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Autore: Asteroide307    26/01/2018    2 recensioni
Titolo: "Quello che non vedevo"
Dal testo
"Eri Yoshida aveva compiuto da qualche giorno sedici anni e iniziavano per lei le superiori. Ormai era la terza volta che cambiava scuola, arrivata a quel punto sapeva che non avrebbe avuto una quarta possibilità. [...] Eppure Eri era troppo alta rispetto alle ragazze della sua età. I suoi polsi erano più spessi di quelli delle ragazze della sua età. Non aveva chiesto lei di nascere così, eppure era successo e per quanto continuasse a correre ogni giorno, per quanto non mangiasse regolarmente, le sue ossa restavano spesse e sgraziate, a detta di tutti i compagni delle sue classi precedenti."

«P-Posso t-togliermi.» Balbettò, terrorizzata ed insicura.
Lui inizialmente sospirò soltanto. «Non importa, avendoti davanti non riuscirei comunque a vedere – spostò la sedia nel banco avanti a quello del compagno con cui era entrato in classe – sei una ragazza, dovresti essere più sottile.»
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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L’aspettava una giornata intensa.
Stringeva forte la cinghia della borsa a cui aveva attaccato un grazioso ponpon peloso bianco, respirava profondamente quasi volesse tranquillizzarsi prima di lasciare il suo unico rifugio sicuro, la sua casa. Eri Yoshida aveva compiuto da qualche giorno sedici anni e iniziavano per lei le superiori. Ormai era la terza volta che cambiava scuola, arrivata a quel punto sapeva che non avrebbe avuto una quarta possibilità.
Era stata sua madre ad insistere perché lo facesse ma sapeva che per lei era un sacrificio enorme lasciare il calore di quella modesta casa, a causa delle sue condizioni di salute, tutto per potersi occupare dei documenti della nuova scuola. Anche per quel motivo, stringeva forte le dita, l’ultima cosa che avrebbe voluto fare era proprio causarle inutili problemi.
Quella era la sua ultima possibilità, e anche se tutto fosse andato a rotoli, avrebbe dovuto stringere i denti.
Chiuse la porta alle sue spalle. Sua madre dormiva ancora, le aveva preparato la colazione ed era andata via, cercando di fare più piano che poteva.
La strada fino alla stazione era tanta, e dopo il primo treno ne avrebbe preso un secondo. La scuola superiore che aveva scelto era la più distante della zona, eppure, anche così, quando ripensava alla vecchia scuola quasi non riusciva a trattenere le lacrime.
Probabilmente stava solo ingigantendo il problema ma non faceva che ricordare quel periodo come un incubo. Tutti quei momenti si materializzavano nella sua mente fin troppo velocemente e il solo rivederli la faceva tremare.
Avrebbe voluto dirlo apertamente a sua madre.
"Scusa, non ce la faccio."
Ma non era forte abbastanza neppure per quello.
Strinse le labbra rosee, prima di fare il primo passo.
"Sono pronta, mamma" pensò, anche se neppure lei ci credeva ormai.
In qualche modo, avrebbe fallito ancora.


 
私は親切でなければならない
(Devo essere gentile)
私は利用可能でなければならない
(devo essere disponibile)
私は素敵でなければならない。
(devo essere simpatica.)
私は気にする必要はありません
(Non devo dare fastidio)
私は注意を引く必要はない
(non devo attirare l’attenzione)
私は泣く必要はありません。
(non devo piangere.)
 
 
Scrisse sul suo quaderno, mentre il treno la portava alla seconda stazione. A quell’ora del mattino, i vagoni erano ancora vuoti e poteva starsene per conto suo, tranquilla, cullata dal silenzio mattutino che presto sarebbe stato investito dalla foga delle persone.
 
Continuò per un po’, disegnando fiorellini e attaccando qualche sticker sulle pagine di quel giorno. Voleva davvero ricominciare bene, voleva davvero non recare disturbo a nessuno, desiderava con tutto il cuore riuscire a passare quell’anno scolastico serenamente.
Quando anche il secondo treno si fermò, Eri capì di non poter più fuggire, né rimandare quel momento. Avrebbe raggiunto quella scuola così lontana e si sarebbe trovata un banco, non avrebbe fiatato e forse sarebbe andato tutto bene. Non era un problema non aprire bocca con i compagni, purché potesse riuscire a studiare tranquillamente, senza dare nell’occhio.
Eppure Eri era troppo alta rispetto alle ragazze della sua età. I suoi polsi erano più spessi di quelli delle ragazze della sua età. Non aveva chiesto lei di nascere così, eppure era successo e per quanto continuasse a correre ogni giorno, per quanto non mangiasse regolarmente, le sue ossa restavano spesse e sgraziate, a detta di tutti i compagni delle sue classi precedenti.
Davanti il grande portone della sua nuova scuola, Eri non riusciva a muoversi. Continuava a guardare i suoi polsi. Aveva messo un bracciale di perline rosa, in qualche modo, forse avrebbero nascosto quella crudele realtà.
“È una sciocchezza.” Sospirò rattristata.
Dietro di lei, iniziavano ad arrivare alcuni ragazzi con in dosso la sua stessa uniforme, la gonna color senape dalla fantasia scozzese e le camicie bianche a maniche corte, strette da un cravattino nero. Inizialmente riuscì a camminare, indisturbata, nessuno sembrava prestarle attenzione. Era felice.
Poco dopo esserci concessa un quasi trasparente sorriso si accorse di alcuni ragazzi. La guardavano, appoggiati al muretto.
Forse era stata troppo precipitosa, forse aveva sorriso troppo presto, forse non si meritava di sorridere.
Ridevano.
Eri si guardò in giro, spaesata.
“Cosa devo fare, mamma?” Morse il labbro inferiore, prima di chinare il volto, proseguendo a testa bassa e velocemente. Non voleva vederli, né sentirli, ma anche non guardando, alcune risate arrivarono comunque alle sue orecchie.
Forse, sarebbe andata meglio nella sua classe.
 
 
Aveva controllato nella tabella. Si trovava nella sezione tre, la classe era al primo piano.
Quando la trovò, si accorse piacevolmente di essere una delle prime. Riuscì a scegliere il banco più in fondo. Avrebbe voluto prendere quello vicino la finestra, tuttavia, in genere erano proprio quelli i posti più ambiti, per cui sicuramente qualcuno le avrebbe detto di spostarsi, dando così nell’occhio. Eppure non le sarebbe dispiaciuto stare al primo banco, al contrario degli altri studenti, tuttavia l’altezza avrebbe potuto infastidire chi le stava dietro.
Quando posò la cartella sul banco, contemporaneamente, entrò in classe un gruppo di studentesse.
Eri sollevò lo sguardo.
C’era un volto familiare tra di loro, ma non riusciva a ricordare.
La ragazza che faceva strada era molto bella. Piuttosto piccola di statura, aveva i capelli di un biondo cenere, chiaramente non naturale, appena sotto le spalle e legati in due eleganti trecce larghe. I suoi occhi erano truccati sapientemente e le sue labbra brillavano rosate. Era così bella che quasi, la sua presenza, la mise a disagio.
«Manami-chan!» La chiamò un’amica, alle sue spalle.
Quella si girò, sorridente. «Itsuoka, sei in questa sezione?»
«Sì!»
 
Eri le guardava un po’ invidiosa. Durante le medie non era riuscita ad avere neanche un’amica. C’era stata una ragazza della classe accanto alla sua che ogni tanto andava a parlarle, d’altra parte, alla fine, i ragazzi della sua sezione avevano preso di mira anche lei ed Eri aveva trovato più giusto interrompere quei discorsi occasionali. Non voleva crearle problemi, non se lo meritava.
 
Poco dopo quelle ragazze anche un gruppo di studenti le seguì, prendendo posto il più presto possibile. Uno di loro, il più alto, non era riuscito a trovare un banco nell’ultima fila, quelli liberi erano stati tutti presi dai suoi amici, l’ultimo, invece, era occupato proprio da lei.
Il ragazzo era altissimo, sicuramente molto più di lei e aveva una folta frangetta nera, il suo sguardo annoiato le metteva i brividi. Si era messo a fissarla, con fare infastidito.
Eri deglutì impaurita.
Si sarebbe tolta, certo, ma era certa che stare davanti a lui gli avrebbe impedito di vedere bene la lavagna.
Afferrò la borsa, chinando lo sguardo.
«P-Posso t-togliermi.» Balbettò, terrorizzata ed insicura.
Lui inizialmente sospirò soltanto. «Non importa, avendoti davanti non riuscirei comunque a vedere – spostò la sedia nel banco avanti a quello del compagno con cui era entrato in classe – sei una ragazza, dovresti essere più sottile.»
 
Eri perse un battito. Tutti ridevano.
Non aveva il coraggio di sollevare lo sguardo.
La frangetta sistemata pazientemente quella mattina, liscia e scura, si abbassò sul suo viso, nascondendo gli occhi umidi. Strinse le dita attorno alla borsa, le strinse il più possibile, come se cercasse in qualche modo di controllare le lacrime.
Lo aveva scritto sul quaderno, non avrebbe pianto. Doveva essere forte.
«Non ci avevo fatto caso – disse quella ragazza dal castano biondo, sedendosi sul banco del ragazzo che l’aveva presa così orribilmente in giro, lei era piccola e leggiadra, si muoveva come una farfalla – è strano che non ti abbia notata, grande come sei.»
Eri non sollevava lo sguardo. Tremava e si mordeva le labbra per trattenere le lacrime.
«Insomma, è come ha detto lui – continuò la ragazza – perché sei così spessa? La tua stazza non sembra quella di una ragazza.»
Risero, ancora.
Continuando in quel modo, non sarebbe riuscita a trattenersi. Voleva piangere così tanto da sentire il petto bruciare.
“Mamma” si disse, mentre intorno a lei, i compagni di classe non intendevano smettere di fare battute o di ridere “scusami per non essere abbastanza forte.”
«Hey, perché non dici niente?» Non la smetteva, quella Manami.
Quando succedevano quelle cose, al contrario di come avrebbe tanto voluto, non riusciva a trovare la forza per reagire. In fondo, rispondendo o meno alle loro provocazioni, le cose sarebbero andate ugualmente male.
Ogni secondo, si sentiva più piccola ed impotente che mai.
Non era giusto.
Non lo era.
Quello era soltanto il primo giorno.
 
«Lasciala perdere – sospirò il ragazzo che aveva dato il via a tutto quello – non perdere tempo con lei.»
«Perché? Non so neppure come si chiama – Manami si avvicinò al suo banco, poggiando i gomiti su di esso per guardarla in faccia – non hai un nome? Posso dartene uno io, Kyojin (gigante), ti piace? Sembra perfetto per te!»
Una ragazza era entrata rumorosamente nella classe, richiamando l’attenzione su di sé, così che Eri passasse in secondo piano, almeno per qualche secondo. Ne approfittò per conoscere il volto della nuova compagna e venne investita dal sorriso più solare che avesse mai visto.
«Yah, Fujihara-kun, hai finito di creare problemi?» Urlò alla ragazza che l’aveva importunata fino a quel momento.
Eri la guardava come un’eroina scesa direttamente dal cielo.
Manami storse le labbra. «Non pensi mai a farti gli affari tuoi, vero?»
«Sono scesa direttamente dalle stelle per salvare i più deboli – la indicò con fare teatrale – tu e i tuoi servitori dell’oscurità non potrete mai sconfiggermi!»
Dopo che la ragazza dall'aspetto curato si era arresa all’idea di rispondere alle frasi senza senso della nuova arrivata, quest’ultima si avvicinò ad Eri, sbalordita dalla sua interpretazione e un po’ confusa. Fece un breve inchino.
«Io sono Atsuko Nomura, tu non hai fatto le medie qui, vero? Non mi sembra di averti vista in giro!»
Il suo tono era solare ed allegro. Eri si sentì decisamente meglio dopo la sua apparizione.
«M-Mi chiamo E-Eri Yos-shida.»  
«Scusala, Yoshida-kun, purtroppo nessuno ha mai insegnato le buone maniere a quella mocciosa.»
Sorrideva.
Le stava sorridendo.
Le aveva persino parlato e l’aveva difesa.
Quella ragazza era forse una benedizione?
Senza rendersene conto, stava arrossendo davanti al sorriso smagliante di Nomura, la quale non si lasciava intimidire dalle sue reazioni così estremamente docili e probabilmente strane agli occhi di chiunque.
«Ah, Yoshida-kun, sei davvero carina quando arrossisci.»
Eri si coprì il viso con i palmi, moriva d’imbarazzo.
«Ti dispiace se mi siedo nel banco davanti al tuo?» Continuò a parlarle, meravigliosamente ostinata.
«N-N-No!»


 
ママ、今日誰かが私に話しかけた。
(Mamma, oggi qualcuno mi ha parlato.)
今日私は泣きたい
(Oggi avrei voluto piangere)
敦子は私を救った。
(ma Atsuko mi ha salvata.)
 
 
La prima cosa che fece sul treno di ritorno fu proprio quella di scrivere sul suo quaderno. Il viaggio era ancora molto lungo, tuttavia, la sua più grande preoccupazione era quella di non tardare troppo così da poter preparare un pranzo salutare alla madre, rispettando anche l’orario del suo lavoro part-time.
Dopo sarebbe andata a correre, e infine, la sera, avrebbe studiato.
Durante le vacanze era stato facile lavorare e rispettare gli altri impegni, ma con l’inizio della scuola e la lontananza da casa, si sarebbe dovuta impegnare il triplo di quanto già non facesse.
 
Dopo aver riposato il quaderno all’interno della cartella si accorse che c’era qualcuno della sua scuola sullo stesso treno. La cosa le mise agitazione, visto che in quel momento il vagone era piuttosto pieno.
Il ragazzo era della sua classe, lo stesso che l’aveva presa in giro per primo. Insieme a lui vi era una ragazza che non conosceva ma indossava la stessa divisa dalla gonna scozzese color senape, per cui forse era di qualche altra sezione.
Lei parlava sottovoce e lui non rispondeva.
La ragazza iniziò a scuoterlo bruscamente, mentre le lacrime lentamente cadevano giù dai suoi occhi graziosi e leggermente truccati. Il ragazzo teneva lo sguardo basso, fino a quando lei non lo strattonò troppo forte. Lui, il cui nome scoprì a scuola fosse Issei Hasegawa, la spinse leggermente.
Dall’espressione della compagna, probabilmente non se lo aspettava, così gli tirò uno schiaffo.
Per qualche secondo non parlarono. Lei piangeva ma lui non reagiva.
Dopo, scese alla fermata di quel momento. Issei non faceva nulla.
 
Eri si accorse dopo che il compagno di classe l’aveva vista. I suoi occhi, quasi del tutto inespressivi, sembrarono cambiare leggermente, diventando cattivi nel fissarla.
Si avvicinava.
Eri si morse le labbra, aveva paura. Aveva assistito a qualcosa che non le riguardava e probabilmente lui era infastidito da ciò.
Inizialmente non parlò e si sedette accanto a lei.
Issei aveva chinato il viso, coprendo gli occhi con la frangetta, il che dava al suo volto un qualcosa di macabro e oscuro. Eri tremava nell’averlo così vicino, quel ragazzo che poche ore prima non si era fatto problemi a metterla a disagio davanti a tutti, cosa le avrebbe fatto allora? Addirittura in un treno?
Al contrario di quello che si aspettava, Issei non parlò per tutto il tempo, finché non si fermarono alla seconda stazione.
Quando si sollevò, nel prendere la sua cartella, guardò nuovamente Eri.
«Se qualcuno saprà cosa è successo oggi – sussurrò con un tono estremamente calmo – ti ucciderò. Non puoi neanche chiedere aiuto, o pensi che Nomura ti salverà anche questa volta?»

«Bene, oggi assegneremo i posti – sorrise divertito il docente sulla sessantina, guardando l’ultima fila della classe, lo sapeva bene che i nullafacenti si erano messi lì per allontanarsi dalla cattedra – siete contenti?»
La classe si concesse un’esultazione molto sarcastica.
Issei si era accorto che Yoshida non era andata a scuola il giorno successivo, non che gli importasse particolarmente, semplicemente era certo che l’avrebbe uccisa se qualcosa fosse trapelato dalla sua bocca. Comunque Nomura l’aveva notato subito e pensava che ci fosse qualcosa sotto, ma Issei aveva preferito farsi gli affari suoi, visto che comunque ciò che le era successo non le riguardava.
Fujihara si girò verso di lui, sorridendo. «Spero che ci mettano vicini.»
Issei rispose con un grugnito. Non è che gli importasse più di tanto di quella ragazza, non sopportava le ragazze che facevano le carine con lui soltanto per compiacerlo. Era in classe con Manami dalla seconda media e sapeva come si comportava con le altre persone, ma più che strappargli qualche risatina disinteressata, non aveva mai suscitato in lui.
Forse il suo fare silenzioso e scorbutico piaceva alle ragazze, ma anche quella era una cosa del tutto stupida ai suoi occhi.
«Professore – lo chiamò uno dei ragazzi con cui passava il tempo, probabilmente anche il più imbecille, ma per lo meno faceva ridere – Yoshida-kun è assente ma dovrebbe comunque assegnarle un posto dietro, o chi è avanti finirà per non riuscire a vedere.»
Quella affermazione fece ridere tutti, ma Issei non trovava particolarmente divertente quelle cose. Gli dispiaceva soltanto aver dato inizio a quel gioco che sicuramente sarebbe proseguito fino alla fine dell’anno. La mattina precedente era molto nervoso e il fatto che lei fosse in quel posto lo aveva fatto imbestialire, ma non gli interessava rendere la sua vita un inferno: piuttosto se avesse parlato, allora probabilmente sì.
Alla fine, per qualche ragione, venne messo proprio accanto a Yoshida, e Fujihara stava avanti al banco della nuova studentessa, il vero problema era però che, nonostante si trovasse nell’ultima fila, alla sua destra c’era Nomura. Quella ragazza, oltre ad essere del tutto pazza, era petulante come poche cose.
 
«Tu e Yoshida-kun abitate nella stessa zona, vero?» Chiese Atsuko.
Issei sbuffò, che fastidio. «Io scendo la fermata prima, non so dove abiti.»
«Credevo di sì, allora forse non ho capito bene dove abita. Ieri me lo ha spiegato ma devo essermi confusa.»
Non capiva cosa rispondere, e francamente, non gli importava neanche.
«Beh, quindi prendete lo stesso treno?»
«A quanto pare.»
«Non hai visto se stava male? Magari non sta bene, ed è per questo che non è venuta!»
Tutta quella vitalità, quel suo modo così allegro di approcciarsi, tutto lo infastidiva di Nomura, ed era già il secondo anno che capitava nella sua stessa sezione. Avevano fatto l’ultimo anno delle medie insieme, ma probabilmente quella era la prima volta che parlavano direttamente.
«Non mi interessava guardarla.»
La campana suonò dopo quella sua affermazione, fu lì che si avvicinò la viscida Fujihara, doveva aver sentito tutto.
«Che razza di domande fai, Nomura? Pensi che Hasegawa perda il suo tempo a guardare Kyojin?» Rise fragorosamente.
Persino la sua voce era irritante.
«Non capisci che potrebbe essere successo qualcosa? È solo il secondo giorno di scuola questo, e se le è capitato qualcosa?»
«E quindi?»
Atsuko sembrò arrabbiarsi sul serio. «Ma cos’hai dentro, tu?!»
Issei intanto aveva sistemato la sua cartella, mentre le due continuavano a litigare, si era allontanato silenziosamente. Neanche se ne erano accorte, e lui era già fuori. Sarebbe andato con i suoi amici fino alla fermata.
In genere durante la strada si parlava di ragazze, di fumetti, di scherzi e altre sciocchezze. Ad Issei non infastidiva la loro compagnia.
«In effetti, è strano che si sia assentata solo il secondo giorno – disse uno di loro, sulla strada per la stazione, tutti si girarono per guardarlo sbalorditi, neanche avesse detto qualcosa di strano – v-voglio dire, magari ieri abbiamo esagerato e adesso si ritirerà.»
«Anche se fosse, che ti importa?» Rispose, irritato, Hitomaru, un ragazzone poco più basso di Issei, sempre circondato da ragazze di ogni classe. Tra di loro era probabilmente il più popolare.
«Davvero pensate quelle cose?» Rispose a tono, colui che si era preoccupato per primo, Kata Noguchi.
«Ne stai facendo inutilmente una questione.»
Issei assisteva in silenzio.
Kata sembrò arrossire. «Voglio dire, è vero, è molto alta, ma non pensate che sia comunque carina? L’avete guardata bene in faccia?»
«Non scherzare così – lo rimproverò Hitomaru – non ti ho insegnato niente sulle ragazze?»
Kata rinunciò a discutere con lui, tutti sapevano quanto Hitomaru fosse idiota.
 
Quando arrivò il treno di Issei, li salutò brevemente.
Seduto nel posto in cui aveva minacciato il giorno prima Yoshida, si guardava intorno per vedere se Naoko avesse preso nuovamente il suo treno. Forse dopo averla lasciata, non voleva più vederlo.
Per quanto non fosse stata la scelta più felice, sapeva che era quella giusta, anche se sentiva già la sua mancanza.
“Meglio così, immagino.” Pensò.
 
 
Arrivato a casa si tolse le scarpe.
Sua madre dormiva in salone, era di nuovo sbronza. Le sue guance erano rosse e vicino a lei c’erano diverse bottiglie di vino, vuote. Non tolse neanche la divisa prima di mettersi a cucinare.
Poco dopo di lui entrò anche Naoya, era appena arrivato da scuola.
«Papà non è ancora tornato vero?» Domandò Issei, dandogli le spalle.
Naoya, il suo fratellino più giovane di un anno, sbuffò. «Meglio che non rientri per adesso, o vedrebbe Akiko in questo stato, nessuno di noi vuole questo, immagino.»
Naoya non era più un bambino, eppure aveva scelto di rivolgersi a sua madre per nome. Erano ormai anni che non la chiamava mamma ed Issei non trovava ragione per non accettare la sua scelta.
«Non ha neanche detto quando rientrerà?»
«Ha detto che dipende dalla confusione, suppongo verso stasera.»
«Capisco.»


Issei notò subito la presenza di Yoshida sul treno quella mattina. Era già passata una settimana, iniziavano a farsi imponenti i sensi di colpa, ma per fortuna quella ragazza era tornata e lui si sentì finalmente tranquillo.
Manteneva le distanze, non aveva voglia di parlarle, né di sapere cosa pensasse di quella situazione. Gli bastava che tenesse la bocca chiusa.
Yoshida, da parte sua, neanche lo guardava, forse soltanto per paura.
Ad Issei stava bene.
 
Prima di arrivare alla fermata, però, Yoshida si alzò, barcollando leggermente a causa di un movimento brusco del treno. La frangetta scura le copriva gli occhi, per cui non riusciva neanche ad immaginare con quale intenzione si stava avvicinando a lui.
Quando furono a pochi centimetri di distanza, la sentì sussurrare.
«P-Potresti i-incontrarmi…dietro la s-scuola, p-p-prima di entrare?»
La sua voce era dolce e aggraziata. Stava tremando davanti a lui.
Issei annuì con fare disinteressato. Dopo il suo gesto Yoshida si allontanò nuovamente.
 
Quando arrivò a scuola, perse completamente le tracce di quella ragazza che era scomparsa una volta scesa dal treno. Aveva incontrato i suoi amici, non tutti della sua sezione. Dopo un breve scambio di battute, pensò di raggiungere quella Yoshida dove gli era stato detto. Dietro la scuola c’era un posto piuttosto tranquillo, non particolarmente frequentato, lui lo sapeva dato che quel posto lo conosceva come le sue tasche.
In effetti si chiedeva che cosa mai volesse dirgli, per incontrarlo da solo. Il fatto che una situazione del genere si fosse creata, lo infastidiva particolarmente.
 
Yoshida lo stava aspettando con lo sguardo basso. Stringeva qualcosa tra le mani, e Issei ebbe l’impressione di aver capito le sue intenzioni, ma si avvicinò comunque.
Non sembrava molto spigliata nella conversazione, tanto che anche dopo che le fu davanti, non aprì bocca.
Timidamente allungò le braccia porgendogli una lettera, dentro una busta rosa.


Dopo qualche secondo un’irrefrenabile adrenalina si scatenò dentro al corpo di Issei che strappò quella busta dalle sue mani, così brutalmente da farle anche male.
Quella Yoshida lo stava prendendo in giro?
«Razza di idiota – alzò la voce, lei non reagiva – pensi di essere nella posizione di ricattarmi?» Accartocciò la lettera con la mano, gettandola violentemente ai piedi della ragazza.
Eri non parlava, accettava che quello detto da Issei fosse la verità.
«Sai cosa ti dico? Raccontalo a chi vuoi, non sarò mai il tuo ragazzo, non sembri neanche una ragazza! E sappi che questi giochetti da scuola elementare, con me non puoi farli!»
Yoshida sollevò gli occhi, erano gonfi di lacrime.
Issei non si lasciava scalfire da quel genere di scenate idiote.
L’aveva fatta piangere, eppure si ostinava a non parlare.
Lo aveva guardato profondamente, ma Issei era del tutto furioso.
Con la coda fra le gambe, se ne andò velocemente, lasciandolo da solo dietro la scuola.
Pensava davvero di poterlo ricattare?
In cambio del suo silenzio, voleva forse diventare la sua ragazza? Poteva una persona progettare un piano talmente stupido? Erano palesi le sue intenzioni, anche non dicendolo direttamente, quella lettera di dichiarazione era un modo subdolo per usarlo a suo piacimento.
Issei non era quel tipo di persona.
Il motivo per cui non voleva si sapesse in giro, era per tutelare Naoko, o tutte le ragazze che gli andavano dietro l’avrebbero presa di mira. Ma non si sarebbe abbassato a tanto, era una persona troppo orgogliosa.
Dopo essere rimasto solo, prese la lettera appallottolata. Era comunque una prova da usare nel caso la situazione si fosse messa male per lui, così, senza pensarci, la piegò, mettendola nella tasca dei pantaloni.

 


Dopo che Hasegawa l’aveva trattata in quel modo, Eri non era riuscita a tranquillizzarsi. Era sicura che si sarebbe vendicato nel modo peggiore e doveva pagare le conseguenze della sua timidezza.
Non era riuscita a dirglielo a voce, allora aveva voluto scriverlo, ma tutto era andato nel peggiore dei modi, ancora una volta aveva sbagliato.
 
«Yoshida-kun!» La chiamò Nomura, una volta entrata in classe.
Eri fece un piccolo inchino.
«Ah sì, guarda che ti hanno spostato. Hanno cambiato tutti i posti in classe, adesso sei seduta vicino la finestra, sempre all’ultima fila. Quello è il posto migliore, non credi?»
Guardò il suo nuovo posto con timore. Perché nulla andava bene? Un altro motivo per prenderla di mira.
«Accanto a te c’è quell’idiota di Hasegawa, e poi ci sono io! Avrei tanto voluto sedere vicino a te, ma il professore ha scelto a sorteggio i posti, che sfiga vero?»
Per quanto la freschezza di Atsuko l’avrebbe messa subito di buon umore, quel giorno non riusciva a pensare ad altro se non alla vendetta di Hasegawa, sarebbe stata sicuramente terribile.
«Oh sì, è vero, sei stata assente per una settimana, va tutto bene?»
«Ho a-avuto l’influenza.»
Mentiva. In fondo aveva solo paura che Issei le facesse qualcosa, ma dirlo sarebbe stato umiliante, inoltre forse Atsuko avrebbe fatto qualcosa di avventato, peggiorando la sua già precaria situazione.
«Oh, per lo meno adesso stai bene, vero?»
Mentre Eri usciva il libro di testo, Nomura si accorse del suo portapenne. Era rosa decorato con alcuni fiorellini. I suoi occhi brillavano nel guardare quell’oggetto.
«Yoshida-kun, usi cose così graziose!»
In effetti, Eri non aveva mai nascosto la sua passione per le cose carine. I suoi fermagli, i suoi quaderni e le sue penne erano spesso particolarmente aggraziati, le piaceva spendere in quelle cose i pochi soldi che riusciva a mettere da parte dal suo lavoro, anche se non poteva permetterseli spesso. Vi erano spese più importanti, per la casa.
«G-Grazie.»
«Io invece sono proprio un maschiaccio – sorrise allegramente – anche se mi piacciono tantissimo, non riuscirei ad indossarle con tranquillità, finirei per romperli o perderli.»
Atsuko aveva un’aria, oltre che solare, piuttosto alla mano. I suoi capelli castano chiaro erano un po’ in disordine e gonfi, ma ciò dava al suo viso piccolo un’aria molto amichevole. Non era molto alta, ma tra tutte le ragazze della classe, dopo Eri, era la più alta. Sotto la gonna indossava dei pantaloncini anche piuttosto evidenti, forse perché faceva spesso movimenti bruschi, energica per com’era.
I suoi occhi, privi di trucco, erano grandi e splendenti.
Atsuko era davvero graziosa.
«Ah, Yoshida, posso chiamarti per nome? Ti piace Eri-chan?»
«S-Sì!» Eri arrossì.
Tutta quella gentilezza le riscaldava il cuore.
A sua volta, anche Atsuko assunse un’espressione timida. «Quando arrossisci sei davvero troppo carina!»
«Dirglielo sempre – arrivò dalla sua postazione più lontana, Fujihara, con le braccia incrociate sul petto – non farà in modo che sia vero. Come puoi dirle carina?»
Nomura assottigliò gli occhi minacciosamente. Eri era stata presa di mira un’altra volta, anche senza aver fatto niente.
«Dopo una settimana che non viene, la tua preoccupazione più grande è prenderla in giro?»
«Ti ho già detto che non importava a nessuno.»
«A me importava!»
«E chi se ne frega?»
In quel momento entrò in classe anche Issei, seguito dai due suoi amici, nella stessa loro sezione. Non le rivolse nemmeno mezzo sguardo e si sedette nel suo banco. Si faceva i fatti suoi.
Eri si voltò verso la finestra. Non voleva infastidirlo.
«Nomura nessuno ti ha mai insegnato a farti gli affari tuoi?»
«Dovrei farmi gli affari miei quando sei tu ad intrometterti nei discorsi di qualcun altro, facendo la maleducata? Nel privato devi essere anche peggio di come ti mostri a scuola, a giudicare dal fatto che non ti importa se una compagna di classe è stata male o meno. I tuoi genitori non ti hanno insegnato l’educazione oppure sei così di tuo?»
Manami sembrò rimanere senza parole davanti al discorso stranamente sensato di Nomura. Presa dalla rabbia si avvicinò per tirarle uno schiaffo, ma fortunatamente Issei le bloccò il polso.
«Avete finito? Fate quello che volete ma quando ci sono io, fatemi il favore di non fiatare – storse le labbra – siete fastidiose.»
Fujihara si allontanò, offesa.
 
Poco dopo Atsuko la raggiunse nuovamente. «Ti va di pranzare insieme, Eri-chan?»
Mentre il professore entrava in classe, Eri annuì titubante, poi non ebbero più la possibilità di parlarsi, bloccate da quel muro altissimo il quale era Issei. Eri non aveva il coraggio di voltarsi nella sua direzione, sentiva un bruciore dentro lo stomaco, un orribile senso di colpa, di inadeguatezza.
Avrebbe voluto disdire, ma Atsuko era così carina nel chiederglielo che l’unica soluzione fu quella di fuggire non appena iniziata la pausa pranzo.
 
Senza accorgersene, infatti, Atsuko la perse di vista.
«Hasegawa, hai visto uscire Eri-chan?»
Il ragazzo sbuffò, scuotendo la testa e andandosene subito dopo.
Non capiva come mai l’avesse lasciata da sola in classe. Forse non gradiva la sua compagnia? Forse era stata troppo invadente?
E se invece era successo qualcosa?
Anche Manami era uscita in fretta.
A parte lei, nessuno si sarebbe preoccupato di dove potesse essere Yoshida, visto che non sembrava avere amiche, soprattutto perché in quella scuola aveva passato soltanto due giorni.
Non ci pensò un secondo e corse fuori, insieme al suo inseparabile bento, un contenitore dove teneva il pranzo preparato da sua madre.
Passò dalla palestra, in ogni corridoio e persino dal campo ma non trovò Yoshida da nessuna parte. La cosa puzzava.
Alla fine, l’ultimo posto era il tetto. Quando salì la vide seduta con le spalle contro il muro mentre scriveva qualcosa su uno dei suoi adorabili quaderni. Aveva un’espressione triste e non sembrava mangiare. Si chiese se fosse una buona idea raggiungerla, d’altra parte, ci doveva essere qualcosa sotto.
 
«Eri-chan, ti dà fastidio la mia compagnia?» Domandò onestamente.
Yoshida arrossì. «N-No!»
«Allora perché sei scappata?» Calmò i suoi bollenti spiriti, sedendosi accanto a lei.
«B-Beh…»
«Aspetta, ma tu non hai il pranzo!»
«N-Non preoccuparti, non lo porto, tranquilla!»
Atsuko corrugò la fronte, preoccupata. Perché faceva qualcosa del genere? Le faceva soltanto male quel suo comportamento, inoltre la giornata scolastica era molto pesante, avrebbe avuto qualche ricaduta di quel passo.
«E’ per quegli stupidi che ti prendono in giro?»
Eri non rispose.
Nomura fece un gran respiro.
«Eri-chan, sai da quanto tempo sono in questa scuola?»
«No.»
«Ho fatto qui tutte le medie e probabilmente finirò qui le superiori – con un elastico si legò i capelli gonfi, mostrandole le sue orecchie, erano piccole ma piuttosto evidenti, staccate dalla testa, le così dette “orecchie a sventola” – lo sai come mi chiamavano a scuola il primo e il secondo anno?»
Yoshida aveva un’aria preoccupata e curiosa.
«Dumbo!»
 
 
«Ah, guardate chi c’è, Dumbo!» Aveva urlato un compagno di classe, mentre Atsuko entrava nella sua nuova classe. Ormai era passato un anno, e la situazione proprio non cambiava. Continuavano a prenderla in giro per le sue orecchie.
Era stanca, stufa di tutto quello.
«Piantala!» Strillò, infastidita.
 
 
«D-Deve essere stato difficile.»
«Oh, puoi crederci.»
 
 
Nel suo armadietto erano scomparsi tutti i libri. Non capiva il motivo, ricordava di averli posati lì, ma forse erano nella sua cartella e non ci aveva fatto caso.
Sospirò, prima di tornare in classe.
«Stai cercando i tuoi quaderni?» Le chiese una compagna di classe.
Fu in quel momento che Atsuko capì che la serratura del suo armadietto non si era semplicemente allentata, ma era stata proprio forzata.
Perché mai arrivare a quel punto? Per quale soddisfazione?
«Controlla in bagno, dovresti provare!» Rideva come un’oca.
Alla fine li aveva trovati, erano stati tutti arrotolati e gettati dentro il water. Inizialmente non riuscì neppure a reagire. Si sedette accanto, portando le ginocchia al viso. Voleva soltanto piangere.

 
«Però insomma, sono ancora qui, oggi so rispondere alle galline come Manami, dovresti provare anche tu, ma forse – si mise una mano sul mento – questo dipende dal carattere di una persona, in ogni caso, non hai motivo di preoccuparti, ci sono io a proteggerti Eri-chan!»
«P-Perché mi vuoi aiutare?»
«Perché non sopporto le ingiustizie. Perché se nessuno reagisce, loro potranno sempre fare quello che vogliono. A me non sta affatto bene! Inoltre, non è solo questo, mi piace la tua compagnia. Sei così pura che fai tremare il mio cuore!»
Atsuko aveva indubbiamente uno dei sorrisi più belli e contagiosi che Eri avesse mai visto, così fresco e sincero che era impossibile non volerle bene.


 


Una volta arrivato a casa si stese, stanco.
Quella non era stata una bella giornata.
Non aveva notizie di Naoko, sicuramente lo odiava. In ogni caso, anche se gli avesse chiesto di incontrarlo, lui si sarebbe rifiutato. L’aveva lasciata proprio per tenerla lontana da lui e dalla sua famiglia.
Finché non avrebbe avuto una casa tutta sua, un lavoro e una sua vita, lontano da quel posto, si era giurato di non affezionarsi più a nessuno.
Eppure Naoko gli mancava.
Il suo sorriso furbo, la sua voce sicura e dolce.
Nel muoversi sul letto si ricordò di avere la lettera di quella Yoshida in tasca. Da quando l’aveva raccolta non gli era passata neanche da lontano l’idea di aprirla per leggere cosa effettivamente avesse scritto.
Non gli costava nulla a quel punto, in ogni caso, lei non lo avrebbe mai saputo.
 
La aprì lentamente.

 
私は気にしなかったことを謝ったかった。
あなたを邪魔させたのは私の意図ではありませんでした。
私の恥ずかしさのため、私は話がうまくないので、私はそれを書き留めた。
私は誰にも言わないでください、お願いします。

私はまだ手紙の乱れをお詫びします、私は本当にそれを言う方法を知りませんでした。
(Volevo scusarmi per aver assistito a qualcosa che non mi riguarda. Non era mia intenzione crearti disturbo.
A causa della mia timidezza, non sono brava a parlare, per questo ho preferito scriverlo. Non lo diro’ a nessuno, per favore, ti chiedo di scusarmi.
Scusa ancora per il disturbo della lettera, non sapevo davvero come dirlo.)

 
 
La prima cosa che fece fu coprirsi il viso con una mano. Sicuramente era arrossito, che cosa fastidiosa.
L’aveva aggredita, ma lei voleva soltanto scusarsi per qualcosa di cui non aveva neppure una vera colpa.
Non era colpa sua se aveva assistito a quella scena, ma si era scusata, e aveva persino aspettato la fermata successiva del treno che condividevano, quel giorno, per salirvi, perché in quel momento stava entrando lui.
Non le aveva detto nulla.
Era stato così orribile nei suoi confronti che per qualche ragione il suo cuore prese a battere. Gli venne subito in mente il momento in cui l’aveva fatta piangere, lanciando la lettera dopo averla stropicciata.
Vedeva i suoi grandi occhi in lacrime.
Che cosa aveva fatto?
 
«Issei!» Lo chiamò dal piano di sotto sua madre. Immediatamente scattò giù dal letto, per raggiungerla. Scese in fretta le scale, trovandola seduta al solito posto, leggermente chinata sul tavolo basso del soggiorno.
«Che c’è?»
«Naoya non sta bene, credo abbia l’influenza, puoi andare in farmacia?»
Il fratello maggiore non ci pensò un secondo a prendere la lista sul tavolino che la madre aveva scritto per lui, così da ricordare i farmaci da acquistare. Si infilò in fretta le scarpe e corse fino alla farmacia più vicina.
Quando vide la saracinesca abbassata sospirò. Era chiusa e la più vicina, dopo quella, era a 10 minuti di strada a piedi. Si impegnò, nel correre il più veloce possibile.
Anche se sembrava un ragazzo disinteressato, sicuramente la cosa più importante restava la sua famiglia. Era qualcosa che voleva proteggere, nonostante gli stesse rovinando i rapporti sociali. Non c’era soluzione all’alcolismo di sua madre, e anche se ci fosse stata, lei non aveva intenzione di risolvere, per cui, a Naoya tra lei e un padre troppo spesso fuori casa per lavoro, restava soltanto Issei.
 
Finalmente la trovò. Prima di poter entrare cercò nelle tasche posteriori della divisa il portafogli. Rimase ghiacciato davanti l’ingresso della farmacia.
 
Era un idiota.
 
Poco dopo, si allontanò, raggiungendo una panchina. Sarebbe dovuto tornare a casa e rifare tutta quella strada il più velocemente, ma i suoi polmoni in quel momento stavano esplodendo e se non riprendeva un secondo il fiato sarebbe sicuramente svenuto. Si sedette, imprecando mentalmente.
Come aveva fatto a scordare la cosa più importante?
Nel frattempo, dalla farmacia, era uscita una sua conoscenza. Yoshida. Era sola e teneva con difficoltà una busta piena di medicine, la busta era troppo grossa e strapiena. Anche lei lo aveva notato, ma inizialmente si era girata, timidamente, ormai Issei doveva spaventarla anche soltanto a vista.
D’altra parte, anche lui distolse lo sguardo.
Si sentiva ancora in colpa per quello che era successo.
Alla fine Yoshida, per qualche ragione, si avvicinò a lui, ma nel tragitto dalla farmacia alla panchina le scivolarono alcuni pacchetti e nell’intento di raccoglierli, caddero tutti. Issei ebbe l’istinto di alzarsi, per aiutarla, forse, in qualche modo, quelle sarebbero state le sue scuse, ma qualcosa di più forte lo tenne seduto e fermo su quella panchina; la colpa.
Silenziosamente, li raccolse da terra, posandoli ordinatamente nella busta, anche se continuava a straripare. Si chiese perché non aveva preso due buste, ma non poteva certo chiederglielo.
La cosa che probabilmente lo fece arrabbiare di più era il fatto che lei non aveva provato neppure a spiegargli come stavano le cose.
Era davvero così timida?
Sarebbe bastato spiegargli cosa c’era dentro, ma se ci fosse riuscita, probabilmente non avrebbe mai scritto quella lettera. Perché doveva essere così impulsivo e stupido? Le aveva anche detto delle cose terribili.
 
«Ha-Hasegawa-kun… - lo chiamò con un filo di voce, era terribilmente imbarazzata e Issei lo sapeva – è s-successo qualcosa? Ti ho v-visto davanti…ecco, davanti la farmacia.»
Si era preoccupata.
Issei si coprì la bocca e le gote con una mano, evitando di mostrarle quanto il suo gesto lo aveva colpito, sentiva le guance bruciare. «Non importa, ho dimenticato solo il portafogli, adesso torno a casa a prenderlo.»
«D-Deve essere grave, ecco… non pr-preoccuparti di questo – goffamente, cercò di prendere il portafogli dallo zaino, senza neanche avvicinarsi alla panchina, visto che sopra c’era seduto lui, quella ragazza era davvero stupida e irrazionalmente dolce – p-per favore, non arrabbiarti.»
Issei arrossì nuovamente. Non aveva mai conosciuto una persona del genere.
«Perché mi aiuti? Non me lo merito.» Parlava dietro il palmo che gli copriva parte del viso.
«P-Perché se eri in una farmacia, ti servivano…delle medicine, q-quindi qualcuno sta male, allora è importante.»
Un tonfo.
Un solo tonfo dentro al petto.
Le sue mani tremavano quando cercò di afferrarne una di Issei. C’era molta gente in giro, per cui aveva scelto di rendere tutto quello il meno imbarazzante per Issei. Aveva poggiato i soldi sul palmo freddo di Issei, le mani di Yoshida erano estremamente calde. Successivamente si preoccupò anche di chiudere le dita di Hasegawa intorno al denaro, allontanandosi immediatamente.
«N-Non è molto… ma è tutto quello che avevo, non so cosa tu d-debba comprare, ma spero che bastino. N-Non ho ancora ricevuto lo stipendio, per cui…»
Hasegawa non riuscì neppure a ringraziarla, la guardava soltanto e Yoshida pensò che fosse meglio andarsene. Forse credeva che si sarebbe arrabbiato.
Alla fine, era scomparsa.
Issei usò entrambi i palmi per coprire il viso, i sensi di colpa premevano forte contro il suo addome. Era stato davvero, davvero pessimo con Yoshida, e lei, in fondo, si era preoccupata del suo aguzzino, capendo che quella poteva essere una situazione difficile.
Inoltre, quelli erano i soldi che si era guadagnata da sola.
Fino a quel momento, Issei, non sapeva che potessero esistere quel genere di persone. La reazione anomala che aveva provocato al suo corpo era qualcosa del tutto nuova per lui.
   
 
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