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Autore: Midnight Lies    23/01/2018    2 recensioni
C'erano volte in cui succedevano cose.
Strane, spaventose, sbagliate.
E a lei piaceva.
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«Tu chi sei, scusa?» domandai, irritata.
«La tua Fata Madrina, tesoro».
--
«Se tu dovessi esprimere un desiderio...» mormorò, ignorando totalmente ciò che avevo appena detto.
--
Quando poggiai il piattino con la tazza, assieme ad una brioche al cioccolato, lui sollevò lievemente il mento che fino a quel momento era stato poggiato sul pugno chiuso, il gomito sul tavolo. «Grazie» disse con cortesia, senza guardarmi.
Quella voce, mi paralizzò.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Matt, Mello, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2.






Nicholas Oak, il ragazzo spettinato, mi aveva consigliato di sedermi per un attimo e riprendermi, eventualmente.

Non appena il giovane si rimise al lavoro, offrendosi gentilmente di prepararmi una cioccolata calda, presi in mano il cellulare. Dovevo parlare con qualcuno. Qualcuno che conoscessi, preferibilmente.

Nick mi aveva detto che eravamo a Los Angeles. E gli risi in faccia, fu più forte di me, perché era palesemente impossibile. Come potevo io, Michelle, normalissima ragazza che fino a cinque minuti prima era ad ascoltare musica in camera sua, in un paesino fottuto dai lupi in provincia di Lecco, in Italia, essere ora a Los Angeles, nella costa più lontana a ovest degli Stati Uniti, con indosso un grembiule nero?

Avevo controllato. E a meno che non mi si fosse drogato il GPS, sembravo davvero essere a Los Angeles. Pensai fosse uno scherzo, era l'unico pensiero razionale che riuscivo a formulare.

Non capivo come avessero fatto, ma me lo avrebbero di certo spiegato dopo avermi mostrato la posizione delle telecamere. Per quanto riguardava il GPS, pensai non fosse così difficile farlo confondere.
Oltretutto, perché a Los Angeles stavamo tutti parlando italiano? A quella domanda, lui mi guardò, rispondendo che abbiamo sempre parlato inglese e che lui non conosceva una parola d'italiano. A stento aveva superato gli esami di spagnolo, a scuola, e malgrado l'immane sforzo non ricordava nemmeno più nulla, dalla consegna del test. Mi disse che lo stavo davvero preoccupando.

Non replicai, ma quel discorso non stava né in cielo né in terra. Come fai a parlare in inglese così fluentemente senza nemmeno accorgertene, con la netta certezza di star parlando italiano? Ero confusa, ma non stupida. Avrebbero dovuto organizzarlo meglio, come scherzo. Anche se c'era una chilometrica lista di cose che non riuscivo ancora a spiegarmi.

Cercai Rebecca tra i contatti su Whatsapp ma notai subito la mancanza di tacche.

«Scusa...» esordii. Lui si girò, sorridendomi con disponibilità. «Qui non prende, internet?»

Aggrottò la fronte: di certo avrebbe dovuto funzionare. Poi alzò le sopracciglia, come avesse ricordato qualcosa d'improvviso.

«In cucina no. Devi andare in sala, oppure fuori» disse, porgendomi la tazza contenente del denso cioccolato, scuro, cremoso e fumante. Inspirai a fondo, riempiendo i polmoni del suo profumo, dolce e caldo.

«Prova» propose dopo che lo ringraziai, indicando con un gesto rilassato dell'indice la porta aperta, schermata dalla tendina in perline.

Mossi qualche passo oltre la porta. Solo il bancone mi separava dalla sala, ma già comparse la prima tacca.

«Bene, grazie» disse sbrigativa la ragazza dai capelli platino e lilla, prendendomi la tazza dalla mano e poggiandola su un piattino, poggiato a sua volta su un vassoio rotondo.

La fissai, interdetta.

Poggiò con fare artistico due marshmallows sul piattino e prendendomi di mano anche il telefono, infilandolo poi nella grande tasca del mio grembiule, mi porse il vassoio, che presi solo per istinto e non per cortesia.

«Tavolo cinque.»

Sollevai un sopracciglio.

Lei roteò gli occhi al cielo «Quello vicino alla vetrata all'angolo, Smemorina.»

«Io non lavoro qui.» mi decisi a farle notare, seccata, dal momento che parve non aver colto il dettaglio. Oltretutto, quella era la mia cioccolata, che Nick aveva preparato per me.

«Sì, è esattamente quello che dirai se non ti sbrighi a servire il tizio» mi liquidò, portando le mani alla mia schiena e proiettandomi verso la sala.

Qualcuno dei clienti si girò a guardarmi dopo la mia entrata improvvisa, per poi tornare a dare attenzioni alla propria ordinazione o alla persona con cui stavano facendo allegra riserva di colesterolo.

La cioccolateria era terribilmente familiare. La sensazione era quella di esserci stata, ma di non averci mai messo piede, al contempo. Forse in sogno, magari ne avevo vista una simile e il mio cervello stava associando le due immagini, trovando delle inquietanti somiglianze.

I tavoli non erano moltissimi, e solo quattro erano occupati. Una ragazza che leggeva un voluminoso romanzo sorseggiando una cioccolata bianca, due che parevano essere fratello e sorella, un bambino paffuto dai riccioli arancioni e grandi occhiali da vista che gli coprivano metà del volto, accompagnato da una ragazza dai lunghi e morbidi ricci rossi, troppo giovane per essere sua madre. Ed infine, nell'angolo accanto alla vetrina, un giovane dai capelli biondi, lunghi fino a coprirgli il collo, una giacca in pelle color catrame, chiusa a fasciargli torace e busto. Anche i pantaloni, che gli avvolgevano le gambe dalle caviglie incrociate in una posa rilassata, condividevano lo stesso colore della giacca.

Quando poggiai il piattino con la tazza, assieme ad una brioche al cioccolato, sollevò lievemente il mento che fino a quel momento era stato poggiato sul pugno chiuso, il gomito sul tavolo. «Grazie» disse con cortesia, senza guardarmi.

Quella voce, così bella e familiare, mi paralizzò. Avevo già sorriso, associando il suo aspetto a quello del meraviglioso personaggio, ma ogni dettaglio sembrava essere una piccola conferma all'impossibile.

Non mi aspettavo di avere Mello di Death Note di fronte, ovviamente, ma il fatto che gli somigliasse così tanto mi stava trasmettendo un'improvvisa aura di serenità.

Incantata, non mi ero mossa dal posto.

Non me ne accorsi.

Lui sì.

Alzò lo sguardo, rivelando i suoi occhi azzurri e i suoi lineamenti. Non pensavo che una persona reale potesse somigliare così tanto ad un personaggio manga a due misere dimensioni, ma quel ragazzo era terribilmente identico.

Ma la prima cosa che notai, quando mi guardò, fu la mancanza della cicatrice, la bruciatura che occupava metà del suo viso e che scendeva lungo il collo fino alle costole.

«Ehm...» balbettai, in cerca di qualcosa da dire. Non potevamo fissarci per l'eternità.

Lui frugò nella tasca della giacca, tirando fuori qualche spicciolo.

Davvero pensava che lo stessi fissando insistentemente e, probabilmente, con un alone maniacale attorno agli occhi, solo perché volevo la mancia?

«No, no, scusami...» biascicai, rifiutando le monete. «È che mi ricordi qualcuno...»

«Davvero?» chiese senza stupore, ma con un lieve interesse.

«Già, assomigli un sacco a... Ehm... Un...» "...super meraviglioso personaggio di Death Note di cui sono praticamente innamorata, che cerco tra i volti dei passanti e che sogno la notte." «...tizio.»

A quel punto, però, mi affiorarono alla mente altre domande. Lo scherzo, inizialmente irritante, che stava decisamente migliorando con la presenza del sosia di Mello, doveva essere stato organizzato da qualcuno che mi conosceva bene, proprio per la presenza di quest'ultimo. Rebecca? Stefania? I nomi erano molti - ma nemmeno troppi - eppure un pensiero mi suggerì quello di Monya, ma dopo mesi, mesi e mesi senza esserci nemmeno parlate, mi pareva particolarmente improbabile. Solo che la situazione era familiare: io presunta cameriera in una cioccolareria, lui che, in veste di cliente, sedeva affianco alla vetrata, guardando fuori. La cioccolata calda, la brioche fumante, i due marshmallow. Era l'inizio della trama del nostro gioco di ruolo.
Capii che la sensazione di deja-vu riguardo la cioccolateria era dovuta al fatto che quella era la stessa ambientazione della role fatta con lei, durante la quale muoveva lo stesso Mello. Il che era inquietante, perché non avevamo mai descritto il luogo con precisione, ma era esattamente come lo immaginavo io. Che fosse uno scherzo o no, non poteva certo leggermi nel pensiero.

«Chi, se posso?» mi domandò il ragazzo, portandosi la tazza alle labbra e riportando me, invece, al "qui ed ora".

Mi ero quasi dimenticata di cosa gli avessi detto prima.

«Ehm...» "Preparati all'ennesima figuraccia" mi suggerì una vicina irritante all'orecchio. «Il personaggio di una storia. Un manga.» continuava a fissarmi, chiedendo silenziosamente dettagli. O forse ero io che volevo dare dettagli che al contempo non volevo dare, e mi stavo solo immaginando quella silenziosa richiesta. «E... anche anime. Uno dei personaggi più importanti, in effetti, senza il quale non sarebbe stata possibile la cat... Cioè, il trionfo di quelli dalla sua "stessa" parte, più o meno» spiegai, cercando di evitare lo spoiler della cattura di Kira. 
Per la prima volta, alzò lievemente l'angolo della bocca.

«Hai presente Death Note?» continuai.

Lo abbassò immediatamente.

Lanciò un veloce sguardo ai presenti in sala, per poi tornare a guardarmi.

«In che senso?»

«È un manga e anime» ripetei, notando il suo comportamento. «Un racconto, una storia a fumetti giapponesi» spiegai ancora.

Prese un'altra densa sorsata di cioccolata, che andava intiepidendosi. Smise di guardarmi. La voce era lievemente più morbida, più bassa. «E cosa sai di questo... manga?»

Aveva impostato la domanda in modo strano. La gente avrebbe chiesto di cosa parlava, non cosa ne sapessi io.

«Allora, in sostanza c'è uno Shinigami, un Dio della Morte, che, annoiato, butta nel mondo degli umani un Death Note, un quaderno sul quale se si scrive il nome di una persona di cui si conosce il volto, quella muore, principalmente per attacco cardiaco» riassunsi. «Il primo umano che lo tocca ne diventa il nuovo proprietario. Infatti un ragazzo che spera di rendere il mondo un posto migliore e senza criminali con...»

«Siediti» mi interruppe.

«Eh?»

«Siediti.»

   
 
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