Avviso:
regà, non potete nemmeno immaginare
l’immane quantità di disagio presente
dall’inizio di questo capitolo alla parte
scritta in grigio, non potete :’D
Onde
evitare
traumi generali (?) o paure per cosa verrà dopo, rassicuro
tutti sul fatto che
peggio di così a Phobos non può proprio andare,
NON può raggiungere un picco
del disagio peggiore di questo, non è umanamente
possibile: il culmine è
quello che troverete scritto qui, non verrà nulla di
paragonabile a tanta
follia, giuroH! :’D
Se
proprio
non siete avvezzi al disagio della sottoscritta, volendo potete saltare
direttamente alla parte scritta in grigio chiaro anziché
nero, che tanto dai
discorsi si evince comunque ciò che è successo :)
Buona
lettura, si spera! :’D
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“Cosa cazzo stai
aspettando?”
Eh, bella domanda: cosa cazzo stava
aspettando? Un
invito scritto? L’autorizzazione firmata da mamma e
papà come a scuola?
Guardò il pugnale
poggiato lì a terra, quasi
ipnotizzato dalla lucentezza dell’acciaio che risplendeva
sotto le macchie di
sangue ora secco e rappreso, ora ancora fresco e dai colori vividi e
brillanti:
la lama lo stava chiamando, lo stava facendo da svariato tempo ormai,
ma lui -codardo
com’era- non si era ancora deciso a rispondere a quella
chiamata.
Non si poteva dire che non provasse
almeno ad alzare
la cornetta, però: il coltello sul polso o sul collo o
dovunque ci fosse una
vena o un’arteria da recidere lo posava pure, ma ogni volta
finiva per
fermarsi. Non sapeva perché, non aveva idea di cosa lo
trattenesse dallo
spingere a fondo nelle carni quella maledetta lama fino a vederla
affogare nel
sangue scuro e denso, sapeva solo che -appena sulla pelle comparivano i
tagli
provocati dal metallo affilato che la sfiorava- gettava via tutto e si
rannicchiava a piangere, e piangere, e piangere, finché la
gola non gli
bruciava ed il respiro si faceva affannoso.
Anche allora pregava di morire
soffocato dalle sue
stesse lacrime, dal muco che gli si riversava dal naso gocciolante alla
gola,
ma pure lì le sue speranze si infrangevano contro il suo
corpo che -quasi
volesse fargli uno sgarbo- si riprendeva pian piano, normalizzandosi e
tornando
nelle stesse condizioni in cui lo aveva lasciato poco prima
dell’ennesima
crisi.
Voleva farla finita, eppure non ci
riusciva.
Sarebbe bastato poco,
così poco, accidenti! Un taglio nel
punto giusto, uno soltanto, e avrebbe raggiunto Thorax
nell’aldilà prima ancora
di rendersi conto di stare morendo.
Allora e solo allora, Phobos
sarebbe stato un uomo
libero, o almeno così la vedeva lui: nessun problema a cui
pensare, nessun
martellio incessante nella testa quando cercava di ricordare qualcosa
del suo
passato, nessun sentimento di vendetta che lo logorava incessantemente
a causa
della consapevolezza che -se le cose fossero andate come
l’ultima volta- ciò
che avrebbe ottenuto sarebbe stata solo un’umiliazione dopo
l’altra. Una morte
altrui dopo l’altra.
Inevitabilmente, lo sguardo gli si
posò sul cadavere
del leone nero davanti a sé; prese ad accarezzarlo con
cautela, lentamente,
come a non volerlo svegliare. Anche perché questa volta il
pericolo che si
svegliasse non c’era proprio.
Forse non aveva ancora
metabolizzato il lutto, ma
Phobos continuò a fare le carezze alla propria bestia come
se nulla fosse, si
comportava nello stesso modo di quando il fedele compagno gli dormiva
in grembo
e non voleva svegliarlo perché ora russava in modo alquanto
buffo, ora sbavava
muovendo le zampe come se stesse sbranando una preda, o -più
semplicemente-
perché adorava guardare Thorax sonnecchiargli vicino; gli
piaceva la sensazione
di accoglienza che emanava la sua pelliccia, a volte infilava la
propria testa
nella sua criniera anche solo per sentire il pelo che gli solleticava
il volto,
anche solo per sentire il calore di una casa, di una famiglia, di
qualcuno che
lo amasse.
E quel qualcuno era morto.
Per lui, fra l’altro,
come se potesse valere la pena
dare la vita per un soggettone quale lui stesso era! Un tale spreco
avrebbe
dovuto essere ritenuto illegale!
Del resto era solo un uomo buono
solo a collezionare
una figura di merda dopo l’altra, a mandare al macello gli
altri al posto suo, ad
annegare i propri dispiaceri fra una cassa di birra e uno shot di AK-47
e un
numero indefinito di bottiglie di whiskey che era finite per
annebbiargli la
vista, la mente, l’anima: stava bene, da sbronzo, stava bene
come non era mai
stato. Talmente bene che i suoi occhi -anziché rivolti a
quel povero leone che
gli giaceva in grembo- erano già alla ricerca del prossimo
alcolico da ingurgitare,
della prossima botta da dare a quel suo povero fegato nella speranza di
vincere
quel braccio di ferro che stava protraendo col suo stesso fisico: se
proprio
doveva finire all’altro mondo, voleva farlo da ubriaco.
Allungò una mano verso
la prima bottiglia che gli
capitò a tiro, sollevandola con le mani tremanti come se
fosse lo sforzo più
immane che avesse mai fatto.
«Con questa»
indicò l’etichetta della bevanda, una
vodka Spyritus che -a detta sua- Halley doveva avergli lasciato prima
di
sparire dalla sua vista, forse un regalo per scusarsi «o
andiamo all’altro
mondo, o prendiamo fuoco. In entrambi i casi, ceneremo
nell’AdeH!... o in
qualsiasi buco di culo si finisca da morti, insomma»
asserì bloccandosi qualche
istante. Guardò il compagno «Secondo te
finirò in paradiso o all’inferno, eh?»
Thorax, ovviamente, non rispose.
«Per gli dei, come sei
malmostoso!» gridò seccato
agitando la bottiglia aperta, schizzando vodka ovunque.
Improvvisamente, iniziò
a ridere come un deficiente «Ho capito, ho capito: vecchio
bastardo, ne vuoi un
bicchiere anche tu! Ti ho scoperto!» diede una pacca sulla
spalla della bestia «Aspetta
eh, ora te lo verso, abbi pazienza».
Seduto com’era,
alzò il braccio fino ad incontrare i
bordi del tavolo dove ricordava esserci qualche bicchierino per
superalcolici. Troppo
pigro per alzarsi, Phobos andò a tentoni con la mano
provando ad afferrare uno
di quegli shot: ci sarebbe pure riuscito, se non fosse stato ubriaco
fradicio,
ma la sua coordinazione degna di un bradipo fece cadere tutto a terra,
o
meglio, addosso.
Probabilmente
l’ubriacatura anestetizzava efficacemente
il dolore provato dalle schegge piantate fra i capelli, sul collo e sul
volto, fatto
stava che si mise a frugare tranquillamente fra i pezzi di vetro alla
ricerca
di un bicchiere integro come se nulla fosse.
Quando alzò la mano,
questa era costellata di frammenti
scintillanti insanguinati, ma di un ambito bicchierino nemmeno
l’ombra.
«Al diavolo i bicchieri!
Sono da fighette con le palle
atrofizzate!» tuonò tirando un pugno alla gamba
del tavolo con la mano ferita,
visibilmente furioso.
Non solo le schegge gli penetrarono
ancora più a fondo
nelle carni, non solo si rese conto -continuando a ridere- di aver
perso la
sensibilità di un dito o due a causa dei nervi recisi, ma
suddetto tavolo di
legno massiccio finì pure per crollargli in testa.
Sentì qualcosa di caldo
colargli dalla tempia fino al
labbro. Lo leccò: sangue.
Improvvisamente, Phobos
iniziò a ridere in modo folle,
rumoroso, a tratti inquietante, quasi fosse inebriato
dall’odore ferroso dei
rivoli rosso intenso che gli scendevano dall’attaccatura dei
capelli al naso
fino ad insinuarsi fra gli abiti logori e strappati, dove andavano
svanendo fondendosi
col colore cremisi delle vesti zuppe d’alcol. Lui rideva, e
rideva, e rideva
ancora, e rise ancora di più quando -tastandosi la fronte-
notò come un
frammento di legno di modeste dimensioni si fosse conficcato su di
essa; lo
studiò qualche istante, poi vi versò sopra una
bottiglia mezza vuota di
Everclear.
Alcol di grano puro al
novantacinque percento.
Benzina, in pratica.
«Thorax! Thorax!
Guardami, dannazione!» incitò il
leone scattando in piedi, il cadavere dell’altro che
rotolò giù dalle sue gambe
fermandosi quando incontrò una pila di casse di birra.
Ovviamente vuote. Il
rosso iniziò a ballettare come se fosse in preda alle
convulsioni «Guardami!
Sono un fottuto unicorno! Un unicorno!
Ihihihihihihihihihihi!» nitrì
entusiasta, le braccia piegate a sembrare ali di una gallina.
Iniziò a razzolare
tutt’intorno, chiocciando come
suddetto animale; si strappò gli abiti di dosso, mostrando
il marchio sul
braccio che andava sempre più diramandosi sul resto del
corpo.
«Alla salute, amico mio,
e a nemmeno mezzo di questi
giorni!» esclamò verso il leone, portandosi al
contempo la vodka di prima alla
bocca e mandandola giù tutto d’un fiato.
O almeno provandoci, dal momento
che -complice la
sbornia triste- un terzo dell’alcolico finì a
terra, un altro terzo sul suo
petto mischiandosi al sangue e, infine, solo un ultimo terzo gli
finì in gola.
Ma fu più che sufficiente, fu pure troppo.
Aveva perso la dignità,
e poteva pure starci.
Aveva perso la ragione, e -tutto
sommato- non era
nulla di così grave rispetto a ciò che stava
facendo ora.
Ma il rispetto per
l’unica creatura che lo rispettasse
a sua volta, quello, lo stava
perdendo solo ora.
E la situazione era a dir poco
tragica.
Razzolando
e
sbandando, chiocciando e nitrendo, Phobos infine si avvicinò
al corpo esanime
di Thorax, ovviamente fermo dove l’aveva sbattuto poco prima;
si chinò su di
lui. Non per accarezzarlo, non per accovacciarsi fra la sua pelliccia
morbida e
calda, ma solo per servirsi delle sue enormi zanne per aprirsi un paio
di
birre, una delle quali gliela ficcò in bocca.
«Chi non beve in
compagnia, o è amico di Harmonia o
l’ha dato via!» brindò insieme a lui, se
non fosse che -con tutta la forza che
aveva messo in quel brindisi- le bottiglie finirono per impattare con
violenza
e spaccarsi vicendevolmente.
Iracondo, lanciò un paio
di imprecazioni che avrebbero
fatto impallidire qualsiasi divinità, dando un pugno sul
muso della bestia. Un
crack provenne da quest’ultimo, ma nemmeno lui stesso
capì bene se fosse la
mascella del leone ad aver ceduto o qualche altro osso della sua mano
ad essere
stato ulteriormente scavato dal vetro.
«Vaffanculo, cazzo!
Dannato animale bavoso mangiato
dalle mosche, guarda cosa mi hai fatto! Guarda, mannaggia al
settebello!» imprecò
premendo il palmo sul pelo nero, rendendolo appiccicoso per il sangue
che
sgorgava da esso. Tirò un altro paio di imprecazioni, poi
gli lanciò addosso
ciò che rimaneva del contenitore: gli si piantò
in mezzo agli occhi, a Thorax,
prendendone di striscio uno che iniziò a colare una sostanza
gelatinosa.
Phobos gli rise in faccia senza
ritegno, tenendosi lo
stomaco dalle grasse risate che si stava facendo ad umiliarlo da morto.
«Ben ti sta!
Così impari a metterti contro il boss,
cazzo! Non si fotte l’unicorno!» gridò,
mettendosi in quella che doveva
sembrare una posa epica da stallone-che-monta-il-mondo ma che, in fin
dei
conti, era qualcosa di più simile ad un My Little Pony con
una brutta ulcera
perforante allo stomaco.
Trotterellando a zig zag,
arrivò finalmente ad un
armadio rovesciato a terra: lo aprì. Rum e cola alla mano,
si rovesciò
direttamente le bottiglie semi vuote in bocca, mettendosi a fare i
gargarismi
mentre frugava pazientemente nel sacco della spazzatura.
«Bingo!»
gridò entusiasta, sollevando in aria un lime
già spremuto e coperto di muffa.
Violando una serie non meglio
definita di norme
igieniche, rischiando di prendersi svariate delle malattie elencate
nella lista
dei rischi derivati dal consumo di alimenti marci in decomposizione,
andando
contro ogni singola punta di ragione umana che poteva essergli rimasta
nel suo
delirio alcolico, Phobos se lo ficcò in bocca.
Iniziò a masticarlo per far
uscire il succo rimasto in quel pezzo di lime secco e macerato,
assumendo
un’espressione alquanto goduriosa -letteralmente,
perché dalla macchia sull’inguine
pareva essere davvero venuto- nel
farlo.
Voleva un Cuba Libre? Aveva avuto
un Cuba Libre.
Mandò giù
tutto in un colpo solo, sospirando e facendo
schioccare la lingua sul palato quando lo finì come
apprezzamento.
Restò qualche minuto a
fissarsi i piedi, dondolando, come
se stesse tentando di mettere a fuoco la terra sotto di sé
che ora sentiva
mancargli; si chinò, tastandosi le gambe dai polpacci, al
ginocchio, alla
coscia, risalendo poi sul torso nudo finendo a toccarsi il volto lercio
e
maleodorante.
Lo esplorò a lungo,
sembrava che avesse
improvvisamente dimenticato la sua stessa fisionomia e avesse bisogno
di
riconoscersi, le dita insanguinate che scorrevano sulla pelle butterata
dalle
ferite lasciando dietro di sé scie rossastre dal sapore
metallico; insistette
per diverso tempo, prendendo poi un pezzo di vetro nel quale si
specchiò.
Sorrise.
Silenzioso, Phobos si
accasciò nuovamente vicino al
leone nero, portando con sé una vecchia radio che -dopo
qualche tentativo- si
convinse a funzionare. Giocherellò un po’ con i
pulsanti per trovare una
stazione che trasmettesse qualcosa che gli piacesse, ma -vedendo che
quell’aggeggio infernale non collaborava-
abbandonò presto la ricerca.
Si frugò nella tasca,
tirandone fuori due sigari
mangiucchiati; se ne mise in bocca uno, l’altro lo diede a
Thorax. Li accese.
Lasciò cadere la testa
all’indietro, socchiudendo gli
occhi: che il fato scegliesse per lui.
“Nightfall
covers me, but you know the plans I'm
making
Still
overseas, could it be the whole Earth opening
wide
A
sacred why, a mystery gaping inside
A week is why, until
we dance into the fire!”
«Ottima
scelta», sussurrò, facendo il segno di
“ok”
rivolto alla Luna che si specchiava nei frammenti colorati ai suoi
piedi.
Inspirò profondamente
una, due, tre, cinque, dieci
volte, finché non avvertì chiaramente
l’odore pungente del tabacco riempirgli i
polmoni e le narici di fumo scuro e denso, finché non
consumò tutto il sigaro.
Se lo spense sul palmo, incurante del dolore.
«Quello lo
fumi?» domandò alla bestia indicando il
suo, di sigaro. Attese qualche istante, poi fece spallucce ridendo
«Chi tace
acconsente, vecchio mio, per cui» glielo tirò
fuori dalla bocca avvicinandolo
alla propria, la cenere che gli cadeva sul petto bagnato
dall’alcol e dal
sangue e dalla schiuma rosea che gli colava ai lati della bocca.
Si pulì con un braccio,
compiaciuto.
«Imminente coma etilico,
intossicazione cronica da
etanolo, reni e fegato al collasso: sto una meraviglia,
insomma» rise forte,
sempre più forte, fino a che tante risate non gli
contrassero il volto in una
smorfia divertita e impaurita allo stesso tempo.
Quell’espressione aveva
del grottesco, vista in quel
preciso contesto da far accapponare la pelle: Phobos mezzo nudo che
trasudava
letteralmente alcol da tutti i pori, Thorax zuppo quanto il padrone per
le
birre spaccategli in testa, gli abiti fradici abbandonati sulle macerie
anch’esse bagnate dalle bevande rovesciate o vomitate in due
giorni di bevute
selvagge, persino il suolo si era impregnato talmente tanto degli
alcolici da
puzzare quanto quest’ultimi.
Eppure lui rideva, e rideva, e
rideva ancora, e
intanto piangeva, e piangeva, piangeva come non aveva mai pianto in
vita
propria: non sapeva il perché, ma lo faceva stare meglio.
La radio smise di funzionare
qualche istante e lo
interruppe, ma non fu nulla che un colpetto non potesse risolvere.
“A
chance to find a phoenix for the flame
A chance to die but
can we dance into the fire!”
Si tolse il
sigaro dalle labbra, osservando come ipnotizzato la parte del tabacco
che
ancora bruciava, gli occhi oro opaco ora ravvivati da quel luccichio
arancio-giallastro.
Era sempre
stato affascinato dalla danza delle fiamme, dal modo in cui si
contorcevano
come bestie feroci in quella lotta fatta di scintille e lapilli e
calore
intenso, poteva dire di trovare quasi eccitante il modo in cui il fuoco
consumava ogni cosa sul suo cammino lasciandosi dietro una scia di
sangue e
morte e distruzione. Ogni cosa, e ogni persona.
Si leccò le
labbra, il gusto pungente dell’alcol puro che gli fece
pizzicare da lingua da quant’era
forte: Spyritus ed Everclear, un connubio perfetto. Per morire, si
intende.
Gettò il
mozzicone acceso per terra. E allora fu l’inferno.
“Dance
into the fire,
that
fatal kiss is all we need!
Dance
into the fire
to fatal sounds of broken dreams!”
Era uno
spettacolo a dir poco meraviglioso: le macchie scure sul terreno che
improvvisamente si tramutavano in un caldo tappeto di fuoco dalle
curiose
sfumature azzurrognole e verdastre, i vapori dell’etanolo che
bruciavano
accendendo l’aria in un effetto domino sempre crescente,
sempre più vasto,
sempre più fuori controllo, fino a formare un vero e proprio
muro che s’innalzava
fino al cielo e oltre.
E lui lì,
appoggiato a delle scatole vuote ed al cadavere del suo leone coperto
di larve
di mosca che già lo stavano mangiando, che attendeva di
diventare parte del
combustile che avrebbe alimentato suddetto magnificente e poetico
spettacolo
naturale chiamato “incendio”.
Che poesia, che
scena, che pomposità!
“Dance
into the fire
that
fatal kiss is all we need!
Dance
into the fire
when all we see is the view to a
kill!”
Quando le fiamme
iniziarono a ghermirgli le gambe divorandogli la pelle e scavandogli le
carni,
Phobos sorrise con tutta la serenità del mondo; non
urlò, non emise nessun
suono, nessun lamento, molto semplicemente si strinse a Thorax,
accarezzandolo.
«L’amore
è uno schifo»,
gli disse ridendo.
La radio fu
l’ultima cosa a bruciare.
«Hai
combinato un bel casino».
Si svegliò
di colpo, guardandosi intorno: nero, era tutto nero, nemmeno
uno sprazzo di luce in tutto quel paesaggio sconfinato.
Guardò in
basso, notando come il pavimento -o qualsiasi cosa fosse- su cui
se ne stava paresse acqua, a giudicare dai cerchi concentrici che si
diramavano
dai suoi piedi quando si dondolava per bilanciarsi. Phobos
girò e rigirò su se
stesso a lungo, talmente a lungo che la testa finì per
girare insieme a lui,
ahimè senza risultato: non aveva idea di dove si trovasse,
non sapeva a chi
appartenesse la voce sentita poco prima di svegliarsi, a dirla tutta
non
ricordava nemmeno cosa stesse facendo prima di… prima di
fare qualsiasi cosa che
stesse facendo ora, insomma.
Avvertì un
certo bruciore e calore su tutto il corpo, ma non riuscì a
spiegarsi da cosa dipendesse; ci provò pure, a fare mente
locale degli ultimi
minuti prima di svegliarsi, ma nella sua mente c’era solo e
soltanto un vuoto
più vuoto di quel posto: nessun riferimento
spazio-temporale, nessun ricordo,
niente di niente.
“Forse sto
solo sognando”, pensò, e in effetti poteva pure
essere una
spiegazione piuttosto plausibile.
«Benvenuto,
bellezza, ti stavo aspettando».
“Questo
però non me lo sono sognato”, rettificò
poco dopo, sentendo molto
chiaramente la voce di poco prima dietro le sue spalle.
Col cazzo che si
sarebbe girato, col cazzo! Aveva visto abbastanza film
horror per sapere che, facendolo, poi l’assassino di turno lo
avrebbe sgozzato
come un agnello il giorno di Pasqua, cascarci nella realtà
sarebbe stato un
insulto alla sua stessa intelligenza! Decise allora di seguire
quell’istinto,
preferendo chiudere gli occhi e contare fino a dieci, venti, anche
cento se
fosse stato necessario.
Contando e contando,
infine si girò: non c’era nessuno.
Tirò un
profondo sospiro di sollievo: suggestione, nulla di più.
Calmatosi almeno sul
fatto che fosse solo lì dentro, girò i tacchi e
si
avviò per tornare indietro… o avanti, o dovunque
stesse per andare senza un
minimo di orientamento; improvvisamente, però,
sbatté contro qualcosa.
O meglio, qualcuno.
A fargli da muro,
c’era un uomo alto dall’aspetto androgino con la
pelle
bianca e diafana, che lo sovrastava non di poco troneggiando su di lui
con
quella sua cascata di capelli più neri del luogo in cui
galleggiavano, percorsi
qua e là da un curioso luccichio biancastro ora fisso, ora
intermittente, come
piccole stelle che rischiavano quella distesa di buio pesto che era il
cielo
notturno. Sulla sua schiena svettavano un paio di grandi ali, le piume
nerastro-violacee simili a vetro percorse da rune fucsia acceso.
Phobos
sentì uno strano brivido percorrerlo, la saliva che faticava
a
scendergli giù per la gola: non sapeva il perché
di quel giudizio, ma da uomo
eterosessuale qual era lo trovava quasi… affascinante? Era
quello il termine
giusto?
Va bene che lo aveva
mezzo scambiato per una donna, eyeliner e rossetto potevano
facilmente trarre in inganno, ma non riusciva a spiegarsi come potesse
aver
avuto anche il minimo dubbio di poter trovare sensuale qualcuno che
indossava
un completo di pelle e cuoio - in perfetto stile stereotipo
cinematografico da gay
bar del secolo scorso- e borchie, con tanto di cinghie che formavano un
pentacolo sul petto fra l’altro!
Assorto
com’era nei suoi pensieri, non si accorse della mani che si
misero
a palpeggiarlo letteralmente ovunque, come a studiarlo.
«Di persona
sei pure meglio di quanto credessi l’ultima volta, a dirla
tutta potrei pure farci un pensierino» rifletté ad
alta voce l’uomo, ammiccante.
«Ad Apophis però non lo diciamo, che se inizia a
fare il geloso chi lo
sopporta? Io no di certo, preferisco metterlo a tacere infilandogli il
mio
cazzo in gola, per cui eventualmente toccherà a te
farlo… anche se la vedo
dura, dal momento che lui è lassù»
indicò quello che doveva essere il soffitto
di quel luogo, dove una luce bianca iniziò a brillare,
formando qualcosa di
molto simile alla Luna «e tu quaggiù»
indicò il pavimento.
Phobos
trasalì: Apophis… quel nome non gli era affatto
nuovo, sentiva di
conoscerlo, sapeva di conoscerlo, gli suonava così
tremendamente familiare!
Una parte di
sé era convinta al cento percento di averlo già
sentito, un’altra
invece era convinta che probabilmente quello era solo
l’ennesimo di tanti,
troppi, nomi che gli vagavano nella mente senza meta, senza
destinazione, senza
un volto a loro assegnato.
«Come
sarebbe a dire “l’ultima
volta”?» domandò infine, facendosi
coraggio.
L’altro lo
guardò qualche istante, confuso esattamente come lo era lui.
«Oh,
è vero! Me ne stavo quasi scordando!»
esordì poco dopo dandosi una
pacca sulla fronte, come se avesse improvvisamente avuto
un’illuminazione.
«Devi scusarmi, zuccherino, mi ero completamente dimenticato
del lavoro della
Barbie Platinata col tuo povero cervello: ovvio che non ti ricordi di
me, non
ti ricordi di un bel cazzo di niente! Eheh!» rise, una risata
talmente affilata
che a Phobos parve quasi di sentirla lacerargli le carni.
Gli afferrò
il mento, le unghie affilate che lasciavano profondi segni
rossi sulla pelle pallida.
«Ma ora
c’è qui lo zio Endy a darti una mano,
contento?»
«Lo zio
En-»
Una fitta lancinante
gli attraversò la testa da una parte all’altra,
lasciandolo senza fiato.
Anche questa volta, a
Phobos parve di aver già provato quel dolore, di
aver già vissuto quella spiacevole sensazione di sentire
migliaia di coltelli che
gli si conficcavano all’unisono nella materia cerebrale
riducendola in zuppa, di
essere familiare a quella sofferenza. Eppure…
eppure…
Eppure ora
si ricordava fin
troppo bene che ad infliggerglielo era stato Apophis, la prima volta in
cui gli
aveva fatto visita nella sua testa.
L’altro lo
guardò, soddisfatto e alquanto compiaciuto.
«Come ho
detto, lo zio Endy pensa a te» gli disse languido
applaudendosi
da solo, poi agitò le mani davanti a sé
«non ringraziarmi, ti prego, ho solo
fatto il mio dovere di divinità fastidiosa e bastarda fin
dentro il midollo: è
sempre un immenso piacere fare uno sgarbo a qualcuno, del resto sono io
dio proprio
di questo genere di cosucce da umorismo spiccio» rise.
«C-cosa
m-mi… m-mi… hai f-fa-fatto?»
balbettò il rosso da terra, tentando
inutilmente di rimettersi in piedi a causa della testa che ancora gli
martellava
Il suo interlocutore
gli si avvicinò.
«Barbie ti
priva della memoria, io te la restituisco» spiegò
brevemente. Gli
tese una delle ali per aiutarlo a rialzarsi «O almeno, io
annullo i suoi
patetici incantesimi da dilettante qual è: vanta
chissà quanta esperienza con
la magia, si proclama come “l’unico Lunanoff degno
di sedere sul trono del Palazzo
della Creazione”, ma la verità è che
non riesce nemmeno a farsi una tinta come
si deve. Sapevi che è biondo platino tinto, eh? Al naturale
è castano, lui!
Chiaro, certo, ma castano non è biondo platino,
eh!» gli sussurrò all’orecchio
quasi stesse confessando chissà quale segreto.
Phobos si mise sulle
proprie gambe, aspettando a lasciare la presa salda
di quelle piume -incredibilmente dure e affilate, aveva notato-
finché gli arti
non smisero di tremare per lo sforzo al quale si era appena sottoposto.
Gettò uno
sguardo verso il proprietario di suddette piume: quella
voce…
quella voce era la stessa che aveva sentito quando aveva tentato di
attaccare
Apophis, la stessa identica voce di allora!
Allora si era detto
che probabilmente era un suo alleato, ma adesso
trovava alquanto improbabile che un suo collaboratore si mettesse a
riparare ai
suoi danni; la memoria gli era tornata, avrebbe dovuto essere contento,
ma non
ci riusciva nemmeno se si concentrava: c’era sotto qualcosa,
ma non aveva idea
di cosa fosse.
«Non
guardarmi così, avanti!» lo canzonò
l’altro alzando le mani in segno
di resa, notando come Phobos lo stesse fissando insistentemente.
«Lo so, lo so,
Barbie ha i capelli troppo morbidi per pensare che siano opera di ore e
ore e
ore di lotta in bagno contro il decolorante e la tinta che pare avere
vita
propria da quanto si sparge ovunque,
ma questi poveri occhi» se li indicò, due macchie
nere nelle quali facevano
capolino un paio di iridi e pupille bianco argenteo ciascuna
«hanno visto cose
che voi moscerini non potete nemmeno immaginare. Tipo Apophis quando si
fa la
maschera con-»
«Chi diavolo
sei?» lo interruppe Phobos.
L’uomo
sorrise.
«Endless
Sorrow» disse con un inchino «dio delle disgrazie e
della
sventura, mietitore di speranze e sogni, flagello di mortali e
immortali,
macellaio di divinità, nonché quello che si
sbatte Apophis Nightcrawler alias
La Barbie Platinata. Non sono di queste parti, diciamo che mi trovo in
questo
universo in villeggiatura: troppe grane, da me, troppe principesse del
giorno e
della notte e dell’amicizia e dell’ammmore e di
stocazzo. Ero stressato e avevo
bisogno di una pausa, per cui» allargò le braccia,
aprendo al contempo le ali
«eccomi qui».
Gli si
avvicinò, guardandolo dall’alto in basso
«Mentre tuuuuu…»
«Io
sono-»
«Phobos.
Capelli rossi, occhi dorati, seimila anni, principe dei
Chronalion e ultimo di essi, amante dell’allora principessa
degli Starequus,
Harmonia, unica sopravvissuta della sua razza nonché Regina
di Phantasia e del
pianeta Exodus. Siete diventati coppia fissa, millenni fa, ma la vostra
storia
è tragicamente finita settecento anni or sono per colpa di
Barbie. Nonostante
il modo completamente differente col quale avete affrontato la
situazione -uno
schizzato e schiavo di Apophis, l’altra disperata ma che ha
comunque trovato la
serenità con una naga ninfomane ermafrodita- vivete entrambi
consumati dal
senso di colpa: tu per non averle detto che non era colpa sua, lei per
non
essere riuscita a dirti addio».
I segni sulle sue ali
presero a brillare, poi Endless schioccò le dita:
comparvero un tavolo imbandito e due sedie, su una delle quali prese
posto lui.
«Questo lo so, tesoro mio, dimmi
qualcosa di nuovo».
Dire che Phobos si era
improvvisamente tramutato in una statua di marmo
non avrebbe reso sufficientemente bene l’idea di quanto fosse
sconvolta
l’espressione dipintasi sul suo volto.
“Endless
Sorrow, dolore eterno: un nome, una garanzia”, fu tutto
ciò che
riuscì a pensare nel mentre che il suo cervello si riduceva
in pappa, in
poltiglia, in un liquido denso che -se ondeggiava leggermente la testa-
gli
pareva di sentire scivolare da una parte all’altra della sua
scatola cranica
ora vuota, dal momento che tutto ciò che conteneva si era
volatilizzato
sentendo le parole del dio che aveva davanti.
Chronalion…
da quanto tempo non sentiva pronunciare quella parola da
qualcuno? Secoli? Millenni, forse? No era prima, molto prima, proprio
quando…
quando… no, no, no!
Si era ripromesso di
non sollevare mai più quel velo pietoso che -seimila
anni fa- aveva steso su quell’argomento, sulla sua vita prima che tornasse indietro, prima che
diventasse il partner della
Regina di Phantasia, e non intendeva scoprirlo proprio ora solo
perché qualcuno
dava a vedere di saperne su di lui più di quanto ne sapesse
lui stesso: ci sono
porte che non vanno aperte, libri che non vanno letti, vasi di Pandora
che non
devono essere scoperchiati, e per quel capitolo della sua esistenza
valeva la
stessa cosa.
E sarebbe valsa sempre.
Mostrarsi calmo,
però, non fu così semplice; anche se il rosso
riusciva a
nascondere bene il volto contratto dallo stupore, le sue mani tremanti
e la
sudorazione elevata lo tradivano.
«Come fai a-
a-»
«Potrei
essermi permesso di dare una sbirciatina ai tuoi ricordi, prima
che tu ti suicidassi» lo anticipò il dio
mettendosi un tovagliolo al collo «roba
interessante, devo ammetterlo, se non avessi finito le orecchie
d’infante
fritte con salsa Worcester sarei ancora qui a godermi lo spettacolo. Ma
purtroppo-»
«Suicidato?»
ripeté Phobos, tanto basito quanto incredulo.
Endless Sorrow lo
invitò a sedersi.
«Suicidato,
sì. Eri disperato per la morte del tuo amico leone, di
Thorax,
così ti sei spaccato ammerda di alcol -e droga, quelle canne
prima dei sigari
le ho viste eh!- finché non sei completamente partito di
zucca» si avvicinò il
dito alla tempia, muovendolo in cerchio per indicargli come avesse
perso
qualche rotella. «Ti sei dato fuoco, alla fine: scenografico,
non lo metto in
dubbio, ma ho visto talmente tanti roghi che non mi è poi
sembrato chissà cosa
di così spettacolare, a dirla tutta» concluse.
«Mi avrai
scambiato con qualcun altro, allora» lo interruppe sedendosi
«perché
da quel che ricordo io non mi sono mai suicidato né ho mai
pensato di farlo,
tantomeno ho motivi per averlo fatto o volerlo fare»
“tranne l’essere
intrappolato nel mio stesso subconscio”, avrebbe voluto
aggiungere, ma tacque.
«Hai qualche prova in merito, magari?»
«Oh,
ovviamente» rispose l’uomo alato, sorridendo.
Allungò una
mano verso il nulla che li circondava, sfiorandolo con
l’unghia
dell’indice come se volesse graffiarlo; contro ogni
aspettativa, uno squarcio
rosa acceso e violaceo si aprì in quel tessuto nero come la
pece, che iniziò a
sanguinare una serie di piccole sfere multicolore.
Il dio ne prese una
fra le dita, studiandola e gettandola nel bicchiere
davanti a sé: immediatamente, dinanzi a Phobos si
palesò una sorta di macchia i
cui contorni andarono allargandosi pian piano, delineandosi in qualcosa
che somigliava
molto ad uno schermo. Endless Sorrow gli fece segno di guardare, e
così fece:
le forme indistinte si delinearono poco alla volta, acquisendo
finalmente un
aspetto e un volto.
Il suo, per essere
precisi.
«Sono…
morto...?» mormorò il rosso, con un tono che aveva
dell’’interrogativo. Probabilmente aveva bisogno
che qualcuno lo svegliasse da
quell’incubo, ma non accadde: più guardava il suo
corpo carbonizzato, più il
ricordo di ciò che aveva fatto riaffiorava nella sua mente
stanca e dilaniata da
mille dubbi, da mille paure, da mille torture che stava subendo da
sette secoli
a quella parte.
L’altro
sospirò, quasi annoiato.
«Nah, non
puoi morire».
«C-cosa?»
Endless si
portò un boccone di quello che pareva essere curry alla
bocca,
masticando lentamente prima di rispondere. Lo mando giù,
leccandosi le labbra
dopo averlo fatto.
«Quello che
ho detto. Non puoi morire, pasticcino dolcino che non sei
altro. Non finché servi a Barbie, almeno. Avanti,
mangia».
«Ma io
vorrei sapere-»
«Saprai, ma
intanto mangia, che ti vedo sciupato. Sarebbe un peccato
sprecare tutto questo cibo gustandolo freddo, non è mica
come la vendetta» rise
il dio indicandogli il piatto «e anche quella va consumata
subito, parola di
chi ha atteso e si è trovato imprigionato come il
più patetico degli dei brutti
e cattivi. Anzi, solo cattivi: sono fottutamente fa-vo-lo-so, non
credi?»
Non sapendo
cos’altro dire, Phobos annuì.
Guardò il
proprio piatto, indeciso sul da farsi: non aveva nessuna voglia
di mangiare, ma non poteva nemmeno rifiutare un invito da parte del dio
delle
disgrazie e della sventura; non lo conosceva e non aveva idea di cosa
potesse
fargli, ma preferiva non scoprirlo.
Con uno sforzo immane,
dunque, si portò la forchetta alla bocca. Appena il
cibo gli sfiorò la lingua, alzò di scatto la
testa, come se fosse stato
svegliato all’improvviso.
«Piace il
curry di zio Endy, uh?» domandò l’altro,
intanto che metteva nel
piatto quelli che sembravano crostini dorati bruciacchiati.
«È…
È… è assolutamente delizioso.
Delizioso» rispose lui, sconcertato. Non
credeva di starlo dicendo per davvero, il rosso, ma non aveva altre
parole per
descrivere la tempesta di sapori che stava imperversando sul suo
palato: quel
piatto era semplicemente una delizia, una primizia come mai ne aveva
provate in
vita sua! Di fronte a tanto gusto, persino il suo suicidio non sembrava
più
così importante.
Ne mangiò
un altro boccone, poi un altro ancora, fino a quasi svuotare il
piatto, prima di continuare.
«Non credo
di aver mai mangiato qualcosa di sublime come questo» lo
indicò
con la forchetta, emozionato «dico davvero: è
speziato ma non eccessivamente,
si riescono a sentire tutti i sapori senza che uno sovrasti
l’altro, persino la
marcata nota piccante non disturba né intorpidisce la lingua
dopo averla avvertita,
per cui si riesce davvero a gustare fino in fondo. I miei complimenti,
sono
serio!»
Il dio
arrossì, facendo qualche moina da ragazzetta timida nel
mentre.
«Troppo
gentile, troppo gentile» lo ringraziò.
Gonfiò le ali, orgoglioso «Vedi,
il segreto sta nella placenta: bisogna lasciarla seccare al Sole a
lungo, ma mi
raccomando! Deve essere ancora attaccata alla madre, che altrimenti
perde
sapore e il piatto risulta sciapo! E se proprio vuoi fare il signore,
allora ci
aggiungi qualche pezzetto di feto umano appena strappato dal ventre
della sua
genitrice: amo soprattutto le manine» sollevò col
cucchiaio i presunti crostini
«sono una vera e propria benedizione per il palato, queste.
Le loro ossicine fanno
“crick crock” sotto i denti che è una
favola, scrocchiano che è un piacere!»
«WAT» esclamò
l’altro,
ingoiando l’ultimo boccone.
E pentendosene subito
dopo, quando sentì quel rumore di ossicina molli
rotte sotto un molare: non poteva essere vero, non dovev… lo
era, a giudicare
dal minuscolo piede che aveva sulla lingua.
Sconvolto, schifato e
pure un po’ impaurito, Phobos si gettò
immediatamente sulla caraffa che aveva davanti, svuotandola tutta
d’un fiato:
aveva appena mangiato dei feti, dei fottutissimi feti umani! Quello era
cannibalismo, per gli dei!
«Acqua!
Dammi altra acqua! SUBITO!» gridò quando la
terminò.
Endless lo
accontentò subito, facendone comparire un’altra;
solo dopo aver
bevuto qualcosa come quattro o cinque litri d’acqua,
finalmente il rosso alzò
la testa, visibilmente confuso: c’era qualcosa di strano in
quell’acqua, una
strana sfumatura rossiccia che però non sapeva di vino, e
nemmeno di… oh no.
«…
Non era acqua, vero?» rifletté ad alta voce dopo
qualche istante, inorridito.
La divinità
rise senza ritegno alcuno.
«Liquido
amniotico».
«Ma che
cazzo di problemi hai?!!» tuonò Phobos, intento a
ficcarsi due
dita in gola nel tentativo di vomitare.
«Mi
piacciono i bambini. Letteralmente»
rispose Sorrow facendo spallucce, come se fosse la cosa più
naturale del mondo.
«Ho solo gusti particolari, quante storie! Vedo una donna, la
scopo o la stupro
a seconda dei casi -perché qualche povera disperata che me
la dà
volontariamente c’è pure, cosa credi?-, la
ingravido, la sventro per mangiargli
il figlio: non è difficile da capire, è solo un
gusto differente dal tuo!»
spiegò, mostrandosi quasi offeso. «Non hai mai
conosciuto nessuno a cui
piacessero gli insetti? Ecco, vedila in questo modo: sono strano, tutto
qui».
«E mangi i neonati!»
«I feti,
prego» precisò «sono più
gustosi dei neonati, meno acquosi e meno
pieni di grasso. Ho anche io una certa linea da mantenere, cosa
credi?»
«Credo che
tu sia un fottuto pazzo. Divino, certo, ma pazzo.»
L’altro
stava per rispondere, ma si limitò a far comparire
l’ennesimo
piatto davanti al naso di un Phobos particolarmente iracondo. Il rosso
sollevò
il coperchio, rivelando un plumcake ai mirtilli ancora caldo sul quale
si stava
sciogliendo una porzione di gelato al fiordilatte, con topping di
caramello e
cioccolato bianco.
Lo guardò
sospettoso qualche istante, punzecchiandolo con la forchetta,
non fosse mai che ci avrebbe trovato dentro un dente da latte.
«È
un plumcake?» domandò.
«È
un plumcake. Un normalissimo, comunissimo, buonissimo,
plumcake»
rispose il dio, con tanto di bavetta alla bocca, sembrava glielo stesse
mangiando con gli occhi!
«…
Niente feti, qui dentro?»
Endless lo
guardò orripilato, quasi avesse bestemmiato in chiesa.
«Sono il mio
piatto preferito in assoluto, i plumcake, non mi azzarderei mai ad inquinarli con pezzi di corpo di
quegli schifosi mortali, mai e poi mai! Piuttosto mi strapperei una
piuma dopo
l’altra, mi taglierei i capelli, uscirei di casa senza
l’eyeliner, ma mai, MAI,
permetterei a dei luridi e lerci ningen
di rovinare tanta perfezione! MAAAAAAAAAI!!!».
«Parli come
Zamasu, cristo» commentò Phobos sprezzante,
scuotendo la testa.
«Zamasu non
aveva il mio fascino, ti prego, vuoi mettere il sottoscritto»
fece scivolare le mani dal collo fino ai fianchi, in un modo che doveva
sembrare provocante ma che -a conti fatti- aveva più
dell’inquietante «con
quell’omuncolo verde? Non c’è paragone,
avanti».
«Ma mi
sembri ugualmente interessato ai mortali, sbaglio?»
«Sbagli,
sì» rispose secco.
Si versò da
bere, temporeggiando prima di continuare.
«A me non
interessa niente di nessuno: sono una divinità capricciosa,
vogliosa
e pigra, tremendamente pigra, motivo per cui me ne sbatto il cazzo di
tutto e
tutti. Voglio solo divertirmi, in quest’universo, e con
“divertirmi” intendo
guardare esseri inferiori a me che si fanno la guerra, che muoiono dopo
dolori
indicibili, che schiavizzano altri esseri, che si dannano
l’anima per trovare
una via d’uscita quando questa non c’è,
che si nutrono come parassiti di ciò
che ho precedentemente elencato: sono un dio, Phobos, un dio crudele, e
questo è il modo in cui
mi diverto»
disse sorridendo tranquillo.
Poggiò i
gomiti sul tavolo «Oltre a scopare, si intende, metterlo nel
culo
a Barbie è un’altra mia grande passion-»
«Più
grande del venire qui a uccidermi senza che lui lo sappia?»
intervenne il rosso. Si alzò un po’ dalla sedia,
sporgendosi verso il dio
«Perché sei qui?»
«Per
ciò che ho appena detto: divertimento. Quello lo
mangi?» chiese
indicando il plumcake.
L’altro
avrebbe voluto mettergli le mani al collo, ma si trattenne.
«Ti ho fatto
una domanda» afferrò il dolcetto
«perché sei qui? Vuoi
uccidermi?»
«Mi hai
fatto una domanda, e intendo rispondere» asserì il
dio, piantandogli
le quattro pupille argentee addosso «ma prima voglio
quello» di nuovo, indicò ciò
che teneva in mano l’altro, ormai visibilmente irritato.
«È
la mia mente, questa, detto io le regole. E io dico che-»
«Che devi
darmi il mio plumcake. Subito»
gli intimò. Si fece improvvisamente cupo «Lo
voglio, e ora tu me lo-»
Ci fu solo un breve
sospiro causato dal soffice impasto che si ammosciava,
quando Phobos strinse con forza le dita intorno al dolcetto, rendendolo
una
poltiglia molliccia e appiccicosa dai colori non meglio definiti; lo
lasciò
cadere a terra con un sonoro “splat” quanto
toccò il suolo, le briciole che si sparsero
tutt’intorno come gocce di sangue: pareva una scena del
crimine, a vedere quel
povero plumcake spiaccicato al suolo, un delizioso cadavere dolce e
glassato
che giaceva inerme circondato dalle interiora fatte di mirtilli ormai
marmellata.
«No».
Se ci fosse stato un
colore più scuro del nero, allora sarebbe stato
quello perfetto per descrivere il tono che pareva aver assunto quel
luogo in
concomitanza col rifiuto del rosso all’insistente richiesta
del dio.
Quando lo sguardo
accusatorio di Endless Sorrow si riversò su di lui,
l’altro
uomo sentì lo stomaco farsi piccolo piccolo e il cuore
perdere un battito, forse
due, forse pure qualcuno di più: aveva sfidato una
divinità, e si stava
rendendo conto della gravità della cosa solo adesso. Ma non
avrebbe ceduto,
certo che no: voleva risposte, e le risposte sarebbero ciò
che avrebbe avuto;
divino o no, finché se ne stava nel suo subconscio avrebbe
rispettato le sue
regole.
Che sul piano teorico
funzionava pure, ma su quello pratico… meh.
Tutto d’un
tratto, sentì qualcosa muoversi sotto la mano che teneva sul
tavolino; guardò in basso: tavolo e sedie si stavano
sciogliendo.
Letteralmente.
Si scostò
subito, spaventato che il suo arto potesse fare la stessa
ingloriosa fine; messosi al sicuro dal rischio di liquefarsi, il rosso
osservò
come tutto il resto si fosse ridotto ad una macchia deforme stesa
tristemente a
terra, una sostanza viscosa che scoppiettava quando le bolle sulla sua
superficie si gonfiavano eccessivamente.
Restò
lì qualche istante, poi venne come assorbita dal pavimento,
o da
qualsiasi cosa fosse quella su cui si trovavano. Intanto, Endless
continuava a
starsene seduto nel vuoto senza sforzo alcuno, sospeso a
mezz’aria nonostante
la sua sedia fosse sparita.
«La mia
specialità sono le maledizioni» asserì
dopo un po’ con tono grave,
tenendo il capo chino. Le rune sulle ali iniziarono ad emanare uno
strano fumo
fucsia acceso, iniziando a brillare «Di solito scelgo
qualcuno, e semplicemente
lo maledico: semplice ed efficace, perfetto per un dio pigro come me.
Sai qual
è la cosa peggiore di una mia maledizione?»
domandò.
L’altro
scosse la testa.
«Che si
trasmette di generazione in generazione, di padre in figlio in
nipote e così via, continuando a tormentare il malcapitato e
la sua stirpe in
eterno senza mai fermarsi, semplicemente perché non
c’è incantesimo mortale o
immortale che possa fermarla. Ho spazzato via generazioni di
divinità, così, e
ammetto di essere fortemente tentato di farlo anche con te».
Seguì una
lunga pausa, durante la quale il dio parve seriamente
intenzionato a maledire pure lui, a giudicare dallo sguardo truce che
aveva
assunto.
«Ma sarebbe
inutile, dal momento che tu una stirpe non ce l’hai e mai
l’avrai, considerando la tua posizione».
Allargò le braccia, come a indicare la
vastità della mente dell’altro
«Guardati, Phobos, guardati e stai in silenzio:
solo, bloccato nel tuo stesso cervello, schiavo di un mostro come
Apophis che
ti sfrutta come il suo personale burattino, impossibilitato a
comunicare col
mondo esterno e costretto a vivere con consapevolezza di non poter
mettere fine
a questa tortura, di non poterti opporre quando Barbie ti ordina di
attaccare
ed uccidere Harmonia».
Lo guardò
come a studiarlo, sorridendo e corrugando la fronte nel mentre.
«Non potrei
fare di peggio, sono sincero, del resto cosa c’è
di peggiore
del non poter avere il controllo sulla propria vita? Di sapere che
è una
persona a te completamente estranea a controllarla e plasmarla a suo
piacere? A
decidere persino su come e quando tu debba mettere fine ad
essa?» domandò.
Il rosso non rispose,
limitandosi a stringere i pugni finché non sentì
le
nocche indolenzirsi, le unghie scavare nella pelle, il sangue colare
piano fra
le dita insinuandosi fra di esse.
Capendo di aver
centrato il punto, Endless Sorrow si fece comparire in
mano un plumcake identico a quello che l’altro aveva gettato
a terra; gli diede
un morso generoso, gustandoselo a dovere prima di continuare.
«Volevi una
risposta? Bene, io te la darò. Puoi tentare il suicidio
finché
vuoi, puoi anche riuscirci come hai già fatto dandoti fuoco,
ma sarà tutto
completamente inutile: tornerai in vita sempre e comunque, e quando
dico
“sempre” intendo proprio
“sempre”, in eterno».
«Perché?»
«Perché
servi ad Apophis, ecco perché» spiegò,
intanto che era intento a
scavare nell’impasto per cercare i mirtilli e mangiarli.
Ne prese uno fra le
dita, girandolo e rigirandolo; infine, si decise a
ingoiarlo.
«Esiliato
nel lato oscuro della Luna da incantesimi antichi quanto
l’universo,
ingabbiato come un animale da una barriera retta da magie che vanno
oltre
l’immortale comprensione, troppo accecato dai demoni che si
porta dentro per
organizzare le idee abbastanza lucidamente da pensare a ciò
che ti fa fare, la
Barbie Platinata non può certo portare a termine con le
proprie mani ciò che ha
iniziato settecento anni fa, ma tu» lo indicò
«puoi. Non vuoi, ovviamente,
perché a quella donna hai dedicato i tuoi ultimi seimila
anni di vita -o
meglio, cinquemila e trecento, togliendo la permanenza
nell’Abisso- e le hai
giurato assoluta fedeltà, ma ciò che vuoi o meno
tu non ha più nessuna
importanza: Apophis è rilegato sulla Luna, e tu sei rilegato
nella tua mente».
Con un movimento del
braccio, il dio fece comparire una scacchiera semi trasparente
e fluttuante davanti a sé.
«Apophis
è il re, tu il suo alfiere, i tuoi leoni sono i suoi pedoni.
Non
c’è nessun altro a proteggerlo, semplicemente
perché non ha bisogno di
protezione: nessuna creatura mortale o immortale può
oltrepassare la barriera, da
un certo punto di vista lui nemmeno gioca» disse, facendo
scomparire il pezzo
del re dal campo. «Dall’altra parte
c’è la regina, l’obiettivo di Apophis
alias
il tuo, dal momento che ti controlla. Cosa noti, guardando questo lato
della
scacchiera?»
Phobos rimase a
osservarlo per un po’, ma proprio non gli diceva niente di
niente; iniziava a pensare che Endless stesse vagheggiando per
confonderlo, ma
si tenne per sé quel pensiero: dopo il plumcake spiaccicato,
voleva evitare
altre grane.
«Ehm…
niente?» rispose imbarazzato il rosso.
Il dio scosse la testa.
«Guarda
meglio: che differenze noti fra questo lato»
indicò quello a
destra «rispetto a questo?» poi quello a sinistra.
«Che in
quello a destra ci sono più pezzi…?»
«Precisamente
quello» sorrise toccando la scacchiera.
Improvvisamente, i
pedoni di quel lato che si divisero in due, poi in
quattro, poi ancora in otto e così via, fino a diventare una
massa di minuscoli
puntini quasi indistinguibili, date le ridotte dimensioni rispetto ai
pezzi
originali.
La divinità
ne prese uno sul dito, mostrando quel granello di polvere
all’altro uomo.
«Harmonia ha
schiere di generali e soldati e gente pronta a proteggerla,
ai quali vanno aggiunti i guardiani e -occasionalmente- quelli che se
ne stanno
ai piani alti. Un numero indefinito di persone il cui unico obiettivo
è quello
di salvaguardare la regina, insomma, immolando persino la propria vita
se
dovesse rivelarsi necessario».
«È
quello che fanno tutti i soldati, Endless, perché ti
sorprendi tanto?»
«Oh, ma
perché tutti concentrano le loro energie sul proteggere la
loro
sovrana, ma -curiosamente- un tale dispiegamento di forze non
è impiegato per
proteggere qualcosa di ben più prezioso, o pericoloso, a
seconda dei punti di
vista».
Il dio si mosse,
mettendosi a girare intorno all’altro fino a trovarsi
alle sue spalle. Gli si fermò vicino all’orecchio,
avvicinandosi ad esso.
«“Possano i suoi zoccoli non essere
mai ferrati” non è solo il motto di
Phantasia, ma tu questo lo sapevi già» gli
sussurrò, la lingua -nerastra e biforcuta, notò
il rosso- che glielo leccò con
una certa malizia «e anche Apophis
lo sa».
A quelle parole,
Phobos si congelò: non riusciva più a muovere
nessun
muscolo del corpo, nemmeno le palpebre parevano rispondere ai suoi
comandi,
sembrava essersi scordato persino come si respirasse da quanto il suo
petto si
alzasse e abbassasse freneticamente.
No, Apophis NON
sapeva, no, no, certo che no!
Lui non aveva parlato,
mai lo avrebbe fatto! MAI!
«È
impossibile» si limitò a commentare stizzito: non
aveva tradito
Harmonia, non aveva rivelato nulla, lui, non era colpa sua. Non lo era.
Non
poteva esserlo. Non doveva esserlo.
Quella sua velata
disperazione venne subito notata dall’altro.
«Al
contrario, è possibilissimo»
controbatté l’uomo alato. Gli afferrò
il
mento, costringendolo a girarsi verso di lui che, intanto, si era
chinato per
guardarlo dritto negli occhi «Vuoi sapere chi glielo ha
detto, uh?»
Non ricordò
di aver annuito, ma dal sorrise di Endless Sorrow si rese
conto di averlo fatto.
Incontrò il
suo sguardo solo per una frazione di secondi, lo stesso in cui
si rese conto di non poterlo sostenere, di non poter reggere oltre il
confronto
con un essere di quel calibro; era fisicamente assente, del resto, si
sentiva come
se il suo corpo e la sua coscienza si fossero completamente staccati
l’uno
dall’altra, lasciando indietro quel guscio vuoto che si
reggeva in piedi solo
perché a sostenerlo c’era la presa della
divinità.
Quando le labbra del
dio si posarono sulle proprie, Phobos ringraziò gli
dei di non essere abbastanza lucido da rendersi completamente conto
della
situazione: avrebbe risposto alla sua domanda, forse, ma voleva
qualcosa in
cambio.
E quel qualcosa era
limonarselo.
O meglio, ficcargli la
lingua fino in gola fin dentro l’esofago,
mozzandogli il respiro e facendogli -purtroppo- riacquisire quel minimo
di
coscienza necessaria per rendersi conto di stare mezzo soffocando; non
che
allora poté scrollarsi il dio di dosso, ovviamente,
né riuscì a sottrarsi a
quel bacio talmente feroce da sembrare più il preludio di un
pranzo.
Chiuse gli occhi
stringendoli il più forte possibile, ricacciando indietro
quella lacrima solitaria che stava facendo capolino
all’angolo di uno dei due, con
l’unica speranza che tutto ciò finisse il prima
possibile: se quello sarebbe
servito a tornare da Harmonia, allora lo avrebbe sopportato in
silenzio.
Avrebbe sopportato tutto pur di poterla rivedere e toccare e baciare,
pur di
riaverla vicino per
sempre un’altra
volta, pur di poterle dire nuovamente “ti amo” con
la propria bocca. Tutto.
Tutto.
Dopo un tempo
interminabile, finalmente fu Endless a staccarsi, sorridente
e raggiante come mai fino ad ora. Lo guardò con
un’espressione che per il rosso
fu indecifrabile, un misto fra soddisfazione e malignità.
«Delizioso,
proprio come immaginavo. Cielo, non puoi immaginare quanto
vorrei stuprarti quel tuo culo verginello fino ad aprirlo tanto quanto
un buco nero
in questo preciso momento, ma mi tratterrò solo
perché sono di fretta» commentò
amareggiato leccandosi il labbro.
Lo squadrò
da capo a piedi, pensieroso.
«Dì,
vuoi ancora sapere chi è l’uccellino che ha
cantato su quel piccolo
segretuccio? Perché in caso contrario una scopata dovrei
riuscire a farcela
stare, prima che-»
«Dimmelo e
facciamola finita con questa storia» ringhiò il
suo
interlocutore, i pugni serrati che ci mancava poco partissero da soli
in
direzione dei denti della divinità.
Quest’ultima
gli toccò il naso con l’indice, ridacchiando.
«Sei stato
proprio tu,
sciocchino».
Prima che
l’altro potesse controbattere, però, Endless
Sorrow gli mise un
dito sulle labbra per zittirlo in partenza.
«Tu hai permesso a Barbie
di frugarti nella testa alla ricerca della via più
veloce per arrivare alla regina. Tu
hai
suggerito lui quali mosse far fare al proprio burattino -ovvero te
stesso- per
conquistare e radere al suolo Phantasia. Tu hai aperto il vaso di
Pandora,
quando sei evaso dall’Abisso ed hai spezzato il sigillo della
Dea di quel
pianeta in culo al cosmo. Tu e nessun
altro», Gli si avvicinò petto a petto,
costringendolo a indietreggiare «Se
c’è un colpevole, se c’è
qualcuno da condannare, se c’è un responsabile
contro
il quale puntare il dito per questa brutta faccenda, beh, quella
persona sei tu. Volevi fare
l’eroe, settecento anni
fa, ma sarai ricordato solo per essere stato il complice di un
massacro».
«Io non
ho-»
«Guardati,
Phobos, guarda cosa ti ha fatto il maggiore dei fratelli
Lunanoff! Controlla il tuo corpo. Controlla la tua mente. Controlla i
tuoi
ricordi. Ciò che ricordi tu, Apophis lo ricorda a sua volta,
o almeno lo vede:
non puoi tirarlo fuori dalla tua testa, è troppo tardi,
ormai». Si guardò
intorno, come se avesse appena scorto o sentito qualcosa
«Eeeeed è ora che io
me ne vada, non voglio essere qui quando ti cancellerà la
memoria e ti
strapperà dal dolce e confortevole abbraccio della
morte».
Girandosi,
indicò un lampo poco lontano, accompagnato da qualcosa di
molto
simile ad un ruggito che pareva provenire dagli inferi.
«La prima di
innumerevoli volte che verranno, si intende, perché ho la
vaga sensazione che -quando e se avrai qualche istante di
lucidità- finirai per
suicidarti ancora, e ancora, e poi di nuovo, nella vana speranza di
impedirgli
di arrivare al cuore pulsante di Phantasia. Ci si rivede, allora, mi
mancheranno quelle labbra».
«A-Aspetta!
ASPETTA!» gridò il rosso con tutto il fiato che
aveva in
corpo, disperato.
«Sì,
bellezza?»
Venne colto di
sorpresa dal dio che si voltò per ascoltarlo, menefreghista
com’era non si aspettava che l’avrebbe fatto per
davvero, ma ora non poteva più
tirarsi indietro: se voleva uscirne, allora doveva arrivare fino in
fondo.
Con uno sforzo
immenso, Phobos tirò fuori l’espressione
più minacciosa che
riuscì a racimolare.
«Se lui
guarderà nei miei ricordi, allora saprà anche
della nostra
conversazione, e non credo che tu lo voglia» gli fece
presente con calma
innaturale. «Se ora mi lasci qui, per me sarà la
fine, ma anche per te: Apophis
mi punirà come sempre, ma con te non sarà
più clemente».
«Cerchi di
ricattarmi, per caso?» domandò l’uomo
alato, sorridendo.
«“Ricatto”
suona male, trovo che la parola più adatta sia
“accordo
conveniente per entrambi”» precisò
facendo spallucce «se il tuo amico ti trova
qui, puoi stare sicuro che non si berrà la storia che fossi
solo curioso di
parlarmi in privato, specie quando andrà a frugare nella mia
mente e capirà che
tu hai complottato alle sue spalle: ti considererà un
traditore, e-»
«Ed
è proprio qui che sbagli. Non saprà mai cosa ci
siamo detti di
preciso, non verrà nemmeno mai a conoscenza che io sia stato
qui, in realtà:
sono un dio, credi davvero che non abbia preso le mie
precauzioni?» lo bloccò
Endless.
Improvvisamente,
tornò indietro da Phobos, fermandosi proprio di fronte a
lui. Di nuovo, quella sensazione di essere minuscolo tornò
ad assalirlo.
«Devi sapere
che, dal primissimo istante in cui ho messo piede qui dentro,
queste» si indicò le rune brillanti sulle ali
«hanno fatto ciò che fanno
sempre: nascondermi. Non puoi nemmeno immaginare quante creature abbia
portato
alla pazzia perseguitandole in pubblico, salvo fare il modo che mi
vedessero e solo
loro e che, solo a loro, io fossi tangibile. Guarda tu
stesso».
Aprì le
braccia e le ali, invitando il rosso a toccarlo; quest’ultimo
era
alquanto riluttante a farlo, ma decide di obbedire: posò la
mano sul suo
torace, e questa gli passò attraverso.
L’altro
rise, evidentemente compiaciuto.
«Plebei e
nobili, re e regine, dittatori e tiranni, tutti che venivano
internati come pazzi, quando farneticavano di un’ombra che
ghermiva i loro primogeniti
solo per far credere loro che la decima piaga d’Egitto fosse
una cosa da prende
sul serio; che sterminava i loro eserciti ancora prima che mettessero
piede
fuori dalle mura della città, per far insorgere le genti; o
ancora che gli infilava
una mano in mezzo alle gambe mentre loro tenevano i discorsi in
pubblica
piazza, la stessa dove venivano poi giustiziati dai loro stessi
cittadini, non
potevano mica tollerare un sovrano folle. “Dio delle
Disgrazie e Sventura”,
appunto».
Lentamente, il suo
corpo iniziò ad assumere lo stesso aspetto delle sue
ali, la pelle che lentamente veniva avvolta da una nebbiolina nerastro
violacea: man mano che avanzava pareva consumare
l’epidermide, le carni,
persino le ossa, lasciando dietro di sé una distesa di vetro
-o qualcosa che si
somigliasse molto- dello stesso colore.
«Tutto
ciò che Apophis vedrà sarà solo un
povero disgraziato che parla al
vento, niente di più e niente di meno: spiacente che il tuo
piano non abbia
funzionato» finse di scusarsi. Lo guardò
impietosito, quasi -falsamente-
commosso «Al prossimo suicidio, allora».
«Cosa-»
Una pioggia di schegge
lo investì in pieno.
Cercò di
gridare con tutto il fiato che aveva in corpo il suo dolore, ma
l’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu un suono
strozzato che nulla aveva di
umano.
Dinanzi a lui,
Apophis. Di Endless Sorrow non c’era più nessuna
traccia.
Rassegnato, il rosso
si limitò a sospirare: conosceva già la procedura.
Disse qualcosa, il
Lunanoff, ma l’altro non diede peso alle sue parole
né
le ascoltò; “Terra”, tutto
ciò che aveva capito in quel borbottio sommesso era
stato “Terra”, tutto lì.
Quanto
sentì una mano posarsi sulla propria testa, Phobos si
lasciò
scappare un sorriso quasi divertito, uno di quelli che solo i
condannati a
morte possono riuscire a trovare nel fondo dell’anima
già perduta che si
ritrovano. Chiuse gli occhi, cercando di visualizzare il volto di
Harmonia: era
stata l’ultima persona che aveva visto prima di finire in
quel limbo, sette
secoli prima, era stata il suo ultimo pensiero prima di suicidarsi poco
prima,
voleva fosse il suo ultimo ricordo ad andarsene, adesso.
Lo sarebbe stata
sempre. Sempre.
Phobos riaprì gli occhi.
Thorax fece lo stesso.
Si guardarono intorno, confusi,
vagando con le loro
menti vuote fra le chiome a cupola degli alberi rosati che li
circondavano:
quella non era Phantasia.
***
“Non è
importante la meta, ma il cammino”, disse un
qualche hippie new era in palese trip da LSD e oppiacei vari.
“Stronzate”,
diceva Emily Jane Pitchiner.
Non aveva idea di quanto tempo
avesse passato a
camminare e correre e farsi sferzare dalla pioggia per recarsi a
Tandokka, ma
-francamente- se ne sbatteva altamente il cazzo: era arrivata, alla
fine, e
contava solo questo.
Contava pure che fosse ridotta in
uno stato a dir poco
pietoso, mentalmente o fisicamente non si sapeva su quale fronte fosse
messa
peggio, ma quelli erano semplici dettagli; ora come ora voleva solo
andarsene,
fuggire, scappare, voleva diventare invisibile, sparire dal mondo senza
più
voltarsi, dimenticare di avere un passato e, forse, tentare di
ricominciare.
E voleva farlo una volta per tutte.
Se Emily non avesse saputo di
essere in ritardo di
trent’anni, avrebbe seriamente creduto che
l’impetuosa tempesta che l’aveva
accolta fosse opera sua e del clima che pareva seguire il suo umore, un
po’
come faceva ai tempi in cui era Madre Natura di fatto e non solo per un
titolo
che, con lei, sembrava non avere più nulla da spartire. Se
era felice, il tempo
era sereno; se lei era triste, allora pioveva; se aveva addosso
un’impellente
voglia di rovesciare il mondo e dargli fuoco come l’aveva
ora, allora tsunami e
terremoti e uragani sarebbero stati all’ordine del giorno.
A pensare a suddette onde anomale,
un conato di vomitò
le risalì prepotente la gola. Non riuscì a
trattenerlo, non ci provò nemmeno.
Secondo il suo modesto parere,
Gwenllian Jenkins
Pendragon doveva avere un’idea piuttosto precisa di cosa
significasse
“tsunami”, a giudicare da com’era
conciata lei e il luogo dove giaceva con
l’amante ritrovato in fatto di ingenti quantità di liquidi sparse ovunque.
E quando diceva
“ovunque” intendeva proprio “in ogni
singolo angolo, anfratto o buco possibile immaginabile, di carne o meno
non
aveva importanza”.
Ecco.
Aveva incontrato gli occhi di suo
padre solo per un
istante, una manciata di secondi soltanto, ma erano stati
più che sufficienti
perché capisse ciò che il suo sguardo volesse
dirle: “Esci da questa casa, e
allora uscirai anche dalla mia vita”.
Le aveva detto quello, Pitch Black,
o almeno Emily Jane
così aveva interpretato l’occhiata che si erano
scambiati; se Madre Natura
avesse guardato meglio nel fondo di quegli stessi occhi,
però, forse anche lei si
sarebbe accorta di quel “mi dispiace” che aveva
solcato la mente di un Uomo
Nero che certo non avrebbe voluto mostrarsi a chicchessia nel mentre di
un atto
sessuale. Ma a lei non importava, non l’era importato nemmeno
un secondo: lui per
primo aveva fatto una scelta, e quella scelta aveva le fattezze di una
donna
dai capelli color cioccolato e dagli occhi nocciola solcati da quella
curiosa
eterocromia azzurra, non di una ragazza dai capelli corvini e dalle
iridi
dorate come le sue.
Non di sua figlia.
Guardò il cielo nero di
tempesta: per gli dei, quanto
avrebbe voluto che fosse stato tutto l’ennesima delle sue
innumerevoli
allucinazioni! Mai come ora desiderava trovarsi davanti lo spettro di
Marigold che
se la scopava in una stanza in fiamme!
E invece no, doveva accontentarsi
della cruda realtà
che le si palesava davanti anche lì, anche nel suo regno
perduto e ormai
disabitato.
Poco male: più ossigeno
per lei.
Come a svegliarla dal torpore nel
quale Madre Natura
stava crogiolando con lo sguardo perso nel vuoto, uno stormo di ara
macao -ormai
gli unici abitanti di quel luogo abbandonato da dio, insieme a scimmie
e
alligatori- si levò sopra il suo naso, volando talmente
basso che riuscì a
sentire persino l’aria spostata dalle loro ali che fremevano
e si dibattevano
nell’etere. Alzò lo sguardo per godersi lo
spettacolo offerto da quei maestosi
volatili, nonché dei suoi unici sudditi: incuranti della
pioggia scrosciante
che coprivano con le loro grida, il loro intenso gracchiare le
strappò
addirittura un risata in quella giornata da dimenticare, quando Emily
pensò che
-con tutto quel rumore- fossero in grado di risvegliare pure i morti.
Poi le defecarono in pieno volto, e
allora rise un po’
meno.
Con inquietante compostezza, si
specchiò in una
pozzanghera ai suoi piedi: come diavolo si era ridotta? Era ancora la
regina di
Tandokka, era ancora Madre Natura, oppure era diventata lo zimbello dei
pappagalli, oltre che del resto del mondo?
Ma soprattutto, come aveva fatto a
perdere tutta la
sua dignità e iniziare a sprofondare, sprofondare,
sprofondare sempre più in
basso, fino a toccare il fondo di un abisso prima a lei sconosciuto, un
luogo
dove la patina di regalità e acidità nella quale
si era rinchiusa non poteva
più raggiungerla per proteggerla e salvaguardarla, come? O
meglio, per colpa chi?
Ululando, il vento parve suggerirle
la risposta.
Emily Jane sospirò: non
aveva bisogno di ascoltare ciò
che già sapeva, conosceva fin troppo bene il nome e
l’aspetto di chi c’era dietro
le sue disgrazie da tre decenni a quella parte, un ripasso era
l’ultima cosa di
cui aveva bisogno. Specie se a darglielo fosse stato un temporale che,
tempo
immemore fa, avrebbe potuto controllare col solo schioccare delle dita.
“Oggi la tempesta, domani
Harmonia”, si disse, poi si
chiuse la porta alle spalle.
E la bufera tacque.
Le radici dell’Albero di
Olduvai si richiusero dietro
di lei, intrecciandosi attorno a quel pezzo di corteccia ricavato
direttamente
dal tronco della pianta come a sigillarla.
Lentamente, Madre Natura prese a
salire le lunghe
rampe che l’avrebbero portata alla sua casa, o almeno a
ciò che ne rimaneva:
l’incendio di sette secoli prima aveva ridotto quel luogo ad
un colabrodo -come
il resto di Tandokka, in fin dei conti- marcio e scricchiolante, gli
scalini
che ad ogni passo lanciavano rumori grotteschi fin troppo simili a
grida che
rendevano la risalita quasi surreale, con quel pizzico di sano brivido
nel
temere che il passo successivo sarebbe stato l’ultimo e poi
puff! Il legno
carbonizzato avrebbe ceduto e inghiottito il malcapitato!
Per gli dei, quanto avrebbe voluto
che le capitasse
proprio ora, quanto!
Sfortunatamente per lei,
però, la giovane Pitchiner
arrivò sana e salva fino alle sue stanze.
Con disprezzo, gettò
lontano quella maledetta
saccoccia lercia e bucata che si trascinava appresso da giorni, i pochi
vestiti
buoni a lei rimasti che si riversarono sul pavimento zuppo
d’acqua e fango e
guano -sia a causa sua, sia a causa degli uccellini che fra i rami
dell’albero
avevano trovato dimora- nella sua totale indifferenza. Li
guardò: nah, era
troppo stanca per premurarsi di raccoglierli, o di preoccuparsi per
come li
avrebbe lavati, o di fare qualsiasi cosa non fosse
l’accasciarsi mollemente
sulla poltrona sgualcita e strappata che ben volentieri
l’accolse.
Abbandonò il proprio
corpo su di essa stendendosi e
stirandosi un gatto, le ossa sporgenti che parevano prendere la forma
della
seduta come acqua in una caraffa: bere, aveva bisogno di bere per
dimenticare.
«Shajiiiiiiiiraaa!
Shaaaaaajiiiiiiiraaaaaaaaaa!» gridò,
chiamando la propria serva.
Quest’ultima non rispose,
il che era tutto fuorché
normale: era sempre stata una domestica fedele e sottomessa a lei, alla
sua
regina, che sopportava con incredibile pazienza le sue scenate
assecondandola
in ogni richiesta, anche la più infantile. Appena Madre
Natura la chiamava,
Shajira correva come una matta per soddisfare il capriccio del momento
della
sua sovrana, eppure ora non lo stava facendo.
“Quella dannata
bracciante nata in un campo di cotone
mi sentirà, appena riuscirò a metterle le mani
addosso! Si sarà imboscata con
qualche uomo!”, pensò la giovane Pitchiner,
visibilmente furibonda.
Presa dalla rabbia,
saltò giù dalla poltrona e si
diresse verso le stanze della servitrice a grandi falcate; non
bussò nemmeno,
intenzionata com’era a coglierla sul fatto. Sfondò
la porta.
«Sei in un fottuto mare
di guai, battitrice di strade
che non sei altro! Giuro che ti-»
S’interruppe: non
c’era nessuno, in quella camera.
Non convinta, Emily
entrò e iniziò a guardarsi in giro
sospettosa, aprendo ogni armadio e frugando in tutti i cassetti e
rovesciando
addirittura il letto, convinta com’era di trovare tracce
della domestica là
dentro.
Non trovando nulla -e non essendo
possibile che quella
benedetta donna si fosse volatilizzata da un momento
all’altro, fedele com’era
verso la propria regnante- ma non ancora convinta, uscì
sbattendo violentemente
la porta, sbuffando e borbottando fra sé e sé: se
a quella disgraziata dalla
pelle color ebano fosse accaduto qualcosa… no, no: doveva trovarla, non aveva altra scelta
se voleva continuare a
vivere tranquilla.
Una porta dopo l’altra,
una stanza dopo l’altra, la
regina di Tandokka passò il rassegna tutto
l’Albero di Olduvai, tutti gli
angoli e tutti gli anfratti del suo palazzo, senza trovare nulla;
qualche
minuto e, complice lo stress accumulato in quei giorni, la ricerca
della serva
passò in secondo piano: aveva bisogno di un lungo bagno
ristoratore, e che
Shajira si fottesse!
Nemmeno a farlo apposta,
sentì il suono dell’acqua
ancora aperta provenire dal bagno, accompagnata da una scia di abiti e
orme
sporche di fango che s’interrompeva davanti alla porta
d’entrata per
quest’ultimo.
Stanca com’era e
totalmente disinteressata a sapere
perché la domestica non avesse assolto ai propri doveri di
tenere in ordine la
casa, Emily Jane decise di sorvolare, trascinandosi fino a suddetto
bagno quasi
strisciando da quanto sentiva le gambe molli; iniziò a
spogliarsi piano,
lentamente, prendendosi tutto il tempo del mondo: aveva corso come una
forsennata
per tutto il tempo per arrivare a casa sua, decisa com’era a
lasciarsi dietro
le spalle suo padre e la sua puttana il prima possibile, tanto voleva
fare con
calma ora che finalmente poteva permetterselo.
Solo quando rimase in intimo, Madre
Natura notò che c’era
qualcuno dentro. Qualcuno che canticchiava, oltre a consumargli
l’acqua.
«Siamo
ritornati porca troia!»
Un ruggito si levò alto,
come a rispondere.
«Puoi
dirlo forte Thorax!»
Un
altro
ruggito rispose, questa volta più forte del primo.
«Harmonia
ti piscio in bocca!»
Qualcuno tipo Phobos, magari.
Nudo come un verme, con i gioielli
al vento che si
stava smanettando e, non meno importante, intento a sguazzare con tanto
di
pinne e boccaglio in una vasca piena di svariate latte di fagioli con
salsa,
tutte accatastate in un angolo a coprire una povera Shajira legata e
imbavagliata.
Vicino a lui, un Thorax
evidentemente alticcio che
emetteva bolle di sapone dalle fauci; forse perché si era
tracannato quattro o
cinque bottiglie di balsamo, a giudicare da quelle vuote sparse sul
pavimento.
Dinanzi alla doccia, Emily Jane in
mutande e reggiseno
rossa più del pomodoro contenuto in quelle scatolette, non
si sapeva se più per
l’essere senza vesti o per l’erezione
dell’altro.
Coperta di legumi, ovviamente, come
pure quelli
appiccicati ai capezzoli.
Il rosso la notò subito;
immediatamente le lanciò
-forse per lo spavento, forse perché era rincoglionito e
basta- una scatola piena
e aperta addosso, colpendola in piena fronte.
«Kessobuona sti faciola!
Porkaglidey mi piasano
pedavero li faciola, li mancio tutti!»
Il perfetto copione per un film
porno, insomma.
O per una pasta e fagioli.
[…
poco dopo…]
«Barbeeeraaaaa!»
«chaaampaaagneeeeee!»
«staaaseeera
beeeeeviam!»
«peeer
cooolpa deeel mio amooooor!»
«pa-ra-pa
-PA!»
«peeer
cooolpa deeel tuo amooooor!»
«pa-ra-pa-pa!»
«aaaaAi
nooostri dooolooooor!»
«insieeeeeme
briiiiindiaaam!»
«col
tuuuuo biiicchieeere di baaarbeeeeera! coool miiiiio bicchieeeeere
di chaaampaaaaagneee!» concluse Emily Jane,
sollevando in alto la propria bottiglia di champagne come se fosse un
trofeo,
spaccandola a terra subito dopo. Phobos la imitò,
rompendogliela dritta in
testa con entusiasmo degno di un bambino.
I due compagni di bevute si
guardarono qualche
istante, sorpresi e confusi, quasi si fossero improvvisamente resi
conto di
cosa stessero facendo.
Ma fu solo qualche istante, appunto.
Non aveva niente in comune, quei
due, niente in comune
se non l’odio profondo per la Regina di Phantasia: ci
sarebbero stati mille
modi diversi in cui Emily avrebbe potuto reagire alla presenza di uno
sconosciuto nel suo palazzo, come ci sarebbero pure stati mille altri
luoghi in
cui Apophis avrebbe potuto far finire Phobos, eppure eccoli
lì a mangiare
fagioli -“faciolaH!”, avrebbe detto il rosso-
affogati nell’alcol.
Ridendo come cretini, si stesero a
terra poggiandosi
le teste sopra il dorso Thorax, intento a leccare Martini da una
ciotola posta
davanti al suo muso.
La giovane Pitchiner -armata di
reggiseno tenuto sulla
testa come un cappello- prese una mano dell’altro,
stringendola nella propria.
«Siamo best friends
forevaH, vero?» domandò.
Phobos le sorrise, la bocca piena
di legumi che si riversarono
sulle loro mani unite come a benedire quell’unione.
«Ovviamente»
rispose sbavando salsa che gli intanto
gli andava di traverso e, quindi, gli usciva dal naso «best
friends forevaH,
Madre Pretura!» rispose tutto contento, dandosi ad un
abbraccio alquanto
fagioloso.
E incrociando le dita dietro la
schiena.
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Angolino dell’autrice
HASTA
LI
FACIOLA!
Dissi che Phobos aveva ormai
toccato il fondo più
profondo del disagio e della pena, e che più in basso di
così non sarebbe
potuto scendere? Mi sbagliavo, e non
aveva idea di quanto! :’D
Non ho nulla da aggiungere, mi
limito a scusarmi per
il ritardo nel rispondere alle recensioni ma pian piano mi sto
organizzando per
rispondere a tutto e tutti, vi ringrazio per la comprensione e ne
approfitto
per ringraziare anche per tutti quelli che leggono, recensiscono o
semplicemente seguono questa storia, Endless Sorrow vi
porterà dei plumcake in
segno di gratitudine <3
Spero che sia tutto chiaro e non ci
siano parti
confusionarie, nel caso non esitate a chiedere ulteriori delucidazioni
:)
Alla prossima!