Roma
Scesi
dall’aereo sbadigliando. Ero ancora mezza intontita.
Be’, lo
sareste stati anche voi dopo nove ore di volo.
Seduta
senza far nulla, al massimo della depressione.
Perché
proprio a me? Cosa avevo fatto di male?
Ero
un’ottima studentessa, una figlia modello, una ragazza diligente e matura.
E
allora, perché mio padre aveva accettato quella stupida proposta di lavoro... a
Roma?
Inutilmente
avevo pregato mamma di poter rimanere a New York.
Niente,
non avevo ottenuto il benché minimo risultato.
Ed ora
eccomi lì. In una città di cui non sapevo niente, e di cui non mi importava
sapere niente.
Tutto
ciò che desideravo, era di poter tornare a casa mia. Nella mia vera casa!
Non in
quell’appartamento al Centro che avevano comprato solo per farmi felice.
Io non
ero felice. Non lì.
Mia
sorella minore, Elizabeth, si aggrappò al mio maglione rosa, con sguardo
vigile.
Non le
era mai piaciuto viaggiare, al contrario di me.
Ma in
quell’occasione, come darle torto?
Le
sorrisi e le presi la mano. I suoi capelli mossi e castani le ricadevano sulle
spalle scintillando. Sembravano fatti di seta. E i suoi occhi azzurri si
guardavano attorno, studiando ogni minimo movimento.
Aveva
solo dieci anni e già si comportava da detective. Sempre alla ricerca di
qualcosa.
Trascinai
il trolley accanto al taxi e sospirai.
-Vedrai,
ti troverai benissimo qui-, mi disse mio padre, euforico.
Come
potevo smontarlo? Era talmente felice.
-Si, lo
so-, risposi affaticata.
-Cos’è
quel faccino triste, allora?-, mi chiese mia madre, mentre aiutava Elizabeth a
salire sul taxi.
-Sono
solo stanca per il viaggio, mamma. Davvero. Come voi-, risposi, sfoggiando un
sorriso stanco.
Fortuna
che ero brava a mentire! E lo dovevo a Matt.
Matthew
Miller, il mio adorato Matt! Il mio migliore amico.
Chiusi
gli occhi e sorrisi al ricordo del suo volto.
Quei
suoi capelli castani chiari, lunghi quasi fino alle spalle, i suoi occhi
marroni, così profondi ma ancora innocenti, come quelli di un bambino. Perché
era questo che sembrava. Un tenero bambino... seppur già sedicenne.
Come
dimenticare tutte le nostre avventure? Eravamo inseparabili, nemmeno fossimo
fidanzati.
E come
potevo dimentica il suo addio?
Niente
parole o prese in giro. Solo un bacio. Solo lui ed io. Di sera. Nel nostro
posticino preferito; quel ponte che si affacciava sull’Oceano.
Sarei
tornata da lui, prima o poi. A ridere e scherzare come una volta. Solo io e
lui.
Mia
madre mi diede uno strattone, facendomi riprendere.
Mi ero
nuovamente lasciata andare ai ricordi. Per tutto il viaggio in aereo, non avevo
fatto altro che pensare a Matt, a New York, a tutto ciò che avevo lasciato.
-Tesoro,
vuoi salire? Aspettiamo solo te-, esclamò mio padre.
-Ah...
subito!-, mi affrettai.
Accanto
a me, mia madre mi lanciava occhiate preoccupate.
Decisi
di ignorarle e di controllare il mio stato. Dovevo sembrare la sorella della
befana in quel momento.
-Mamma,
hai per caso uno specchietto?-.
-Certo,
tieni-, me lo porse frettolosamente, come avesse paura di notare una mia
ricaduta.
Lo
aprii e mi specchiai. Avevo proprio ragione.
I miei
capelli rosso scuro erano tutti in disordine, i miei occhi verdi erano gonfi a
causa del sonno e dell’intontimento, le guance erano arrossate e la testa
cominciava a farmi male.
Richiusi
lo specchietto e lo porsi a mia madre.
-Avrei
proprio bisogno di darmi una sistemata-, sospirai.
-Non
preoccuparti, in poco tempo arriveremo a casa. Una volta lì, potrai sistemarti
come vorrai-.
-Si-,
risposi e chiusi gli occhi, lasciandomi trascinare nuovamente dai ricordi.
E
questa sono io: Julie Davis.
Ho
sedici anni e sono una ragazza abbastanza razionale, che poche volte si fa
controllare dai sentimenti.
Ho
imparato a mantenere il sangue freddo in ogni situazione nel corso degli anni,
cercando di sembrare controllata.
Ma
quando avevo ricevuto la notizia del trasloco imminente tutti i miei sforzi
erano svaniti.
Era
novembre. L’anno scolastico era già cominciato ed io ero già indietro.
Che
cosa futile pensare alla scuola, lo so. Ma quello era il mio meccanismo di
difesa.
Pensare
all’ultimo dei miei problemi per non stressarmi con quello più importante.
-Tesoro,
Julie, svegliati, siamo arrivati-, la voce di mia madre mi riportò alla realtà,
spezzando la magia del sogno che stavo facendo.
Era
tutto come prima che partissi. Ero con Matt, a New York, a ridere e scherzare.
Poi,
qualcosa, o per meglio dire qualcuno, mi aveva riportata alla realtà.
Io non
ero più a New York e, con la fortuna che mi ritrovavo, non ci sarei tornata per
molto tempo.
Scesi
dal taxi barcollando. Ero distrutta.
Osservai
l’orologio. Segnava le 17.30. Ci avevamo messo un’ora e mezza dall’aeroporto al
Centro. Eravamo giunti a casa. Non che la considerassi veramente casa mia.
Diciamo, che pensavo a quell’appartamento come ad un rifugio. Da dove prima o
poi sarei andata via.
Mi
guardai intorno e feci un respiro profondo.
Entrai,
seguita a ruota dalla mia Elizabeth, nel palazzo dal colore freddo. Era bianco,
ma sembrava ghiaccio.
Un uomo
sulla cinquantina venne ad accoglierci. Indossava la tipica divisa che i
portieri indossano all’entrata di un Hotel di lusso.
-Buongiorno,
signori. Prego, seguitemi-, disse l’uomo alto e magro, guidandoci verso
l’ascensore.
-Il
vostro appartamento è al terzo piano, il numero 103-, continuò.
Mi
voltai emettendo un piccolo mugugno. Mia madre si voltò e ricominciò a
guardarmi preoccupata. Sapeva quanto era stato doloroso per me il trasloco.
Certo, anche per lei le cose non erano state altrettanto facili. Aveva dovuto
lasciare il suo lavoro per seguire papà.
“Che
cosa stupida”, pensai, “abbandonare le proprie ambizioni... per amore!”.
Ero un
tantino acida su quel punto. Avevo avuto un solo vero ragazzo nella mia vita. E
mi aveva persino tradita... con una delle mie migliori amiche.
Mi ero
ripromessa di non fare sciocchezze da sentimentalista e di seguire la ragione
invece del cuore. Certo, non essendo innamorata, era facile mettere in atto il
mio buon proposito.
Ma
sarei stata sempre così ragionevole da poterlo mantenere fino a tempo
indeterminato?
-Eccoci,
siamo arrivati. Da questa parte-, disse il portiere, guidandoci lungo il
corridoio color giallo ocra. Era molto lungo. Adesso capivo perché il numero
dell’appartamento era il 103 pur essendo solo al terzo piano. Su un solo piano,
dovevano trovarsi molti, ma molti appartamenti.
-Prego,
questo è il vostro. Ecco le chiavi. Per qualunque cosa, sono giù. Arrivederci-,
e si dileguò più in fretta della luce.
-Pronti
per la nostra nuova vita?-, chiese mio padre con tono ironico, facendo spuntare
un sorriso a mamma e a Elizabeth.
Io
invece sbuffai e mi limitai a picchiettare con le dita sul mio trolley. Papà,
temo, se ne accorse e si voltò per aprire.
Mamma
ed Elizabeth corsero dentro con gli occhi che luccicavano per l’emozione.
Io mi
fermai sulla soglia, ad osservare come era strutturato l’ingresso.
Era
molto diverso dall’appartamento in cui vivevo a New York.
Molto,
troppo diverso da casa mia.
Le
pareti erano bianche, ma non gelide come quelle dell’esterno del palazzo.
L’ingresso era abbastanza largo, e lasciava intravedere la sala da pranzo. Vi
erano due scalini all’inizio.
Salii e
percorsi velocemente l’ingresso, dirigendomi verso la cucina, molto spaziosa e
illuminata.
Poi,
senza soffermarmi troppo, andai a vedere la sala da pranzo, ed infine le camere
da letto.
Erano
quattro. Bene, una avanzava persino.
Ogni
camera aveva il proprio bagno, cosicché nessuno si intralciasse la mattina.
Ogni
camera era organizzata in modo diverso.
La
camera dei miei genitori, aveva quel giallo ocra che avevo notato nel
corridoio, un balcone ed era quasi la più grande.
La
camera scelta da Elizabeth aveva le pareti di un leggero azzurro, una finestra
normale, e non era tanto più piccola di quella dei miei genitori.
A me,
non restava che decidere fra quella dalle pareti bianche, e quella dalle pareti
rosa.
Ciò che
mi spinse verso la seconda, fu l’aver notato la sua grandezza.
Credo,
quasi certamente, che fosse la più grande.
Aveva
il balcone, proprio come quella dei miei genitori.
Era la
più luminosa, almeno secondo il mio punto di vista.
Poggiai
il mio trolley fucsia accanto al letto a due piazze e corsi ad aprire la
finestra per godermi il panorama.
Ma la
nostalgia di casa mi invase il cuore. Era tutto così diverso.
Anche
se, secondo ciò che mi aveva raccontato Matt, Roma era una città così antica
che non avrebbe dovuto possedere certi palazzi moderni.
Ma che
ne poteva sapere Matt? Non era informandosi su internet che avrebbe trovato le
risposte alle mie mille domande.
Mi
poggiai per qualche istante alla ringhiera e abbassai lo sguardo su di essa.
Dopo
pochi secondi, ero già tornata
Andai
in cucina, dove i miei genitori stavano esplorando ogni centimetro di spazio,
per decidere dove sistemare le cose primarie.
Elizabeth
correva da una parte all’altra della casa, felice come una bambina quando
riceve il suo regalo di Natale.
Io
cercai di farmela piacere in qualche modo, anche perché oramai la mia vita era
lì. Dovevo accettarla, che mi piacesse o no.
-Julie,
Elizabeth-, ci richiamò all’ordine mio padre, -cosa ne pensate? Vi piace la
nostra nuova casa?-.
Elizabeth
corse verso di lui con un sorriso a trecentosessanta gradi.
-Certo,
è bellissima!-, esclamò.
Tutti
si voltarono verso di me.
“Bene,
Julie, è arrivato il momento della verità. Renderli felici... o essere te
stessa?”, mi chiesi in fretta.
Piegai
leggermente il volto e sorrisi.
-É
veramente splendida-, risposi infine, certa di aver perso l’ultima occasione
per potermi ribellare.