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Autore: Adeia Di Elferas    27/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Marcheselli andò alla porta, trafelato, lasciando gli altri un attimo da soli nel salotto. Quel giorno era così importante non avere orecchie curiose in giro, che il padrone di casa aveva congedato quasi tutta la servitù, lasciando solo un paio di serve a occuparsi dell'economia domestica essenziale.

“Oh, finalmente siete qui...” disse Marcheselli quando, aprendo il portone del palazzo, si trovò davanti Piero e Ludovico Belmonte: “Prego, prego, entrate... Gli altri sono tutti di là.”

I due lo ringraziarono con un cenno del capo, levandosi le berrette coperte da un leggero strato di pioggerella. Quel giorno era difficile capire se l'acqua, così fine e salmastra, arrivasse dal mare o dal cielo.

“E la ragazza come sta?” chiese Piero, fermando un momento Marcheselli e guardandolo con i suoi occhi profondi.

L'uomo alzò una spalla, accennando uno sbuffo: “Il dottore dice che di riprenderà. Però è rovinata lo stesso.”

Belmonte annuì con gravità e assicurò: “Questa è la volta che liberiamo Rimini da quel pazzo.”

Il padrone di casa fece un breve sorriso triste e sussurrò: “Lo spero. Lo spero davvero. Questa volta ha davvero passato ogni segno.”

Quando i due Belmonte arrivarono nel salotto, trovarono già radunati attorno al tavolo i capifamiglia dei Cattani, dei Clementini, dei Magnani, dei Della Rosolaria, dei Diotallevi, degli Schiavina, degli Agolanti, degli Arnolfi e degli Adimari.

“Gli Agli?” chiese Ludovico Belmonte, facendo un rapido riassunto dei più abbienti di Rimini.

“Di loro non ci fidiamo.” disse con freddezza Adimari: “Niente serpi in seno, se vogliamo rovesciare i Malatesta.”

Ludovico guardò il parente Piero e poi convenne: “Avete ragione. Noi bastiamo. Avete già deciso quando colpirlo?”

Fu Marcheselli a prendere la parola. Fece un respiro profondo, giungendo le mani sul petto in modo abbastanza scenico e poi guardò gli altri congiurati uno dopo l'altro, prima di riassumere quello che era stato deciso fino a quel momento.

“Lo vogliamo colpire domani. Prima che si renda conto di chi era la donna a cui ha usato violenza.” disse Marcheselli, faticando a moderare la voce: “Lo uccideremo alla Messa vespertina, nella chiesa di San Giovanni Evangelista.”

“In chiesa?” chiese titubante Piero Belmonte.

“Almeno là si sentirà tranquillo.” spiegò Agolanti, passandosi una mano sulla mandibola squadrata.

“Va bene.” accettò senza indugi Ludovico Belmonte: “Ma dovremo esserci tutti. Dovremo sporcarci le mani tutti. Tutti quanti, nessuno escluso.”

 

Caterina si stava mordendo l'unghia del pollice, mentre leggeva con attenzione la missiva arrivata da Roma, scritta di proprio pugno da Ascanio Sforza.

Stava scendendo la sera e l'arrivo di quell'ennesima lettera dall'Urbe aveva distolto la Contessa da ogni altra cosa, facendole perfino scordare di andare a cenare.

Solo quando la porta della camera si aprì, lasciando entrare Giovanni, la Tigre si rese conto di che ora fosse e dello stomaco che brontolava.

“Ti ho portato pane e formaggio.” disse il Medici, mettendole sulla scrivania un piccolo pacchetto di stoffa da cui arrivava un profumo invitante.

Sorpresa e al contempo compiaciuta nel vedere come le attenzioni del marito non diminuissero col tempo, la donna lo ringraziò e poi indicò il messaggio: “Mio zio Ascanio.” disse, a mo' di spiegazione.

“Che dice?” chiese Giovanni, sedendosi sul letto per cavarsi le scarpe.

Era da tutto il giorno che le articolazione dei piedi gli davano fastidio. Erano rigide, infiammate, e anche quella notte lo avevano tormentato con dolori improvvisi e tremendi. Per fortuna non insopportabili come durante le crisi maggiori, ma non per questo meno fastidiosi.

“Dice che il papa sta per scegliere un nuovo marito per sua figlia.” parafrasò Caterina, evitando di ripetere le frasi ampollose che Ascanio aveva architettato forse per metterle ansia: “E dice anche che Rodrigo Borja si sta orientando verso l'Orsini, il Duca di Gravina... O lui o uno degli Appiani di Piombino.”

“Un Appiani?” chiese un po' stupito l'ambasciatore.

Sua cognata era un'Appiani, eppure nemmeno nella sua ultima lettera aveva fatto cenno a una simile possibilità, malgrado fosse quanto lui addentro alle questioni politiche ed estremamente attenta alle alleanze familiari. Probabilmente, non l'aveva fatto perché ancora non ne era al corrente.

“Semiramide ti ha scritto nulla?” chiese la Sforza, facendo lo stesso collegamento fatto dal marito.

Giovanni scosse il capo e assicurò: “Nemmeno una parola. Se è vero che il papa sta pensando a un Appiani, o lo fa da molto poco, o gli Appiani stessi ancora non ne consapevoli.”

La donna fece una piccola smorfia e concluse, in tono abbastanza mesto: “Ecco, secondo Ascanio, però, questi due sono i pretendenti più probabili.”

Il Popolano sollevò lo sguardo dai suoi tofi gonfi e occhieggiò verso la Leonessa: “E quindi?”

“E quindi mi chiede se voglio che spinga per Ottaviano.” disse la Contessa, massaggiandosi la fronte.

Aveva un gran mal di testa, ma non aveva tratto giovamento da nessuno dei suoi intrugli. Certi li aveva scartati a priori, in realtà, per paura di far del male al figlio che portava in grembo. Benché non si risparmiasse nell'andare a cavallo o nell'usar la spada, si era detta che almeno limitarsi nell'ingestione di possibili sostanze dannose era un'accortezza sopportabile.

“Fossi in te ci proverei.” disse il fiorentino, sporgendo un po' in fuori il labbro: “Tanto per sapere che proposte avrebbe in mente di fare. Al massimo, se la cosa non dovesse piacerci, potremmo rifiutare cordialmente dicendo che è stata un'iniziativa di Ascanio, o di Raffaele, proporlo. Visti i tipi che sono, nessuno lo dubiterà.”

Caterina strinse il morso. Non era una cosa da prendere tanto alla leggera, ma in fondo suo marito aveva avuto un'idea più che passabile.

“Dici che vale la pena di provare?” chiese la donna, stendendo con cura la lettera sulla scrivania.

“Sì.” confermò il Medici, stendendosi per dare requie alle sue povere articolazioni: “Mi rendo conto che, essendo Forlì nello Stato della Chiesa, è una situazione complessa. Ma Imola è una città indipendente. Credo che potremmo giocarcela bene. Sempre che il papa non si dimostri troppo arrogante.”

La Sforza sospirò e poi, rivalutando il tutto in silenzio, ridiede ragione anche nella propria mente al fiorentino. Prima di scrivere la risposta per Ascanio, però, si mangiò il pane e il formaggio che Giovanni le aveva portato, rimuginando ancora sullo scacchiere labile e indecifrabile di alleanze che si stavano creando.

 

Pandolfo Malatesta, le dita intrecciate sul petto in una posa affettata, guardava verso l'altare senza vederlo.

Alla Messa del vespro, la sera di quel 20 gennaio, c'era poca gente. Il signore di Rimini, che ci andava più per abitudine che non per altro, si stava chiedendo perché mai non se ne fosse rimasto a palazzo a bere e mangiare in santa pace.

'Per farmi vedere da questi inutili parassiti...' si rispose da solo dopo un po', sentendo gli occhi indagatori dei notabili di Rimini alle sue spalle.

Il prete stava portando avanti stancamente il suo officio, dando rigorosamente le spalle ai fedeli, e il Malatesta stava per concedersi uno sbadiglio ristoratore, alla faccia dei perbenisti che lo scrutavano come fosse stato una bestia rara, quando avvertì uno strano fruscio appena dietro di sé.

Prima di ragionare su cosa mai potesse essere, le gambe secche e agili del Pandolfaccio scattarono in avanti.

“Non fatevelo scappare!” gridò Marcheselli, la spada in pugno.

Il signore di Rimini, nel frattempo, era saltato sull'organo lì appresso, riuscendo a nascondervisi dietro per qualche istante. Quando si accorse che gli uomini che lo volevano attaccare erano molti, praticamente tutti quelli presenti nella chiesa, balzò sul fragile altare decorato, che si ruppe all'istante sotto il suo peso.

Il prete, sconvolto dal trambusto, quando vide le armi impugnate da nobiluomini come Clementini, Magnani, Diotallevi, Adimari e tanti altri, colto da uno scoramento improvviso, svenne, cadendo sordamente sui resti dell'altare maggiore.

I quattro organisti, prezzolati ferraresi fatti arrivare a Rimini proprio dal Malatesta, reagirono d'istinto, mettendosi a protezione del loro mecenate. Prese le spade dal fodero, fecero quadrato attorno a lui, che, per quanto già con lo stiletto in mano, sapeva che non avrebbe potuto averla vinta da solo contro così tanti nemici.

“Per Dio!” ululò il Pandolfaccio, rivolgendosi ai quattro organisti: “Portatemi salvo al castello e vi farò ricchi!”

Gli uomini, mossi come burattini dall'idea di guadagnare molti soldi, cominciarono ad attaccare senza indugio i nobili di Rimini che, forse per la sorpresa di non essere riusciti subito nel loro intento, erano rimasti quasi impietriti.

Sotto gli occhi attoniti del prete che si era ripreso, il Malatesta riuscì a correre fuori dalla chiesa, seguito a breve distanza dai quattro ferraresi che, a parte qualche graffio, non erano nemmeno rimasti feriti.

Correndo a perdifiato, il Pandolfaccio arrivò fino a palazzo, fece chiudere i portoni, mise sentinelle sui camminamenti e poi cercò immediatamente i suoi uomini di fiducia.

Si rese conto troppo tardi di non essere stato inseguito fino a lì. Se da un lato questo gli aveva permesso di salvare la pelle, dall'altro sapeva che significava che la questione non sarebbe finita tanto facilmente.

Tra i suoi assalitori c'erano gli uomini più rispettabili e abbienti di Rimini. Perchè così, di punto in bianco, l'avevano attaccato? Non c'erano nemmeno state particolari nuove frizioni in Consiglio...

Che mai aveva fatto di male, per attirarsi all'improvviso tanto odio?

“Che cosa è successo?” chiese Violante, quando vide il marito uscire dalla sala delle mappe assieme ad alcuni dei suoi scagnozzi.

Malgrado le finestre fossero tutte chiuse, per evitare al freddo dell'inverno di entrare, cominciavano ad arrivare abbastanza distintamente delle urla che nascevano in strada. Si trattava per lo più di motti contro i Malatesta, inneggianti a un nuovo governo.

Pandolfo sudava freddo, sapendo che presto la situazione avrebbe potuto degenerare. Doveva rintracciare in qualche modo quei pochi che gli sarebbero rimasti fedeli e radunare il piccolo esercito di cui disponeva.

Solo una piccola parte era al castello. Ne aveva dislocate troppe divisioni nelle campagne, per difendersi da quella bestia feroce della Tigre, e così era rimasto sguarnito...

“Stupida donna!” inveì il Malatesta, agitato per quello che stava per capitare, sentendosi il fiato di Venezia sul collo: “Sta per scoppiare una guerra civile!”

 

La rocca di Ravaldino era immersa nella neve. Anche se non ne cadeva più da un paio di giorni, quella che era rimasta si era ghiacciata e probabilmente non si sarebbe sciolta per un bel pezzo.

La Sforza era appena tornata da un giro in città. Suo marito era impegnato con alcuni mercanti arrivati da Imola, con cui stava trattando dei commerci a nome di Firenze e così lei ne stava approfittando per riflettere un po' tra sé, vagando senza meta.

I lavori al mastio erano pressoché finiti e quindi aveva ordinato che si procedesse anche con quel freddo, in modo da averli conclusi prima della primavera. Il bel tempo, secondo lei, avrebbe potuto risvegliare gli animi bellicosi dei signori italiani e a quel punto voleva farsi trovare pronta.

Aveva anche dato ordine che Ottaviano e Galeazzo proseguissero gli addestramenti nel cortile. Se il più piccolo non aveva fiatato, a quella disposizione, il maggiore aveva provato a tirarsi indietro, esibendosi in un paio di colpetti di tosse che non avrebbe convinto nemmeno il più credulone d'Italia.

Solo Bernardino era stato dispensato da quell'incombenza, perché la madre aveva ritenuto meglio per lui dedicarsi alle lettere. Benché fosse riluttante a quel genere di esercizio, il bambino, solo per compiacerla, aveva seguito il precettore nella sala delle lettura senza fare storie.

“Solo perché suo padre era un mezzo analfabeta – aveva commentato a denti stretti Caterina, parlando con il maestro – non significa che lo debba essere anche lui.”

Anche Sforzino si era subito aggregato alla lezione, benché per lui fossero cose ormai acquisite. Gli piaceva, stare con i fratelli, quale di loro fosse disponibile a fargli compagnia. Era un tranquillo, socievole, con interessi molto limitati, ma ben disposto a condividere momentaneamente quelli degli altri. Con un certo ottimismo, la madre si diceva che con quel carattere pacifico e fiducioso avrebbe avuto una vita più semplice di altri.

Cesare non era alla rocca. Di certo si trovava in qualche chiesa satura dei fumi d'incenso a pregare per qualcosa o a invocare il castigo divino per qualcuno. Quale delle due fosse l'ipotesi corretta, alla Leonessa interessava relativamente.

Solo di Bianca non aveva idea di dove potesse essere, ma molto probabilmente si trovava nelle cucine a chiacchierare con le sue amiche della servitù.

Alla Contessa non dispiaceva troppo, sapere che sua figlia sapeva farsi ben volere anche dai servi, benché non fosse la compagnia ideale, per una giovane donna nella sua posizione. Dopotutto, forse, era normale che Bianca cercasse qualche amica, soprattutto coetanea, con cui confidarsi.

La Sforza non aveva voluto circondarla di dame di compagnia sia per motivi di sicurezza, sia per non dover scegliere suddette dame tra le figlie dei notabili della città, creando magari inutili incidenti diplomatici. Dunque, finché riusciva da sola a supplire la sua necessità di avere delle amiche, andava benissimo così.

Nel suo peregrinare senza sosta, la Leonessa era arrivata in uno dei punti meno frequentati della rocca, dove stavano alcune camere per gli ospiti che non venivano usate da mesi, se non anni.

Da lì si sentivano appena i rumori dei manovali che lavoravano al mastio e per il resto la calma era pressoché totale.

La Contessa, il passo lento e leggero, si aggirava con le mani allacciate dietro la schiena e la mente persa nei suoi calcoli. Stava cercando di considerare a mente fredda le possibilità matrimoniali di Ottaviano, imponendosi di non provare pietà per la sfortunata che ne sarebbe diventata la moglie e concentrandosi solo sui risvolti politici di una possibile unione.

Perfino Luffo Numai, quella mattina, aveva avuto la faccia tosta di riprenderla in merito alla quasi totale assenza di politiche matrimoniali nel suo piano d'azione.

“Avete fatto sposare vostra figlia con Astorre Manfredi – le aveva detto il Consigliere, con una certa durezza – ma da anni sia noi, sia Castagnino, ci chiediamo che significhi un matrimonio del genere.”

“Ha mantenuto la pace tra i nostri Stati.” aveva ribattuto la Tigre, con ovvietà.

“Solo perché non conveniva a nessuno dei due farsi guerra. O fate sciogliere questa ridicola unione, o mandate vostra figlia a Faenza.” aveva scosso il capo Numai: “Altrimenti non vedo come potremo mai uscire da questa bonaccia...”

“Avete altro da dire?” si era irritata la milanese, come sempre molto insofferente al tono paternalistico che alcuni uomini più vecchi di lei si sentivano in dovere di usare quando le parlavano.

“Dovreste pensare a una moglie per Ottaviano, ma dovreste farlo seriamente.” aveva continuato Luffo, forse non cogliendo l'indisponenza della sua padrona, o forse non volendola cogliere: “E anche Galeazzo, ormai, ha un'età in cui potrebbe essere promesso a qualcuno... Per Dio, Contessa, lo sapete meglio di me che la politica è anche questo!”

La Sforza, a quel punto, aveva lasciato cadere il discorso dicendo in fretta che vi avrebbe pensato e aveva rispedito il suo Consigliere a controllare delle carte dell'ultimo Consiglio cittadino, tanto per toglierselo dai piedi.

Stava ancora tormentandosi su un eventuale matrimonio tra Ottaviano e Lucrecia Borja, un'unione tanto promettente quanto incredibilmente pericolosa, quando sentì dei suoni strani arrivare da una delle alcove chiuse dalle tende che davano verso il cortile.

Distratta da quei rumori, chiedendosi chi mai potesse essersi imboscato là dietro, come a volte i suoi invitati facevano nel corso delle feste più lunghe.

Ben decisa a non impicciarsi, stava già voltando i tacchi quando, dopo una bassa risata, sentì qualche parola sussurrata da una voce che conosceva molto bene.

Detestandosi per quello che stava per fare, ma conscia del fatto che era suo dovere, invertì per la seconda volta il senso di marcia e si diresse verso l'alcova.

Con un movimento secco, aprì la tenda e trovò sua figlia Bianca seduta sulla panchetta di pietra accanto a un ragazzo che non doveva avere più di diciassette o diciotto anni.

Erano vicini, abbastanza da lasciar intuire che, come aveva immaginato, i rumori di poco prima fossero il suono di una serie di baci. Avevano le dita intrecciate l'una in quelle dell'altro ed entrambi erano rossi in viso.

La comparsa improvvisa della Tigre, però, aveva cancellato dai loro volti qualsiasi espressione che non fosse di paura.

Il giovane, veramente di bell'aspetto, malgrado gli abiti da lavoro un po' rovinati e qualche rimasuglio di polvere sulla fronte e sulle guance, chiazzate qua e là da qualche ciuffo di barba castana, sollevò gli occhi chiari verso la Contessa e restò immobile come una statua di sale.

“Bianca... Posso parlarti un momento?” chiese la Leonessa, sempre fissando il ragazzo, benché si stesse rivolgendo alla figlia.

La giovane Riario sgusciò via dal braccio del ragazzo, che le cingeva le spalle e, deglutendo, terrorizzata, seguì la madre, che la condusse nella prima stanza libera che le capitò a tiro.

La ragazza restava vicino alla porta, le mani congiunte in grembo e il capo chino. Caterina, invece, non sapeva come gestire la situazione.

Se solo Bianca non fosse stata ingarbugliata con Astorre Manfredi, non le avrebbe mosso alcun rimprovero. In fondo, era sua profonda convinzione, era meglio essere felici, che non seguire le etichette.

Però sua figlia, suo malgrado, era ormai già inserita nello scacchiere politico italiano e di conseguenza poteva muoversi solo in alcune direzioni e solo con il suo consenso esplicito.

“Ricordati che io non ho i soldi del papa.” disse la Leonessa, vicina alla finestra, gli occhi che scrutavano fuori, verso la campagna coperta di neve.

Il silenzio di Bianca durò a lungo, ma, siccome la madre non si voltava verso di lei, né aggiungeva altro, la ragazza sentì il dovere di chiedere: “Che intendete, madre?”

“Il papa ha potuto sciogliere il matrimonio di sua figlia pagando una giuria affinché dimostrasse come vero il falso. Io non potrei.” soffiò la Contessa, passandosi stancamente una mano sul volto, mostrando inaspettatamente un sintomo di stanchezza e, forse, di debolezza: “Probabilmente, visto quanto siamo invisi al papa, non mi basterebbero nemmeno i soldi di Giovanni, per pagare la giuria e convincerla a emettere una sentenza priva di fondamento.”

Finalmente Bianca capì appieno quello che la madre le stava dicendo. Pur con parole e metodi diversi, era lo stesso identico discorso che le aveva fatto tempo addietro il Medici.

“Chi era quello?” chiese a un certo punto la Sforza, voltandosi verso la figlia e scrutandola interrogativa.

La Riario deglutì, indecisa se dire o meno la verità. Non sapeva che aspettarsi, da una belva come sua madre. Ricordava ancora il vuoto che aveva provato, nel sentire che aveva ucciso Ludovico Marcobelli. E in quel caso si trattava solo di un suo conoscente...

“È uno dei garzoni dei carpentieri che lavorano al mastio?” domandò Caterina, cercando di ricordare i lineamenti del ragazzo.

Le sembrava di averlo già visto, alla rocca. E poi gli abiti che indossava e lo sporco di muratura che aveva in viso lasciavano pochi dubbi.

Con il cuore pesante, Bianca annuì.

“Ho capito.” sussurrò la Contessa, tra sé.

“Vi prego, non fategli del male...” implorò la ragazza, stringendosi una mano nell'altra, atterrita all'idea che potesse capitare qualcosa a quel poveraccio solo perché l'aveva incontrata sulla sua strada.

“E perché dovrei fargli del male?” domandò la madre, corrucciandosi: “Non mi pare che ti stesse costringendo a fare nulla che tu non volessi. O mi sbaglio?”

La Riario scosse subito il capo e, con il coraggio di chi ormai pensa di non aver nulla da perdere, confermò: “Infatti, non mi stava costringendo a fare nulla che non volessi.”

“Ti sei compromessa con lui?” chiese la Tigre, guardando altrove.

Bianca fece di nuovo segno di no e tanto bastò alla madre per crederle. Sua figlia aveva i suoi difetti, ma almeno era abbastanza facile capire quando diceva la verità.

Caterina sospirò e poi si sforzò di suonare conciliante, nel dire: “Se mai in futuro dovessi decidere di fare qualcosa... Qualsiasi cosa, con lui o con qualcun altro, dovrai dirmelo. Intesi?”

La giovane si morse il labbro e, incapace di spiccicar parola, annuì con un cenno secco del capo.

“Non piace nemmeno a me, questa situazione, ma io devo sapere la verità, se voglio riuscire a difenderti in caso di bisogno, lo capisci?” chiese la Contessa, cercando un contatto più diretto con la figlia, prendendola per la spalla.

Attraversata da una scossa, al tocco della madre, Bianca deglutì a fatica, per via della bocca secchissima, e rispose: “Sì, lo capisco.”

La Sforza fece un respiro molto fondo e poi, lasciando di scatto la spalla della ragazza, concluse, appena più rilassata: “Il tuo amico mi sembrava molto spaventato... Rassicuralo e digli che non gli farò nulla. Ma tu tieni a mente le mie parole.”

La Riario annuì e poi, appena la madre le fece segno di sparire, agitando la mano in aria, se ne andò veloce come il vento.

Rimasta sola, Caterina restò qualche minuto nella stanza degli ospiti. Sapeva di chiuso. Era molto essenziale, però era abbastanza elegante, essendo tra le ultime che erano state rimesse a nuovo.

Non appena si fu calmata a sufficienza, la Tigre uscì, chiudendosi la porta alle spalle e ricominciò il suo vagabondaggio, fino a che non venne fermata da Cesare Feo.

“Vi stavo cercando dappertutto...” le disse, senza fiato.

Probabilmente aveva fatto le scale di corsa. Era un po' fuori forma, da quando aveva lasciato quasi del tutto l'addestramento dei soldati in virtù di una maggiore attenzione per i conti dello Stato, revisionati da lui in vece di un Governatore ufficiale.

“Che volevate dirmi?” chiese la Contessa, distogliendo con molta fatica la propria mente dal pensiero di sua figlia.

“A Rimini è scoppiata una rivolta.” disse Cesare, mostrandole un dispaccio che Piero Landriani, da Forlimpopoli, aveva fatto recapitare da una staffetta veloce.

Caterina prese il messaggio e lo lesse velocemente. Si parlava di una sollevazione della nobiltà e dei ricchi riminesi – eccezion fatta per pochissime famiglie, tra cui gli Agli – contro Pandolfo Malatesta, che restava asserragliato nel suo castello, in attesa, forse, di soccorso.

“Si sa perché è scoppiata?” chiese la donna, cominciando a camminare più in fretta, seguita dal castellano che faticava a starle dietro.

“La staffetta ha detto che probabilmente il casus belli è stata un'aggressione del Pandolfaccio ai danni di una Marcheselli.” spiegò Cesare: “Ma i malumori c'erano da tempo... Dove state andando?” le chiese poi, quando ormai si avvicinavano all'uscita della rocca.

Il castellano non poteva lasciare il perimetro di Ravaldino e dunque avrebbe presto dovuto separarsi dalla Contessa che, invece, continuava a camminare, anzi, quasi a correre.

“Ho bisogno di parlare con mio marito.” spiegò in fretta lei, già al portone: “Devo decidere cosa fare.”

 

 

 
   
 
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