«Chi va via perde il
posto all’osteria!»
«La padrona è
tornata e la poltrona va ridata!»
«La chiave ce
l’ho io e il posto resta mio!»
«Io torno dal Campidoglio
e la poltrona la rivoglio!»
«Dove minchia sta il
Campidoglio?»
«Te lo dico solo se ti
levi dalla mia sedia».
«Altriment-»
Nemmeno il tempo di terminare la
frase, ed uno spesso viticcio
verdognolo coperto di foglie afferrò la caviglia del rosso,
sollevandolo a
mezz’aria. Con eleganza degna di una regina quale lei era,
finalmente Madre
Natura posò il proprio regale fondoschiena sulla sua
amatissima ed enorme poltrona
sgualcita.
«Altrimenti
quello» commentò stizzita, sistemandosi.
«Si può sapere
perché non potevo starmene seduto lì?»
domandò un povero Phobos ancora sottosopra.
Incrociò le braccia al petto «Chi
arriva primo meglio si accomoda, la regola è
questa!»
«Lo è, di
solito, ma questo posto»
accarezzò la stoffa «è mio. Mio. Solo e soltanto mio».
«E perché?
È un posto come un altr-»
«Non
osare dirlo»
tuonò lei, cupa.
La giovane Pitchiner
alzò leggermente la mano,
muovendo l’indice verso di sé; immediatamente, il
ramo che reggeva l’altro
parve obbedirle, portando l’uomo sufficientemente vicino da
potergli afferrare
il mento con le lunghe ed esili dita.
«Non è una
poltrona qualsiasi, questa, è la mia
poltrona» precisò di nuovo. Batté
con entrambe le mani sula propria seduta «D'inverno
quel posto è così vicino al termosifone che
staremo al calduccio, ma se uno
vuole sudare dovrà abbracciarlo. D'estate sta su una linea
di corrente fresca
che si ottiene aprendo sia quella finestra» indicò
la vetrata vicino alla porta
d’entrata «che quell'altra» e poi quella
dal lato opposto. «È di fronte alla
tv, ha un'angolazione che non scoraggia la conversazione ma non implica
neanche
la distorsione del parallasse, visto che non è lontana.
Potrei contin-»
«Di che problema soffri,
precisamente?» la bloccò l’altro
dondolando la testa, a metà fra il rassegnato
e lo spaventato.
La donna lo guardò
orripilata, terrificata, quasi offesa.
«Tu stai insinuando che
abbia problemi emotivi inconsci che influenzano il mio comportamento,
tanto da
farmi aggredire le cose e le persone che minacciano la mia
autorità di regina?
Ho capito bene od ho capito giusto?»
«Io insinuo di non essere
quello mentalmente più toccato fra i due, più che
altro».
«Facevi il bagno nei
fagioli, Phobos».
«… Traaaaanne
che in
quell’occasione, lì ero decisamente il
più mentalmente più toccato dei due»
convenne lui con un velo d’imbarazzo, arrossendo.
«Ma non lo sono ora, comunque.
Non sono finito quaggiù per mia volontà, non so
nemmeno come ci sono arrivato,
ma una cosa la so: eri meglio da ubriaca, sembravi meno socialmente
disturbata».
«Ah! Il bue che da del
cornuto all’asino, proprio!» gli urlò
contro Madre Natura, infastidita da
paragoni del genere. Gli piantò addosso uno sguardo truce
«Dovresti essermi
profondamente grato per l’ospitalità, e
soprattutto per la pazienza: è raro che
qualcuno metta piede in casa mia e riesca ad uscirne ancora con tutte
le dita
al loro posto, o che riesca a uscirne in generale»
“o almeno, lo era un tempo,
ora sei più pericoloso tu per me che io per te”,
avrebbe voluto aggiungere, ma si
limitò a pensarlo.
«La gratitudine non
è il
mio forte, lo ammetto. Ho altre doti, io».
«Tipo?»
domandò lei,
incuriosita.
L’altro le sorrise fiero,
visibilmente compiaciuto. Non senza poco sforzo cercò di
issarsi al sottile
ramo che lo tratteneva per la caviglia, fino a poterlo afferrare con la
mano
recante il marchio di Apophis; ci riuscì, infine. Qualche
istante, e di
suddetto ramo rimase solo la cenere a terra.
Poi dettagli se il rosso
non aveva tenuto conto che -bruciandolo- si sarebbe spiaccicato sul
pavimento,
una botta in testa non poteva che fargli bene.
O comunque non poteva
peggiorare nulla, considerando che il limite del
“peggio” era stato superato da
un pezzo.
Si alzò da terra, si
pulì i
vestiti, poi aprì le braccia per mostrare tutta la sua
presunta magnificenza.
«Tipo questo, vostra
maestà».
Emily Jane lo squadrò
qualche istante, sul volto un’espressione sorpresa che
mascherava a malapena
dietro quella patina da persona ben poco impressionata. O da regina che
mal
accettava il fatto di aver avuto l’ennesima dimostrazione che
i propri poteri
facessero cilecca.
«Ti odio» si
limitò ad asserire,
il viso imbronciato e le braccia al petto. Vedendo che l’uomo
stava per
controbattere, lo zittì in partenza mettendogli un dito
sulle labbra «Ma sono
grata a lui» gli indicò Thorax, accarezzandolo e
prendendosi di rimando fusa
goduriose «per la lezione data a mio padre e ad i suoi
stupidi equini qualche
tempo fa, quindi per questa volta ritieniti fortunato».
«Non mi taglierete la
testa, dunque?» chiese lui fingendosi afflitto e disperato e
in lacrime,
gettandosi al contempo ai suoi piedi per baciarglieli e così
inscenare una
richiesta di grazia che il Medioevo poteva accompagnare solo.
Scosse la testa,
rassegnata.
«Non oggi».
In millecinquecento anni di vita
come Madre Natura,
Emily Jane aveva conosciuto e classificato un numero non meglio
definito di
persone tutte diverse e uniche fra loro, ma con un singolo denominatore
comune:
le stavano sul cazzo. E non poco.
Poi c’era Phobos.
Phobos, per gli dei.
Quell’uomo era riuscito a
non farsi odiare dal primo
istante, e -ad ora- nemmeno lei aveva ancora capito come avesse fatto.
Da brava lesbica acida e
disinteressata al membro da
che ne avesse memoria, Emily aveva sempre preferito tenersi debita
distanza -da
leggersi “a qualche centinaio di metri, meglio di
chilometri” dal genere
maschile, quella fetta di mondo che nulla aveva da offrirle che fosse
degno
delle sue attenzioni e che, ovviamente, lei ricambiava allo stesso modo.
Era una lezione che aveva imparato
ben prima di
rendersi conto di essere omosessuale, questa, una lezione puramente
frutto
degli insegnamenti di quel brav’uomo di suo padre, di quello
che -in un tempo
remoto, dimenticato, ormai tenuto insieme solo da dei ricordi confusi-
era
stato il generale Kozmotis Pitchiner. Sempre amorevole con sua moglie e
sua
figlia, che non aveva mai fatto mancare nulla a l’una o
l’altra, ma al contempo
mai disposto ad abbassare la testa di fronte alle ingiustizie o
presunte tali,
lui e quella sua spada che pareva gridare
“JUUUUUSTIIIICEEEEEEE!” manco fosse
Toppo dei Pride Troopers.
Cristo, quanto le faceva male
guardare Dragon Ball
Super, un hakai sarebbe proprio ciò di cui avrebbe avuto
bisogno in quel
momento. Dritto in fronte magari.
Ma poi un disgraziato gli era
piombato in casa, nella
doccia, le si era presentato davanti nudo e crudo mangiando fagioli,
mentre si
faceva il bagno nei fagioli, con un leone dalla criniera piena di
fagioli, e
allora -per un qualche mistero del cosmo- era riuscito a fare breccia
nella
corazza che quella benedetta donna si trascinava dietro da tempo
immemore.
Un pochino, almeno, che se lo
avesse fatto
completamente avrebbe già cambiato sponda, da quanto si
erano ubriacati
ammerda.
Da parte sua, Emily Jane era
rimasta ad ascoltare la
sua storia per ore e ore e ore fino a perdere la cognizione del tempo,
da
quanto il racconto della vita dell’altro l’aveva
rapita, e non si era pentita
nemmeno un istante di aver usato il proprio prezioso tempo da regina
per farlo.
Aveva sentito pronunciare il nome
di Phobos ben poche
volte, ad essere sincera, e ognuna di esse legata alla guerra contro
Apophis di
settecento anni prima. Vuoi perché lei ai tempi fosse troppo
occupata a
maledire Marigold per essersi trascinata il Seme all’inferno,
vuoi perché il
conflitto che aveva investito la Terra fu solamente la punta
dell’iceberg di
quello avvenuto a Phantasia, vuoi perché semplicemente lei
se ne sbattesse il
cazzo di qualsiasi cosa non la riguardasse, ma per Emily Jane stare
lì seduta
in assoluto silenzio era stato come guardare un film mai visto prima,
sorprendendosi per ogni singolo particolare.
Era arrivata la sorpresa,
sì, e con essa pure un
minima, insignificante, frivola, consapevolezza: aveva pazientemente
atteso che
il piatto della sua vendetta si freddasse per trent’anni,
anni passati nella
miseria e nell’ombra del titolo di Madre Natura, ma forse, forse, adesso aveva trovato chi
l’avrebbe aiutata a consumare
quella dolcissima portata.
Certo, non aveva ancora detto nulla
all’altro, ma quando
gli aveva sentito pronunciare il nome di Harmonia vicino alla parola
“uccidere”…
beh, quella era stata la ciliegina
su
una torta vecchia di tre decenni, una torta ormai rancida che sperava, sapeva, sarebbe tornata commestibile una
volta bagnata col sangue della Regina di Phantasia.
Avrebbe ripreso ciò che
le spettava di diritto, eccome
se l’avrebbe fatto! E poi-
«Altri
faciola?»
E poi avrebbe mangiato altri
fagioli, sì.
Emily Jane sobbalzò
sulla sedia, da come il rosso
l’aveva colta di sorpresa, spezzando inconsapevolmente la
bolla mentale
insonorizzata nella quale lei si era rifugiata per sfuggire a quella
realtà
fatta di allucinazioni e fallimenti, e l’aveva fatto con la
stessa brutalità
con la quale un bambino lascia il ventre della madre al parto.
Ricompostasi, l’aveva
guardato malamente per qualche
istante, come per assicurarsi che capisse di averla disturbata e che
no, dopo
la figuraccia di prima i fagioli non sarebbero serviti a ricucire il
suo
orgoglio.
«Altri faciola,
sì, così tra un po’ mi
uscirà una
pianta di quegli stramaledetti legumi dalla bocca e inizierò
a gridare “ucci,
ucci, sento odor di alcolizzatucci”!»
«E il tuo naso sentirebbe
pure l’odore giusto,
considerando quello che abbiamo combinato» rise lui,
indicandole le bottiglie
vuote diligentemente accatastate in alcuni sacchi neri
sull’uscio. «Sono
sincero, non credevo reggessi tanto bene l’alcol, ti facevo
più-»
«Fine ed educata,
silenziosa e accondiscendente,
premurosa e affettuosa, interessata alle “cose da
regine” e meno alla birra, al
caviale estratto da uno storione millenario cresciuto in un lago fatato
a
polvere incantata e mentine piuttosto che alla frittata di cipolle.
Volevi dire
questo, forse?»
L’altro annuì.
«Bene: non lo sono. E se
vuoi saperlo sì, ho già
smaltito la sbornia, altrimenti anziché stare ad ascoltarti
ti sarei molto
probabilmente saltata addosso, per fare cosa non è dato a
sapere» fece una
pausa «fortunatamente».
«Fortunatamente,
sì» convenne Phobos, ridacchiando
«anche perché -per quanto reputi interessante
l’esperienza- abbiamo avuto e abbiamo
ancora ben altro da fare, e mi duole ammette che questo “ben
altro” è più
importante di un coito perduto… iddio, non credo di averlo
detto veramente,
devo essere impazzito».
Si accasciò sul divano,
stiracchiandosi e allungando
gli arti similmente a quanto stava facendo Thorax a terra.
«Tu sai tutto di me,
adesso».
«È
vero» confermò Emily «o almeno: io so
ciò che ti
ricordi pure tu, vuoti a parte, per essere precisi».
«Ecco, sì,
c’è anche quel dettaglio. Ma dubito che ti
infastidisca, altrimenti mi avresti buttato fuori a calci in culo
appena ti
sono apparso in doccia; sempre che non fossi troppo presa a guardarmi i
bassifondi» con gli occhi, si indicò
l’inguine «s’intende».
La giovane Pitchiner divenne
più rossa del sangue che
colava dalla bistecca in bocca al leone.
«Io non-»
«Suvvia, non temere: non
ti giudico, so bene che
effetto faccio alle donne» la rassicurò agitando
le braccia. Lasciò cadere la
testa all’indietro, così da poter guardare dritta
in faccia la donna «Tu sai
chi sono io, ora, ma io non so chi sei tu».
«Tu sai benissimo chi
sono» controbatté lei,
avvicinandosi «sono Emily Jane Pitchiner, sono Madre Natura,
sono la regina di
Tandokka. Come ho detto, tu sai-»
«Che vuoi vendicarti di
Harmonia proprio come lo
voglio io, ma -francamente- mi sfugge il perché»
l’interruppe «specie perché tu
sei quaggiù sulla Terra, mentre lei è
lassù a Phantasia: non dovresti c’entrare
nulla con quella donna, eppure da come parli pari provare verso di lei
tanto
astio quanto ne provo io, il che è incredibile dal momento
che quello sbattuto
nell’Abisso è stato il sottoscritto. Se
c’è sotto qualcosa, allora io voglio, pretendo, di saperlo».
«Pretendi?»
«Pretendo, sì:
cosa credevi, che ti avrei raccontato
della mia storia tanto per confidarmi?»
Lei non rispose, limitandosi a
deglutire
faticosamente.
No, certo che no, aveva intuito
eccome che il suo
turno per parlare sarebbe arrivato, ma non si era mentalmente
preparata, non
avrebbe potuto farlo neanche se si fosse impegnata: non aveva mai
raccontato a
nessuno nei dettagli di cosa fosse accaduto quel maledetto giorno,
figurarsi se
si fosse messa a raccontarlo a qualcuno appena incontrato! Ai tempi,
persino
suo padre si era accontentato di spiegazioni vaghe e confuse sulla
vicenda, e -per
il rapporto che aveva con sua figlia e per quanto le importasse delle
sue
stronzate- quelle erano bastate e avanzate.
Solo che lì non
c’era suo padre, c’era Phobos: un
perfetto sconosciuto, un uomo che era capitombolato nella sua vita
totalmente a
caso, forse il suo prossimo alleato. E non poteva permettersi di
perderlo,
soprattutto per un banale moto d’orgoglio.
«…
È iniziato tutto trent’anni fa».
Le parole le uscirono dalla bocca
quasi inconsapevolmente.
Non ricordava di aver sentito i
muscoli del proprio
volto darsi da fare per farle muovere le labbra, né
tantomeno aveva avvertito
le corde vocali vibrare per creare i suoni che aveva appena sputato e
messo
insieme in quella frase: aveva parlato, tutto qui, e ormai era troppo
tardi per
retrocedere.
Da parte sua, Phobos si sedette
più o meno composto e
si rivolse verso di lei, sempre mantenendo un religioso silenzio come
l’altra
aveva fatto a suo tempo.
Non si lamentò dei
lunghi minuti di pausa che Emily si
stava prendendo, semplicemente restò lì fermo con
le mani giunte. Lei, invece,
le mani le stava tenendo sull’abito che le cadeva morbido
sulle gambe, le
unghie conficcate sulle cosce che parevano poter squarciare la stoffa
da un
momento all’altro.
«È successo
molto tempo fa, dunque» azzardò l’uomo,
tentando di rompere il ghiaccio.
L’altra lo
guardò impassibile, poi scosse la testa.
«Non per un
immortale» rispose infine. «Dinanzi ai
miei occhi, ai tuoi, trent’anni non sono che polvere, un
granello di sabbia
soffiato via dal vento di un tempo che non smette mai di scorrere, di
soffiare,
di imperversare su tutto e tutti… me compresa»
sussurrò, le ultime parole che
svanirono come scritte cancellate da uno straccio umido.
Decise di farsi forza.
«Allora, ero la creatura
più potente che la Terra
avesse mai visto: Madre Natura. Il mio nome era sulle labbra di
chiunque, e
quel “chiunque” temeva tanto la mia persona, quanto
la mia ira. A buona
ragione, aggiungo, non sono mai stata un tipo facile da
prendere» iniziò a
raccontare, nostalgica.
Si alzò dalla poltrona,
avvicinandosi alle finestre.
«Avevo tutto
ciò che una persona può desiderare e
anche di più, molto di più: un regno che -sebbene
fosse irrimediabilmente
segnato dal passaggio di Apophis- riusciva ancora a dare una parvenza
di
regalità grazie alla mia magia» un sottile ramo
coperto di germogli le avvolse
il braccio «una magia che faceva fiorire i campi, e riempire
gli alberi di
foglie, e far crescere frutti maturi e succosi su piante ormai
avvizzite» ci
passò una mano sopra: immediatamente, dai piccoli boccioli
fuoriuscirono dei
minutissimi fiori grandi quanto viole selvatiche, di un acceso rosso
corallo.
«Dei poteri immani,
che mi consentivano di controllare il clima come un burattino
sottomesso alla
mia volontà, potevo addirittura organizzare pic-nic senza
preoccuparmi di
guardare il meteo perché -modestamente- il meteo ero io. E
pensa che potevo
creare dal nulla le peggiori catastrofi naturali, se ero arrabbiata,
altro che
la tempesta là fuori!» indicò il cielo,
tornato scuro e nero per il nuovo
acquazzone in arrivo.
Si bloccò qualche
istante, lo sguardo catturato dal
viticcio che aveva in mano: era già secco. “Alla
faccia dell’essere Madre
Natura”, pensò, ma ricacciò indietro
presto i propri complessi d’inferiorità.
«Avevo persino un
orgoglio, a quei tempi, un orgoglio che
m’impediva di piegarmi a chicchessia pretendesse di venire a
comandare a casa
mia».
Phobos alzò la mano,
come a prendere parola a scuola.
«Harmonia?»
«Harmonia, proprio
lei» confermò la donna. «I poteri
della Regina di Phantasia raggiungevano -e raggiungono- qualsiasi
angolo del
cosmo, direttamente o indirettamente, permettendo il proliferare della
fantasia: ogni invenzione, ogni scoperta, ogni singolo libro che sta
venendo
pubblicato in questo preciso istante, tutto ciò avviene
anche per merito suo. Senza
la fantasia, l’uomo muore».
«Senza ossigeno,
pure».
«Esatto! È la
stessa identica cosa che ripetevo loro!»
convenne un’Emily Jane particolarmente entusiasta, del resto
quella era la
prima persona fosse d’accordo con lei in decenni!
Il suo giubilo durò ben
poco, però, per lasciare
spazio ad un lato ben più oscuro di quella vicenda.
«Ma nessuno mi ascoltava,
ovviamente. Ero diventata paranoica,
vedevo nemici ovunque. Ovunque. A
buona ragione, aggiungo: erano tutti dalla parte di quella sgualdrina,
persino
Manny -solitamente neutrale- si era schierato» si
fermò, pensandoci sopra
«anzi, togli Manny, quello è un caso a
parte».
«Ah
sì?»
Emily gli si avvicinò
all’orecchio, come se stesse
confessando chissà quale indicibile segreto.
«Io non ne so nulla, come
puoi immaginare nessuno
amava scambiare due chiacchiere o qualche pettegolezzo con me, ma voci
di
corridoio vecchie di settecento anni narravano che -a guerra terminata-
l’Uomo
nella Luna chiese ad Harmonia di diventare la sua sposa e regina
consorte, e che
lei rifiutò. Rifiutò un Lunanoff, te ne rendi
conto?!!»
Lui fece segno di
“no” con la testa.
«Ovvio che non te ne
rendi conto, probabilmente sai a
malapena cosa siano un Lunanoff» borbottò fra
sé e sé, seccata. Batté sonoramente
le mani, come a ristabilire l’ordine «Sia come sia,
questo non cambia la
situazione e non è un dettaglio importante, la conferma o
smentita potrebbe
darla solo quella zoccoletta equina».
«E non l’ha mai
data, immagino».
«Immagini bene»
convenne lei, decidendo di omettere il
“non a me personalmente, almeno”.
Sorrise: ah, che gusto, che
sollazzo!
La giovane Pitchiner non lo avrebbe
mai ammesso, ma
provava un certo piacere ad infamare quella centauressa che -a
differenza sua-
incarnava tutte le doti e le qualità di una sovrana giusta e
amorevole, se lo
faceva davanti ad altri poi era pure meglio, e non si sarebbe certo
lasciata
scappare quella succulenta occasione.
«Ma non mi sorprenderei
affatto se una botta o due se
le fosse fatte dare eccome, da Manny, non aveva certo di che perderci a
farsi
scopare da quello; per come la vedo io, Harmonia non è
arrivata fin dov’è arrivata
solamente sputando e sudando sangue, basta vedere
com’è avvezza al farsi
trivellare il culo da un’Ophidian ninfomane ermafrodita del
resto!» rise.
Si aspettava che Phobos avrebbe
fatto lo stesso, ma
non fu così: di fronte al suo sparare giudizi random per via
di antipatie
vecchie quanto il mondo lui non aveva riso, era solamente rimasto
impassibile,
niente di più.
Aspettò ancora qualche
istante, speranzosa, poi decise
di lascia perdere.
«Comunque sia, in tutto
ciò io ero diventata
tremendamente paranoica, appunto; se prima vivevo serena e tranquilla a
Tandokka, allora tre decenni or sono iniziai a temere che da un momento
all’altro quella serenità mi sarebbe stata
improvvisamente strappata via, e con
essa tutto ciò che possedevo». Si cinse il torso
con le braccia, le nocche
rosse da quanta forza ci stava mettendo «Il mio regno, il mio
titolo, i miei
poteri… oh! Quanto temevo di perdere i poteri!»
«Sarebbe potuto
accadere?»
«Certo. Certo che sarebbe
potuto accadere, ed è accaduto!»
gli rispose ad alta voce, gridando, quasi. Un tuono
accompagnò l’atteggiamento
maniacale da lei assunto «Sapevo che sarebbe successo, me lo
sentivo dentro!
Non potevo sbagliarmi, non io, non io che non sbaglio mai! MAI!
Non-»
«E quindi
cos’hai fatto?» la interruppe il rosso, non si
sapeva se per sincera curiosità, o -più
probabilmente- perché mosso
dall’inquietudine che aveva iniziato a scorrergli nelle vene
dopo quell’uscita
da parte di Emily.
Quest’ultima non parve
apprezzare l’interruzione, ma
dovette farsela andare bene: prima si toglieva quel peso, prima sarebbe
finita
quella tortura.
«Feci l’unica
cosa possibile: decisi di trasferire i
miei poteri in un oggetto che avevo sempre con me, che potevo tenere
d’occhio
ventiquattr’ore ore su ventiquattro, sette giorni su sette,
in modo che
nessuno, nessuno, potesse
privarmene.
Ero ugualmente potente, ero sempre madre Natura, semplicemente avevo
solo
cambiato il contenitore dov’era riposta la fonte della mia
magia da qua dentro»
si mise una mano sul cuore «a qui» raccolse un
lungo e spesso ramo da terra,
alzandolo per mostrarlo al suo interlocutore.
Phobos lo guardò qualche
istante.
«… Un bastone
da passeggio?» chiese infine, confuso. E
sempre più convinto di non essere lui il pazzo fra i due,
anche quello.
«Uno scettro,
cielo» lo corresse lei, esibendo un
facepalm il cui suono riempì la stanza «che poi
fosse solamente un pezzo di
legno bianco impregnato di magia è un dettaglio, ma era uno
scettro, era magico
e, soprattutto, era mio».
«Era?»
«Era,
sì».
«Dici
“era”, ma perché non
“è”? Come mai ne parli al
passato? Se sei Madre Natura, allora devi per forza averlo da qualche
parte, o hai
nuovamente travasato i tuoi poteri da quel bastone al tuo corpo? E
perché-»
«E perché non
la smetti di fare domande?» sbottò
isterica, interrompendolo.
Con tutta la calma del mondo, il
rosso si alzò dal
divano, dirigendosi verso la porta.
«Dove vai?»
domandò l’altra, spaesata da quel comportamento;
tre secondi prima se ne stava in silenzio ad ascoltarla come lei aveva
fatto
prima di lui, e ora decideva di levare le tende tutto d’un
tratto! Che razza di
comportamento era?
«Ovunque, ma non qui.
Ecco dove vado, maestà» asserì
senza girarsi, senza degnarla d’uno sguardo che fosse uno.
«Non puoi
andartene».
«Posso, invece, e lo sto
facendo» controbatté mettendo
la mano sulla maniglia.
«Non
ti sta
bene se faccio domande? Allora non aspettarti che mi faccia trattare
come uno
zerbino per ascoltare le tue risposte: a differenza tua, io ho ancora
una certa
dignità da mantenere, e non permetterò certo ad
una sovrana lunatica di
levarmela. Con permesso» cercò di aprire la porta,
ma i rami non lo fecero
passare. Poco male: gli bastò poggiarci una mano sopra e
presero fuoco,
liberandogli il passaggio verso l’uscita.
Il panico investì Emily
Jane Pitchiner come un fiume
in piena, travolgendola.
Avrebbe potuto, dovuto, fare
qualcosa, qualsiasi cosa,
pur di non perdere quell’unica speranza di alleanza che
avesse, e invece cosa
stava facendo? Se ne stava immobile davanti alla finestra senza muovere
un
muscolo, gli occhi pietrificati che sembravano essere sul punto di
uscire dalle
orbite da un momento all’altro, da quanto erano spalancati
per l’amara sorpresa
di quella reazione.
“Fai qualcosa”,
le disse la sua coscienza.
Lo vide esitare, sulla porta,
aspettare un suo segnale
per tornare indietro. O almeno così le parve, afflitta dalla
disperazione nera
com’era.
“Qualsiasi
cosa”.
Non esitò
più, adesso. Agli occhi di Emily, tutto
appariva come in slow motion: il piede del rosso che si alzava dal
pavimento,
il corpo che -una volta che l’arto si staccava da terra- si
muoveva
impercettibilmente per bilanciarsi, le scarpe che toccavano di nuovo il
suolo,
questa volta fuori da casa sua, però. Tutto
ricominciò daccapo, quando mosse
l’altra gamba: passo dopo passo, lentamente e
silenziosamente, la sua unica
speranza stava uscendo dalla sua vita.
“Falla,
per
gli dei!”
«Harmonia ha distrutto il
mio scettro, trent’anni fa».
Pronunciò quelle parole
senza accorgersene,
esattamente come aveva già prima, ma questa volta il suo
cervello sembrò
spegnersi subito dopo: sentiva tutto ovattato, vedeva le figure
sfocate,
toccava il davanzale per sorreggersi ma non lo sentiva. Era come
intangibile,
quasi… irreale.
Prima che il terrore che fosse
tutta quanta un’enorme
un’allucinazione potesse possederla, Emily avvertì
una mano poggiarsi sulle sue
spalle e accompagnarla sul divano; sentì un certo calore
prima sulle gambe, poi
fino al petto.
L’ombra che aveva davanti
le mise fra le mani qualcosa
di non meglio definito, e allora avvertì una pressione non
indifferente sulle
braccia.
«Non so te, ma
accarezzare Thorax è utile per calmare
i nervi: se non fosse stato per lui non sarei uscito più o
meno sano di mente
da sette secoli di Abisso».
Pazientemente, prese una mano della
donna e gliela
mise sulla criniera del leone nero, accoccolatosi sul suo grembo mentre
spolpava un osso che lei gli teneva. Prima di riprendere parola,
però, Phobos
attese qualche istante.
«Ti dico un segreto: i
moti d’orgoglio non portano da
nessuna parte. Ci sono già passato, so come andrà
a finire, e non è nulla di
buono. Per cui adesso» le afferrò le dita bianche
e dalle punte gelide,
racchiudendole nelle proprie «sputa il rospo, Emilia GiannaH
Pitchoner, che se
lo ingoi poi non voglio nemmeno immaginare la bruttissima ulcera
gastrica che
ti procurerai. Specie perché sono velenosi: vuoi forse fare
la fine del
capitano Ginew, uh?»
«Segui Dragon
Ball?» domandò Emily, improvvisamente
svegliatasi da quel suo stato di torpore o, per dirla alla Phobos,
“di
rincoglionimento profondo”.
Lui fece un breve inchino, ridendo.
«Team settimo universo,
milady» rispose «e voi?»
«Universo undici,
sir» rispose lei, stizzita, a quella
che considerava una vera e propria bestemmia. Tirò un
colpetto sulla spalla
dell’altro «E ora abbiamo pure Toppo versione
palestrata che lancia hakai come
se piovessero, quel gatto nudo rachitico è fottuto
esattamente come lo erano
tutti gli altri membri dello zoo: presto o tardi, voi del sette
finirete a fare
compagnia all’inferno alla vostra lucertola effeminata di
quel pacchiano color
oro».
«L’oro non
è pacchiano!» sbottò.
«È alla moda!».
«Sì, quella
dell’epoca vittoriana, forse!»
«Sempre meglio delle
tutine aderenti che evidenziano
la pancia da bevitore di birra di uno che grida
“JUUUUSTISSSSSSHFUUUURAAAAAASH!” e lasciano ben
poco alla fantasia, per quanto
una persona sana di mente possa essere concentrata a guardare il culo
di E.T.
quando la nostra gente esce l’ultra istinto».
«Uscire Gogeta super
sayan di quarto livello sarebbe
stato più util- oooooops, che sbadata! La serie di GT non
è canonica!» dicendo
ciò, Emily si esibì in un plateale gesto
dell’ombrello. I medi alzati da
entrambe le mani arrivarono poco dopo «Fottetevi voi e le
vostre fusioni!»
«Ti inviterei a leggere
le sinossi con più attenzione,
se posso permettermi, non ci serve Gogeta per prenderci le Super
Sfere» la
rimproverò il rosso con sorriso sornione
«… Emily».
«Sì?»
«Come siamo finiti a
parlare di Dragon Ball Super?»
chiese grattandosi la testa.
«Non ne ho idea, ma mi
stava piacendo. Tanto. Tuttavia…»
la giovane Pitchiner tirò un profondo sospiro mentre faceva
spallucce,
sconsolata «… immagino che dovrò
tornare a parlare delle mie disgrazie, ora,
perché suppongo che tu voglia sapere come Harmonia abbia
iniziato a c’entrare
con la mia tragggica storia».
Il suo interlocutore non rispose,
ma quel silenzio fu
un “sì” abbastanza palese da calare come
una mannaia su quello spiraglio di
evasione e spensieratezza che era parso aprirsi fra di loro; non era
triste,
però: era durato poco, pochissimo, ma era durato.
E almeno sapeva che, se avesse
avuto un bicchiere
d’acqua nel deserto, allora lo avrebbe gettato per terra,
anziché darlo a
Phobos che moriva di sete: quell’uomo tifava per Beerus,
iddio!
Ci fu qualche attimo di silenzio.
«Ero stanca di vivere
nella paranoia e nella paura e
nella consapevolezza che un’estranea pretendesse di mettere
becco dove non le
competeva, così decisi di affrontare la questione
direttamente con
l’interessata. Harmonia voleva mettere i propri zoccoli
infangati sulla Terra?
Allora io avrei piantato radici su Exodus. Come si dice fra i
terrestri, “occhio
per occhio, dente per dente”, ed io volevo tutti i denti di
quella giumenta in
calore per farmici una collana».
Thorax lanciò un ringhio
di lamentela verso le dita
della sua poltrona di carne che -preda ad un fiume di ricordi
com’era- gli
strinse troppo forte la criniera, tirandogli il pelo.
«Andai su Exodus, il suo
pianeta, decisa a far valere
la mia ragione tanto quanto lei pretendeva di far valere la propria sul
mio, di
pianeta, sulla mia casa» “di ripiego,
perché certo non sono terrestre”, pensò
fra
sé e sé.
«Prendere Fairy Oak non
fu poi così difficile: tocca i
tasti giusti, e quella ragazzina schizofrenica di Alice Castle
Wonderwood perde
il controllo in un modo tale da farsi più male da sola di
quanto gliene possa
fare chicchessia. Soffre di personalità multipla o qualcosa
del genere, talmente
multipla che -ai tempi- finì per piantarsi una spada in
ventre credendosi la
nemica di se stessa, roba da matti!» Scoppiò in
una fragorosa risata «E tutto
ciò intanto che la vera nemica gliela faceva sotto il naso,
scivolando come
acqua fra le mura del suo castello e finendo per fare abbastanza danni
da mettere
in allarme la sua amyketta, la Regina di Phantasia» fece una
pausa «e fu lì, che
iniziarono i miei problemi».
Lasciò cadere lo sguardo
sul pavimento davanti a sé,
il volto contratto in un misto fra rimorso, imbarazzo e tanta, troppa,
rabbia,
ancora ardente come il primo giorno.
Strinse forte i denti, fino a
sentire male da quanto
sfregavano gli uni sugli altri: era arrivata a dover raccontare anche
quel
pezzo, alla fine; non che avesse scelta, in fin dei conti, si trattava
solo di
rimandare e rimandare e rimandare, di farlo ancora, e ancora, e poi di
nuovo
per chissà quanto tempo, per cui.
Inspirò talmente
profondamente che i polmoni parvero
essere sul punto di esplodere da un momento all’altro, come
anche -espirando-
sembrarono sgonfiarsi così bruscamente da essere stati
risucchiati chissà dove.
«Ero convinta di poterla
sconfiggere» mormorò
«convintissima. Non avevo paura di lei, non la temevo in
alcun modo, volevo
solo combatterci e farle il culo a strisce, dimostrarle che non aveva
capito
che stava scherzando col fuoco e che -se avesse continuato- sarebbe
rimasta
bruciata, ma che del suo corpo carbonizzato sarebbe rimasta solo
cenere».
«Immagino non sia
successo, però» le fece notare
Phobos.
Lei sorrise.
«No, infatti»
confermò amaramente Emily Jane «successe
tutt’altro. Quando iniziammo a combattere, Harmonia mi
scartavetrò non poco le
gonadi che non ho con discorsi strappalacrime: sul non dovermi sentire
minacciata perché a lei della Terra non importava come io
credevo, sul cambiare
idea prima di pentirmene, sul fatto che non avessi idea di dove mi
sarei
infilata se avessi insistito, e bla bla bla. Tutte stronzate, insomma,
stronzate alle quali risposi lanciandomi su di lei per strapparle la
lingua
dalla gola. “Così almeno smetterai di
blaterare”, le dissi».
«E poi?»
«E poi iniziò
una discesa a spirale verso l’oblio. Per
me, però» asserì, quel sorriso che
aveva ormai scomparso.
Girò la testa vero la
finestra, ipnotizzata dal
ticchettio della pioggia.
«Anche quel giorno
pioveva, sai? Combattemmo a lungo,
ma l’esito fu chiaro fin da subito. Menai fendenti a destra e
a manca fino a
non sentirmi più le braccia; evocai tralci spinati incurante
del trovarmici a
mezzo metro pur di intrappolarla in qualche modo; arrivai ad aizzare
una
tempesta che riempì il nostro campo di battaglia di fulmini
e incendi -a causa
degli alberi colpiti e bruciati- e fango. Ma Harmonia non
cedeva».
L’eco di un tuono la
interruppe.
«Resistette a tutto, tutto, non la vidi piegarsi nemmeno una
volta. Quando le chiesi
come facesse, lei mi rispose semplicemente che non poteva permettersi
di
cedere, che non voleva farlo e che mai l’avrebbe fatto,
specie dinanzi a
qualcuno che minacciava la sua gente di schiavitù e morte:
era il benessere dei
suoi sudditi a guidarla, l’istinto materno che aveva verso di
loro, e che per
quel motivo mai avrei potuto sconfiggerla».
«E infatti non ci
riuscisti».
«Precisamente. Capisci
bene che -a sentire quelle
parole- io divenni furiosa, iraconda, ero talmente rabbiosa da volerle
spaccare
il cranio in due e berci un Margarita dentro; non solo pretendeva di
comandare
sul mio pianeta, non solo faceva la
predica a me, ma aveva pure il
coraggio di darmi lezioni di politica interna, rimproverandomi di come
fossi
fuggita durante la guerra contro Apophis e che tale comportamento non
era da
regina! A me! Alla sovrana di
Tandokka! A Madre Natura! A quel punto, tutto ciò che volevo
fare era ucciderla».
Nei suoi occhi si accese un
bagliore inquietante, a
tratti grottesco, una sorta di luccichio animalesco che mise i brividi
al
rosso.
«Era ferita, stanca,
sanguinante, incatenata a terra
dai rovi, completamente disarmata: sarebbe dovuto bastare poco,
pochissimo, per
darle il colpo di grazia… ma non
bastò». Strinse i denti, come i palmi, fino a
quando non iniziarono a farle male «Quando Harmonia
iniziò la controffensiva,
capii che era volontariamente rimasta a subire per darmi una lezione.
“D’umiltà”,
come la chiamava lei, ma era più un’umiliazione
finemente nascosta da quella
sua finta patina di perbenismo e ammmore» squittì
mentre, con le dita, formava
un cuore. «All’inizio non capivo proprio dove
volesse arrivare, attaccava tutto
tranne che me personalmente, tanto che -a fine scontro- erano
più le ferite
riportate dalle mie azioni sconsiderate rispetto a quelle inflittemi da
quella
maledetta mezza cavalla, credevo che il suo scopo fosse quello di farmi
letteralmente impazzire!»
«E invece?»
«E invece puntava allo
scettro. Ai miei poteri».
Un sottile rivolo di sangue
colò dal suo palmo, da
quanto le unghie stavano scavando nelle carni; non provava dolore, non
sentiva
niente di niente, forse perché le ferite della mente stavano
bruciando più di
quanto quelle fisiche potessero mai fare.
«Fu una cosa breve,
brevissima, quasi non me ne
accorsi. Un attimo prima ero lì ad infierire sul corpo
martoriato della Regina
di Phantasia gridando alla vittoria» guardò a la
mano sinistra, alzandola «quello
dopo ero lì, immobile, gli occhi rivolti al cielo plumbeo e
la pioggia che mi
sferzava il volto come tizzoni di carbone ardente, scavandomi profondi
solchi
lungo le guance» fece lo stesso con la destra. Infine, se le
ripose in grembo. «Io,
Madre Natura, me ne stavo stramazzata a terra, sfinita, senza
più forze per
alzarmi né magia ad aiutarmi, sdraiata a guardare il
firmamento. Di fianco a
me, Harmonia, che mi guardava dall’alto in basso con quella
sua solita aria
materna, compassionevole, tendendomi una mano, tsk!»
Si lasciò scappare una
risatina.
«Non capivo né
cosa fosse accaduto, cosa stesse
accadendo, cosa sarebbe accaduto poi: ero solo stesa e guardavo il
cielo, le
gocce -ora meno pungenti- che mi accarezzavano il viso mi ricordavano
che ero viva,
ma c’era qualcosa di strano, di diverso, tanto nel paesaggio
quanto in me… le
nuvole si dissolvevano lasciando posto ai Soli di Exodus, la bufera
stava
tornando ad essere una leggera brezza, il rumore dei tuoni si faceva
sempre più
lontano. Tutto ciò che la mia magia aveva evocato stava
svanendo, ed io-»
«Non ne capivi il
motivo» l’anticipò Phobos,
completando la frase.
Emily Jane annuì.
«Tuttavia, mi
bastò girare la testa per vederlo, quel
motivo: il mio scettro spezzato, ridotto in frammenti, distrutto, ora
un comunissimo
bastone di legno scheggiato e marcescente».
«Ed i tuoi poteri? Avevi
detto che erano contenuti là
dentro, quindi-»
«Perduti. Completamente
perduti. Ciò che rimane di
essi lo hai già visto, non riesco né posso fare
di più col poco che sono
riuscita a recuperare in trent’anni, e qui mi va
già di lusso dal momento che a
Tandokka qualcosina riesco ancora a fare» si
bloccò, ripensando al ramo di
prima, subito seccatosi «… qualcosina, appunto.
Per il resto, quel giorno Madre
Natura cessò di esistere. Ma la colpa non fu della cavallina
storna, no di
certo, fu mia anche in quel caso!»
Sbatté gli occhi
più e volte, cercando di nascondersi
alla bene e meglio da quelli del rosso infilando la testa nella
criniera di
Thorax: ricacciare indietro le lacrime era più difficile di
quanto ricordasse.
Non si seppe se l’altro
la notò o meno, stava di fatto
che Phobos le poggiò una mano sul suo palmo per esprimerle
la sua vicinanza. Lei
però la ritrasse subito, fulminandolo con lo sguardo.
«Non ho finito di
parlare» commentò con tono grave,
quasi di rimprovero. Lui non commentò, limitandosi a
riportare le mani sulle
proprie cosce.
«Colpa tua,
dici?» domandò poi, per rompere quel
silenzioso imbarazzo.
«Colpa mia,
sì, o così la vedono tutti. Harmonia mi tese
una mano per rialzarmi, come ti ho detto, ma io la rifiutai
cordialmente: sai
cosa successe? Riuscii a rimettermi in piedi sulle mie gambe senza il
suo
aiuto, non le avrei certo dato la soddisfazione di dare mostra della
sua
benevolenza anche in quel momento! Alla fine, dunque, ci trovammo di
nuovo
faccia a faccia, una di fronte all’altra; a dividerci, i
resti del mio
bastone».
Tirò un sospiro annoiato.
«Mi propose un accordo:
se io avessi accettato un
giuramento vincolante sull’utilizzare i poteri da me
posseduti in quanto Madre
Natura solo ed esclusivamente a fin di bene, sul non tentare nuovamente
di
muovere guerra a chiunque si trovi fuori dalla mia giurisprudenza
terrestre,
sull’essere disposta a scusarmi e ammettere i miei errori,
allora lei avrebbe
rimesso insieme lo scettro e mi avrebbe restituito la mia magia. Dovevo
solo
scusarmi, Phobos, niente di più e niente di meno».
Fece spallucce «Avevo
attaccato brutalmente Fairy Oak, incendiato e devastato parte del suo
regno,
cercato battaglia mossa solo da stupide supposizioni e fantasie e
paranoie,
eppure la regina voleva solo e soltanto delle semplicissime scuse.
Tutto qui».
All’ultima frase, il
rosso sgranò gli occhi.
«… Ti prego,
dimmi che hai accettato quei termini e
non ti sei fatta prendere dall’orgoglio facendo la scelta
più cretina e
sbagliata di questo mondo. Ti scongiuro. Ti
supplico».
«Vuoi sapere quale fu la
mia risposta, eh?» ridacchiò
la giovane Pitchiner.
Lui fece segno di
“sì” con la testa, già pronto
al
peggio.
«Le sputai in faccia,
ecco cosa le risposi» rispose lei
tranquillamente, quasi vantandosi delle proprie discutibili gesta.
Si alzò, iniziando a
camminare per la stanza
gesticolando.
«Avrei potuto accettare
tutto l’accordo, ad essere
sincera: non avevo mire espansionistiche né sulla Terra
né fuori da essa, non
m’interessava ammazzare chicchessia dal momento che preferivo
farmi gli affari
miei a Tandokka, ma non mi sarei mai piegata a chiedere scusa ad
Harmonia, mai.
Mai. Se potessi tornare indietro
rifarei tutto, non mi pento di essermi tolta la soddisfazione di vedere
la mia
saliva colare su quel bel visino angelico: sta con Myricae,
c’è colato ben di
peggio che la saliva, su quel volto!»
«Una gran soddisfazione,
immagino» applaudì lui,
basito «vedo bene i risultati: senza magia, senza amici,
senza famiglia, sei
una sovrana senza corona e senza regno, una donna senza
dignità e senza pudore,
se hai il coraggio di raccontare una cosa del genere e vantartene. Ora
come
ora, sono io ad avere una gran voglia di sputarti addosso: sei inutile,
Emily,
lo sei persino più di me, per gli dei! E ce ne vuole
per-»
«Taci un attimo! Non hai
ancora sentito la parte
migliore che viene adesso!» lo interruppe lei, gracchiando
entusiasta.
«Harmonia non prese bene
quel mio affronto di lesa
maestà, nossignore: era furiosa, incazzata come mai prima
d’ora, ancora un po’
e le sarebbe uscita la schiuma dalla bocca come la cagna rabbiosa che
è!»
«E…
?»
«E allora mi
afferrò per i capelli, sollevandomi i
piedi da terra e facendomi penzolare come una pignatta da quanto era
imponente
la nostra differenza d’altezza, prese la propria spada e
ZAC!» imitò il gesto
«dei miei lunghi capelli neri che toccavano il pavimento e
fluttuavano
nell’etere non era rimasto più nulla, non
attaccato alla mia testa almeno»
iniziò a ridere.
«Io caddi al suolo come
corpo morto cade» si gettò sul
divano «senza rendermi immediatamente conto del danno; sentii
uno strano
prurito sulla nuca, così me la toccai: abituata
com’ero a sentire le dita
scorrermi fra i capelli, immagina la mia faccia quando i capelli non li
sentii
più, trovando al loro posto questa» si
toccò la testa per indicarla «distesa
rada e disordinata. Lei era radiosa, non c’è che
dire, teneva il marchio di
fabbrica della sovrana di Tandokka fra le mani come se fosse un trofeo!
Mi
disse anche qualcosa però meeeeeh, non ci feci troppo caso,
forse riguardo l’essere
ancora in tempo per pentirmi… oppure… mh, non mi
ricordo precisamente, sto
diventando vecchia, dopo millecinquecento anni».
«… Dimmi che
ti sei pent-»
«Col cazzo» lo
anticipò.
«E infatti raccolse i
resti del mio scettro, mi mise
in piedi e m’invitò a seguirla; non so se fossi
ancora troppo sconvolta o
troppo persa nella mia mente a dirmi che avevo preso una pessima
decisione, ma
non opposi resistenza e lo feci volontariamente, camminandole di fianco
diligentemente ed in rigoroso silenzio».
Si asciugò gli occhi da
quanto stava ridendo.
«Girammo tutte le strade
principali del suo regno
così, con la Regina di Phantasia che sfilava accompagnata da
Madre Natura; il
mio bastone nelle sue mani, i miei capelli nelle mie. Laggiù
certo non mi
conoscevano, probabilmente pensarono tutti che fosse una passeggiata e
niente
di più dal momento che mi salutarono pure, ma lo scopo di
Harmonia non era certo
offrire uno spettacolo alla sua gente. Voleva assicurarsi che la walk
of shame
alla quale mi aveva sottoposta me la ricordassi in eterno,
così da non commettere
più certe stronzate, ecco cosa».
Si fece pensierosa.
«… Non che
potrei farlo, anche volendo, non riesco
nemmeno a far fiorire una margherita».
Scoppiò in una fragorosa
risata, folle, rumorosa,
talmente tanto da coprire persino il temporale che imperversava fuori
dall’Albero di Olduvai.
«Ma la cosa ancora
più incredibile è che non possono
più ricrescermi, dal momento che Harmonia mi fece un
incantesimo “ad aeternum”,
allora, uno di quelli che oltrepassano i confini dello spazio e del
tempo e non
possono essere spezzati da nessuno in nessun caso e in nessun luogo,
nemmeno da
chi l’ha fatto. Niente di che, sia chiaro, solo un trucchetto
di magia che
consisteva nel poter più riavere indietro la mia chioma,
segno di riconoscimento
del mio status di Madre Natura, lasciandomi tornare a casa con questo
schifo
addosso e la coda fra le gambe. Non lo trovi bellissimo? Esatto! Ti
piace? Non
servono risposte!»
Emily Jane rideva, e rideva, e
rideva ancora, poi
ancora, senza mai fermarsi, senza perdere mai la voce e anzi
intensificando
sempre di più quel suono fastidioso, fino a quando le sue
guance non vennero
percorse da una cascata di lacrime.
E non erano provocate dalle risate,
adesso.
Si coprì il volto con le
maniche dell’abito che aveva
indosso, inzuppandole in quattro e quattr’otto dalla
disperazione che l’aveva
investita come un treno.
«Hai ragione,
Phobosuccio, non potrei essere più
d’accordo: sono inutile, fottutamente inutile. In una scala
dell’inutilità, io
riesco a sforare il limite massimo, sono utile quanto un dito coperto
di sabbia
infilato nel retto durante una visita alla prostata» rise,
interrompendosi ogni
tanto per via dei singhiozzi.
Si pose davanti
all’altro, alzandosi di scatto e
totalmente incurante di mostrare gli occhi gonfi per il pianto.
«Ti dirò un
segreto: le donne sono terribili. Pensavo
che le cose peggiori al mondo fossero i tagli provocati dalla carta, ma
mi sbagliavo.
Nessun pezzo di carta mi ha mai ferito così nel profondo,
nessun pezzo di carta
mi ha mai umiliata tanto, così tanto,
fino a farmi pentire di essere al mondo» sputò
tutto d’un fiato, crollando in
ginocchio «Per gli dei, guardami, guardami!»
«Ti sto
guardando».
«Guardami, guardami e
renditene conto da solo: ho un
brutto carattere, sono tremendamente acida e cinica, misantropa fino al
midollo, sono un fardello per chiunque mi conosca, non mi è
rimasto più nulla
da offrire a chicchessia, anche perché non voglio nessuno
vicino ma ho il terrore di morire
sola mia.
Come se non bastasse, mia madre è morta per colpa di mio
padre, il quale ha
scelto la sua troia anziché sua figlia: sono uno spreco di
spazio e di tempo e
di ossigeno, Phobos, persino di terreno dove venire seppellita. Se
dovessi
morire, nessuno mi piangerebbe, nessuno se ne accorger-»
Un bozzolo caldo
l’avvolse, isolandola dal resto dei
suoi problemi.
«Io sì,
però» le mormorò
all’orecchio, abbracciandola
«… anche perché sei qui davanti ai miei
occhi, la vedo ben dura non notarti nel
caso in cui tu stramazzassi a terra ad arti tesi!»
«… Sei un
idiota».
«Non complimentarti
troppo, o potrei montarmi la testa
e »
«Io faccio discorsi seri
e tu mi prendi in giro!
Bell’amico che sei!» tuonò una Pitchiner
particolarmente indiNNNiata, cercando
di scrollarsi l’altro di dosso. Il rosso, però,
non mollava la presa nemmeno a
pagarlo.
«Uh-uh! Ricordami in
quale momento siamo passati da
“compagni di bevute e di autocommiserazione” ad
“amici”, perché me lo sono
proprio perso!»
«Mai! MAI! E ora mollami,
ho detto! Mollam-»
«Nnnnno, non ti mollo no,
anzi!». Se la strinse al
petto ancora più forte, iniziando ad accarezzarle la testa
«Eeecco, ti stringo
di più, così ti passa la crisi esistenziale:
credimi, sono un esperto in questo
genere di cose, per quanto -sfortunatamente- io non avevo nessuno ad
abbracciarmi, solo lui» indicò Thorax «a
tenermi al caldo. Per il resto…» si
bloccò qualche istante.
Subito, però, si diede
un colpetto sulla testa.
«Eh no! Ora stiamo
parlando di te, non del
sottoscritto, peeeeeer cuuuuuuuiiiii» iniziò a
darle dei bacini sui capelli
«vieni qui e fatti limonare la testa, Madre
Pretura!»
«Madre Natura!
NATURA!» ringhiò Emily Jane, tentando
inutilmente di richiamare qualche ramo a darle una mano per sbrogliarsi
da
quella presa impossibile da sciogliere. Nemmeno quelli funzionarono,
specie
perché Thorax li afferrava e spezzava prima che potessero
arrivare fra lei e
quel polpo appiccicoso.
«Smettila di fare il
deficiente! Smettila, per gli
dei! Smettila o giuro che-»
«Solo se mi prometti che
non ti dici di essere inutile
per il resto del tempo che io mi trovo qui» disse lui, pacato
e sorridente
«promettimelo, e forse potrei lasciarti andare».
«Che ti
frega?!!» tuonò la donna, sbuffando.
«Non
interessa a me e nemmeno a mio padre, di cosa io dica o pensi o faccia,
figurati se deve preoccuparsene un perfetto sconosciuto quale sei tu!
Non sono
affari tuoi, Phobos, non lo sono!»
«Ora che mi hai
raccontato la tua storia, però, sono anche
affari miei» precisò il rosso «anche
perché potremmo darci vicendevolmente una
mano, sapendo di avere dei disagi mentali che ci accomunano. Potremmo
trovare
un sostegno materiale e tangibile
l’uno nell’altra, insomma, un supporto non solo
metaforico».
La Pitchiner lo fissò
qualche istante, confusa.
Non era certa di aver capito cosa
intendesse per
“sostegno materiale tangibile”, non lo era per
niente. Era sicura soltanto che Phobos
volesse qualcosa di non meglio definito in cambio della sua vicinanza,
se così
si poteva chiamare: oro, forse, magari qualche tipo di possedimento che
lei
certo non possedeva, magie e incantesimi a lei sconosciuti, o forse era
interessato a… oh. Come
aveva a non
pensarci prima?
“È un uomo, ed
interessato a ciò a cui sono
interessati tutti gli uomini”, pensò.
Sospirò rassegnata, scuotendo
impercettibilmente la testa.
Senza dare mostra della sua
esitazione, afferrò i
lacci del corsetto dell’abito che aveva indosso, facendo per
levarselo e denudarsi.
Ignorare la sua mente era difficile, ma non impossibile; vero, non
aveva mai
giaciuto con uomo e mai lo avrebbe fatto, ma -ora come ora- scegliere
era un
lusso che non poteva permettersi: o apriva le gambe, o
l’unica speranza di
trovarsi un alleato sarebbe andata in fumo.
“Per il bene
superiore”, si disse, “e che Marigold
chiuda gli occhi, dovunque si trovi”.
Le mani tremanti le impedirono di
spogliarsi
velocemente quanto avrebbe voluto, ma alla fine riuscì
finalmente a slacciarsi
la veste; tirò un respiro profondo, poi-
«COSA
STAI
FACENDO PRECISAMENTEH?!!»
Sentì una coperta
atterrargli direttamente in faccia;
colta di sorpresa, Emily finì per terra, avvolgendosi nella
stoffa come un
involtino primavera.
«Ma che
diavolo-»
«Scostumata! Deprevata!
Meretrice! Facilina! SABRINA
INTERVIENI!» le urlò contro Phobos, gridando e
gesticolando e
correndo per la stanza come un babbuino
impazzito. «Cosa credevi di fare, eh? Maniaca sessuale!
MANIACA!»
L’altra si rimise in
piedi, non senza una certa
fatica. Lo guardò interrogativa, perplessa, con gli occhi di
chi non sta
capendo un cazzo di niente: sapeva che gli uomini erano strani, sapeva
che
erano inclini alla depressione in mancanza di un orifizio in cui
sfogare le
proprie pulsioni sessuali, ma addirittura bipolari!
Ringraziò il cielo che non
le piacessero.
«Si può sapere
che ti prende?» gli domandò,
sinceramente confusa da quell’assurda situazione e reazione,
le mani strette
intorno all’abito.
Lui le gettò uno sguardo
addosso come se avesse appena
bestemmiato in chiesa.
«Cosa mi
prende?!!» ripeté, stizzito. «Credevo
fosse
abbastanza palese, ma lo ripeterò: mi prende che ti stavi
spogliando davanti a
me, per gli dei! SPOGLIANDO! Stavi denudandoti vai a sapere il
perché! Ho
capito che sono affascinante, però mi pare un
tantino-»
«Aspetta-aspetta-aspetta»
lo interruppe lei,
corrugando la fronte «mi stai dicendo che tu non vuoi fare
sesso con me?»
«Quando avrei detto che
voglio fare sesso con te, di
preciso?»
«Come sarebbe
“quando”? Prima hai detto che-
fermiamoci tutti un attimo» aprì le braccia, come
a dare lo “stop”. Respirò profondamente
qualche minuto, assicurandosi di tornare a ragionare lucidamente
«Prima tu cosa
intendevi per sostegno “materiale e tangibile” e
supporto “non solo metaforico”
fra di noi, precisamente?»
«Intendevo che avremmo
potuto diventare alleati e
darci una mano a vicenda, essendo accomunati dalla voglia di vendicarsi
della
stessa persona» spiegò il rosso
«cos’altro avrei dovuto intendere?»
Silenzio.
Poco dopo, il rumore del palmo di
Emily Jane che
impattava sulla sua fronte si fece largo nella stanza, insieme alla sua
risata.
«Aaaaaaaaaah! Intendevi quel genere di supporto!»
esclamò sorpresa e divertita
contemporaneamente, finalmente conscia del malinteso. «Avevo
capito che tu
volessi scoparmi in cambio del tuo aiuto, ecco perché stavo
per offrirti la
possibilità di possedermi! Non che avrei avuto piacere nel
farlo, ma la scelta
era ben poca».
«T-tu s-st-stavi
p-p-per… d-da-da-darme… la…
?»
balbettò Phobos, gli occhi ridotti a due pozze
d’acqua nelle quali stava
annegando. «… M-me la s-stavi p-per…
d-dare… s-sta-stavi p-pe… per-»
«Eh già, ma
ora ci siamo capiti! Meglio così! Anche
perché sono lesbica».
«Oh».
Ed ecco il colpo di grazia.
In quel momento, quel povero
disgraziato sentì il
mondo fermarsi: non solo quella sua stramaledetta lingua lunga -che
avrebbe
potuto utilizzare per ben altro!- gli era costata una scopata, non solo
lui
-pirla!- non aveva approfittato subito per correggere la sua
interlocutrice e
ribaltare la situazione, ma ora lei gli veniva pure a dire di essere
lesbica!
Lesbica! Addio qualsiasi chance di trombarsela!
Gli scese persino una lacrimuccia,
per quell’erezione
perduta: altro che Abisso, erano quelli
i veri dolori della vita!
«Tutto bene?»
gli chiese Emily, risvegliandolo da quel
suo stato catatonico.
Ormai rassegnato, annuì:
non poteva averla, del resto,
tanto valeva mettersi il cuore in pace una volta per tutte.
«Ne sono contenta, anche
perché volevo chiederti
delucidazioni su questa nostra alleanza volta
all’eliminazione di Harmonia… se
non sei troppo impegnato a piangere ripensando alla mia
omosessualità, ovviamente»
lo ammonì ridendo, immaginando già -e
c’entrando bene- a cosa fossero rivolti i
suoi pensieri dopo quella scottante rivelazione.
«Intendo che tu una mano
a me puoi pure darla, hai
detto di possedere dei poteri non indifferenti, inoltre hai
loro» indicò
Thorax, più un paio di altri leoni che erano da poco saliti
in casa «mentre io…
io…» fece una pausa, sospirando «io non
sono in grado di fare nulla più di ciò
che hai mostrato, se non meno: mi chiamano ancora “Madre
Natura”, ma nelle mie
condizioni attuali non potrei essere più distante da quel
titolo. Non posso
aiutarti, Phobos, non senza i miei poteri al completo».
«E non
c’è modo di recuperarli in alcun modo,
ormai»
rifletté lui ad alta voce.
«Nessuno,
assolutamente» confermò l’altra
«non posso
mica fare irruzione nel tempio di Quetzalli su di un carrarmato mosso
da un
motore a gatto imburrato, indossare un passamontagna e stringere fra le
mani un
Super Liquidator 5000 gridando “O lo scettro, o la
vita!”, sarebbe-»
«… Tu mi stai
dicendo che il tuo scettro non
è andato distrutto?» la interrogò il
rosso, strabuzzando gli occhi.
«Al contrario,
è stato distrutto trent’anni or sono
dalla regina di Phantasia, come sai già. Mi ascolti o no,
quando parlo?»
«Ma hai appena detto che
esiste ancora!»
«Se con
“esistere” intendi che lo scettro si trovi in
condizioni di essere utilizzato allora no, non esiste più.
Se invece mi stai
chiedendo se sia in uno stato tale da dirsi fisicamente tangibile,
allora sì,
esiste ancora» puntualizzò.
«Harmonia lo distrusse,
lo ridusse a pezzi e lo rese
un comune bastone di legno, ma era pure conscia che -con la magia
giusta-
sarebbe stato possibile rimetterlo insieme e riportare totalmente
indietro i
poteri di Madre Natura. E soprattutto sapeva che, nelle mani sbagliate,
un
potere del genere avrebbe significato il caos. Letteralmente.
Non puoi nemmeno immaginare di cosa fossi capace, e
non usavo nemmeno il cento percento del mio potenziale! Tipo Jiren che
silenzioso silenzioso e poi ZACCHETE! Fa il culo alla vostra scimmia
con
l’Ultra Istinto!» affermò gonfiando il
petto e ridacchiando. L’altro, però, non
la imitò. «Consapevole del pericolo, Harmonia
consegnò e assicurò
l’incolumità
dello scettro alle Ophidiands, affinché lo custodissero
nella loro città blindata
a chiunque non vi abiti: Quetzalli, appunto. Che io sappia è
ancora là, e-»
Le arrivò una scarpa
dritta dritta in mezzo alla
fronte.
«E POTEVI DIRMELO
PRIMA!» tuonò Phobos, evidentemente
alterato.
«Hai fatto fino ad ora a
lagnarti di come avessi perso
completamente i tuoi poteri, a dirmi che era impossibile riaverli
indietro, a
farmi spremere le meningi per cercare di trovarti
un’utilità, e poi cosa
succede? Te ne esci
dicendomi “Ehi!
Guarda che con i mezzi giusti si possono recuperare eccome! Possiamo
fare il
culo ad Harmonia ma preferisco tenermelo per me!”, e me lo
dici solo adesso!
ADESSO!»
«Prima non me lo hai
chiesto» lo corresse lei,
indifferente.
«Io prima non te
l’ho… ? MA IO TI RENDO CALVA! TI
STRAPPO I CAPELLI UNO PER UNO! GIURO CHE TI- calmo, calmo, devo stare
calmo.
Devo. Calmarmi» si suggerì da solo, massaggiandosi
le tempie. «Va bene, va bene….
innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa» si riempì i polmoni
d’aria, respirando profondamente
«eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa» fece lo stesso,
però buttando fuori l’aria di
prima innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa…
eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa… innnnnnsp- MA
PORC-»
«Se non ci dai un taglio
te ne tiro un altro, di
schiaffo».
Ci fu un attimo di imbarazzante
silenzio fra quei due,
durante il quale -fortunatamente- Phobos smise di respirare
così rumorosamente
da rendere difficile persino pensare, per la povera figlia
dell’Uomo Nero.
«Va bene, ora sono calmo
e non ho più voglia di
metterti le mani al collo» la rassicurò sorridendo
«ma ora torniamo a noi.
Dicevi che il tuo scettro si trova a Quetzalli, che è
considerata una città
blindata, uh? Quanto lo è, precisamente?»
«Abbastanza
perché nessuno osi metterci piede. Non so
il motivo di questo isolamento dal mondo, so solo che è
immersa nella foresta e
circondata da vulcani, oltre che costantemente presieduta da guardie
che
sorvegliano tutta la lunghezza dei confini. Sono una razza di donne
naga
guerriere, non hanno poteri vari ed eventuali ma non sono nemmeno da
sottovalutare».
«Non hanno poteri,
dici?»
«Non che io
sappia» fece spallucce Emily «e non sono
nemmeno originarie di Phantasia o di Exodus, aggiungo: le Ophidiands
nacquero
dall’unione fra il dio azteco Quetzalcoatl e la mortale
Medusa, una donna greca
colpita da una maledizione che la rese per metà serpente. Si
unirono in
matrimonio e giacquero insieme, e lei rimase incinta del dio; ebbero
una sola
figlia, Axechasti, “evento memorabile”, per
metà divina e per metà mortale. Mortale
come sua madre, del resto» raccontò.
Vedendo che l’altro
pareva interessato, decise di continuare.
«Approfittando della
mancanza di Quetzalcoatl, andato
a presentare la figlia al resto del suo pantheon perché gli
dei le donassero l’immortalità
come regalo di nascita, un gruppo di umani guidati da Perseo
s’intrufolò nella
dimora dei coniugi per uccidere Medusa: il tempo di decapitarla e
fuggire, e suo
marito tornò. Furioso e reso cieco dal dolore, Quetzalcoatl
decise allora di
portare la sua unica figlia il più lontano possibile dalla
Terra, in un luogo
dove gli uomini che gli avevano già portato via sua moglie
non potessero raggiungerla».
«Exodus?»
«Esattamente.
Portò Axechasti su Exodus e lì la
crebbe, ma arrivò un tempo in cui lei espresse a suo padre
la volontà di avere
dei figli a sua volta; Quetzalcoatl, tuttavia, era contrario: mai e poi
mai
avrebbe riportato sua figlia sulla Terra, tantomeno avrebbe permesso
che lì qualche
uomo si prendesse la sua innocenza e poi la reclamasse in sposa.
Tuttavia, vedendo
quanto lei soffrisse del suo rifiuto, alla fine trovarono un
compromesso: Axechasti
avrebbe avuto dei figli, ma senza che chicchessia la possedesse mai. La
dotò di
un apparitore riproduttore maschile, oltre a quello femminile
già in suo
possesso, rendendola ermafrodita: in quel modo poté
riprodursi e avere degli
eredi come desiderava, ma senza l’aiuto degli uomini che suo
padre tanto odiava.
E fu così che nacquero che Ophidians, quando lei
partorì».
«E come ha fatto
a… a…» balbettò Phobos,
più rosso più
dei suoi stessi capelli «a fare… sì
insomma… quella cosa lì…
cioè… dai-»
«Le Ophidians possono
ingravidarsi autonomamente,
essendo appunto ermafrodite possiedono sia il seme che
l’ovulo necessario a
farlo. Ne basta una sola per iniziare una stirpe intera, ma
sarà sempre e solo
una discendenza femminile: non esistono uomini, a Quetzalli, non
possono
esistere, così ha decretato Quetzalcoatl e così
sarà sempre».
L’altro la
guardò qualche istante, silenzioso, poi
scoppiò a ridere.
«Com’è
che sai tante cose sulle Ophidians? Una di loro
è stata la tua fidanzata per caso?»
“La mia fidanzata
è morta e defunta”, avrebbe voluto
rispondergli, ma se lo tenne per sé: non era pronta ad
aprirsi sul discorso
Marigold, non lo sarebbe mai stata e non voleva esserlo.
«Fortunatamente
no» si limitò a borbottare Emily Jane
«mi ero solo informata per capire se avessero qualche punto
debole particolare
tempo fa, intenzionata com’ero a ripiegare
sull’uccidere Myricae per
danneggiare Harmonia».
«Almeno ne hai trovati,
di punti deboli?»
«Non che possano essere
definiti tali, no» riferì «il
loro corpo è un fascio di muscoli, hanno serpi al posto dei
capelli, qualcuna
secerne anche un veleno più o meno potente -raramente
mortale, però- in
quantità più o meno elevata, e la maggior parte
di loro sa combattere
eccellentemente. L’unica mancanza che hanno è
quella di poteri magici» si fece
pensierosa, poi schioccò le dita come se avesse avuto
un’illuminazione «e di
alleanze, anche quello: si tengono lontane da chiunque, le Ophidians,
Harmonia
comp-»
«Mi stai dicendo che non
hanno l’appoggio di Harmonia?
Ho capito bene?» domandò Phobos, alzandosi di
scatto dal divano.
«Beh, sì,
quando dico che rifiutano la vicinanza di
chiunque intendo proprio tutti-tutti, anche della Regina di
Phantasia» rispose
lei. Sollevò un sopracciglio, perplessa «Ma
perché ti-… aspetta. Non dirmi che
stai seriamente prendendo in
considerazione l’idea di andare a Quetzalli!»
Da parte del rosso non provenne
nessuna risposta, solo
un sorriso compiaciuto.
«Tu lo stai pensando per davvero!» gli
gridò contro, schizzando in piedi e mettendosi le
mani nei capelli dall’esasperazione. «Cerca di
essere serio, cristo! Pensaci!
Non puoi farlo oggi, né domani, né mai!
È un’impresa impossibile! IMPOSSIBILE!»
«No, non lo
è» le disse indifferente.
«Lo è,
invece!» controbatté. «Metti pure caso
che
riuscissi miracolosamente a prendere lo scettro, cosa accidenti te ne
faresti,
dopo? Sicuramente non conosci incantesimi sufficientemente potenti per
rimetterlo insieme e renderlo utilizzabile, quella è roba
magica che compete a
gente tipo chi se ne sta lassù» indicò
la Luna fuori dalla finestra «non certo
a te! Nemmeno a me!»
«Sei davvero sicura che
io non conoscenza suddetta
roba magggica, uh?»
«Al cento percento,
Phobos, non puoi farcela» asserì.
«Sicura sicura?
Abbastanza da scommetterci sopra?» la
provocò. Tirò fuori un sacchetto di monete
d’oro che riversò sul tavolo
«Venghino, signore! Venghino! Sono aperte le
scommesse!»
«Ah! Al diavolo te e la
tua arroganza!» sbottò
l’altra, ormai stanca da tutte quelle sceneggiate. Si diresse
verso il
corridoio che portava alla sua stanza «Io me ne vado a
dormire, tu fai ciò che
preferisci: sbronzati ancora, lavati nei legumi, fottiti Shajira, non
m’interessa. Se trovi un modo per mettere in pratica il tuo
folle piano, allora
fammi un fischio» concluse, oltrepassando la porta.
Il motivetto fischiettato della
marcia di Topolino
raggiunse le sue orecchie, facendole girare il capo.
«Cosa dovrebbe
significarmi?»
«Che fra qualche giorno,
ai tuoi alberi, appenderemo
teste di naga anziché lanterne».
Si scambiarono uno sguardo
indecifrabile, non si
capiva bene se fosse d’intesa o più di profondo
disaccordo, ma nemmeno una
parola volò fra di loro, nemmeno un respiro: il tempo parve
essersi fermato,
bloccato, immobilizzato, come intimidito dalla tensione che
c’era fra i loro
occhi.
Infine, fu Emily Jane a prendere
parola.
«Sarà meglio
per te, se non vuoi che appena pure la
tua, di testa» lo avvisò semplicemente; si chiuse
la porta alle spalle.
E pregò che avesse
dannatamente ragione.
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Angolino dell’autrice
Niente strani suicidi, niente
divinità ambigue e
mentalmente disturbate dai dubbi gusti gastronomici, niente traumi in
giro:
tutto è tornato alla normalità, insomma. Compresa
la quotidiana dose di dramma
e altarini scoperti, adoVo troppo scoprirli! :’D
Il titolo del capitolo,
“Exulansis”, indica il momento
in cui ci si arrende nel raccontare la propria storia perché
l’altro non sta
ascoltando, trovandosi a parlare letteralmente al vento senza la
pretesa che
importi a qualcuno, continuando a farlo più per sfogarsi che
per altro,
insomma: considerando il contenuto di suddetto capitolo, non potevo
trovare
nulla di più appropriato!
Detto ciò non ho nulla
da aggiungere, ne approfitto
giuro per ringraziare chi segue la storia, chi legge e chi recensisce
(nonostante il curry del capitolo scorso :’D), fa sempre
piacere :)
Alla prossima!