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Autore: Miki93    27/06/2009    3 recensioni
-Sei la ragazza più decisa che io conosca, lo sai?-, sorrise, per la prima volta quella sera, -E vorrei tanto poter tornare indietro e correre ai ripari-, sussurrò, delicatamente. << La sua mano mi sfiorò la guancia. Quel gesto così semplice mi fece sobbalzare. Da dove proveniva tutta quella gentilezza? Perchè proprio in quel momento in cui ero così fragile? Mi fece desiderare di stringerlo a me. Quella dolcezza mi sorprese >>. -Vorrei dirti che ti amo... ma sarebbe un tradimento verso il mio ragazzo-, sussurrai, le lacrime che mi rigavano il volto. -Lo so-, disse e mi abbracciò, -lo so. Tu lo ami-, disse. -Si-, risposi in un sussurro. Ed ero sincera.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1- Roma

Roma

 

 

 

 

 

 

 

 

Scesi dall’aereo sbadigliando. Ero ancora mezza intontita.

Be’, lo sareste stati anche voi dopo nove ore di volo.

Seduta senza far nulla, al massimo della depressione.

Perché proprio a me? Cosa avevo fatto di male?

Ero un’ottima studentessa, una figlia modello, una ragazza diligente e matura.

E allora, perché mio padre aveva accettato quella stupida proposta di lavoro... a Roma?

Inutilmente avevo pregato mamma di poter rimanere a New York.

Niente, non avevo ottenuto il benché minimo risultato.

Ed ora eccomi lì. In una città di cui non sapevo niente, e di cui non mi importava sapere niente.

Tutto ciò che desideravo, era di poter tornare a casa mia. Nella mia vera casa!

Non in quell’appartamento al Centro che avevano comprato solo per farmi felice.

Io non ero felice. Non lì.

Mia sorella minore, Elizabeth, si aggrappò al mio maglione rosa, con sguardo vigile.

Non le era mai piaciuto viaggiare, al contrario di me.

Ma in quell’occasione, come darle torto?

Le sorrisi e le presi la mano. I suoi capelli mossi e castani le ricadevano sulle spalle scintillando. Sembravano fatti di seta. E i suoi occhi azzurri si guardavano attorno, studiando ogni minimo movimento.

Aveva solo dieci anni e già si comportava da detective. Sempre alla ricerca di qualcosa.

Trascinai il trolley accanto al taxi e sospirai.

-Vedrai, ti troverai benissimo qui-, mi disse mio padre, euforico.

Come potevo smontarlo? Era talmente felice.

-Si, lo so-, risposi affaticata.

-Cos’è quel faccino triste, allora?-, mi chiese mia madre, mentre aiutava Elizabeth a salire sul taxi.

-Sono solo stanca per il viaggio, mamma. Davvero. Come voi-, risposi, sfoggiando un sorriso stanco.

Fortuna che ero brava a mentire! E lo dovevo a Matt.

Matthew Miller, il mio adorato Matt! Il mio migliore amico.

Chiusi gli occhi e sorrisi al ricordo del suo volto.

Quei suoi capelli castani chiari, lunghi quasi fino alle spalle, i suoi occhi marroni, così profondi ma ancora innocenti, come quelli di un bambino. Perché era questo che sembrava. Un tenero bambino... seppur già sedicenne.

Come dimenticare tutte le nostre avventure? Eravamo inseparabili, nemmeno fossimo fidanzati.

E come potevo dimentica il suo addio?

Niente parole o prese in giro. Solo un bacio. Solo lui ed io. Di sera. Nel nostro posticino preferito; quel ponte che si affacciava sull’Oceano.

Sarei tornata da lui, prima o poi. A ridere e scherzare come una volta. Solo io e lui.

Mia madre mi diede uno strattone, facendomi riprendere.

Mi ero nuovamente lasciata andare ai ricordi. Per tutto il viaggio in aereo, non avevo fatto altro che pensare a Matt, a New York, a tutto ciò che avevo lasciato.

-Tesoro, vuoi salire? Aspettiamo solo te-, esclamò mio padre.

-Ah... subito!-, mi affrettai.

Accanto a me, mia madre mi lanciava occhiate preoccupate.

Decisi di ignorarle e di controllare il mio stato. Dovevo sembrare la sorella della befana in quel momento.

-Mamma, hai per caso uno specchietto?-.

-Certo, tieni-, me lo porse frettolosamente, come avesse paura di notare una mia ricaduta.

Lo aprii e mi specchiai. Avevo proprio ragione.

I miei capelli rosso scuro erano tutti in disordine, i miei occhi verdi erano gonfi a causa del sonno e dell’intontimento, le guance erano arrossate e la testa cominciava a farmi male.

Richiusi lo specchietto e lo porsi a mia madre.

-Avrei proprio bisogno di darmi una sistemata-, sospirai.

-Non preoccuparti, in poco tempo arriveremo a casa. Una volta lì, potrai sistemarti come vorrai-.

-Si-, risposi e chiusi gli occhi, lasciandomi trascinare nuovamente dai ricordi.

E questa sono io: Julie Davis.

Ho sedici anni e sono una ragazza abbastanza razionale, che poche volte si fa controllare dai sentimenti.

Ho imparato a mantenere il sangue freddo in ogni situazione nel corso degli anni, cercando di sembrare controllata.

Ma quando avevo ricevuto la notizia del trasloco imminente tutti i miei sforzi erano svaniti.

Era novembre. L’anno scolastico era già cominciato ed io ero già indietro.

Che cosa futile pensare alla scuola, lo so. Ma quello era il mio meccanismo di difesa.

Pensare all’ultimo dei miei problemi per non stressarmi con quello più importante.

 

 

 

-Tesoro, Julie, svegliati, siamo arrivati-, la voce di mia madre mi riportò alla realtà, spezzando la magia del sogno che stavo facendo.

Era tutto come prima che partissi. Ero con Matt, a New York, a ridere e scherzare.

Poi, qualcosa, o per meglio dire qualcuno, mi aveva riportata alla realtà.

Io non ero più a New York e, con la fortuna che mi ritrovavo, non ci sarei tornata per molto tempo.

Scesi dal taxi barcollando. Ero distrutta.

Osservai l’orologio. Segnava le 17.30. Ci avevamo messo un’ora e mezza dall’aeroporto al Centro. Eravamo giunti a casa. Non che la considerassi veramente casa mia. Diciamo, che pensavo a quell’appartamento come ad un rifugio. Da dove prima o poi sarei andata via.

Mi guardai intorno e feci un respiro profondo.

Entrai, seguita a ruota dalla mia Elizabeth, nel palazzo dal colore freddo. Era bianco, ma sembrava ghiaccio.

Un uomo sulla cinquantina venne ad accoglierci. Indossava la tipica divisa che i portieri indossano all’entrata di un Hotel di lusso.

-Buongiorno, signori. Prego, seguitemi-, disse l’uomo alto e magro, guidandoci verso l’ascensore.

-Il vostro appartamento è al terzo piano, il numero 103-, continuò.

Mi voltai emettendo un piccolo mugugno. Mia madre si voltò e ricominciò a guardarmi preoccupata. Sapeva quanto era stato doloroso per me il trasloco. Certo, anche per lei le cose non erano state altrettanto facili. Aveva dovuto lasciare il suo lavoro per seguire papà.

“Che cosa stupida”, pensai, “abbandonare le proprie ambizioni... per amore!”.

Ero un tantino acida su quel punto. Avevo avuto un solo vero ragazzo nella mia vita. E mi aveva persino tradita... con una delle mie migliori amiche.

Mi ero ripromessa di non fare sciocchezze da sentimentalista e di seguire la ragione invece del cuore. Certo, non essendo innamorata, era facile mettere in atto il mio buon proposito.

Ma sarei stata sempre così ragionevole da poterlo mantenere fino a tempo indeterminato?

-Eccoci, siamo arrivati. Da questa parte-, disse il portiere, guidandoci lungo il corridoio color giallo ocra. Era molto lungo. Adesso capivo perché il numero dell’appartamento era il 103 pur essendo solo al terzo piano. Su un solo piano, dovevano trovarsi molti, ma molti appartamenti.

-Prego, questo è il vostro. Ecco le chiavi. Per qualunque cosa, sono giù. Arrivederci-, e si dileguò più in fretta della luce.

-Pronti per la nostra nuova vita?-, chiese mio padre con tono ironico, facendo spuntare un sorriso a mamma e a Elizabeth.

Io invece sbuffai e mi limitai a picchiettare con le dita sul mio trolley. Papà, temo, se ne accorse e si voltò per aprire.

Mamma ed Elizabeth corsero dentro con gli occhi che luccicavano per l’emozione.

Io mi fermai sulla soglia, ad osservare come era strutturato l’ingresso.

Era molto diverso dall’appartamento in cui vivevo a New York.

Molto, troppo diverso da casa mia.

Le pareti erano bianche, ma non gelide come quelle dell’esterno del palazzo. L’ingresso era abbastanza largo, e lasciava intravedere la sala da pranzo. Vi erano due scalini all’inizio.

Salii e percorsi velocemente l’ingresso, dirigendomi verso la cucina, molto spaziosa e illuminata.

Poi, senza soffermarmi troppo, andai a vedere la sala da pranzo, ed infine le camere da letto.

Erano quattro. Bene, una avanzava persino.

Ogni camera aveva il proprio bagno, cosicché nessuno si intralciasse la mattina.

Ogni camera era organizzata in modo diverso.

La camera dei miei genitori, aveva quel giallo ocra che avevo notato nel corridoio, un balcone ed era quasi la più grande.

La camera scelta da Elizabeth aveva le pareti di un leggero azzurro, una finestra normale, e non era tanto più piccola di quella dei miei genitori.

A me, non restava che decidere fra quella dalle pareti bianche, e quella dalle pareti rosa.

Ciò che mi spinse verso la seconda, fu l’aver notato la sua grandezza.

Credo, quasi certamente, che fosse la più grande.

Aveva il balcone, proprio come quella dei miei genitori.

Era la più luminosa, almeno secondo il mio punto di vista.

Poggiai il mio trolley fucsia accanto al letto a due piazze e corsi ad aprire la finestra per godermi il panorama.

Ma la nostalgia di casa mi invase il cuore. Era tutto così diverso.

Anche se, secondo ciò che mi aveva raccontato Matt, Roma era una città così antica che non avrebbe dovuto possedere certi palazzi moderni.

Ma che ne poteva sapere Matt? Non era informandosi su internet che avrebbe trovato le risposte alle mie mille domande.

Mi poggiai per qualche istante alla ringhiera e abbassai lo sguardo su di essa.

Dopo pochi secondi, ero già tornata la Julie di prima!

Andai in cucina, dove i miei genitori stavano esplorando ogni centimetro di spazio, per decidere dove sistemare le cose primarie.

Elizabeth correva da una parte all’altra della casa, felice come una bambina quando riceve il suo regalo di Natale.

Io cercai di farmela piacere in qualche modo, anche perché oramai la mia vita era lì. Dovevo accettarla, che mi piacesse o no.

-Julie, Elizabeth-, ci richiamò all’ordine mio padre, -cosa ne pensate? Vi piace la nostra nuova casa?-.

Elizabeth corse verso di lui con un sorriso a trecentosessanta gradi.

-Certo, è bellissima!-, esclamò.

Tutti si voltarono verso di me.

“Bene, Julie, è arrivato il momento della verità. Renderli felici... o essere te stessa?”, mi chiesi in fretta.

Piegai leggermente il volto e sorrisi.

-É veramente splendida-, risposi infine, certa di aver perso l’ultima occasione per potermi ribellare.

  
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