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Autore: Adeia Di Elferas    30/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Silenzio! Silenzio! State zitti, bifolchi!” ululò il Gonfaloniere di Giustizia, picchiando tanto forte il suo martello che si sarebbe potuto temere di vederlo rompersi in mille pezzi.

Come spesso accadeva in quei giorni, la riunione della Signoria si stava trasformando in una rissa e Lorenzo Medici era tra i più accesi contestatori del giorno.

Tutto era partito dalla lettura della richiesta, scritta da Giovanni Medici, in merito a un'alleanza con lo Stato di Imola e Forlì. La richiesta era abbastanza semplice e pareva pure vantaggiosa, per Firenze, ma il fatto che fossero coinvolti i Medici – ormai poco importava se si trattava del Fatuo, di un Popolano, o di qualsiasi altro ramo della famiglia – aveva aizzato l'ala piagnona della Signoria contro i palleschi, creando una confusione pari solo a quella dei giorni di mercato.

“La Sforza vuole Firenze solo per coprirsi le spalle!” gridò uno: “Ci vuole usare e poi darci in pasto al Moro!”

“Imbecilli!” ribatté Lorenzo, gettando in terra la berretta, in segno di rabbia: “Forlì ci serve! Che credete? Che Venezia non abbia già fatto le sue offerte? Dobbiamo ritenerci grati se...”

“Grati se una pazza ci chiede del denaro per mettere in mostra quell'inetto del figlio?!” lo schernì un altro Piagnone.

“State zitto, voi!” andò in soccorso un sostenitore dei Medici: “Che di guerra ne capite come vostra moglie di uomini!”

“Solo perché vostro fratello – gridò con malignità un oppositore di Lorenzo, indicandolo con scherno a mano aperta – è stato così fesso da mettere un figlio in pancia a quella sgualdrina della Sforza, non significa che tutti noi si debba sottostare ai capricci di quella belva!”

Trattenuto a stento da alcuni dei suoi, il Popolano, che fino a quel momento era stato tra i più ardimentosi, parve spegnersi.

“Cosa..?” soffiò, sbattendo le palpebre incredulo.

Quello che aveva urlato prima, risse sguaiatamente, cercando sostegno presso gli altri savonaroliani e lo derise: “Volete dirci che il vostro caro fratellino nemmeno ve l'ha detto? E potremmo noi fidarci, se nemmeno voi potete, di uno come Giovanni Medici?!”

La riunione si concluse dopo oltre un'ora, ma per Lorenzo, era finita dopo quell'accusa. Era scivolato via della folla e aveva lasciato il palazzo della Signoria, tornandosene a casa con la coda tra le gambe.

Appena arrivò al palazzo, si recò subito nella sua stanza e lì restò fino a sera inoltrata, senza voler vedere nessuno.

Preoccupata, visto che non era sceso nemmeno per cena e che non aveva voluto vedere i figli, Semiramide, prima di ritirarsi per la notte, provò a bussare.

Non ricevette risposta, ma entrò comunque.

Trovò il marito ancora vestito come quel giorno, seduto a letto, le mani in grembo e lo sguardo vitreo. La stanza era al buio. Non aveva nemmeno acceso una candela.

La donna rimediò in fretta e poi, apprensiva, si andò a mettere accanto a lui, accarezzandogli premurosa la tempia: “Che cos'è successo? Ho sentito che alla Signoria c'è stata agitazione... Sei ferito?” domandò, colta da quell'improvvisa paura.

Il Medici scosse piano il capo e poi, lentamente, sollevò gli occhi tondi verso la moglie e chiese, la voce arrochita dal lungo silenzio: “Tu lo sapevi che mio fratello e quell'assassina della Sforza aspettano un figlio?”

L'Appiani schiuse appena le labbra per la sorpresa, e tanto bastò al marito per capire.

“Non l'ha detto nemmeno a te.” strinse le labbra con forza, poi gli occhi e infine i pugni.

Si alzò di scatto e, dando sfogo all'ira in un modo che non gli era proprio, afferrò il primo soprammobile che gli capitò a tiro e lo gettò dall'altro lato della stanza con un grido strozzato.

Diede un pugno al muro e ringhiò: “Mio fratello prima mi diceva tutto! Tutto! Adesso sta per diventare padre e non me l'ha nemmeno scritto! Non si fida più di me! Non si fida più nemmeno di te!”

Semiramide si alzò, solerte, e arrivò alle spalle del marito, cercando di calmarlo con un abbraccio.

Tutto quello che rimediò, invece, fu solo uno strattone: “Lasciami in pace.” le disse, in un sussurro cupo: “E cerca di scoprire se è vero. Magari, se glielo chiederai, a te lo dirà.”

La donna fece segno di sì e poi andò verso la porta, ferita dal modo in cui il marito l'aveva scansata.

“Non posso trattare una condotta del genere, se non so nemmeno...” farfugliò il Medici, il palmo premuto contro la fronte e la voce spezzata.

In un altro frangente, Semiramide sarebbe rimasta lì a consolarlo, ma quella sera non ne aveva alcuna intenzione. Anche se si rendeva conto che suo marito avrebbe avuto bisogno di lei, in quella storia non riusciva a dargli del tutto ragione e così non le risultava semplice passare sopra a tante cose.

Con un sospiro greve, l'Appiani si chiuse la porta alle spalle e, stringendosi le mani al petto, andò nelle sue stanze e si chiese cosa scrivere di preciso al cognato.

 

La cerimonia del matrimonio, a detta di Giampaolo Baglioni, sarebbe durata per cinque giorni.

L'unione con Bartolomeo d'Alviano, per i perugini, doveva essere qualcosa di eclatante e tutti avrebbero dovuto ricordarsi dell'ingresso in famiglia di un uomo tanto valido e di un guerriero tanto capace.

Per quanto riguardava Bartolomeo, però, avrebbe di gran lunga preferito una cerimonia veloce e semplice. Possibilmente senza invitati.

La cosa che più lo atterriva, era quello che sarebbe arrivato dopo, quando i Baglioni avessero preteso che lui consumasse le nozze con Pantasilea.

Non l'aveva ancora vista, benché lui e Marco fossero a Perugia già da un paio di giorni. Gli avevano detto tutti che era giovane e veramente molto graziosa, ma per lui quelli erano dettagli secondari.

Come sarebbe riuscito a combinare qualcosa, se nella sua mente c'era spazio solo per sua moglie?

Non era riuscito a mettere a parte nessuno del suo tormento, tanto meno suo figlio che, in quanto riservatezza, non gli era certo secondo.

“Sarà una cosa grandiosa.” stava ribadendo anche quella sera a cena Giampaolo: “Schiere di invitati e Danti eseguirà un esperimento di volo che... Ah! Vedrete!”

Bartolomeo annuì in silenzio. Da quando era al palazzo dei Baglioni, a essere ottimisti probabilmente aveva detto circa dieci frasi, non più lunghe di tre parole l'una.

Ben lungi dal farsi impensierire dal suo essere taciturno – caratteristica nota da tempo – Giampaolo aveva parlato abbastanza per entrambi, ubriacandolo di parole e cercando di farlo ubriacare anche di vino.

L'Alviano, però, aveva bevuto con moderazione, lo stretto necessario per non morir di sete, dando poca soddisfazione al suo ospite.

“Quando conoscerete Pantasilea – sospirò bonario Giampaolo, vuotando anche il calice di Bartolomeo – il vino vi farà comodo. È una che non si stanca facilmente, sapete? Vi servirà, un corroborante...”

Bartolomeo avrebbe voluto sprofondare, ma fece del suo meglio per far credere di aver gradito la battuta e così le sue labbra sottili e asimmetriche si sollevarono appena, quel tanto che bastò al Baglioni per sentirsi autorizzato a dargli una sonora pacca sulla schiena ed esclamare: “Con un cognato così, non vedo l'ora di diventare zio!”

Trattenendo un conato di vomito, l'Alviano accantonò il piatto che ancora aveva davanti e, cercando di non apparire troppo scortese, si chiuse in un profondo mutismo.

 

Giovanni guardava la moglie che osservava con aria critica i soldati che si esercitavano. Sapeva che erano lì per scegliere chi sarebbe partito per il fronte riminese, ma il modo in cui Caterina indugiava di continuo su questo o quel giovane uomo lo stava facendo impazzire.

Era stato felice, quando la moglie gli aveva chiesto di accompagnarla, ma dopo poco aveva subito capito che per lui sarebbe stato meglio restarsene a Ravaldino a fare altro, piuttosto che crogiolarsi in quella strana gelosia che sentiva a tratti fondatissima a tratti ridicola.

Le reclute e i soldati di ruolo stavano eseguendo una serie di esercizi e di duelli che, assieme con la valutazione generale della loro indole, sarebbero serviti alla Contessa per scegliere in modo più razionale.

Il Medici, alle spalle di lei, però, per quanto osservasse i soldati, non riusciva a concentrarsi su quello che facevano, ma solo sulle battute che a volta scambiavano con Caterina o sulle espressioni che, fugaci, attraversavano a tratti il volto di lei.

Quando uno dei più giovani finì a gambe all'aria sul terreno reso secco dal ghiaccio, malgrado il pancione, la Sforza si piegò assieme a uno degli addestratori per aiutarlo a rialzarsi e, nel farlo, scambiò con lui un paio di volgarissime battute da milizia. A Giovanni, poi, parve anche che la sua stretta sul suo braccio muscoloso, teoricamente volta a tirarlo in piedi, si fosse protratta anche troppo.

Appena la moglie fu di nuovo al suo fianco, il fiorentino le sibilò all'orecchio: “Caterina! Per favore! Ricordati che sei sposata con me! E che aspetti mio figlio.”

La Contessa cercò di non arrabbiarsi per quelle frasi, soprattutto perchè oltre a loro due, al Quartiere Militare, c'erano anche Bianca e Galeazzo. La prima stava aiutando il cerusico con alcuni feriti – se così si potevano chiamare un paio di reclute che si erano fatte qualche taglietto durante gli addestramenti – mentre il secondo si stava misurando con alcuni giovani militari, per vedere quanto la sua preparazione fosse valida.

“Sei ridicolo a parlarmi a questo modo.” fu il rimbrotto della Tigre, detto senza troppa veemenza.

Il Popolano, che un po' ridicolo si era sentito davvero, abbassò lo sguardo. Sapeva che la sua donna gli era fedele, ma, per quanto le sue vedute fossero ampie, a volte bruciava al pensiero di quello che aveva fatto, prima di diventare sua moglie.

Trovarsi in mezzo a quei soldati e pensare che forse più di uno di loro aveva conosciuto Caterina in senso biblico lo stava mettendo più in difficoltà del previsto.

Mosso da quel sentimento che odiava, ma che non riusciva a ricacciare indietro, nel vedere Bianca occhieggiare con interesse verso una recluta che si era appena cavata la giubba incurante del freddo di fine gennaio, Giovanni disse, piatto: “Speriamo che tua figlia non diventi come te. Sarebbe difficile da gestire.”

“Che intendi?” domandò la Sforza, evitando di guardarlo, gli occhi ancora puntati su due veterani che se le davano di santa ragione.

“Lo sai benissimo che intendo.” fece l'uomo, già pentitosi delle proprie parole.

Abbassando molto la voce, in modo tale che nessuno potesse sentirli, Caterina lo guardò con occhi di brace e fece notare: “Non sei così moralista, quando siamo da soli in camera da letto.”

Il Popolano schiuse le labbra, forse per ribattere a tono, ma la donna proseguì: “Questo lato di me che adesso critichi, non ti dispiace poi molto, quando ti faccio certe cose.”

A quel punto, per qualche istante la discussione venne sospesa dal Capitano Numai che chiese alla Contessa se potesse bastare così.

La donna annuì e disse: “Vi farò avere la lista dei soldati da convocare entro domani.” e dopodiché fece un cenno ai figli, ordinando loro di tornare alla rocca.

“Non andiamo a Ravaldino anche noi?” chiese il Medici, stranito e ancora roso di gelosia.

“Non voglio che portiamo questa discussione tra le mura di casa.” spiegò la donna, cominciando a dirigersi verso una locanda che stava all'imboccatura del Quartiere Militare.

“Io non voglio fare nessuna discussione. Intendevo solo dire che essere come te per una donna può essere un problema.” precisò Giovanni, seguendo comunque la Tigre, con il suo passo claudicante.

“Bianca è molto diversa da me.” ribatté la Leonessa, mentre la locanda si faceva sempre più vicina.

“Lo credi davvero?” sollevò le sopracciglia il fiorentino, ormai tanto acceso da quello scambio da non sentire nemmeno più il freddo sulle guance arrossate: “Fammi degli esempi.”

“Per esempio...” sbuffò Caterina, mentre entravano nella locanda: “Quando devo pensare, io vado nel bosco, lei scende nelle cucine.”

“Sembrano due atteggiamenti diversi, ma in realtà sono entrambi modi di sfuggire la...” stava dicendo Giovanni, ma si zittì perché la moglie si stava rivolgendo all'oste.

“Avete una camera libera di sopra?” domandò.

L'uomo la guardò un momento, poi i suoi occhi corsero al Medici e, quando lo riconobbe, fece un sorriso un po' sdentato e annuì: “Per quanto vi serve?”

“Pochi minuti. Ci serve un posto tranquillo per parlare in santa pace.” spiegò senza giri di parole la Tigre.

“Allora non mi dovete nemmeno un soldo.” assicurò il locandiere, spiegando poi dove fosse la stanza.

Arrivati al piano di sopra, chiusa la porta, la donna si voltò verso il marito e, a voce molto più alta di poco prima, gli chiese: “Ma si può sapere che ti è preso, oggi?!”

Giovanni non rispose, incrociando le braccia sul petto e guardando altrove.

“E poi, critichi mia figlia...” soffiò la Contessa, incrociando anche lei le braccia e fissando il camino spento: “Un po' di appetito, in una donna, va bene. Meglio così che rifiutare del tutto l'idea, no?”

Quella stanza era abbastanza confortevole. Il Medici sapeva che quella locanda aveva una pessima fama, soprattutto perché i soldati ci portavano le donne di strada, però doveva ammettere che non era arredato in modo squallido.

Il fatto, però, che sua moglie paresse così nota al locandiere, gli rimescolò di nuovo il sangue nelle vene, facendogli esclamare: “Il tuo non è appetito.”

Caterina si accigliò domandandosi quando il discorso fosse passato da Bianca a lei.

“Non ti chiedo di restare sola, quando morirò.” buttò lì il Popolano, esprimendo finalmente il vero motivo del suo tormento: “Ho imparato a conoscere e capire anche questo lato di te e ho capito che il tuo non è appetito. La tua è proprio fame.”

La Tigre restava in silenzio, gli occhi ora sul marito, indagandone il profilo asciutto e cercando di scorgere sul suo viso ogni minima variazione di espressione mentre parlava. Aveva i riccioli scompigliati e il modo in cui si mordeva le labbra carnose di continuo le faceva capire più di ogni altro – perfino più del modo nervoso in cui passava il peso da un piede all'altro – quanto gli stesse costando dire quelle cose.

“E mi rendo conto – continuò l'uomo, i cui occhi chiarissimi restava fissi sul pavimento di legno grezzo – che non si placherà solo perché dalla tavola è sparito un dolce che ti piace. Tu ami sopra ogni cosa la selvaggina che cacci con le tue mani, eppure, quando lo stufato di cervo ti è stato portato via a forza, tu hai continuato a mangiare.”

Avvertendo come un cattivo colpo basso quell'allusione a Giacomo, Caterina sentì gli occhi velarsi di lacrime, senza che lei lo volesse, e il figlio che portava in grembo muoversi irrequieto: “Ah! Ma ti senti?! Fiorentino che non sei altro! Coi tuoi sofismi e le tue metafore!”

“Avanti, dimmi che ho torto.” disse allora il Medici, fronteggiandola a mento alto.

La milanese non sapeva che dire. Aprì un paio di volte la bocca, confusa da quel litigio, il primo vero litigio che avessero mai avuto.

“Perché l'hai sposato?” chiese Giovanni, riferendosi in modo inequivocabile a Giacomo.

“Perché lo amavo.” rispose all'istante la Leonessa.

“Perché hai sposato me?” domandò allora il Medici, pur sapendo di essere sul punto di farsi più male di quel che potesse sopportare.

Caterina restò in silenzio. A lungo. Abbastanza da far perdere il colore alle guance ancora arrossate del marito.

Alla fine, mentre lui stava per fare una smorfia e voltarle le spalle, sussurrò: “Perché con te mi sento al sicuro.”

“Tanto lo so che se potessi scegliere tra me e lui, preferiresti sempre e comunque lui.” sputò il fiorentino, senza riuscire a tacitarsi, colto dalla frenesia di dire tutto quello che aveva tenuto dentro per mesi: “Se ti chiedessero di scegliere, preferiresti sapere morto me e vivo lui. Io in una tomba a marcire e lui nel tuo letto a...”

Per zittire il marito, prima che andasse troppo oltre, la Leonessa mise mano ai mezzi che aveva imparato fin da piccola al palazzo di Porta Giovia.

Interrompendolo a metà frase, per sfogare la propria rabbia e anche la paura che le parole di Giovanni – che le avevano ricordato il pendizio che gravava su di lui – le avevano messo in corpo, la milanese si mise a sciorinare una dopo l'altra quasi tutte le bestemmie che conosceva.

Il fiorentino, serissimo, l'ascoltò fino a che non le mancò il fiato. Quando la moglie restò ansante, una mano sulla pancia e l'altra a pugno sul fianco, allora il Medici, senza riuscire a trattenersi oltre, scoppiò a ridere.

Caterina rimase così attonita per via di quella reazione che non riuscì nemmeno ad arrabbiarsi di più.

“Non ho capito la metà delle parolacce che hai detto...” ammise il fiorentino, mentre la risata finalmente si spegneva: “Dovrai spiegarmele, perché mi sento davvero un ignorante...”

“Che sciocco che sei...” soffiò la Sforza, senza trovarvi nulla di divertente.

“Io lo penso davvero, comunque – riprese l'uomo, andando verso di lei e mettendole le mani sui fianchi – lo so benissimo che non resterai a digiuno, quando non avrai più me.”

“Immagino che non lo faresti nemmeno tu, se dovessi morire prima io.” ribatté la Contessa, più per orgoglio, che non perché si fosse mai posta il problema.

Il Medici non rispose e, dopo averla baciata, fece per prenderla per mano e portarla fuori dalla stanza, e tornare alla rocca.

“Aspetta...” lo bloccò la Tigre che, richiamandolo a sé, si fece baciare ancora per un po'.

Dopo qualche momento, Giovanni sentì le mani della moglie che cominciavano a cercare la sua pelle sotto il giubbetto e il camicione e capì al volo cos'avesse in mente.

“Il locandiere potrebbe impensierirsi, se non ci vedesse tornare presto...” sussurrò lui, con un sorriso, mentre la Leonessa andava avanti imperterrita.

“Che s'impicchi, il locandiere...” rispose lei, trascinando il Medici verso il letto.

 

Rodrigo scosse il capo, facendosi quasi scivolare la papalina via dalla testa: “Dobbiamo mettere le mani sulla Romagna, una volta per tutte.”

Cesare era davanti a lui, ma lo stava ascoltando solo con un orecchio. Quel giorno, dopo aver parlato a lungo con Lucrecia, aveva finalmente capito tutto.

Lei credeva di potergli nascondere una cosa del genere, ma solo uno stupido, arrivati a quel punto, non si sarebbe accorto di quello che nascondeva sotto le vesti. Era stato così cieco a non voler vedere, così sordo...

“In fondo – blaterava da solo il papa – sarebbero già terre del Vaticano. Io le farò diventare terre dei Borja. Al diavolo lo Stato della Chiesa. È soggetto a troppi mutamenti. Un impero per la nostra famiglia, questo avevo in progetto per tuo fratello.”

Nel sentire quell'accenno a Juan, Cesare raddrizzò le spalle e cercò di non pensare più, almeno per qualche minuto, a sua sorella e ai mesi di bugie e silenzi che gli aveva rifilato.

“Adesso l'impero dei Borja dovrai forgiarlo tu.” fece Alessandro VI, guardando il figlio con intensità.

Sul mento e su parte di una guancia, il giovane portava i recenti segni di un'acuzie di mal francese, ma per il resto era in salute. Ormai, pensava tra sé il papa, era quasi un segno di virilità, portarsi addosso le cicatrici di quel male.

E inoltre, contando che in molti ne restavano deturpati, Cesare per il momento sembrava essere stato trattato con gentilezza, da quella malattia schifosa...

“Dovremo ricostituire l'esercito e...” cominciò a dire il figlio.

Il padre alzò una mano e lo fermò: “No. Prima proveremo la via pacifica. Matrimoni, soldi, alleanze. Prima di spargere sangue e sperperare i nostri fondi, proviamo così. Partendo da Forlì.”

“Perché proprio da Forlì?” chiese piccato Cesare.

“Perché è lo Stato della Romagna che temo di più.” ribatté il Santo Padre, annusando l'aria fredda della sera che entrava dalla finestra mezza aperta.

La luce delle candele gettò un'ombra sinistra sul viso del giovane Borja, tanto da far quasi spaventare il padre, mentre il figlio esclamava: “Non avrete paura di una donna! Di una sgualdrina come quella Sforza!”

“Se la conoscessi – prese voce Rodrigo, alzandosi dal suo scranno e alzando una mano come se volesse colpirlo – non parleresti così! Ne avresti paura anche tu! Non è come le cortigiane che ti compri con un sorriso o seduci con un gioiello. Quella donna vale dieci uomini.”

Sbuffando, arrogante, Cesare lasciò perdere, ripromettendosi, tra sé, che prima che la conquista dell'impero dei Borja, come lo definiva suo padre, fosse finito, lui avrebbe sedotto anche quella Tigre, tanto per smentire le parole del papa, e chiese: “E quindi, che avete in mente?”

“Un matrimonio, tanto per cominciare.” disse Alessandro VI, con semplicità.

“Tra chi?” chiese il figlio, di nuovo sulle spine.

“Tra tua sorella e il figlio di quella sgualdrina, per usare le tue parole.” rispose il Santo Padre, con un sorriso che Cesare, con tutta la buona volontà, non riuscì a interpretare.

 
   
 
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