.

Col cazzo che si sarebbe girato, col cazzo! Aveva visto abbastanza film horror per sapere che, facendolo, poi l’assassino di turno lo avrebbe sgozzato come un agnello il giorno di Pasqua, cascarci nella realtà sarebbe stato un insulto alla sua stessa intelligenza! Decise allora di seguire quell’istinto, preferendo chiudere gli occhi e contare fino a dieci, venti, anche cento se fosse stato necessario.

Contando e contando, infine si girò: non c’era nessuno.

Tirò un profondo sospiro di sollievo: suggestione, nulla di più.

Calmatosi almeno sul fatto che fosse solo lì dentro, girò i tacchi e si avviò per tornare indietro… o avanti, o dovunque stesse per andare senza un minimo di orientamento; improvvisamente, però, sbatté contro qualcosa.

O meglio, qualcuno.

A fargli da muro, c’era un uomo alto dall’aspetto androgino con la pelle bianca e diafana, che lo sovrastava non di poco troneggiando su di lui con quella sua cascata di capelli più neri del luogo in cui galleggiavano, percorsi qua e là da un curioso luccichio biancastro ora fisso, ora intermittente, come piccole stelle che rischiavano quella distesa di buio pesto che era il cielo notturno. Sulla sua schiena svettavano un paio di grandi ali, le piume nerastro-violacee simili a vetro percorse da rune fucsia acceso.

Phobos sentì uno strano brivido percorrerlo, la saliva che faticava a scendergli giù per la gola: non sapeva il perché di quel giudizio, ma da uomo eterosessuale qual era lo trovava quasi… affascinante? Era quello il termine giusto?

Va bene che lo aveva mezzo scambiato per una donna, eyeliner e rossetto potevano facilmente trarre in inganno, ma non riusciva a spiegarsi come potesse aver avuto anche il minimo dubbio di poter trovare sensuale qualcuno che indossava un completo di pelle e cuoio - in perfetto stile stereotipo cinematografico da gay bar del secolo scorso- e borchie, con tanto di cinghie che formavano un pentacolo sul petto fra l’altro!

Assorto com’era nei suoi pensieri, non si accorse della mani che si misero a palpeggiarlo letteralmente ovunque, come a studiarlo.

«Di persona sei pure meglio di quanto credessi l’ultima volta, a dirla tutta potrei pure farci un pensierino» rifletté ad alta voce l’uomo, ammiccante. «Ad Apophis però non lo diciamo, che se inizia a fare il geloso chi lo sopporta? Io no di certo, preferisco metterlo a tacere infilandogli il mio cazzo in gola, per cui eventualmente toccherà a te farlo… anche se la vedo dura, dal momento che lui è lassù» indicò quello che doveva essere il soffitto di quel luogo, dove una luce bianca iniziò a brillare, formando qualcosa di molto simile alla Luna «e tu quaggiù» indicò il pavimento.

Phobos trasalì: Apophis… quel nome non gli era affatto nuovo, sentiva di conoscerlo, sapeva di conoscerlo, gli suonava così tremendamente familiare!

Una parte di sé era convinta al cento percento di averlo già sentito, un’altra invece era convinta che probabilmente quello era solo l’ennesimo di tanti, troppi, nomi che gli vagavano nella mente senza meta, senza destinazione, senza un volto a loro assegnato.

«Come sarebbe a dire “l’ultima volta”?» domandò infine, facendosi coraggio.

L’altro lo guardò qualche istante, confuso esattamente come lo era lui.

«Oh, è vero! Me ne stavo quasi scordando!» esordì poco dopo dandosi una pacca sulla fronte, come se avesse improvvisamente avuto un’illuminazione. «Devi scusarmi, zuccherino, mi ero completamente dimenticato del lavoro della Barbie Platinata col tuo povero cervello: ovvio che non ti ricordi di me, non ti ricordi di un bel cazzo di niente! Eheh!» rise, una risata talmente affilata che a Phobos parve quasi di sentirla lacerargli le carni.

Gli afferrò il mento, le unghie affilate che lasciavano profondi segni rossi sulla pelle pallida.

«Ma ora c’è qui lo zio Endy a darti una mano, contento?»

«Lo zio En-»

Una fitta lancinante gli attraversò la testa da una parte all’altra, lasciandolo senza fiato.

Anche questa volta, a Phobos parve di aver già provato quel dolore, di aver già vissuto quella spiacevole sensazione di sentire migliaia di coltelli che gli si conficcavano all’unisono nella materia cerebrale riducendola in zuppa, di essere familiare a quella sofferenza. Eppure… eppure…

Eppure ora si ricordava fin troppo bene che ad infliggerglielo era stato Apophis, la prima volta in cui gli aveva fatto visita nella sua testa.

L’altro lo guardò, soddisfatto e alquanto compiaciuto.

«Come ho detto, lo zio Endy pensa a te» gli disse languido applaudendosi da solo, poi agitò le mani davanti a sé «non ringraziarmi, ti prego, ho solo fatto il mio dovere di divinità fastidiosa e bastarda fin dentro il midollo: è sempre un immenso piacere fare uno sgarbo a qualcuno, del resto sono io dio proprio di questo genere di cosucce da umorismo spiccio» rise.

«C-cosa m-mi… m-mi… hai f-fa-fatto?» balbettò il rosso da terra, tentando inutilmente di rimettersi in piedi a causa della testa che ancora gli martellava

Il suo interlocutore gli si avvicinò.

«Barbie ti priva della memoria, io te la restituisco» spiegò brevemente. Gli tese una delle ali per aiutarlo a rialzarsi «O almeno, io annullo i suoi patetici incantesimi da dilettante qual è: vanta chissà quanta esperienza con la magia, si proclama come “l’unico Lunanoff degno di sedere sul trono del Palazzo della Creazione”, ma la verità è che non riesce nemmeno a farsi una tinta come si deve. Sapevi che è biondo platino tinto, eh? Al naturale è castano, lui! Chiaro, certo, ma castano non è biondo platino, eh!» gli sussurrò all’orecchio quasi stesse confessando chissà quale segreto.

Phobos si mise sulle proprie gambe, aspettando a lasciare la presa salda di quelle piume -incredibilmente dure e affilate, aveva notato- finché gli arti non smisero di tremare per lo sforzo al quale si era appena sottoposto.

Gettò uno sguardo verso il proprietario di suddette piume: quella voce… quella voce era la stessa che aveva sentito quando aveva tentato di attaccare Apophis, la stessa identica voce di allora!

Allora si era detto che probabilmente era un suo alleato, ma adesso trovava alquanto improbabile che un suo collaboratore si mettesse a riparare ai suoi danni; la memoria gli era tornata, avrebbe dovuto essere contento, ma non ci riusciva nemmeno se si concentrava: c’era sotto qualcosa, ma non aveva idea di cosa fosse.

«Non guardarmi così, avanti!» lo canzonò l’altro alzando le mani in segno di resa, notando come Phobos lo stesse fissando insistentemente. «Lo so, lo so, Barbie ha i capelli troppo morbidi per pensare che siano opera di ore e ore e ore di lotta in bagno contro il decolorante e la tinta che pare avere vita propria da quanto si sparge ovunque, ma questi poveri occhi» se li indicò, due macchie nere nelle quali facevano capolino un paio di iridi e pupille bianco argenteo ciascuna «hanno visto cose che voi moscerini non potete nemmeno immaginare. Tipo Apophis quando si fa la maschera con-»

«Chi diavolo sei?» lo interruppe Phobos.

L’uomo sorrise.

«Endless Sorrow» disse con un inchino «dio delle disgrazie e della sventura, mietitore di speranze e sogni, flagello di mortali e immortali, macellaio di divinità, nonché quello che si sbatte Apophis Nightcrawler alias La Barbie Platinata. Non sono di queste parti, diciamo che mi trovo in questo universo in villeggiatura: troppe grane, da me, troppe principesse del giorno e della notte e dell’amicizia e dell’ammmore e di stocazzo. Ero stressato e avevo bisogno di una pausa, per cui» allargò le braccia, aprendo al contempo le ali «eccomi qui».

Gli si avvicinò, guardandolo dall’alto in basso «Mentre tuuuuu…»

«Io sono-»

«Phobos. Capelli rossi, occhi dorati, seimila anni, principe dei Chronalion e ultimo di essi, amante dell’allora principessa degli Starequus, Harmonia, unica sopravvissuta della sua razza nonché Regina di Phantasia e del pianeta Exodus. Siete diventati coppia fissa, millenni fa, ma la vostra storia è tragicamente finita settecento anni or sono per colpa di Barbie. Nonostante il modo completamente differente col quale avete affrontato la situazione -uno schizzato e schiavo di Apophis, l’altra disperata ma che ha comunque trovato la serenità con una naga ninfomane ermafrodita- vivete entrambi consumati dal senso di colpa: tu per non averle detto che non era colpa sua, lei per non essere riuscita a dirti addio».

I segni sulle sue ali presero a brillare, poi Endless schioccò le dita: comparvero un tavolo imbandito e due sedie, su una delle quali prese posto lui.

«Questo lo so, tesoro mio, dimmi qualcosa di nuovo».

 

Dire che Phobos si era improvvisamente tramutato in una statua di marmo non avrebbe reso sufficientemente bene l’idea di quanto fosse sconvolta l’espressione dipintasi sul suo volto.

“Endless Sorrow, dolore eterno: un nome, una garanzia”, fu tutto ciò che riuscì a pensare nel mentre che il suo cervello si riduceva in pappa, in poltiglia, in un liquido denso che -se ondeggiava leggermente la testa- gli pareva di sentire scivolare da una parte all’altra della sua scatola cranica ora vuota, dal momento che tutto ciò che conteneva si era volatilizzato sentendo le parole del dio che aveva davanti.

Chronalion… da quanto tempo non sentiva pronunciare quella parola da qualcuno? Secoli? Millenni, forse? No era prima, molto prima, proprio quando… quando… no, no, no!

Si era ripromesso di non sollevare mai più quel velo pietoso che -seimila anni fa- aveva steso su quell’argomento, sulla sua vita prima che tornasse indietro, prima che diventasse il partner della Regina di Phantasia, e non intendeva scoprirlo proprio ora solo perché qualcuno dava a vedere di saperne su di lui più di quanto ne sapesse lui stesso: ci sono porte che non vanno aperte, libri che non vanno letti, vasi di Pandora che non devono essere scoperchiati, e per quel capitolo della sua esistenza valeva la stessa cosa.

E sarebbe valsa sempre.

 

Mostrarsi calmo, però, non fu così semplice; anche se il rosso riusciva a nascondere bene il volto contratto dallo stupore, le sue mani tremanti e la sudorazione elevata lo tradivano.

«Come fai a- a-»

«Potrei essermi permesso di dare una sbirciatina ai tuoi ricordi, prima che tu ti suicidassi» lo anticipò il dio mettendosi un tovagliolo al collo «roba interessante, devo ammetterlo, se non avessi finito le orecchie d’infante fritte con salsa Worcester sarei ancora qui a godermi lo spettacolo. Ma purtroppo-»

«Suicidato?» ripeté Phobos, tanto basito quanto incredulo.

Endless Sorrow lo invitò a sedersi.

«Suicidato, sì. Eri disperato per la morte del tuo amico leone, di Thorax, così ti sei spaccato ammerda di alcol -e droga, quelle canne prima dei sigari le ho viste eh!- finché non sei completamente partito di zucca» si avvicinò il dito alla tempia, muovendolo in cerchio per indicargli come avesse perso qualche rotella. «Ti sei dato fuoco, alla fine: scenografico, non lo metto in dubbio, ma ho visto talmente tanti roghi che non mi è poi sembrato chissà cosa di così spettacolare, a dirla tutta» concluse.

«Mi avrai scambiato con qualcun altro, allora» lo interruppe sedendosi «perché da quel che ricordo io non mi sono mai suicidato né ho mai pensato di farlo, tantomeno ho motivi per averlo fatto o volerlo fare» “tranne l’essere intrappolato nel mio stesso subconscio”, avrebbe voluto aggiungere, ma tacque. «Hai qualche prova in merito, magari?»

«Oh, ovviamente» rispose l’uomo alato, sorridendo.

Allungò una mano verso il nulla che li circondava, sfiorandolo con l’unghia dell’indice come se volesse graffiarlo; contro ogni aspettativa, uno squarcio rosa acceso e violaceo si aprì in quel tessuto nero come la pece, che iniziò a sanguinare una serie di piccole sfere multicolore.

Il dio ne prese una fra le dita, studiandola e gettandola nel bicchiere davanti a sé: immediatamente, dinanzi a Phobos si palesò una sorta di macchia i cui contorni andarono allargandosi pian piano, delineandosi in qualcosa che somigliava molto ad uno schermo. Endless Sorrow gli fece segno di guardare, e così fece: le forme indistinte si delinearono poco alla volta, acquisendo finalmente un aspetto e un volto.

Il suo, per essere precisi.

«Sono… morto...?» mormorò il rosso, con un tono che aveva dell’’interrogativo. Probabilmente aveva bisogno che qualcuno lo svegliasse da quell’incubo, ma non accadde: più guardava il suo corpo carbonizzato, più il ricordo di ciò che aveva fatto riaffiorava nella sua mente stanca e dilaniata da mille dubbi, da mille paure, da mille torture che stava subendo da sette secoli a quella parte.

L’altro sospirò, quasi annoiato.

«Nah, non puoi morire».

«C-cosa?»

Endless si portò un boccone di quello che pareva essere curry alla bocca, masticando lentamente prima di rispondere. Lo mando giù, leccandosi le labbra dopo averlo fatto.

«Quello che ho detto. Non puoi morire, pasticcino dolcino che non sei altro. Non finché servi a Barbie, almeno. Avanti, mangia».

«Ma io vorrei sapere-»

«Saprai, ma intanto mangia, che ti vedo sciupato. Sarebbe un peccato sprecare tutto questo cibo gustandolo freddo, non è mica come la vendetta» rise il dio indicandogli il piatto «e anche quella va consumata subito, parola di chi ha atteso e si è trovato imprigionato come il più patetico degli dei brutti e cattivi. Anzi, solo cattivi: sono fottutamente fa-vo-lo-so, non credi?»

Non sapendo cos’altro dire, Phobos annuì.

Guardò il proprio piatto, indeciso sul da farsi: non aveva nessuna voglia di mangiare, ma non poteva nemmeno rifiutare un invito da parte del dio delle disgrazie e della sventura; non lo conosceva e non aveva idea di cosa potesse fargli, ma preferiva non scoprirlo.

Con uno sforzo immane, dunque, si portò la forchetta alla bocca. Appena il cibo gli sfiorò la lingua, alzò di scatto la testa, come se fosse stato svegliato all’improvviso.

«Piace il curry di zio Endy, uh?» domandò l’altro, intanto che metteva nel piatto quelli che sembravano crostini dorati bruciacchiati.

«È… È… è assolutamente delizioso. Delizioso» rispose lui, sconcertato. Non credeva di starlo dicendo per davvero, il rosso, ma non aveva altre parole per descrivere la tempesta di sapori che stava imperversando sul suo palato: quel piatto era semplicemente una delizia, una primizia come mai ne aveva provate in vita sua! Di fronte a tanto gusto, persino il suo suicidio non sembrava più così importante.

Ne mangiò un altro boccone, poi un altro ancora, fino a quasi svuotare il piatto, prima di continuare.

«Non credo di aver mai mangiato qualcosa di sublime come questo» lo indicò con la forchetta, emozionato «dico davvero: è speziato ma non eccessivamente, si riescono a sentire tutti i sapori senza che uno sovrasti l’altro, persino la marcata nota piccante non disturba né intorpidisce la lingua dopo averla avvertita, per cui si riesce davvero a gustare fino in fondo. I miei complimenti, sono serio!»

Il dio arrossì, facendo qualche moina da ragazzetta timida nel mentre.

«Troppo gentile, troppo gentile» lo ringraziò. Gonfiò le ali, orgoglioso «Vedi, il segreto sta nella placenta: bisogna lasciarla seccare al Sole a lungo, ma mi raccomando! Deve essere ancora attaccata alla madre, che altrimenti perde sapore e il piatto risulta sciapo! E se proprio vuoi fare il signore, allora ci aggiungi qualche pezzetto di feto umano appena strappato dal ventre della sua genitrice: amo soprattutto le manine» sollevò col cucchiaio i presunti crostini «sono una vera e propria benedizione per il palato, queste. Le loro ossicine  fanno “crick crock” sotto i denti che è una favola, scrocchiano che è un piacere!»

«WAT» esclamò l’altro, ingoiando l’ultimo boccone.

E pentendosene subito dopo, quando sentì quel rumore di ossicina molli rotte sotto un molare: non poteva essere vero, non dovev… lo era, a giudicare dal minuscolo piede che aveva sulla lingua.

Sconvolto, schifato e pure un po’ impaurito, Phobos si gettò immediatamente sulla caraffa che aveva davanti, svuotandola tutta d’un fiato: aveva appena mangiato dei feti, dei fottutissimi feti umani! Quello era cannibalismo, per gli dei!

«Acqua! Dammi altra acqua! SUBITO!» gridò quando la terminò.

Endless lo accontentò subito, facendone comparire un’altra; solo dopo aver bevuto qualcosa come quattro o cinque litri d’acqua, finalmente il rosso alzò la testa, visibilmente confuso: c’era qualcosa di strano in quell’acqua, una strana sfumatura rossiccia che però non sapeva di vino, e nemmeno di… oh no.

«… Non era acqua, vero?» rifletté ad alta voce dopo qualche istante, inorridito.

La divinità rise senza ritegno alcuno.

«Liquido amniotico».

«Ma che cazzo di problemi hai?!!» tuonò Phobos, intento a ficcarsi due dita in gola nel tentativo di vomitare.

«Mi piacciono i bambini. Letteralmente» rispose Sorrow facendo spallucce, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ho solo gusti particolari, quante storie! Vedo una donna, la scopo o la stupro a seconda dei casi -perché qualche povera disperata che me la dà volontariamente c’è pure, cosa credi?-, la ingravido, la sventro per mangiargli il figlio: non è difficile da capire, è solo un gusto differente dal tuo!» spiegò, mostrandosi quasi offeso. «Non hai mai conosciuto nessuno a cui piacessero gli insetti? Ecco, vedila in questo modo: sono strano, tutto qui».

«E mangi i neonati!»

«I feti, prego» precisò «sono più gustosi dei neonati, meno acquosi e meno pieni di grasso. Ho anche io una certa linea da mantenere, cosa credi?»

«Credo che tu sia un fottuto pazzo. Divino, certo, ma pazzo.»

L’altro stava per rispondere, ma si limitò a far comparire l’ennesimo piatto davanti al naso di un Phobos particolarmente iracondo. Il rosso sollevò il coperchio, rivelando un plumcake ai mirtilli ancora caldo sul quale si stava sciogliendo una porzione di gelato al fiordilatte, con topping di caramello e cioccolato bianco.

Lo guardò sospettoso qualche istante, punzecchiandolo con la forchetta, non fosse mai che ci avrebbe trovato dentro un dente da latte.

«È un plumcake?» domandò.

«È un plumcake. Un normalissimo, comunissimo, buonissimo, plumcake» rispose il dio, con tanto di bavetta alla bocca, sembrava glielo stesse mangiando con gli occhi!

«… Niente feti, qui dentro?»

Endless lo guardò orripilato, quasi avesse bestemmiato in chiesa.

«Sono il mio piatto preferito in assoluto, i plumcake, non mi azzarderei mai ad inquinarli con pezzi di corpo di quegli schifosi mortali, mai e poi mai! Piuttosto mi strapperei una piuma dopo l’altra, mi taglierei i capelli, uscirei di casa senza l’eyeliner, ma mai, MAI, permetterei a dei luridi e lerci ningen di rovinare tanta perfezione! MAAAAAAAAAI!!!».

«Parli come Zamasu, cristo» commentò Phobos sprezzante, scuotendo la testa.

«Zamasu non aveva il mio fascino, ti prego, vuoi mettere il sottoscritto» fece scivolare le mani dal collo fino ai fianchi, in un modo che doveva sembrare provocante ma che -a conti fatti- aveva più dell’inquietante «con quell’omuncolo verde? Non c’è paragone, avanti».

«Ma mi sembri ugualmente interessato ai mortali, sbaglio?»

«Sbagli, sì» rispose secco.

Si versò da bere, temporeggiando prima di continuare.

«A me non interessa niente di nessuno: sono una divinità capricciosa, vogliosa e pigra, tremendamente pigra, motivo per cui me ne sbatto il cazzo di tutto e tutti. Voglio solo divertirmi, in quest’universo, e con “divertirmi” intendo guardare esseri inferiori a me che si fanno la guerra, che muoiono dopo dolori indicibili, che schiavizzano altri esseri, che si dannano l’anima per trovare una via d’uscita quando questa non c’è, che si nutrono come parassiti di ciò che ho precedentemente elencato: sono un dio, Phobos, un dio crudele, e questo è il modo in cui mi diverto» disse sorridendo tranquillo.

Poggiò i gomiti sul tavolo «Oltre a scopare, si intende, metterlo nel culo a Barbie è un’altra mia grande passion-»

«Più grande del venire qui a uccidermi senza che lui lo sappia?» intervenne il rosso. Si alzò un po’ dalla sedia, sporgendosi verso il dio «Perché sei qui?»

«Per ciò che ho appena detto: divertimento. Quello lo mangi?» chiese indicando il plumcake.

L’altro avrebbe voluto mettergli le mani al collo, ma si trattenne.

«Ti ho fatto una domanda» afferrò il dolcetto «perché sei qui? Vuoi uccidermi?»

«Mi hai fatto una domanda, e intendo rispondere» asserì il dio, piantandogli le quattro pupille argentee addosso «ma prima voglio quello» di nuovo, indicò ciò che teneva in mano l’altro, ormai visibilmente irritato.

«È la mia mente, questa, detto io le regole. E io dico che-»

«Che devi darmi il mio plumcake. Subito» gli intimò. Si fece improvvisamente cupo «Lo voglio, e ora tu me lo-»

Ci fu solo un breve sospiro causato dal soffice impasto che si ammosciava, quando Phobos strinse con forza le dita intorno al dolcetto, rendendolo una poltiglia molliccia e appiccicosa dai colori non meglio definiti; lo lasciò cadere a terra con un sonoro “splat” quanto toccò il suolo, le briciole che si sparsero tutt’intorno come gocce di sangue: pareva una scena del crimine, a vedere quel povero plumcake spiaccicato al suolo, un delizioso cadavere dolce e glassato che giaceva inerme circondato dalle interiora fatte di mirtilli ormai marmellata.

«No».

 

Se ci fosse stato un colore più scuro del nero, allora sarebbe stato quello perfetto per descrivere il tono che pareva aver assunto quel luogo in concomitanza col rifiuto del rosso all’insistente richiesta del dio.

Quando lo sguardo accusatorio di Endless Sorrow si riversò su di lui, l’altro uomo sentì lo stomaco farsi piccolo piccolo e il cuore perdere un battito, forse due, forse pure qualcuno di più: aveva sfidato una divinità, e si stava rendendo conto della gravità della cosa solo adesso. Ma non avrebbe ceduto, certo che no: voleva risposte, e le risposte sarebbero ciò che avrebbe avuto; divino o no, finché se ne stava nel suo subconscio avrebbe rispettato le sue regole.

Che sul piano teorico funzionava pure, ma su quello pratico… meh.

Tutto d’un tratto, sentì qualcosa muoversi sotto la mano che teneva sul tavolino; guardò in basso: tavolo e sedie si stavano sciogliendo.

Letteralmente.

 

Si scostò subito, spaventato che il suo arto potesse fare la stessa ingloriosa fine; messosi al sicuro dal rischio di liquefarsi, il rosso osservò come tutto il resto si fosse ridotto ad una macchia deforme stesa tristemente a terra, una sostanza viscosa che scoppiettava quando le bolle sulla sua superficie si gonfiavano eccessivamente.

Restò lì qualche istante, poi venne come assorbita dal pavimento, o da qualsiasi cosa fosse quella su cui si trovavano. Intanto, Endless continuava a starsene seduto nel vuoto senza sforzo alcuno, sospeso a mezz’aria nonostante la sua sedia fosse sparita.

«La mia specialità sono le maledizioni» asserì dopo un po’ con tono grave, tenendo il capo chino. Le rune sulle ali iniziarono ad emanare uno strano fumo fucsia acceso, iniziando a brillare «Di solito scelgo qualcuno, e semplicemente lo maledico: semplice ed efficace, perfetto per un dio pigro come me. Sai qual è la cosa peggiore di una mia maledizione?» domandò.

L’altro scosse la testa.

«Che si trasmette di generazione in generazione, di padre in figlio in nipote e così via, continuando a tormentare il malcapitato e la sua stirpe in eterno senza mai fermarsi, semplicemente perché non c’è incantesimo mortale o immortale che possa fermarla. Ho spazzato via generazioni di divinità, così, e ammetto di essere fortemente tentato di farlo anche con te».

Seguì una lunga pausa, durante la quale il dio parve seriamente intenzionato a maledire pure lui, a giudicare dallo sguardo truce che aveva assunto.

«Ma sarebbe inutile, dal momento che tu una stirpe non ce l’hai e mai l’avrai, considerando la tua posizione». Allargò le braccia, come a indicare la vastità della mente dell’altro «Guardati, Phobos, guardati e stai in silenzio: solo, bloccato nel tuo stesso cervello, schiavo di un mostro come Apophis che ti sfrutta come il suo personale burattino, impossibilitato a comunicare col mondo esterno e costretto a vivere con consapevolezza di non poter mettere fine a questa tortura, di non poterti opporre quando Barbie ti ordina di attaccare ed uccidere Harmonia».

Lo guardò come a studiarlo, sorridendo e corrugando la fronte nel mentre.

«Non potrei fare di peggio, sono sincero, del resto cosa c’è di peggiore del non poter avere il controllo sulla propria vita? Di sapere che è una persona a te completamente estranea a controllarla e plasmarla a suo piacere? A decidere persino su come e quando tu debba mettere fine ad essa?» domandò.

Il rosso non rispose, limitandosi a stringere i pugni finché non sentì le nocche indolenzirsi, le unghie scavare nella pelle, il sangue colare piano fra le dita insinuandosi fra di esse.

Capendo di aver centrato il punto, Endless Sorrow si fece comparire in mano un plumcake identico a quello che l’altro aveva gettato a terra; gli diede un morso generoso, gustandoselo a dovere prima di continuare.

«Volevi una risposta? Bene, io te la darò. Puoi tentare il suicidio finché vuoi, puoi anche riuscirci come hai già fatto dandoti fuoco, ma sarà tutto completamente inutile: tornerai in vita sempre e comunque, e quando dico “sempre” intendo proprio “sempre”, in eterno».

«Perché?»

«Perché servi ad Apophis, ecco perché» spiegò, intanto che era intento a scavare nell’impasto per cercare i mirtilli e mangiarli.

Ne prese uno fra le dita, girandolo e rigirandolo; infine, si decise a ingoiarlo.

«Esiliato nel lato oscuro della Luna da incantesimi antichi quanto l’universo, ingabbiato come un animale da una barriera retta da magie che vanno oltre l’immortale comprensione, troppo accecato dai demoni che si porta dentro per organizzare le idee abbastanza lucidamente da pensare a ciò che ti fa fare, la Barbie Platinata non può certo portare a termine con le proprie mani ciò che ha iniziato settecento anni fa, ma tu» lo indicò «puoi. Non vuoi, ovviamente, perché a quella donna hai dedicato i tuoi ultimi seimila anni di vita -o meglio, cinquemila e trecento, togliendo la permanenza nell’Abisso- e le hai giurato assoluta fedeltà, ma ciò che vuoi o meno tu non ha più nessuna importanza: Apophis è rilegato sulla Luna, e tu sei rilegato nella tua mente».

Con un movimento del braccio, il dio fece comparire una scacchiera semi trasparente e fluttuante davanti a sé.

«Apophis è il re, tu il suo alfiere, i tuoi leoni sono i suoi pedoni. Non c’è nessun altro a proteggerlo, semplicemente perché non ha bisogno di protezione: nessuna creatura mortale o immortale può oltrepassare la barriera, da un certo punto di vista lui nemmeno gioca» disse, facendo scomparire il pezzo del re dal campo. «Dall’altra parte c’è la regina, l’obiettivo di Apophis alias il tuo, dal momento che ti controlla. Cosa noti, guardando questo lato della scacchiera?»

Phobos rimase a osservarlo per un po’, ma proprio non gli diceva niente di niente; iniziava a pensare che Endless stesse vagheggiando per confonderlo, ma si tenne per sé quel pensiero: dopo il plumcake spiaccicato, voleva evitare altre grane.

«Ehm… niente?» rispose imbarazzato il rosso.

Il dio scosse la testa.

«Guarda meglio: che differenze noti fra questo lato» indicò quello a destra «rispetto a questo?» poi quello a sinistra.

«Che in quello a destra ci sono più pezzi…?»

«Precisamente quello» sorrise toccando la scacchiera.

Improvvisamente, i pedoni di quel lato che si divisero in due, poi in quattro, poi ancora in otto e così via, fino a diventare una massa di minuscoli puntini quasi indistinguibili, date le ridotte dimensioni rispetto ai pezzi originali.

La divinità ne prese uno sul dito, mostrando quel granello di polvere all’altro uomo.

«Harmonia ha schiere di generali e soldati e gente pronta a proteggerla, ai quali vanno aggiunti i guardiani e -occasionalmente- quelli che se ne stanno ai piani alti. Un numero indefinito di persone il cui unico obiettivo è quello di salvaguardare la regina, insomma, immolando persino la propria vita se dovesse rivelarsi necessario».

«È quello che fanno tutti i soldati, Endless, perché ti sorprendi tanto?»

«Oh, ma perché tutti concentrano le loro energie sul proteggere la loro sovrana, ma -curiosamente- un tale dispiegamento di forze non è impiegato per proteggere qualcosa di ben più prezioso, o pericoloso, a seconda dei punti di vista».

Il dio si mosse, mettendosi a girare intorno all’altro fino a trovarsi alle sue spalle. Gli si fermò vicino all’orecchio, avvicinandosi ad esso.

«“Possano i suoi zoccoli non essere mai ferrati” non è solo il motto di Phantasia, ma tu questo lo sapevi già» gli sussurrò, la lingua -nerastra e biforcuta, notò il rosso- che glielo leccò con una certa malizia «e anche Apophis lo sa».

A quelle parole, Phobos si congelò: non riusciva più a muovere nessun muscolo del corpo, nemmeno le palpebre parevano rispondere ai suoi comandi, sembrava essersi scordato persino come si respirasse da quanto il suo petto si alzasse e abbassasse freneticamente.

No, Apophis NON sapeva, no, no, certo che no!

Lui non aveva parlato, mai lo avrebbe fatto! MAI!

«È impossibile» si limitò a commentare stizzito: non aveva tradito Harmonia, non aveva rivelato nulla, lui, non era colpa sua. Non lo era. Non poteva esserlo. Non doveva esserlo.

Quella sua velata disperazione venne subito notata dall’altro.

«Al contrario, è possibilissimo» controbatté l’uomo alato. Gli afferrò il mento, costringendolo a girarsi verso di lui che, intanto, si era chinato per guardarlo dritto negli occhi «Vuoi sapere chi glielo ha detto, uh?»

 

Non ricordò di aver annuito, ma dal sorrise di Endless Sorrow si rese conto di averlo fatto.

Incontrò il suo sguardo solo per una frazione di secondi, lo stesso in cui si rese conto di non poterlo sostenere, di non poter reggere oltre il confronto con un essere di quel calibro; era fisicamente assente, del resto, si sentiva come se il suo corpo e la sua coscienza si fossero completamente staccati l’uno dall’altra, lasciando indietro quel guscio vuoto che si reggeva in piedi solo perché a sostenerlo c’era la presa della divinità.

Quando le labbra del dio si posarono sulle proprie, Phobos ringraziò gli dei di non essere abbastanza lucido da rendersi completamente conto della situazione: avrebbe risposto alla sua domanda, forse, ma voleva qualcosa in cambio.

E quel qualcosa era limonarselo.

O meglio, ficcargli la lingua fino in gola fin dentro l’esofago, mozzandogli il respiro e facendogli -purtroppo- riacquisire quel minimo di coscienza necessaria per rendersi conto di stare mezzo soffocando; non che allora poté scrollarsi il dio di dosso, ovviamente, né riuscì a sottrarsi a quel bacio talmente feroce da sembrare più il preludio di un pranzo.

Chiuse gli occhi stringendoli il più forte possibile, ricacciando indietro quella lacrima solitaria che stava facendo capolino all’angolo di uno dei due, con l’unica speranza che tutto ciò finisse il prima possibile: se quello sarebbe servito a tornare da Harmonia, allora lo avrebbe sopportato in silenzio. Avrebbe sopportato tutto pur di poterla rivedere e toccare e baciare, pur di riaverla vicino  per sempre un’altra volta, pur di poterle dire nuovamente “ti amo” con la propria bocca. Tutto.

Tutto.

 

Dopo un tempo interminabile, finalmente fu Endless a staccarsi, sorridente e raggiante come mai fino ad ora. Lo guardò con un’espressione che per il rosso fu indecifrabile, un misto fra soddisfazione e malignità.

«Delizioso, proprio come immaginavo. Cielo, non puoi immaginare quanto vorrei stuprarti quel tuo culo verginello fino ad aprirlo tanto quanto un buco nero in questo preciso momento, ma mi tratterrò solo perché sono di fretta» commentò amareggiato leccandosi il labbro.

Lo squadrò da capo a piedi, pensieroso.

«Dì, vuoi ancora sapere chi è l’uccellino che ha cantato su quel piccolo segretuccio? Perché in caso contrario una scopata dovrei riuscire a farcela stare, prima che-»

«Dimmelo e facciamola finita con questa storia» ringhiò il suo interlocutore, i pugni serrati che ci mancava poco partissero da soli in direzione dei denti della divinità.

Quest’ultima gli toccò il naso con l’indice, ridacchiando.

«Sei stato proprio tu, sciocchino».

Prima che l’altro potesse controbattere, però, Endless Sorrow gli mise un dito sulle labbra per zittirlo in partenza.

«Tu hai permesso a Barbie di frugarti nella testa alla ricerca della via più veloce per arrivare alla regina. Tu hai suggerito lui quali mosse far fare al proprio burattino -ovvero te stesso- per conquistare e radere al suolo Phantasia. Tu hai aperto il vaso di Pandora, quando sei evaso dall’Abisso ed hai spezzato il sigillo della Dea di quel pianeta in culo al cosmo. Tu e nessun altro», Gli si avvicinò petto a petto, costringendolo a indietreggiare «Se c’è un colpevole, se c’è qualcuno da condannare, se c’è un responsabile contro il quale puntare il dito per questa brutta faccenda, beh, quella persona sei tu. Volevi fare l’eroe, settecento anni fa, ma sarai ricordato solo per essere stato il complice di un massacro».

«Io non ho-»

«Guardati, Phobos, guarda cosa ti ha fatto il maggiore dei fratelli Lunanoff! Controlla il tuo corpo. Controlla la tua mente. Controlla i tuoi ricordi. Ciò che ricordi tu, Apophis lo ricorda a sua volta, o almeno lo vede: non puoi tirarlo fuori dalla tua testa, è troppo tardi, ormai». Si guardò intorno, come se avesse appena scorto o sentito qualcosa «Eeeeed è ora che io me ne vada, non voglio essere qui quando ti cancellerà la memoria e ti strapperà dal dolce e confortevole abbraccio della morte».

Girandosi, indicò un lampo poco lontano, accompagnato da qualcosa di molto simile ad un ruggito che pareva provenire dagli inferi.

«La prima di innumerevoli volte che verranno, si intende, perché ho la vaga sensazione che -quando e se avrai qualche istante di lucidità- finirai per suicidarti ancora, e ancora, e poi di nuovo, nella vana speranza di impedirgli di arrivare al cuore pulsante di Phantasia. Ci si rivede, allora, mi mancheranno quelle labbra».

«A-Aspetta! ASPETTA!» gridò il rosso con tutto il fiato che aveva in corpo, disperato.

«Sì, bellezza?»

Venne colto di sorpresa dal dio che si voltò per ascoltarlo, menefreghista com’era non si aspettava che l’avrebbe fatto per davvero, ma ora non poteva più tirarsi indietro: se voleva uscirne, allora doveva arrivare fino in fondo.

Con uno sforzo immenso, Phobos tirò fuori l’espressione più minacciosa che riuscì a racimolare.

«Se lui guarderà nei miei ricordi, allora saprà anche della nostra conversazione, e non credo che tu lo voglia» gli fece presente con calma innaturale. «Se ora mi lasci qui, per me sarà la fine, ma anche per te: Apophis mi punirà come sempre, ma con te non sarà più clemente».

«Cerchi di ricattarmi, per caso?» domandò l’uomo alato, sorridendo.

«“Ricatto” suona male, trovo che la parola più adatta sia “accordo conveniente per entrambi”» precisò facendo spallucce «se il tuo amico ti trova qui, puoi stare sicuro che non si berrà la storia che fossi solo curioso di parlarmi in privato, specie quando andrà a frugare nella mia mente e capirà che tu hai complottato alle sue spalle: ti considererà un traditore, e-»

«Ed è proprio qui che sbagli. Non saprà mai cosa ci siamo detti di preciso, non verrà nemmeno mai a conoscenza che io sia stato qui, in realtà: sono un dio, credi davvero che non abbia preso le mie precauzioni?» lo bloccò Endless.

Improvvisamente, tornò indietro da Phobos, fermandosi proprio di fronte a lui. Di nuovo, quella sensazione di essere minuscolo tornò ad assalirlo.

«Devi sapere che, dal primissimo istante in cui ho messo piede qui dentro, queste» si indicò le rune brillanti sulle ali «hanno fatto ciò che fanno sempre: nascondermi. Non puoi nemmeno immaginare quante creature abbia portato alla pazzia perseguitandole in pubblico, salvo fare il modo che mi vedessero e solo loro e che, solo a loro, io fossi tangibile. Guarda tu stesso».

Aprì le braccia e le ali, invitando il rosso a toccarlo; quest’ultimo era alquanto riluttante a farlo, ma decide di obbedire: posò la mano sul suo torace, e questa gli passò attraverso.

L’altro rise, evidentemente compiaciuto.

«Plebei e nobili, re e regine, dittatori e tiranni, tutti che venivano internati come pazzi, quando farneticavano di un’ombra che ghermiva i loro primogeniti solo per far credere loro che la decima piaga d’Egitto fosse una cosa da prende sul serio; che sterminava i loro eserciti ancora prima che mettessero piede fuori dalle mura della città, per far insorgere le genti; o ancora che gli infilava una mano in mezzo alle gambe mentre loro tenevano i discorsi in pubblica piazza, la stessa dove venivano poi giustiziati dai loro stessi cittadini, non potevano mica tollerare un sovrano folle. “Dio delle Disgrazie e Sventura”, appunto».

Lentamente, il suo corpo iniziò ad assumere lo stesso aspetto delle sue ali, la pelle che lentamente veniva avvolta da una nebbiolina nerastro violacea: man mano che avanzava pareva consumare l’epidermide, le carni, persino le ossa, lasciando dietro di sé una distesa di vetro -o qualcosa che si somigliasse molto- dello stesso colore.

«Tutto ciò che Apophis vedrà sarà solo un povero disgraziato che parla al vento, niente di più e niente di meno: spiacente che il tuo piano non abbia funzionato» finse di scusarsi. Lo guardò impietosito, quasi -falsamente- commosso «Al prossimo suicidio, allora».

«Cosa-»

Una pioggia di schegge lo investì in pieno.

Cercò di gridare con tutto il fiato che aveva in corpo il suo dolore, ma l’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu un suono strozzato che nulla aveva di umano.

Dinanzi a lui, Apophis. Di Endless Sorrow non c’era più nessuna traccia.

Rassegnato, il rosso si limitò a sospirare: conosceva già la procedura.

Disse qualcosa, il Lunanoff, ma l’altro non diede peso alle sue parole né le ascoltò; “Terra”, tutto ciò che aveva capito in quel borbottio sommesso era stato “Terra”, tutto lì.

Quanto sentì una mano posarsi sulla propria testa, Phobos si lasciò scappare un sorriso quasi divertito, uno di quelli che solo i condannati a morte possono riuscire a trovare nel fondo dell’anima già perduta che si ritrovano. Chiuse gli occhi, cercando di visualizzare il volto di Harmonia: era stata l’ultima persona che aveva visto prima di finire in quel limbo, sette secoli prima, era stata il suo ultimo pensiero prima di suicidarsi poco prima, voleva fosse il suo ultimo ricordo ad andarsene, adesso.

Lo sarebbe stata sempre. Sempre.

 

 

 

Phobos riaprì gli occhi. Thorax fece lo stesso.

Si guardarono intorno, confusi, vagando con le loro menti vuote fra le chiome a cupola degli alberi rosati che li circondavano: quella non era Phantasia.

 

 

 

***

 

 

 

“Non è importante la meta, ma il cammino”, disse un qualche hippie new era in palese trip da LSD e oppiacei vari.

“Stronzate”, diceva Emily Jane Pitchiner.

Non aveva idea di quanto tempo avesse passato a camminare e correre e farsi sferzare dalla pioggia per recarsi a Tandokka, ma -francamente- se ne sbatteva altamente il cazzo: era arrivata, alla fine, e contava solo questo.

Contava pure che fosse ridotta in uno stato a dir poco pietoso, mentalmente o fisicamente non si sapeva su quale fronte fosse messa peggio, ma quelli erano semplici dettagli; ora come ora voleva solo andarsene, fuggire, scappare, voleva diventare invisibile, sparire dal mondo senza più voltarsi, dimenticare di avere un passato e, forse, tentare di ricominciare.

E voleva farlo una volta per tutte.

Se Emily non avesse saputo di essere in ritardo di trent’anni, avrebbe seriamente creduto che l’impetuosa tempesta che l’aveva accolta fosse opera sua e del clima che pareva seguire il suo umore, un po’ come faceva ai tempi in cui era Madre Natura di fatto e non solo per un titolo che, con lei, sembrava non avere più nulla da spartire. Se era felice, il tempo era sereno; se lei era triste, allora pioveva; se aveva addosso un’impellente voglia di rovesciare il mondo e dargli fuoco come l’aveva ora, allora tsunami e terremoti e uragani sarebbero stati all’ordine del giorno.

A pensare a suddette onde anomale, un conato di vomitò le risalì prepotente la gola. Non riuscì a trattenerlo, non ci provò nemmeno.

Secondo il suo modesto parere, Gwenllian Jenkins Pendragon doveva avere un’idea piuttosto precisa di cosa significasse “tsunami”, a giudicare da com’era conciata lei e il luogo dove giaceva con l’amante ritrovato in fatto di ingenti quantità di liquidi sparse ovunque.

E quando diceva “ovunque” intendeva proprio “in ogni singolo angolo, anfratto o buco possibile immaginabile, di carne o meno non aveva importanza”.

Ecco.

Aveva incontrato gli occhi di suo padre solo per un istante, una manciata di secondi soltanto, ma erano stati più che sufficienti perché capisse ciò che il suo sguardo volesse dirle: “Esci da questa casa, e allora uscirai anche dalla mia vita”.

Le aveva detto quello, Pitch Black, o almeno Emily Jane così aveva interpretato l’occhiata che si erano scambiati; se Madre Natura avesse guardato meglio nel fondo di quegli stessi occhi, però, forse anche lei si sarebbe accorta di quel “mi dispiace” che aveva solcato la mente di un Uomo Nero che certo non avrebbe voluto mostrarsi a chicchessia nel mentre di un atto sessuale. Ma a lei non importava, non l’era importato nemmeno un secondo: lui per primo aveva fatto una scelta, e quella scelta aveva le fattezze di una donna dai capelli color cioccolato e dagli occhi nocciola solcati da quella curiosa eterocromia azzurra, non di una ragazza dai capelli corvini e dalle iridi dorate come le sue.

Non di sua figlia.

Guardò il cielo nero di tempesta: per gli dei, quanto avrebbe voluto che fosse stato tutto l’ennesima delle sue innumerevoli allucinazioni! Mai come ora desiderava trovarsi davanti lo spettro di Marigold che se la scopava in una stanza in fiamme!

E invece no, doveva accontentarsi della cruda realtà che le si palesava davanti anche lì, anche nel suo regno perduto e ormai disabitato.

Poco male: più ossigeno per lei.

Come a svegliarla dal torpore nel quale Madre Natura stava crogiolando con lo sguardo perso nel vuoto, uno stormo di ara macao -ormai gli unici abitanti di quel luogo abbandonato da dio, insieme a scimmie e alligatori- si levò sopra il suo naso, volando talmente basso che riuscì a sentire persino l’aria spostata dalle loro ali che fremevano e si dibattevano nell’etere. Alzò lo sguardo per godersi lo spettacolo offerto da quei maestosi volatili, nonché dei suoi unici sudditi: incuranti della pioggia scrosciante che coprivano con le loro grida, il loro intenso gracchiare le strappò addirittura un risata in quella giornata da dimenticare, quando Emily pensò che -con tutto quel rumore- fossero in grado di risvegliare pure i morti.

Poi le defecarono in pieno volto, e allora rise un po’ meno.

Con inquietante compostezza, si specchiò in una pozzanghera ai suoi piedi: come diavolo si era ridotta? Era ancora la regina di Tandokka, era ancora Madre Natura, oppure era diventata lo zimbello dei pappagalli, oltre che del resto del mondo?

Ma soprattutto, come aveva fatto a perdere tutta la sua dignità e iniziare a sprofondare, sprofondare, sprofondare sempre più in basso, fino a toccare il fondo di un abisso prima a lei sconosciuto, un luogo dove la patina di regalità e acidità nella quale si era rinchiusa non poteva più raggiungerla per proteggerla e salvaguardarla, come? O meglio, per colpa chi?

Ululando, il vento parve suggerirle la risposta.

Emily Jane sospirò: non aveva bisogno di ascoltare ciò che già sapeva, conosceva fin troppo bene il nome e l’aspetto di chi c’era dietro le sue disgrazie da tre decenni a quella parte, un ripasso era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Specie se a darglielo fosse stato un temporale che, tempo immemore fa, avrebbe potuto controllare col solo schioccare delle dita.

“Oggi la tempesta, domani Harmonia”, si disse, poi si chiuse la porta alle spalle.

E la bufera tacque.

 

Le radici dell’Albero di Olduvai si richiusero dietro di lei, intrecciandosi attorno a quel pezzo di corteccia ricavato direttamente dal tronco della pianta come a sigillarla.

Lentamente, Madre Natura prese a salire le lunghe rampe che l’avrebbero portata alla sua casa, o almeno a ciò che ne rimaneva: l’incendio di sette secoli prima aveva ridotto quel luogo ad un colabrodo -come il resto di Tandokka, in fin dei conti- marcio e scricchiolante, gli scalini che ad ogni passo lanciavano rumori grotteschi fin troppo simili a grida che rendevano la risalita quasi surreale, con quel pizzico di sano brivido nel temere che il passo successivo sarebbe stato l’ultimo e poi puff! Il legno carbonizzato avrebbe ceduto e inghiottito il malcapitato!

Per gli dei, quanto avrebbe voluto che le capitasse proprio ora, quanto!

Sfortunatamente per lei, però, la giovane Pitchiner arrivò sana e salva fino alle sue stanze.

Con disprezzo, gettò lontano quella maledetta saccoccia lercia e bucata che si trascinava appresso da giorni, i pochi vestiti buoni a lei rimasti che si riversarono sul pavimento zuppo d’acqua e fango e guano -sia a causa sua, sia a causa degli uccellini che fra i rami dell’albero avevano trovato dimora- nella sua totale indifferenza. Li guardò: nah, era troppo stanca per premurarsi di raccoglierli, o di preoccuparsi per come li avrebbe lavati, o di fare qualsiasi cosa non fosse l’accasciarsi mollemente sulla poltrona sgualcita e strappata che ben volentieri l’accolse.

Abbandonò il proprio corpo su di essa stendendosi e stirandosi un gatto, le ossa sporgenti che parevano prendere la forma della seduta come acqua in una caraffa: bere, aveva bisogno di bere per dimenticare.

«Shajiiiiiiiiraaa! Shaaaaaajiiiiiiiraaaaaaaaaa!» gridò, chiamando la propria serva.

Quest’ultima non rispose, il che era tutto fuorché normale: era sempre stata una domestica fedele e sottomessa a lei, alla sua regina, che sopportava con incredibile pazienza le sue scenate assecondandola in ogni richiesta, anche la più infantile. Appena Madre Natura la chiamava, Shajira correva come una matta per soddisfare il capriccio del momento della sua sovrana, eppure ora non lo stava facendo.

“Quella dannata bracciante nata in un campo di cotone mi sentirà, appena riuscirò a metterle le mani addosso! Si sarà imboscata con qualche uomo!”, pensò la giovane Pitchiner, visibilmente furibonda.

Presa dalla rabbia, saltò giù dalla poltrona e si diresse verso le stanze della servitrice a grandi falcate; non bussò nemmeno, intenzionata com’era a coglierla sul fatto. Sfondò la porta.

«Sei in un fottuto mare di guai, battitrice di strade che non sei altro!­ Giuro che ti-»

S’interruppe: non c’era nessuno, in quella camera.

Non convinta, Emily entrò e iniziò a guardarsi in giro sospettosa, aprendo ogni armadio e frugando in tutti i cassetti e rovesciando addirittura il letto, convinta com’era di trovare tracce della domestica là dentro.

Non trovando nulla -e non essendo possibile che quella benedetta donna si fosse volatilizzata da un momento all’altro, fedele com’era verso la propria regnante- ma non ancora convinta, uscì sbattendo violentemente la porta, sbuffando e borbottando fra sé e sé: se a quella disgraziata dalla pelle color ebano fosse accaduto qualcosa… no, no: doveva trovarla, non aveva altra scelta se voleva continuare a vivere tranquilla.

Una porta dopo l’altra, una stanza dopo l’altra, la regina di Tandokka passò il rassegna tutto l’Albero di Olduvai, tutti gli angoli e tutti gli anfratti del suo palazzo, senza trovare nulla; qualche minuto e, complice lo stress accumulato in quei giorni, la ricerca della serva passò in secondo piano: aveva bisogno di un lungo bagno ristoratore, e che Shajira si fottesse!

Nemmeno a farlo apposta, sentì il suono dell’acqua ancora aperta provenire dal bagno, accompagnata da una scia di abiti e orme sporche di fango che s’interrompeva davanti alla porta d’entrata per quest’ultimo.

Stanca com’era e totalmente disinteressata a sapere perché la domestica non avesse assolto ai propri doveri di tenere in ordine la casa, Emily Jane decise di sorvolare, trascinandosi fino a suddetto bagno quasi strisciando da quanto sentiva le gambe molli; iniziò a spogliarsi piano, lentamente, prendendosi tutto il tempo del mondo: aveva corso come una forsennata per tutto il tempo per arrivare a casa sua, decisa com’era a lasciarsi dietro le spalle suo padre e la sua puttana il prima possibile, tanto voleva fare con calma ora che finalmente poteva permetterselo.

Solo quando rimase in intimo, Madre Natura notò che c’era qualcuno dentro. Qualcuno che canticchiava, oltre a consumargli l’acqua.

«Siamo ritornati porca troia!»

Un ruggito si levò alto, come a rispondere.

«Puoi dirlo forte Thorax!»

 Un altro ruggito rispose, questa volta più forte del primo.

«Harmonia ti piscio in bocca!»

Qualcuno tipo Phobos, magari.

Nudo come un verme, con i gioielli al vento che si stava smanettando e, non meno importante, intento a sguazzare con tanto di pinne e boccaglio in una vasca piena di svariate latte di fagioli con salsa, tutte accatastate in un angolo a coprire una povera Shajira legata e imbavagliata.

Vicino a lui, un Thorax evidentemente alticcio che emetteva bolle di sapone dalle fauci; forse perché si era tracannato quattro o cinque bottiglie di balsamo, a giudicare da quelle vuote sparse sul pavimento.

Dinanzi alla doccia, Emily Jane in mutande e reggiseno rossa più del pomodoro contenuto in quelle scatolette, non si sapeva se più per l’essere senza vesti o per l’erezione dell’altro.

Coperta di legumi, ovviamente, come pure quelli appiccicati ai capezzoli.

Il rosso la notò subito; immediatamente le lanciò -forse per lo spavento, forse perché era rincoglionito e basta- una scatola piena e aperta addosso, colpendola in piena fronte.

«Kessobuona sti faciola! Porkaglidey mi piasano pedavero li faciola, li mancio tutti!­»

Il perfetto copione per un film porno, insomma.

O per una pasta e fagioli.

 

 

[… poco dopo…]

 

«Barbeeeraaaaa!»

«chaaampaaagneeeeee!»

«staaaseeera beeeeeviam!»

«peeer cooolpa deeel mio amooooor!»

«pa-ra-pa -PA

«peeer cooolpa deeel tuo amooooor!»

«pa-ra-pa-pa!»

«aaaaAi nooostri dooolooooor!»

«insieeeeeme briiiiindiaaam!»

«col tuuuuo biiicchieeere di baaarbeeeeera! coool miiiiio bicchieeeeere di chaaampaaaaagneee!» concluse Emily Jane, sollevando in alto la propria bottiglia di champagne come se fosse un trofeo, spaccandola a terra subito dopo. Phobos la imitò, rompendogliela dritta in testa con entusiasmo degno di un bambino.

I due compagni di bevute si guardarono qualche istante, sorpresi e confusi, quasi si fossero improvvisamente resi conto di cosa stessero facendo.

Ma fu solo qualche istante, appunto.

Non aveva niente in comune, quei due, niente in comune se non l’odio profondo per la Regina di Phantasia: ci sarebbero stati mille modi diversi in cui Emily avrebbe potuto reagire alla presenza di uno sconosciuto nel suo palazzo, come ci sarebbero pure stati mille altri luoghi in cui Apophis avrebbe potuto far finire Phobos, eppure eccoli lì a mangiare fagioli -“faciolaH!”, avrebbe detto il rosso- affogati nell’alcol.

Ridendo come cretini, si stesero a terra poggiandosi le teste sopra il dorso Thorax, intento a leccare Martini da una ciotola posta davanti al suo muso.

La giovane Pitchiner -armata di reggiseno tenuto sulla testa come un cappello- prese una mano dell’altro, stringendola nella propria.

«Siamo best friends forevaH, vero?­» domandò.

Phobos le sorrise, la bocca piena di legumi che si riversarono sulle loro mani unite come a benedire quell’unione.

«Ovviamente» rispose sbavando salsa che gli intanto gli andava di traverso e, quindi, gli usciva dal naso «best friends forevaH, Madre Pretura!» rispose tutto contento, dandosi ad un abbraccio alquanto fagioloso.

E incrociando le dita dietro la schiena.

 

 

 

 

 

___________________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

HASTA LI FACIOLA!

Dissi che Phobos aveva ormai toccato il fondo più profondo del disagio e della pena, e che più in basso di così non sarebbe potuto scendere? Mi sbagliavo, e non aveva idea di quanto! :’D

Non ho nulla da aggiungere, mi limito a scusarmi per il ritardo nel rispondere alle recensioni ma pian piano mi sto organizzando per rispondere a tutto e tutti, vi ringrazio per la comprensione e ne approfitto per ringraziare anche per tutti quelli che leggono, recensiscono o semplicemente seguono questa storia, Endless Sorrow vi porterà dei plumcake in segno di gratitudine <3

Spero che sia tutto chiaro e non ci siano parti confusionarie, nel caso non esitate a chiedere ulteriori delucidazioni :)

Alla prossima!

   
 
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