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Autore: Adeia Di Elferas    30/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni ascoltò in silenzio quello che la moglie doveva dirgli. Quella rivolta a Rimini cadeva come un fulmine a ciel sereno.

Se da un lato era vero che a loro avrebbe fatto comodo uno sbocco sul mare, e che provare a prendere la città del Malatesta in quel momento sarebbe stato più semplice che in altri, d'altra parte era anche vero che una guerra in quel momento sarebbe stata un rischio enorme.

Erano chiusi in una delle stanze del palazzo degli ambasciatori. Benché non ci avesse mai vissuto, il Medici aveva tenuto il suo alloggio e lo usava per incontrare mercanti e altri notabili, giusto per non portarli alla rocca, quando doveva concludere qualche affare per Firenze.

“Secondo te che cosa dovrei fare?” chiese alla fine la Tigre, mettendosi a giocherellare, agitata, con una delle penne ancora sporche di inchiostro che stavano sulla scrivania.

Il Popolano, seduto dall'altro lato, ci pensò ancora un po'. Gonfiò le guance e poi, come i suoi movimenti ripetitivi e nervosi lo stessero distogliendo troppo dal suo ragionamento, fermò le mani della moglie con le proprie, inchiodandole con delicatezza al tavolo.

Mentre faceva così e puntava gli occhi altrove, pensoso, Caterina notò ancora una volta come non più solo il mignolo di una mano, ma anche il suo controlaterale e l'anulare a cui portava il nodo coniugale fossero in parte rovinati dai segni della gotta. Avevano perso l'armonia e la linea perfettamente dritta che avevano fino a pochi mesi prima, e le articolazioni erano gonfie e un po' arrossate.

Appena prima di aprir bocca, il fiorentino seguì le iridi verdi della moglie e quando si accorse cosa stessero fissando, ritrasse le mani in gran velocità, nascondendole sotto la scrivania, le guance che prendevano una spiacevole tonalità di rosso e le labbra che assumevano un'espressione rigida.

Giovanni non avrebbe voluto scorgere quel tipo di sguardo negli occhi di Caterina. Non era né commiserazione, né disappunto. Era solo una profonda preoccupazione. E quando la scorgeva, per caso o per episodi come quello, il vuoto nel petto che, di solito sviando la mente riusciva a colmare, tornava a farsi spazio, dilatando la sua stessa paura e la consapevolezza di quello che prima o poi gli sarebbe capitato.

“Io non attaccherei.” disse alla fine il Medici, fingendo di ricontrollare dei documenti nel cassetto della scrivania.

“Perché?” chiese la donna, fingendo anch'ella di dedicare la propria attenzione ad altro.

“Perché o la trasformi in una guerra di annessione vera e propria, preparandoti al contrattacco dei veneziani, oppure ti accontenti di infastidirlo, razziando un po' di campagna, approfittando del fatto che il suo esercito sarà già troppo impegnato a difenderlo.” spiegò Giovanni, chiudendo il cassetto di scatto.

“Così facendo potremmo recuperare un po' di cibo e di denaro.” obiettò la Contessa.

“Credevo che non fossero metodi di tuo gradimento.” ribatté il fiorentino, alzandosi e facendole segno di seguirlo.

Mentre stavano già uscendo, la Tigre disse: “Non voglio infierire sulla popolazione, ma...”

Chiudendo la porta, per un momento i due si trovarono entrambi nel vano, tanto vicini da sfiorarsi.

In quel mentre, il Popolano colse qualcosa nella moglie che fino a poco prima gli era sfuggito. Era distratta. Non solo per il momento di imbarazzo appena passato. Doveva essere successo qualcos'altro.

“Non stai ragionando con lucidità.” provò a dire l'uomo, chiudendo a chiave e avviandosi verso le scale.

“Secondo me, nemmeno tu.” fece notare la Leonessa, che era convinta che il marito fosse stato distratto, come a volte accadeva, dal tormentoso pensiero della sua malattia.

Anche in quel momento, mentre scendevano le scale, era chiaro che ogni gradino pesava al fiorentino come cento. Le sue caviglie e i suoi piedi, irrigiditi e doloranti, lo limitavano nei movimenti e quella sensazione di invalidità, chiaramente, lo frustrava.

“Dimmi che è successo per essere così nervosa.” fece Giovanni, perentorio, fermandola sul pianerottolo di metà scale, le mani sulle spalle.

“Te l'ho detto: a Rimini è scoppiata una guerra civile.” ribadì la Tigre, irritata.

Ancora una volta sua marito aveva fatto centro, dimostrando di comprenderla molto meglio di quanto si comprendesse lei stessa, e per qualche ragione quel fatto la metteva in difficoltà.

“Caterina.” l'ammonì a bassa voce il Popolano: “Ti prego. Dimmelo.”

Con un sospiro, cercando senza successo di riprendere a scendere le scale, la Sforza sospirò: “È che prima, mentre giravo a vuoto per la rocca...” sollevò le sopracciglia, zittendosi un momento mentre l'ambasciatore milanese, appena entrato nel palazzotto, li affiancava nel pianerottolo, salutandoli ossequiosi.

Si scambiarono un cenno di prammatica e solo quando fu certa che il viscido uomo di suo zio fosse arrivato ai suoi alloggi e non potesse sentire altro, riprese: “Ecco, mentre camminavo... Ho trovato Bianca appartata con un ragazzo, uno degli aiutanti dei carpentieri che lavorano al mastio.”

Ben poco interessato alla professione del suddetto ragazzo, Giovanni si chinò un po' verso di lei, e, con un filo di voce, domandò: “Appartata..?”

Caterina si rese conto di aver usato un termine troppo equivoco, così corresse un po' il tiro, rispondendo: “In una delle alcove, ma si stavano baciando e basta. Non credo che si siano spinti oltre nemmeno in altre occasioni...”

Il Medici annuì, grattandosi il mento su cui stava ricrescendo la barba riccia e rada: “Capisco.”

“Certo che è ingiusto il mondo...” sbuffò la donna, incrociando le braccia sul petto: “Ottaviano può andarsene impunemente notte e giorno al bordello a far quel che gli pare, e le proposte di matrimonio per lui fioccano da tutte le parti. Se Bianca dovesse anche solo provare a...”

“Su questo sai che sono d'accordo con te.” fece subito il fiorentino: “Ma purtroppo il mondo in cui viviamo è questo. Che faremo, se per caso Bianca dovesse arrivare a compromettersi con qualcuno?”

“Per quello, in caso di necessità, ti confesso che tempo fa, per aiutare una mia serva che si era messa in un guaio, avevo messo a punto una pozione che...” la Contessa agitò in aria una mano, come dire che non era molto importante.

Il fiorentino, in effetti, ricordava bene di aver letto sul ricettario della moglie qualcosa circa una pozione che potesse essere usata proprio per far credere a mariti troppo puntigliosi che la sposa fosse illibata, quando invece non la era. In effetti, quando vi si era imbattuto, dopo aver valutato tra sé che in fondo non era né più né meno che una mistura astringente, si era chiesto per chi e perché mai sua moglie si fosse ingegnata a fare ricerche in tal senso. Alla fine, però, non glielo aveva mai chiesto.

“Il punto è che purtroppo a volte compromette di più una brutta voce messa in giro anche senza fondamento, che non un'azione commessa con libera volontà.” sentenziò infine la Tigre.

Giovanni stava per dire la sua, ma altri ambasciatori stavano entrando nel palazzo e così preferì prendere per mano la moglie e sussurrare: “Andiamo alla rocca. Parliamo della questione di Rimini anche coi tuoi Consiglieri. Troveremo la via migliore.”

 

Pandolfo si infilò con rabbia i guanti ferrati. I suoi soldati erano rientrati solo in parte in città e quasi nessuno aveva raggiunto il castello.

Un suo uomo di fiducia gli aveva assicurato che in strada, dove si combatteva da giorni, gli Agli si stavano mettendo d'impegno per far schierare il popolo dalla sua parte, ma pareva che sempre meno riminesi fossero sicuri di volerlo ancora come padrone.

Violante lo aveva pregato in tutti i modi di scrivere subito a Venezia: “Tanto poi – gli aveva detto, quasi in lacrime per la frustrazione di non essere ascoltata – se non lo dirai tu, lo faranno i loro portavoce che vivono qui a corte! Fai come ti dico, ti imploro! Chiedi aiuto, prima che...”

Ma il marito non l'aveva lasciata finire, mandandola a quel paese e decidendosi per un'azione di forza.

Aveva radunato i soldati che stanziavano al castello, tenendo per buone anche le guardie meno in forma, e aveva organizzato una colonna.

Non appena ebbe finito di indossare per intero l'armatura, scelse la spada più pesante e grossa che vi fosse nella sua armeria e il cavallo da guerra più potente e cattivo che possedesse.

All'improvviso, scuotendo l'animo di tutti i riminesi, rivoltosi compresi, il ponte levatoio, che finiva ad appoggiarsi sulla piazza, venne calato e dal castello del Malatesta uscì un manipolo di soldati in piena galoppo e armati di tutto punto.

Ben attento a farsi riconoscere da tutti, fiero dello stemma di famiglia che portava dipinto sull'armatura e ricamato sul pesante mantello invernale che gli copriva le spalle, il Pandolfaccio attraverso in gran carriera mezza città, seguito dai suoi.

Non gli ci volle molto, prima di trovare i due Belmonte su un palchetto di fortuna, in mezzo a una strada, che arringavano le folle.

Voleva che la sua vendetta fosse esemplare e nota a tutti, perciò, seppur con grande sforzo, si trattenne dal salire con il cavallo sul palco e tagliar loro le teste là dov'erano, preferendo sollevare la celata e ordinare, con tutto il fiato che aveva nei polmoni: “Arrestare quei due traditori!”

Quattro dei suoi eseguirono immediatamente, prendendo di peso Piero e Ludovico Belmonte, caricandoli, dopo una breve lotta, sulle rispettive cavalcature.

“Che si saccheggino le case dei ribelli!” sbraitò il Malatesta, rivolgendosi anche alla folla che, attonita, aveva subito dimenticato le belle parole dei Belmonte che, legati come salami, stavano di traverso su una sella di cuoio, dimenandosi come pesci presi all'amo.

“Bruciate le case dei Belmonte e dei Marcheselli!” continuò Pandolfo, per poi dire al suo luogotenente: “Fate l'elenco preciso delle case da saccheggiare e divulgate i nomi. Che il popolo faccia loro quello che questi imbecilli credevano sarebbe stato fatto a me.”

 

Il Duca di Milano guardò stranito suo nipote Ermes e poi Bartolomeo Calco: “Che intendete dire?”

Il cancelliere e il giovane Sforza si scambiarono un'occhiata preoccupata. C'erano giorni, e quello sembrava esserlo, in cui quasi non riconoscevano Ludovico.

“Isabella che si mostra coi suoi figli in modo tanto liberale...” provò a dire Calco, come sulle spine, indeciso su quanto potesse dire e quanto fosse meglio lasciare sottinteso: “Insomma... Dovreste accordarle meno libertà.”

“Ma che andate dicendo...” sbuffò il Moro, il cappello pesante di traverso e il mento ispido di barba incolta: “Isabella è una ragazzina e i suoi figli sono dei mocciosi. Perfino Napoli si è dimenticata di loro. Che volete che...”

“Napoli si sarà anche dimenticata di loro – intervenne Ermes che, con la sua incrollabile flemma, sapeva essere spesso più incisivo del cancelliere – ma Milano no.”

Il Duca sbuffò. Non aveva alcuna voglia di pensare a Isabella d'Aragona. La nebbia di quei giorni, il fatto che non fosse passato nemmeno un mese dal primo anniversario della morte di Beatrice, la sua apparente incapacità di farsi sopportare tanto dalla Crivelli quanto dalla mai dimenticata Gallerani, gli stavano facendo passare giornate infernali.

Gli mancava solo di doversi rodere il fegato per colpa di una giovinetta dai capelli rossi...

“E poi, con tutto il rispetto – proseguì Ermes, il viso impassibile e gli occhi apparentemente annoiati che si puntavano in quelli dello zio, senza dargli modo di sfuggire – Isabella non è una ragazzina. È una donna adulta e ha dimostrato di essere molto più forte di tanti uomini. Cova una grande rabbia nei vostri confronti e nei confronti della Duchessa Beatrice.”

Nel sentir fare il nome della moglie, Ludovico si morse l'interno della guancia, ma non commentò, in attesa di capire dove il nipote volesse andare a parare.

“Isabella è astuta e scaltra, sta usando i suoi figli, soprattutto Francesco, per farsi ben volere dal popolo.” specificò il diplomatico, spostando per la prima volta lo sguardo da quello dello zio alla finestra, oltre la quale si vedeva solo nebbia ghiacciata: “Voi non vi mostrate praticamente mai in pubblico, e a Milano questo non piace. Per un po' vi hanno compatito, il che vi ha ridato un briciolo di popolarità. Ma adesso le spese folli che volete sostenere per abbellire Santa Maria delle Grazie non...”

“Attento a come mi parli!” sbottò il Duca, facendo un pesante passo in avanti e puntando l'indice verso Ermes.

“Le spese che volete sostenere sono davvero assurde.” tirò dritto l'altro Sforza, a voce bassa, ma implacabile: “La povertà è tangibile, per Milano, e voi spendete soldi per due cadaveri.”

Nel sentire evocare non solo il fantasma di Beatrice, ma anche Bianca Giovanna, il Moro avvertì la vista annebbiarsi per qualche istante e nemmeno si rese conto che le sue grosse mani si erano protese verso il collo del nipote, stringendo come a volerlo strozzare davvero.

Calco si avventò subito sul suo signore e, forse solo perché nel frattempo Ludovico era rinsavito, riuscì a staccarlo dal collo del nipote.

Tossicchiando, gli occhi che finalmente tradivano un'emozione – una sbigottita sorpresa – Ermes riprese fiato e, un po' piegato sulle ginocchia, le dita a tastarsi la trachea con preoccupazione, concluse, senza scomporsi più di tanto: “Isabella, con suo figlio Francesco, rappresenta la vita. Voi, invece, per Milano siete solo la morte.”

Il Moro si vergognava per il suo scatto di rabbia. Era uno Sforza, e, come tutti gli Sforza, non era adatto a controllarsi. Però, di solito, i suoi eccessi riguardavano la tavola o le donne. Alzare così le mani verso un parente che gli era sempre stato fedele... Faticava a riconoscersi.

“E che cosa dovrei fare, secondo voi? Sentiamo!” esclamò, cercando di non perdere del tutto il suo tono aggressivo, giusto per non far capire né a Ermes né a Calco quanto si sentisse in fallo.

“Fate tornare Francesco a Pavia.” disse il cancelliere.

Ludovico occhieggiò malevolo verso di lui, poi, vedendo come tanto Bartolomeo, quanto il nipote lo stessero guardando con malcelata commiserazione, spinto da un piccolo moto d'orgoglio, concesse a metà: “Ci penserò.”

 

“Ha fatto uccidere i due Belmonte.” riassunse Luffo Numai, leggendo le carte che aveva appena rimesso in ordine: “Ha fatto saccheggiare quindici case di nobili riminesi, e quattro sono state rase al suolo con il fuoco. Dicono che sia vicino a prendere almeno un'altra decina di colpevoli.”

“Ma i rivoltosi continuano a combatterlo.” obiettò Caterina, picchiettando le dita sulla scrivania del castellano.

Anche se si era tenuto un Consiglio ristretto qualche giorno prima, la Sforza non aveva ancora deciso come comportarsi.

Da un lato lei e Giovanni stavano aspettando una qualche risposta da Firenze. Il Medici aveva fatto partire ufficialmente la richiesta di condotta per Ottaviano, ma, con tutti i problemi della Repubblica, era possibile che l'attesa si protraesse più del previsto.

Attaccare, senza essere certi dell'eventuale sostegno fiorentino, sarebbe stato un salto nel vuoto, per il piccolo Stato della Tigre.

Quel pomeriggio, nello studiolo del castellano, erano radunati solo la Contessa, Cesare Feo, Luffo Numai e i Capitani Mongardini e Rossetti.

La Leonessa aveva preferito non far intervenire anche Giovanni, che quel giorno non era stato molto bene, lasciandolo con una scusa assieme a Bianca e Sforzino, che si erano ritirati a leggere insieme non ricordava più cosa.

Il Popolano aveva accettato di buon grado, ma, sveglio com'era, era quasi certo che avesse capito che quello era stato solo un espediente della moglie per toglierselo di torno per un po'.

“Se volessimo fare una cosa fatta bene, però – intervenne Mongardini, le braccia strette sul petto e gli occhi brillanti che correvano di continuo al ventre rigonfio della sua signora – sarebbe meglio selezionare con cura i soldati da usare. Non possiamo impiegarne troppi e sarebbe bene scegliere i più disciplinati.”

La Sforza, che in cuor suo aveva già deciso di provare di nuovo ad attaccare Rimini, se non altro per dimostrare agli altri vicini che non aveva paura di prendere in mano la spada, annuì in silenzio.

“Pensate di mandare ancora Tiberti?” chiese il castellano, perplesso.

Benché la Contessa non avesse mai detto apertamente a nessuno – eccezion fatta forse solo per il marito – quanto le fosse bruciato vedere Achille Tiberti disubbidirle più di una volta, senza apparentemente temere una sua punizione, era anche vero che quel Capitano conosceva il territorio meglio di altri e sapeva farsi rispettare dai soldati come pochi suoi pari.

“No.” rispose la donna, senza aggiungere altro.

Gli uomini nello studiolo assieme a lei non osarono fare domande in merito. Solo Rossetti, dopo una breve esitazione, fece un passo avanti e prese la parola.

“Come intendete scegliere i soldati da mandare nel riminese?” domandò.

“Li sceglierò di persona.” decretò la Sforza, sicura che quello fosse il modo più semplice per evitare di creare invidie tra i suoi Capitani.

Da tempo aveva il sospetto che alcuni di loro – tra cui Mongardini, Rossetti e Francesco Numai – si stessero combattendo silenziosamente per capire chi tra loro fosse il suo prediletto. Non era una gara che avesse a che fare coi suoi favori come donna, quanto più come Capo di Stato.

Era chiaro che presto sarebbe scoppiata una guerra di grandi proporzioni e i suoi Capitani parevano desiderosi di fare carriera.

Quale modo migliore di iniziare un vero e proprio cursus honorum, se non ottenendo il comando dell'esercito della Tigre?

A Caterina un po' infastidiva quel genere di pensiero. Sapeva che era la sua gravidanza ad averli portati a quelle conclusioni.

Li aveva sentiti, alcuni di loro, discutere a bassa voce su cosa sarebbe successo di lì a breve. Con la nascita di un nuovo figlio, dicevano, lei avrebbe avuto meno tempo e forse meno forze e così avrebbe dovuto, volente o nolente, delegare a qualcuno parte delle sue incombenze.

Scartato per ovvi motivi Ottaviano e accantonato Cesare, era chiaro che la Contessa avrebbe dovuto scegliere tra i suoi fedeli.

“Una donna con un figlio di pochi mesi – aveva detto Francesco Numai una volta, convinto che Caterina non fosse nei paraggi – non può certo guidare un esercito in battaglia...”

“Permettete, allora, che nei prossimi giorni vi faccia da guida al Quartiere Militare.” si propose Rossetti, con un profondo inchino.

“Conosco i nostri soldati bene quanto li conoscete voi. Li sceglierò da me, senza il vostro aiuto. Se siete in pensiero per la mia incolumità – fece la Leonessa, accennando al suo pancione – state pure tranquilli. Ci sarà mio marito, al mio fianco.”

Quell'ultimo inciso suscitò qualche colpo di tosse tra i presenti e Luffo Numai si permise addirittura di sospirare.

“Solo perché aspetto un figlio – barbottò Caterina, alzandosi dalla sedia e andando alla porta – non significa che io sia diventata un'incapace. Alcuni di voi non c'erano, le altre volte, ma per esempio, voi, Luffo, mi deludete molto. Sapete bene che ho affrontato prove ben peggiori avendo in pancia un figlio ancor più prossimo di questo a nascere.”

La franchezza con cui parlava del suo non proprio imminente parto bastò a tacitare altre eventuali recriminazioni.

Dopo che, accettando con distacco i saluti di tutti i suoi uomini di fiducia, se ne fu andata, Mongardini si lasciò scappare una risata: “Una Tigre incinta ruggisce anche più di una che non la è.”

“Se a comandarci fosse un uomo, però – fece notare Rossetti – certe sceneggiate potremmo risparmiarcele.”

Luffo Numai lo guardò storto, pur, in fondo, dandogli ragione. Cesare Feo, invece, rimase molto infastidito da quella considerazione e, senza troppe cerimonie, disse a tutti di togliersi dai piedi, perché era tardi e lui aveva ancora molte cose da fare.

 
   
 
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