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Autore: Adeia Di Elferas    25/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Hai avuto davvero una bella idea...” disse Giovanni, togliendosi il mantello, infreddolito, e sistemando il cibo che avevano portato con loro sul tavolo.

La Casina, immersa nel buio dell'ultima notte dell'anno, era resa ancora più intima e silenziosa dal manto nevoso che la copriva. Il fiorentino e la Contessa avevano sistemato i cavalli nella stalla, badando bene che fossero il più riparati possibile, e poi erano andati al coperto anche loro.

All'inizio, quando Caterina aveva proposto di passare lì il Capodanno, lontano da tutti, evitando banchetti sontuosi o feste caotiche, il Medici era subito stato d'accordo, ma si era opposto all'idea di partire dalla rocca a sera fatta.

Come spesso gli capitava, però, alla fine aveva chinato il capo al volere della moglie e, dopo essere andato con lei dai Numai per accompagnare lì i figli, che avrebbero formalmente preso parte in vece loro al ricevimento a casa del Consigliere, Giovanni e la Sforza avevano preso un paio di cavalli e, nel buio, avevano raggiunto la Casina.

“Sei tranquilla a pensare ai ragazzi a casa di Luffo Numai?” chiese il fiorentino, vedendo la moglie con lo sguardo perso nel camino in cui cominciava a scoppiettare una piccola fiamma.

La Casina, essendo piccola, necessitava poche candele per essere illuminata e quel caminetto dava il tocco finale, fornendo luce sufficiente per passare tranquillamente la serata e la notte.

La Contessa soffiò e poi, guardando il marito da sopra la spalla, confermò: “Di qualcuno mi devo pur fidare. E almeno così i forlivesi inizieranno a capire che devono far riferimento anche a loro.”

Giovanni strinse le labbra senza dire nulla e attese che la moglie smettesse di armeggiare con il camino, prima di dirle: “Ti ho portato una cosa da leggere. Non te l'avevo mai mostrate, queste pagine, perché all'inizio ti credevo troppo...” 'Cupa' stava per dire, ma raddrizzò il tiro schiarendosi la voce: “Diciamo seriosa, poi me ne sono dimenticato... Ma adesso sono certo che le apprezzeresti.”

La Tigre, mettendosi più comoda, si sedette sul letto e aspettò che il fiorentino le porgesse gli scritti.

“Sono di tuo cugino.” notò Caterina, quando lesse in alto l'appunto scritto con la grafia di Giovanni, in cui si imputava la paternità dei versi che seguivano a Lorenzo 'il Magnifico'.

“Sì.” confermò il Medici, andandosi a sedere accanto a lei, spalla contro spalla: “Li aveva scritti per un Carnevale. Ecco – le disse, indicando la seconda con un sorriso tra il divertito e l'intrigato dipinto sulle labbra – leggi questa.”

La Sforza cominciò a bassa voce: “Donne, noi siam maestri d'innestare; in ogni modo lo sappiam fare...” poi proseguì per qualche verso muovendo solo le labbra, per rialzare dopo poco la voce, occhieggiando verso Giovanni con un luccichio divertito negli occhi, sintomo che il doppio senso voluto dal Magnifico le era arrivato all'istante: “L’arbor che innesti fa’ sia giovinetto,
tenero, lungo, sanza nodi, schietto; dilicato di buccia, bello e netto, quando comincia a muovere e gittare...”

“Sapevo che ti sarebbero piaciuti...” esultò pacatamente il fiorentino, avvicinandosi ancora di più alla moglie e invitandola a proseguire.

“Certo che tuo cugino era un uomo sorprendente...” si lasciò scappare la Contessa, che aveva sempre nutrito un'innata ammirazione per il Magnifico di Firenze.

Il sorriso di Giovanni si spense appena, nel sentire quell'elogio così aperto, ma in breve tornò fresco a tranquillo come prima: “Avanti, vai avanti a leggere...”

La notte arrivò al suo culmine quando ancora i due stavano passando in rassegna i Canti scritti dal Magnifico. A quel punto, accesi dalle risate e dalla complicità che leggere assieme quel genere di componimenti aveva stuzzicato.

“Tu pensa che versi eccelsi scriverebbe quel pezzo di legno del castellano Feo – sussurrò il Medici, mentre iniziava a sfiorarle il collo con le labbra – se un giorno di questi ci vedesse insieme nella sala delle armi o in quella della guerra...”

“Hai ragione – ribatté, con la voce un po' arrochita, la Sforza, sorvolando sulla critica che il marito aveva fatto gratuitamente a un uomo integerrimo come Cesare Feo – siamo due incoscienti a fare certe cose... Dovremmo stare più attenti.”

“Tanto siamo sposati. Il castellano, come tutti gli altri, sanno benissimo quello che facciamo...” si allargò il fiorentino, cominciando a sciogliere i laccetti sulla schiena dell'abito della moglie.

“Sì, ma si presume che marito e moglie certe cose le facciano in camera da letto, senza farsi vedere o sentire da...” provò a ribattere la donna che, prima tra i due, era spesso la miccia che faceva scoppiare l'incendio della passione nei momenti e nei posti meno opportuni.

“A parte che ormai tutti hanno anche capito che sei incinta. E poi se ci si aspetta che noi si faccia certe cose nel segreto della nostra alcova d'amore...” la interruppe Giovanni, con una risata bassa e distratta, l'accento fiorentino che si riproponeva in modo netto, come sempre quando abbassava le difese per qualche motivo: “Se avessero una moglie come te, vorrei vedere, se anche loro non farebbero come me...”

Sensibile a quel genere di complimenti, la Tigre decise all'istante che non era il momento di sollevare la questione, e così si dedicò al marito senza più nominare né i loro furtivi incontri amorosi in luoghi potenzialmente rischiosi, né Cesare Feo, né nessun altro possibile testimone.

Dopo aver placato il reciproco desiderio e aver messo qualcosa nello stomaco, marito e moglie si assopirono nel silenzio di quella notte nevosa. Tuttavia, dopo nemmeno un'oretta, Caterina si risvegliò di colpo, madida di sudore gelato e scossa da un lieve tremito.

Giovanni dormiva ancora e non la sentì nemmeno quando si alzò dal letto, prendendo una delle coperte e avvolgendovisi a mo' di mantello per andarsi a mettere in piedi davanti al camino, nel tentativo di scaldarsi.

Gli occhi verdi persi nelle fiamme, la Contessa stava cercando di scacciare le vivide immagini dell'incubo che l'aveva appena risvegliata.

Ormai era avvezza a essere risvegliata da quel genere di sogni, ma, così come quando riviveva inconsciamente le violenze subite per mano di Girolamo Riario, o come quando rivedeva il padre, o Ludovico Marcobelli o Giacomo cadere in terra morti davanti a lei, quello che aveva rivisitato quella notte era uno degli scenari che più l'agitavano e la incutevano terrore.

Aveva rivisto la chiesa di Mordano, tappezzata da cadaveri e intrise di sangue secco. Aveva risentito il tanfo della morte e il silenzio nefasto con cui quella tacita folla di cadaveri l'aveva accolta.

Con la solita logica contorta dei sogni, quando la Tigre si era chinata per voltare il corpo di una delle donne di Mordano, si era riconosciuta nel suo volto tumefatto e lacerato ed era stato a quel punto che si era risvegliata con il fiato rotto e il cuore che pulsava all'impazzata.

Dopo qualche minuto passato a fissare le fiamme e scaldarsi, Caterina sentì di nuovo la calma tornarle nelle vene e lasciò la mente libera di vagare. Guardò la Casina che, nella penombra, sembrava ancora più piccola e accogliente del solito. In fondo, per una vita essenziale, lì c'era tutto.

Con un sospiro dolente, lanciò uno sguardo al Medici, che respirava leggero, il viso, un po' coperto dai riccioli castani, per metà affondato nel cuscino. Il suo corpo, coperto in parte dalle lenzuola, teneva quasi tutto il letto. Se non fossero stati così felici di stare vicini, probabilmente non avrebbero mai potuto sopportare di dormire in un giaciglio così stretto.

Senza che la sua coscienza ne fosse davvero consapevole, la Sforza si trovò a immaginare come sarebbe stato avere in quel letto Giacomo. Forse, se avessero avuto un riparo come la Casina, lontano dalla corte e dagli indiscreti dei servi... Il Paradiso era stato un piccolo angolo di cielo ritagliato in Terra, ma, per quanto apparentemente discreto, era stato troppo esposto, per una storia complicata come la loro.

“Incubo?” chiese Giovanni, trattenendo uno sbadiglio.

Si era svegliato quasi per caso, forse sentendosi osservato e aveva subito avvertito la mancanza del calore della moglie accanto a sé.

Mentre il marito si metteva seduto sul letto, tirandosi appena le coperte sul petto, un po' infreddolito malgrado il fuoco del camino, la Leonessa sospirò e scosse il capo: “Sì, ma niente di che. Non preoccuparti, torna a dormire.”

Il Medici comprese che dovesse esserci qualcos'altro a impensierire la donna, ma temeva di aprire il solito vaso di Pandora, facendo uscire il fantasma di Giacomo. Perchè quando Caterina aveva quello sguardo pesto, di solito significava che la sua mente era tornata indietro nel tempo, ai giorni in cui erano le braccia di un giovane stalliere a reclamarla, e non quelle di un povero ambasciatore.

Facendole un po' di spazio, l'uomo le disse: “Torna a letto. Fa freddo.”

La Contessa non se lo fece ripetere e si infilò sotto le coperte, cercando con la sua la pelle del fiorentino, così calda e accogliente da farla subito rilassare.

“Maschio o femmina?” chiese a quel punto Giovanni, accarezzandole lentamente la pancia.

“Maschio.” rispose senza troppi indugi la donna.

“Ne sembri sicura...” sorrise il Medici, estendendo la carezza anche al fianco.

“Ne ho già avuti sei. Credo di non sbagliarmi.” spiegò la Tigre, con un breve sorriso di rimando a quello del marito.

“Come lo chiamiamo?” domandò Giovanni, dandole un bacio sul mento: “Lo sai che Bernardino lo vuole sapere il prima possibile...” scherzò a bassa voce.

“Te come lo vorresti chiamare?” rilanciò la Sforza.

Il fiorentino sospirò e poi confessò: “Fino a poco fa avrei voluto chiamare un figlio come mio padre, ma adesso credo che preferirei chiamarlo come mio fratello.”

“Lorenzo.” fece Caterina, come per sentire come suonasse.

“Ma è solo un'idea...” tagliò corto il Medici, che al solo ripensare al fratello e alle sue gelide parole scritte in risposta alla sua ultima lettera, rabbrividì: “E se fosse una femmina? Che nome ti piacerebbe?”

La milanese evitò di ribadire la sua sensazione che il piccolo fosse un maschio e rispose, prima ancora di ragionarci sopra: “Lucrezia.”

A Giovanni non sfuggì il modo in cui la voce della moglie era tremata appena, nel dire quel nome, così la strinse a sé e, senza dire altro, la coprì di attenzioni, con dolcezza, fino a che non la sentì riprendere sonno tra le sue braccia.

 

Gennaio a Rimini si stava dimostrando un mese abbastanza clemente, eccezion fatta per il vento secco che tirava dal mare, raggelando il sangue nelle vene di tutti all'alba e al tramonto.

Il sole si era nascosto oltre l'orizzonte da almeno una mezz'ora e Pandolfo non aveva ancora intenzione di rientrare a palazzo.

Stava vagando per le strade della città che conosceva come le sue tasche, il cappuccio in testa e il passo svelto di chi non vuole essere fermato da nessuno. Quando aveva lasciato la sua dimora, quella mattina presto, lo aveva fatto dopo un litigio con Violante.

Sua moglie usava la sua gravidanza come ricatto per ogni cosa, e anche come minaccia. Quel litigio, scaturito da un'eccessiva arroganza della donna, o almeno così era parso al Malatesta, stava sfociando in qualcosa di più serio, ma, appena lui aveva provato ad alzare le mani, la Bentivoglio lo aveva freddato sul posto, ricordandogli che se le avesse fatto perdere il bambino, Venezia non ne sarebbe stata affatto contenta.

Così, la rabbia che ribolliva nella pancia e la testa persa altrove, il Pandolfaccio aveva girato i tacchi ed era uscito, passando la giornata a perdere tempo nelle osterie e tra i vicoli malfamati della sua Rimini.

Stava ormai per decidersi a tornare a palazzo quando vide una ragazza, con indosso un pesante mantello scuro, salutare in fretta altre donne, appena fuori dalla chiesa, e prendere una strada abbastanza solitaria da sola.

Non seppe nemmeno lui cosa stava scattando nella sua testa, ma non aveva alcuna intenzione di frenarsi.

Sua moglie lo rifiutava e, da quando aveva ridotto i baccanali a palazzo per risparmiare, aveva avuto pochissime donne. Quella giovane era sola, indifesa e, da com'era vestita, non poteva essere la figlia di nessuno di importante.

Le filò dietro, rapido e silenzioso e la seguì fino a quando non si rese conto che la ragazza si era accorta di lui.

“È pericoloso per una donna come voi girare per le strade sola, a quest'ora.” le disse, preda di una spavalderia cieca, la solita che lo prendeva in momenti come quello: “Lasciate che vi accompagni al sicuro.”

La giovane riconobbe nel naso affilato e nei lunghi capelli neri il profilo del signore della città. Lo temeva. Si dicevano cose orribili su di lui. Però aveva altrettanta paura della sua rabbia, nel caso lei si fosse rifiutata di accettare quello che sembrava un gesto cortese.

“Siete molto gentile.” ebbe appena la voce di dirgli.

Pandolfo si esibì in un sorriso mellifluo e le fece segno di affiancarlo, nell'andare per la via.

A un certo punto, però, quando la ragazza provò a far notare che casa sua era ormai vicina e che doveva svoltare l'angolo, nell'indifferenza generale dei pochi passati, il Malatesta la prese in modo saldo per il braccio e le sibilò: “Tu vieni con me, invece. Prova a gridare e ti taglio la gola.”

Paralizzata dalla paura, la giovane non disse altro, seguendo, con passi rigidi e riluttanti, quelli svelti e sicuri del Pandolfaccio.

Quando arrivarono al palazzo del signore di Rimini, l'uomo si fece riconoscere da una delle guardie ed entrò in sordina, da un ingresso secondario.

La donna era così spaventata e confusa da non vedere nemmeno il freddo corridoio interrato in cui la stava conducendo. Mossa dallo spirito di conservazione, trattenendo il fiato provò a liberarsi con uno strattone e correre via.

A differenza di quello che era successo con la figlia di Castracane, però, questa volta il Malatesta non si fece cogliere alla sprovvista.

La tenne ancor più saldamente e, quando si rese conto che presto la giovane avrebbe cominciato a dimenarsi e urlare nel tentativo di liberarsi, con una certa forza le fece sbattere la testa contro la parete di pietra, facendole perdere i sensi.

Quando la ragazza si risvegliò, ci mise parecchio a capire dove fosse finita. Era in una stanza buia, che sembrava un cella. Era coricata su una specie di pagliericcio, la testa le faceva molto male, e non era l'unica parte di lei a dolere in modo spiacevole.

In un angolo di quella stanzetta c'era un uomo di spalle, che si stava tirando su le brache. La giovane non riusciva a muoversi, non solo per il dolore fisico. Aveva riconosciuto il Malatesta e aveva capito cosa le aveva fatto mentre era incosciente.

L'uomo parve accorgersi che la donna si era ripresa. Mentre finiva di allacciarsi gli spaghini di cuoio in vita, si voltò appena verso di lei e, dopo averlo recuperato in terra, le gettò uno straccio.

“Ripulisciti. E poi sparisci.” le disse, con la voce gelida e distante: “Prova a dire a qualcuno quello che è successo, e ti farò decapitare.”

Lo straccio, già sporco, le finì sul viso. Con una mano tremante, la donna lo afferrò e cercò di levarsi dal viso il sangue che era sgorgato dal labbro spaccato. Poi lo passò sulla testa, che sul lato pulsava con rabbia, la pelle escoriata per il colpo preso contro il muro. Infine, senza osare abbassare lo sguardo, lo usò per asciugarsi anche tra le cosce.

Pandolfo aspettava in silenzio nel suo angolo, fissandola con un'espressione impossibile da decifrare. Quando decise che la sua vittima aveva avuto anche troppo tempo per rimettersi in ordine, l'afferrò di peso, rimettendola in piedi e la spintonò con violenza a ritroso per tutto il percorso che, all'andata, essendo lei priva di sensi, aveva attraversato tenendosela in spalla.

Di nuovo alla porta laterale, le diede un altro strattone, facendola cadere per terra, sul terreno secco e duro e le ricordò: “Non una parola, o sei morta.”

 

“Figuriamoci se accetto una cosa del genere!” sbottò Caterina, buttando la lettera appena arrivata da Milano sulla scrivania.

“Pensateci bene, mia signora. Un'alleanza con i Gonzaga potrebbe...” disse piano Luffo Numai, stringendosi le mani sul petto.

I più fedeli consiglieri della Tigre erano stati radunati in fretta e furia nella sala della guerra per decidere come rispondere a una missiva del Moro, con cui si proponeva di far sposare una figlia illegittima del defunto Cardinale Francesco Gonzaga con Ottaviano.

“Un alleanza coi Gonzaga forse farebbe comodo a mio zio – ribatté la Sforza, appoggiandosi con una mano al davanzale della finestra, l'altra sulla pancia – non a me. Che me ne faccio io, di un matrimonio così per mio figlio? I Gonzaga sono alleati naturali di Venezia.”

“Ma adesso il Marchese non...” cominciò a dire il Consigliere Rossetti, accigliandosi.

“Adesso.” fece eco la Tigre, sbuffando: “Ma sono pronta a giurare che quell'intrigante di sua moglie sta già brigando per fargli riottenere la condotta presso il Doge.”

Giovanni ascoltava in silenzio. Aveva un po' di fastidio alle gambe, cominciato quella notte, ma aveva preferito restare in piedi come tutti.

Osservava la moglie, senza capire cosa stesse in realtà pesando di più, nella sua decisione.

Quando aveva aperto la lettera, erano insieme e soli. L'aveva passata in fretta e il suo primo commento in assoluto aveva avuto ben poco a che fare con la politica.

“Figuriamoci se faccio sposare il mio primogenito a una figlia illegittima di un Cardinale morto e sepolto!” aveva esclamato la Contessa, con uno sbuffo indispettito.

“Sarebbe un buon modo per allontanare Ottaviano, però.” aveva provato a dire il Medici, che ben sapeva quanto pesasse alla moglie avere quel figlio sotto il naso tutti i giorni.

“Tenerlo in vita fino a oggi mi è costato troppo.” aveva ribattuto lei, con la stessa freddezza con cui parlava dei conti dello Stato: “O da un suo matrimonio ci ricavo davvero qualcosa di grosso, oppure meglio che vada a combattere a Pisa, o che diventi un prelato.”

“Certo che riavvicinarci al Duca di Milano potrebbe farci comodo.” fece notare Mongardini, una mano sull'elsa della spada e le labbra appena schiuse a mostrare i piccoli denti bianchi: “Milano ha armi e armature di pregio. A noi servirebbero. Potremmo far rientrare nel patto una linea preferenziale di commercio...”

“Oliva?” chiese a quel punto la Tigre.

Le parole del Capitano Mongardini le avevano aperto una prospettiva che non aveva preso in considerazione, tuttavia prima voleva vederci chiaro e, solo dopo, decidere.

“Trovo che sarebbe imprudente legarsi in un modo simile al Moro proprio adesso. A un prezzo così alto, soprattutto. In fondo messer Ottaviano è formalmente il Conte e il signore di queste terre e chi lo sposerà ne potrebbe godere a piene mani...” rispose subito l'Oliva, facendo un passo avanti e guardando tanto la Contessa quanto il fiorentino.

Il capo delle spie, ex ambasciatore di Milano, aveva capito molto bene quanto fosse importante anche il parere del Medici, per la Contessa. Anche se il Popolano sapeva stare al suo posto – molto più di quanto non avesse saputo fare il defunto Barone Feo – l'Oliva era certo che, dopo le riunioni pubbliche, marito e moglie in privato parlassero spesso di affari di Stato.

Pur non avendo titoli né ruoli ufficiali all'interno della corte, il primo consigliere effettivo della Sforza era quel Medici e dunque era lui che bisognava convincere, per il bene dello Stato.

“Perché dite così?” chiese proprio Giovanni, sentitosi tirare in causa dallo sguardo penetrante del milanese.

“Da quando il Duca ha liberato Isabella d'Aragona – spiegò l'Oliva, con gli occhi di tutti piantati addosso – quella donna ha cominciato a vagare per Milano assieme ai suoi figli. Lo fa quasi ogni giorno. Ludovico sfugge la folla, non ama mescolarsi coi milanesi, ma non ha capito che proprio quel tratto è stato il segreto degli Sforza. Isabella invece sì. È scortata da soldati del Moro, certo, ma il popolo vede lei. Lei e suo figlio Francesco. È un bambino molto bello e dicono che sia anche affabile. Malgrado quello che ha passato, non ha paura della gente, e così i milanesi lo adorano. E sapete come lo chiamano?”

Qualcuno scosse il capo e così l'uomo fece un sorriso, più scenico che spontaneo, e rivelò: “Duca.”

Caterina, istintivamente, batté un pugno sul davanzale della finestra e, sentendo l'irrequieto figlio che portava in grembo fare una mezza capriola, soffiò: “Lo sapevo! Mio nipote Francesco è il legittimo erede e Milano preferisce lui, un bambino, a Ludovico, un vecchio che non fa altro che pensare alla moglie morta!” poi si accigliò e chiese: “E mio zio non fa nulla per evitare questa situazione?”

“Le mie fonti – rispose l'Oliva, lapidario – dicono che è troppo impegnato a piangere Beatrice e correre nella stanza della Crivelli, per badare a cose come le voci di paese.”

Il piccolo consiglio dibatté a lungo di nuovo la proposta milanese, ma, alla luce di quegli ultimi fatti, la decisione venne presa con molta più convinzione.

Quel 18 gennaio, stremata da una giornata complicata, Caterina firmò la lettera con cui rifiutava formalmente la proposta dello zio Ludovico, aggiungendo anche, per favore, di non provare mai più a consigliarle politiche matrimoniali di alcun tipo.

“E anche questa pretendente di Ottaviano l'abbiamo depennata.” commentò Giovanni, mentre dalla sala della guerra si spostavano verso quella dei banchetti per andare a cenare.

La donna si sistemò una ciocca di capelli biondi e bianchi – lasciati sciolti come faceva quasi sempre nelle giornate in cui non aveva impegni formali – dietro l'orecchio e disse, vagamente piccata: “Per scegliergli una moglie tanto inutile, allora converrebbe di più mandarlo a morire in qualche guerra importante.”

“Che è quello che stai cercando di fare.” fece notare il Medici.

Caterina, che quel giorno era veramente stanca – tanto che aveva anche preso in considerazione l'idea di chiamare il medico di corte, per vedere se non fossero le avvisaglie di una recrudescenza delle sue febbri – mise una mano sul braccio del marito e bisbigliò, per non farsi sentire da nessuno dei soldati che stavano raggiungendo con loro il desco: “Pisa è un fronte relativamente tranquillo. E poi non puoi criticarmi, se parlo così di lui. Lo sai cosa mi ha fatto.”

Il Popolano trattenne uno sbuffo e concluse: “Prenderai più seriamente in considerazione la proposta dei Borja?”

“Se arriverà in modo ufficiale.” fece lei, decisa a chiudere la questione e parlare d'altro: “E comunque, sono affari tuoi fino a un certo punto.”

“Sono affari miei eccome.” la corresse il fiorentino, mentre si avvicinavano alla tavola a cui erano già seduti Bianca e Sforzino: “Sono tuo marito. Che ti piaccia o no, questi ormai sono anche affari miei.”

Con un sospiro che al Medici non piacque troppo, la donna prese posto a sedere e, rivolgendosi alla figlia, chiese: “Com'è andata oggi? Hai preso lezioni di cucito da quella tua amica?”

Sorpresa nel vedersi rivolgere la parola a quel modo, ma mangiando la foglia nel vedere l'espressione un po' scocciata di Giovanni, la ragazza annuì e fece del suo meglio per apparire allegra nel rispondere: “Sì, mi ha insegnato un nuovo tipo di punto. Se volete, più tardi vi posso far vedere gli esercizi che ho fatto oggi...”

“Che tipo di punto è?” chiese Caterina, sempre più decisa a interrompere ogni eventuale diatriba con il marito.

Non ci sarebbe stato motivo di attrito, ma si sentiva così debole e stanca che temeva di trascendere senza motivo. Era un suo limite e dunque era meglio correre ai ripari per tempo, prima di mettersi a litigare con Giovanni senza una valida scusa.

Bianca cominciò a raccontare, benché si rendesse conto che la madre, intenta a mandar giù grossi pezzi di carne arrosto, non la stesse ascoltando.

Il Medici, di contro, con uno sforzo di pazienza – l'ennesimo in nemmeno due anni da che conosceva la Tigre – mangiò un po' di verdure e poi, per bilanciare il disinteresse di Caterina, fece altre domande a Bianca, ascoltando con partecipazione le risposte.

Quando la ragazza e anche Sforzino lasciarono il tavolo, Giovanni fece un sospiro e, guardando la moglie che ancora mangiava, sussurrò, a rimarcare quello che aveva detto poco prima: “Noi due siamo una famiglia. E i tuoi figli, anche per la legge imperiale, sono pure i miei. Lascia che ti aiuti a prendere questo genere di decisioni.”

Deglutendo un pezzo di cervo, la Contessa alzò una spalla e, abbastanza sollevata dal tono pacifico e caldo dell'uomo, sussurrò: “Va bene.”

 
   
 
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