Film > Le 5 Leggende
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Autore: Neferikare    03/02/2018    2 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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«Chi va via perde il posto all’osteria!»

«La padrona è tornata e la poltrona va ridata!»

«La chiave ce l’ho io e il posto resta mio!»

«Io torno dal Campidoglio e la poltrona la rivoglio!»

«Dove minchia sta il Campidoglio?»

«Te lo dico solo se ti levi dalla mia sedia».

«Altriment-­»­

Nemmeno il tempo di terminare la frase, ed uno spesso viticcio verdognolo coperto di foglie afferrò la caviglia del rosso, sollevandolo a mezz’aria. Con eleganza degna di una regina quale lei era, finalmente Madre Natura posò il proprio regale fondoschiena sulla sua amatissima ed enorme poltrona sgualcita.

«Altrimenti quello» commentò stizzita, sistemandosi.

«Si può sapere perché non potevo starmene seduto lì?» domandò un povero Phobos ancora sottosopra. Incrociò le braccia al petto «Chi arriva primo meglio si accomoda, la regola è questa!»

«Lo è, di solito, ma questo posto» accarezzò la stoffa «è mio. Mio. Solo e soltanto mio».

«E perché? È un posto come un altr-»

«Non osare dirlo» tuonò lei, cupa.

La giovane Pitchiner alzò leggermente la mano, muovendo l’indice verso di sé; immediatamente, il ramo che reggeva l’altro parve obbedirle, portando l’uomo sufficientemente vicino da potergli afferrare il mento con le lunghe ed esili dita.

«Non è una poltrona qualsiasi, questa, è la mia poltrona» precisò di nuovo. Batté con entrambe le mani sula propria seduta «D'inverno quel posto è così vicino al termosifone che staremo al calduccio, ma se uno vuole sudare dovrà abbracciarlo. D'estate sta su una linea di corrente fresca che si ottiene aprendo sia quella finestra» indicò la vetrata vicino alla porta d’entrata «che quell'altra» e poi quella dal lato opposto. «È di fronte alla tv, ha un'angolazione che non scoraggia la conversazione ma non implica neanche la distorsione del parallasse, visto che non è lontana. Potrei contin-»

«Di che problema soffri, precisamente?» la bloccò l’altro dondolando la testa, a metà fra il rassegnato e lo spaventato.

La donna lo guardò orripilata, terrificata, quasi offesa.

«Tu stai insinuando che abbia problemi emotivi inconsci che influenzano il mio comportamento, tanto da farmi aggredire le cose e le persone che minacciano la mia autorità di regina? Ho capito bene od ho capito giusto?»

«Io insinuo di non essere quello mentalmente più toccato fra i due, più che altro».

«Facevi il bagno nei fagioli, Phobos».

«… Traaaaanne che in quell’occasione, lì ero decisamente il più mentalmente più toccato dei due» convenne lui con un velo d’imbarazzo, arrossendo. «Ma non lo sono ora, comunque. Non sono finito quaggiù per mia volontà, non so nemmeno come ci sono arrivato, ma una cosa la so: eri meglio da ubriaca, sembravi meno socialmente disturbata».

«Ah! Il bue che da del cornuto all’asino, proprio!» gli urlò contro Madre Natura, infastidita da paragoni del genere. Gli piantò addosso uno sguardo truce «Dovresti essermi profondamente grato per l’ospitalità, e soprattutto per la pazienza: è raro che qualcuno metta piede in casa mia e riesca ad uscirne ancora con tutte le dita al loro posto, o che riesca a uscirne in generale» “o almeno, lo era un tempo, ora sei più pericoloso tu per me che io per te”, avrebbe voluto aggiungere, ma si limitò a pensarlo.

«La gratitudine non è il mio forte, lo ammetto. Ho altre doti, io».

«Tipo?» domandò lei, incuriosita.

L’altro le sorrise fiero, visibilmente compiaciuto. Non senza poco sforzo cercò di issarsi al sottile ramo che lo tratteneva per la caviglia, fino a poterlo afferrare con la mano recante il marchio di Apophis; ci riuscì, infine. Qualche istante, e di suddetto ramo rimase solo la cenere a terra.

Poi dettagli se il rosso non aveva tenuto conto che -bruciandolo- si sarebbe spiaccicato sul pavimento, una botta in testa non poteva che fargli bene.

O comunque non poteva peggiorare nulla, considerando che il limite del “peggio” era stato superato da un pezzo.

Si alzò da terra, si pulì i vestiti, poi aprì le braccia per mostrare tutta la sua presunta magnificenza.

«Tipo questo, vostra maestà».

Emily Jane lo squadrò qualche istante, sul volto un’espressione sorpresa che mascherava a malapena dietro quella patina da persona ben poco impressionata. O da regina che mal accettava il fatto di aver avuto l’ennesima dimostrazione che i propri poteri facessero cilecca.

«Ti odio» si limitò ad asserire, il viso imbronciato e le braccia al petto. Vedendo che l’uomo stava per controbattere, lo zittì in partenza mettendogli un dito sulle labbra «Ma sono grata a lui» gli indicò Thorax, accarezzandolo e prendendosi di rimando fusa goduriose «per la lezione data a mio padre e ad i suoi stupidi equini qualche tempo fa, quindi per questa volta ritieniti fortunato».

«Non mi taglierete la testa, dunque?» chiese lui fingendosi afflitto e disperato e in lacrime, gettandosi al contempo ai suoi piedi per baciarglieli e così inscenare una richiesta di grazia che il Medioevo poteva accompagnare solo.

Scosse la testa, rassegnata.

«Non oggi».

 

In millecinquecento anni di vita come Madre Natura, Emily Jane aveva conosciuto e classificato un numero non meglio definito di persone tutte diverse e uniche fra loro, ma con un singolo denominatore comune: le stavano sul cazzo. E non poco.

Poi c’era Phobos.

Phobos, per gli dei.

Quell’uomo era riuscito a non farsi odiare dal primo istante, e -ad ora- nemmeno lei aveva ancora capito come avesse fatto.

Da brava lesbica acida e disinteressata al membro da che ne avesse memoria, Emily aveva sempre preferito tenersi debita distanza -da leggersi “a qualche centinaio di metri, meglio di chilometri” dal genere maschile, quella fetta di mondo che nulla aveva da offrirle che fosse degno delle sue attenzioni e che, ovviamente, lei ricambiava allo stesso modo.

Era una lezione che aveva imparato ben prima di rendersi conto di essere omosessuale, questa, una lezione puramente frutto degli insegnamenti di quel brav’uomo di suo padre, di quello che -in un tempo remoto, dimenticato, ormai tenuto insieme solo da dei ricordi confusi- era stato il generale Kozmotis Pitchiner. Sempre amorevole con sua moglie e sua figlia, che non aveva mai fatto mancare nulla a l’una o l’altra, ma al contempo mai disposto ad abbassare la testa di fronte alle ingiustizie o presunte tali, lui e quella sua spada che pareva gridare “JUUUUUSTIIIICEEEEEEE!” manco fosse Toppo dei Pride Troopers.

Cristo, quanto le faceva male guardare Dragon Ball Super, un hakai sarebbe proprio ciò di cui avrebbe avuto bisogno in quel momento. Dritto in fronte magari.

Ma poi un disgraziato gli era piombato in casa, nella doccia, le si era presentato davanti nudo e crudo mangiando fagioli, mentre si faceva il bagno nei fagioli, con un leone dalla criniera piena di fagioli, e allora -per un qualche mistero del cosmo- era riuscito a fare breccia nella corazza che quella benedetta donna si trascinava dietro da tempo immemore.

Un pochino, almeno, che se lo avesse fatto completamente avrebbe già cambiato sponda, da quanto si erano ubriacati ammerda.

Da parte sua, Emily Jane era rimasta ad ascoltare la sua storia per ore e ore e ore fino a perdere la cognizione del tempo, da quanto il racconto della vita dell’altro l’aveva rapita, e non si era pentita nemmeno un istante di aver usato il proprio prezioso tempo da regina per farlo.

Aveva sentito pronunciare il nome di Phobos ben poche volte, ad essere sincera, e ognuna di esse legata alla guerra contro Apophis di settecento anni prima. Vuoi perché lei ai tempi fosse troppo occupata a maledire Marigold per essersi trascinata il Seme all’inferno, vuoi perché il conflitto che aveva investito la Terra fu solamente la punta dell’iceberg di quello avvenuto a Phantasia, vuoi perché semplicemente lei se ne sbattesse il cazzo di qualsiasi cosa non la riguardasse, ma per Emily Jane stare lì seduta in assoluto silenzio era stato come guardare un film mai visto prima, sorprendendosi per ogni singolo particolare.

Era arrivata la sorpresa, sì, e con essa pure un minima, insignificante, frivola, consapevolezza: aveva pazientemente atteso che il piatto della sua vendetta si freddasse per trent’anni, anni passati nella miseria e nell’ombra del titolo di Madre Natura, ma forse, forse, adesso aveva trovato chi l’avrebbe aiutata a consumare quella dolcissima portata.

Certo, non aveva ancora detto nulla all’altro, ma quando gli aveva sentito pronunciare il nome di Harmonia vicino alla parola “uccidere”… beh, quella era stata la ciliegina su una torta vecchia di tre decenni, una torta ormai rancida che sperava, sapeva, sarebbe tornata commestibile una volta bagnata col sangue della Regina di Phantasia.

Avrebbe ripreso ciò che le spettava di diritto, eccome se l’avrebbe fatto! E poi-

 

«Altri faciola?»­

E poi avrebbe mangiato altri fagioli, sì.

Emily Jane sobbalzò sulla sedia, da come il rosso l’aveva colta di sorpresa, spezzando inconsapevolmente la bolla mentale insonorizzata nella quale lei si era rifugiata per sfuggire a quella realtà fatta di allucinazioni e fallimenti, e l’aveva fatto con la stessa brutalità con la quale un bambino lascia il ventre della madre al parto.

Ricompostasi, l’aveva guardato malamente per qualche istante, come per assicurarsi che capisse di averla disturbata e che no, dopo la figuraccia di prima i fagioli non sarebbero serviti a ricucire il suo orgoglio.

«Altri faciola, sì, così tra un po’ mi uscirà una pianta di quegli stramaledetti legumi dalla bocca e inizierò a gridare “ucci, ucci, sento odor di alcolizzatucci”!»

«E il tuo naso sentirebbe pure l’odore giusto, considerando quello che abbiamo combinato» rise lui, indicandole le bottiglie vuote diligentemente accatastate in alcuni sacchi neri sull’uscio. «Sono sincero, non credevo reggessi tanto bene l’alcol, ti facevo più-»

«Fine ed educata, silenziosa e accondiscendente, premurosa e affettuosa, interessata alle “cose da regine” e meno alla birra, al caviale estratto da uno storione millenario cresciuto in un lago fatato a polvere incantata e mentine piuttosto che alla frittata di cipolle. Volevi dire questo, forse?»

L’altro annuì.

«Bene: non lo sono. E se vuoi saperlo sì, ho già smaltito la sbornia, altrimenti anziché stare ad ascoltarti ti sarei molto probabilmente saltata addosso, per fare cosa non è dato a sapere» fece una pausa «fortunatamente».

«Fortunatamente, sì» convenne Phobos, ridacchiando «anche perché -per quanto reputi interessante l’esperienza- abbiamo avuto e abbiamo ancora ben altro da fare, e mi duole ammette che questo “ben altro” è più importante di un coito perduto… iddio, non credo di averlo detto veramente, devo essere impazzito».

Si accasciò sul divano, stiracchiandosi e allungando gli arti similmente a quanto stava facendo Thorax a terra.

«Tu sai tutto di me, adesso».

«È vero» confermò Emily «o almeno: io so ciò che ti ricordi pure tu, vuoti a parte, per essere precisi».

«Ecco, sì, c’è anche quel dettaglio. Ma dubito che ti infastidisca, altrimenti mi avresti buttato fuori a calci in culo appena ti sono apparso in doccia; sempre che non fossi troppo presa a guardarmi i bassifondi» con gli occhi, si indicò l’inguine «s’intende».

La giovane Pitchiner divenne più rossa del sangue che colava dalla bistecca in bocca al leone.

«Io non-»

«Suvvia, non temere: non ti giudico, so bene che effetto faccio alle donne» la rassicurò agitando le braccia. Lasciò cadere la testa all’indietro, così da poter guardare dritta in faccia la donna «Tu sai chi sono io, ora, ma io non so chi sei tu»­.

«Tu sai benissimo chi sono» controbatté lei, avvicinandosi «sono Emily Jane Pitchiner, sono Madre Natura, sono la regina di Tandokka. Come ho detto, tu sai-»

«Che vuoi vendicarti di Harmonia proprio come lo voglio io, ma -francamente- mi sfugge il perché» l’interruppe «specie perché tu sei quaggiù sulla Terra, mentre lei è lassù a Phantasia: non dovresti c’entrare nulla con quella donna, eppure da come parli pari provare verso di lei tanto astio quanto ne provo io, il che è incredibile dal momento che quello sbattuto nell’Abisso è stato il sottoscritto. Se c’è sotto qualcosa, allora io voglio, pretendo, di saperlo».

«Pretendi?»

«Pretendo, sì: cosa credevi, che ti avrei raccontato della mia storia tanto per confidarmi?»

Lei non rispose, limitandosi a deglutire faticosamente.

No, certo che no, aveva intuito eccome che il suo turno per parlare sarebbe arrivato, ma non si era mentalmente preparata, non avrebbe potuto farlo neanche se si fosse impegnata: non aveva mai raccontato a nessuno nei dettagli di cosa fosse accaduto quel maledetto giorno, figurarsi se si fosse messa a raccontarlo a qualcuno appena incontrato! Ai tempi, persino suo padre si era accontentato di spiegazioni vaghe e confuse sulla vicenda, e -per il rapporto che aveva con sua figlia e per quanto le importasse delle sue stronzate- quelle erano bastate e avanzate.

Solo che lì non c’era suo padre, c’era Phobos: un perfetto sconosciuto, un uomo che era capitombolato nella sua vita totalmente a caso, forse il suo prossimo alleato. E non poteva permettersi di perderlo, soprattutto per un banale moto d’orgoglio.

«… È iniziato tutto trent’anni fa».

Le parole le uscirono dalla bocca quasi inconsapevolmente.

Non ricordava di aver sentito i muscoli del proprio volto darsi da fare per farle muovere le labbra, né tantomeno aveva avvertito le corde vocali vibrare per creare i suoni che aveva appena sputato e messo insieme in quella frase: aveva parlato, tutto qui, e ormai era troppo tardi per retrocedere.

Da parte sua, Phobos si sedette più o meno composto e si rivolse verso di lei, sempre mantenendo un religioso silenzio come l’altra aveva fatto a suo tempo.

Non si lamentò dei lunghi minuti di pausa che Emily si stava prendendo, semplicemente restò lì fermo con le mani giunte. Lei, invece, le mani le stava tenendo sull’abito che le cadeva morbido sulle gambe, le unghie conficcate sulle cosce che parevano poter squarciare la stoffa da un momento all’altro.

«È successo molto tempo fa, dunque» azzardò l’uomo, tentando di rompere il ghiaccio.

L’altra lo guardò impassibile, poi scosse la testa.

«Non per un immortale» rispose infine. «Dinanzi ai miei occhi, ai tuoi, trent’anni non sono che polvere, un granello di sabbia soffiato via dal vento di un tempo che non smette mai di scorrere, di soffiare, di imperversare su tutto e tutti… me compresa» sussurrò, le ultime parole che svanirono come scritte cancellate da uno straccio umido.

Decise di farsi forza.

«Allora, ero la creatura più potente che la Terra avesse mai visto: Madre Natura. Il mio nome era sulle labbra di chiunque, e quel “chiunque” temeva tanto la mia persona, quanto la mia ira. A buona ragione, aggiungo, non sono mai stata un tipo facile da prendere» iniziò a raccontare, nostalgica.

Si alzò dalla poltrona, avvicinandosi alle finestre.

«Avevo tutto ciò che una persona può desiderare e anche di più, molto di più: un regno che -sebbene fosse irrimediabilmente segnato dal passaggio di Apophis- riusciva ancora a dare una parvenza di regalità grazie alla mia magia» un sottile ramo coperto di germogli le avvolse il braccio «una magia che faceva fiorire i campi, e riempire gli alberi di foglie, e far crescere frutti maturi e succosi su piante ormai avvizzite» ci passò una mano sopra: immediatamente, dai piccoli boccioli fuoriuscirono dei minutissimi fiori grandi quanto viole selvatiche, di un acceso rosso corallo.

«Dei poteri immani, che mi consentivano di controllare il clima come un burattino sottomesso alla mia volontà, potevo addirittura organizzare pic-nic senza preoccuparmi di guardare il meteo perché -modestamente- il meteo ero io. E pensa che potevo creare dal nulla le peggiori catastrofi naturali, se ero arrabbiata, altro che la tempesta là fuori!» indicò il cielo, tornato scuro e nero per il nuovo acquazzone in arrivo.

Si bloccò qualche istante, lo sguardo catturato dal viticcio che aveva in mano: era già secco. “Alla faccia dell’essere Madre Natura”, pensò, ma ricacciò indietro presto i propri complessi d’inferiorità.

«Avevo persino un orgoglio, a quei tempi, un orgoglio che m’impediva di piegarmi a chicchessia pretendesse di venire a comandare a casa mia».

Phobos alzò la mano, come a prendere parola a scuola.

«Harmonia?»

«Harmonia, proprio lei» confermò la donna. «I poteri della Regina di Phantasia raggiungevano -e raggiungono- qualsiasi angolo del cosmo, direttamente o indirettamente, permettendo il proliferare della fantasia: ogni invenzione, ogni scoperta, ogni singolo libro che sta venendo pubblicato in questo preciso istante, tutto ciò avviene anche per merito suo. Senza la fantasia, l’uomo muore».

«Senza ossigeno, pure».

«Esatto! È la stessa identica cosa che ripetevo loro!» convenne un’Emily Jane particolarmente entusiasta, del resto quella era la prima persona fosse d’accordo con lei in decenni!

Il suo giubilo durò ben poco, però, per lasciare spazio ad un lato ben più oscuro di quella vicenda.

«Ma nessuno mi ascoltava, ovviamente. Ero diventata paranoica, vedevo nemici ovunque. Ovunque. A buona ragione, aggiungo: erano tutti dalla parte di quella sgualdrina, persino Manny -solitamente neutrale- si era schierato» si fermò, pensandoci sopra «anzi, togli Manny, quello è un caso a parte».

«Ah sì?»

Emily gli si avvicinò all’orecchio, come se stesse confessando chissà quale indicibile segreto.

«Io non ne so nulla, come puoi immaginare nessuno amava scambiare due chiacchiere o qualche pettegolezzo con me, ma voci di corridoio vecchie di settecento anni narravano che -a guerra terminata- l’Uomo nella Luna chiese ad Harmonia di diventare la sua sposa e regina consorte, e che lei rifiutò. Rifiutò un Lunanoff, te ne rendi conto?!!»

Lui fece segno di “no” con la testa.

«Ovvio che non te ne rendi conto, probabilmente sai a malapena cosa siano un Lunanoff» borbottò fra sé e sé, seccata. Batté sonoramente le mani, come a ristabilire l’ordine «Sia come sia, questo non cambia la situazione e non è un dettaglio importante, la conferma o smentita potrebbe darla solo quella zoccoletta equina».

«E non l’ha mai data, immagino».

«Immagini bene» convenne lei, decidendo di omettere il “non a me personalmente, almeno”.

Sorrise: ah, che gusto, che sollazzo!

La giovane Pitchiner non lo avrebbe mai ammesso, ma provava un certo piacere ad infamare quella centauressa che -a differenza sua- incarnava tutte le doti e le qualità di una sovrana giusta e amorevole, se lo faceva davanti ad altri poi era pure meglio, e non si sarebbe certo lasciata scappare quella succulenta occasione.

«Ma non mi sorprenderei affatto se una botta o due se le fosse fatte dare eccome, da Manny, non aveva certo di che perderci a farsi scopare da quello; per come la vedo io, Harmonia non è arrivata fin dov’è arrivata solamente sputando e sudando sangue, basta vedere com’è avvezza al farsi trivellare il culo da un’Ophidian ninfomane ermafrodita del resto!» rise.

Si aspettava che Phobos avrebbe fatto lo stesso, ma non fu così: di fronte al suo sparare giudizi random per via di antipatie vecchie quanto il mondo lui non aveva riso, era solamente rimasto impassibile, niente di più.

Aspettò ancora qualche istante, speranzosa, poi decise di lascia perdere.

«Comunque sia, in tutto ciò io ero diventata tremendamente paranoica, appunto; se prima vivevo serena e tranquilla a Tandokka, allora tre decenni or sono iniziai a temere che da un momento all’altro quella serenità mi sarebbe stata improvvisamente strappata via, e con essa tutto ciò che possedevo». Si cinse il torso con le braccia, le nocche rosse da quanta forza ci stava mettendo «Il mio regno, il mio titolo, i miei poteri… oh! Quanto temevo di perdere i poteri!»

«Sarebbe potuto accadere?»

«Certo. Certo che sarebbe potuto accadere, ed è accaduto!» gli rispose ad alta voce, gridando, quasi. Un tuono accompagnò l’atteggiamento maniacale da lei assunto «Sapevo che sarebbe successo, me lo sentivo dentro! Non potevo sbagliarmi, non io, non io che non sbaglio mai! MAI! Non-»

«E quindi cos’hai fatto?» la interruppe il rosso, non si sapeva se per sincera curiosità, o -più probabilmente- perché mosso dall’inquietudine che aveva iniziato a scorrergli nelle vene dopo quell’uscita da parte di Emily.

Quest’ultima non parve apprezzare l’interruzione, ma dovette farsela andare bene: prima si toglieva quel peso, prima sarebbe finita quella tortura.

«Feci l’unica cosa possibile: decisi di trasferire i miei poteri in un oggetto che avevo sempre con me, che potevo tenere d’occhio ventiquattr’ore ore su ventiquattro, sette giorni su sette, in modo che nessuno, nessuno, potesse privarmene. Ero ugualmente potente, ero sempre madre Natura, semplicemente avevo solo cambiato il contenitore dov’era riposta la fonte della mia magia da qua dentro» si mise una mano sul cuore «a qui» raccolse un lungo e spesso ramo da terra, alzandolo per mostrarlo al suo interlocutore.

Phobos lo guardò qualche istante.

«… Un bastone da passeggio?» chiese infine, confuso. E sempre più convinto di non essere lui il pazzo fra i due, anche quello.

«Uno scettro, cielo» lo corresse lei, esibendo un facepalm il cui suono riempì la stanza «che poi fosse solamente un pezzo di legno bianco impregnato di magia è un dettaglio, ma era uno scettro, era magico e, soprattutto, era mio».

«Era?»

«Era, sì».

«Dici “era”, ma perché non “è”? Come mai ne parli al passato? Se sei Madre Natura, allora devi per forza averlo da qualche parte, o hai nuovamente travasato i tuoi poteri da quel bastone al tuo corpo? E perché-»

«E perché non la smetti di fare domande?» sbottò isterica, interrompendolo.

Con tutta la calma del mondo, il rosso si alzò dal divano, dirigendosi verso la porta.

«Dove vai?» domandò l’altra, spaesata da quel comportamento; tre secondi prima se ne stava in silenzio ad ascoltarla come lei aveva fatto prima di lui, e ora decideva di levare le tende tutto d’un tratto! Che razza di comportamento era?

«Ovunque, ma non qui. Ecco dove vado, maestà» asserì senza girarsi, senza degnarla d’uno sguardo che fosse uno.

«Non puoi andartene».

«Posso, invece, e lo sto facendo» controbatté mettendo la mano sulla maniglia.

 «Non ti sta bene se faccio domande? Allora non aspettarti che mi faccia trattare come uno zerbino per ascoltare le tue risposte: a differenza tua, io ho ancora una certa dignità da mantenere, e non permetterò certo ad una sovrana lunatica di levarmela. Con permesso» cercò di aprire la porta, ma i rami non lo fecero passare. Poco male: gli bastò poggiarci una mano sopra e presero fuoco, liberandogli il passaggio verso l’uscita.

Il panico investì Emily Jane Pitchiner come un fiume in piena, travolgendola.

Avrebbe potuto, dovuto, fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non perdere quell’unica speranza di alleanza che avesse, e invece cosa stava facendo? Se ne stava immobile davanti alla finestra senza muovere un muscolo, gli occhi pietrificati che sembravano essere sul punto di uscire dalle orbite da un momento all’altro, da quanto erano spalancati per l’amara sorpresa di quella reazione.

 

“Fai qualcosa”, le disse la sua coscienza.

Lo vide esitare, sulla porta, aspettare un suo segnale per tornare indietro. O almeno così le parve, afflitta dalla disperazione nera com’era.

“Qualsiasi cosa”.

Non esitò più, adesso. Agli occhi di Emily, tutto appariva come in slow motion: il piede del rosso che si alzava dal pavimento, il corpo che -una volta che l’arto si staccava da terra- si muoveva impercettibilmente per bilanciarsi, le scarpe che toccavano di nuovo il suolo, questa volta fuori da casa sua, però. Tutto ricominciò daccapo, quando mosse l’altra gamba: passo dopo passo, lentamente e silenziosamente, la sua unica speranza stava uscendo dalla sua vita.

“Falla, per gli dei!”

«Harmonia ha distrutto il mio scettro, trent’anni fa».

 

Pronunciò quelle parole senza accorgersene, esattamente come aveva già prima, ma questa volta il suo cervello sembrò spegnersi subito dopo: sentiva tutto ovattato, vedeva le figure sfocate, toccava il davanzale per sorreggersi ma non lo sentiva. Era come intangibile, quasi… irreale.

Prima che il terrore che fosse tutta quanta un’enorme un’allucinazione potesse possederla, Emily avvertì una mano poggiarsi sulle sue spalle e accompagnarla sul divano; sentì un certo calore prima sulle gambe, poi fino al petto.

L’ombra che aveva davanti le mise fra le mani qualcosa di non meglio definito, e allora avvertì una pressione non indifferente sulle braccia.

«Non so te, ma accarezzare Thorax è utile per calmare i nervi: se non fosse stato per lui non sarei uscito più o meno sano di mente da sette secoli di Abisso».

Pazientemente, prese una mano della donna e gliela mise sulla criniera del leone nero, accoccolatosi sul suo grembo mentre spolpava un osso che lei gli teneva. Prima di riprendere parola, però, Phobos attese qualche istante.

«Ti dico un segreto: i moti d’orgoglio non portano da nessuna parte. Ci sono già passato, so come andrà a finire, e non è nulla di buono. Per cui adesso» le afferrò le dita bianche e dalle punte gelide, racchiudendole nelle proprie «sputa il rospo, Emilia GiannaH Pitchoner, che se lo ingoi poi non voglio nemmeno immaginare la bruttissima ulcera gastrica che ti procurerai. Specie perché sono velenosi: vuoi forse fare la fine del capitano Ginew, uh?»

«Segui Dragon Ball?» domandò Emily, improvvisamente svegliatasi da quel suo stato di torpore o, per dirla alla Phobos, “di rincoglionimento profondo”.

Lui fece un breve inchino, ridendo. 

«Team settimo universo, milady» rispose «e voi?»

«Universo undici, sir» rispose lei, stizzita, a quella che considerava una vera e propria bestemmia. Tirò un colpetto sulla spalla dell’altro «E ora abbiamo pure Toppo versione palestrata che lancia hakai come se piovessero, quel gatto nudo rachitico è fottuto esattamente come lo erano tutti gli altri membri dello zoo: presto o tardi, voi del sette finirete a fare compagnia all’inferno alla vostra lucertola effeminata di quel pacchiano color oro».

«L’oro non è pacchiano!» sbottò. «È alla moda!».

«Sì, quella dell’epoca vittoriana, forse!»

«Sempre meglio delle tutine aderenti che evidenziano la pancia da bevitore di birra di uno che grida “JUUUUSTISSSSSSHFUUUURAAAAAASH!” e lasciano ben poco alla fantasia, per quanto una persona sana di mente possa essere concentrata a guardare il culo di E.T. quando la nostra gente esce l’ultra istinto».

«Uscire Gogeta super sayan di quarto livello sarebbe stato più util- oooooops, che sbadata! La serie di GT non è canonica!» dicendo ciò, Emily si esibì in un plateale gesto dell’ombrello. I medi alzati da entrambe le mani arrivarono poco dopo «Fottetevi voi e le vostre fusioni!»

«Ti inviterei a leggere le sinossi con più attenzione, se posso permettermi, non ci serve Gogeta per prenderci le Super Sfere» la rimproverò il rosso con sorriso sornione «… Emily».

«Sì?»

«Come siamo finiti a parlare di Dragon Ball Super?» chiese grattandosi la testa.

«Non ne ho idea, ma mi stava piacendo. Tanto. Tuttavia…» la giovane Pitchiner tirò un profondo sospiro mentre faceva spallucce, sconsolata «… immagino che dovrò tornare a parlare delle mie disgrazie, ora, perché suppongo che tu voglia sapere come Harmonia abbia iniziato a c’entrare con la mia tragggica storia».

Il suo interlocutore non rispose, ma quel silenzio fu un “sì” abbastanza palese da calare come una mannaia su quello spiraglio di evasione e spensieratezza che era parso aprirsi fra di loro; non era triste, però: era durato poco, pochissimo, ma era durato.

E almeno sapeva che, se avesse avuto un bicchiere d’acqua nel deserto, allora lo avrebbe gettato per terra, anziché darlo a Phobos che moriva di sete: quell’uomo tifava per Beerus, iddio!

Ci fu qualche attimo di silenzio.

«Ero stanca di vivere nella paranoia e nella paura e nella consapevolezza che un’estranea pretendesse di mettere becco dove non le competeva, così decisi di affrontare la questione direttamente con l’interessata. Harmonia voleva mettere i propri zoccoli infangati sulla Terra? Allora io avrei piantato radici su Exodus. Come si dice fra i terrestri, “occhio per occhio, dente per dente”, ed io volevo tutti i denti di quella giumenta in calore per farmici una collana».

Thorax lanciò un ringhio di lamentela verso le dita della sua poltrona di carne che -preda ad un fiume di ricordi com’era- gli strinse troppo forte la criniera, tirandogli il pelo.

«Andai su Exodus, il suo pianeta, decisa a far valere la mia ragione tanto quanto lei pretendeva di far valere la propria sul mio, di pianeta, sulla mia casa» “di ripiego, perché certo non sono terrestre”, pensò fra sé e sé.

«Prendere Fairy Oak non fu poi così difficile: tocca i tasti giusti, e quella ragazzina schizofrenica di Alice Castle Wonderwood perde il controllo in un modo tale da farsi più male da sola di quanto gliene possa fare chicchessia. Soffre di personalità multipla o qualcosa del genere, talmente multipla che -ai tempi- finì per piantarsi una spada in ventre credendosi la nemica di se stessa, roba da matti!» Scoppiò in una fragorosa risata «E tutto ciò intanto che la vera nemica gliela faceva sotto il naso, scivolando come acqua fra le mura del suo castello e finendo per fare abbastanza danni da mettere in allarme la sua amyketta, la Regina di Phantasia» fece una pausa «e fu lì, che iniziarono i miei problemi».

Lasciò cadere lo sguardo sul pavimento davanti a sé, il volto contratto in un misto fra rimorso, imbarazzo e tanta, troppa, rabbia, ancora ardente come il primo giorno.

Strinse forte i denti, fino a sentire male da quanto sfregavano gli uni sugli altri: era arrivata a dover raccontare anche quel pezzo, alla fine; non che avesse scelta, in fin dei conti, si trattava solo di rimandare e rimandare e rimandare, di farlo ancora, e ancora, e poi di nuovo per chissà quanto tempo, per cui.

Inspirò talmente profondamente che i polmoni parvero essere sul punto di esplodere da un momento all’altro, come anche -espirando- sembrarono sgonfiarsi così bruscamente da essere stati risucchiati chissà dove.

«Ero convinta di poterla sconfiggere» mormorò «convintissima. Non avevo paura di lei, non la temevo in alcun modo, volevo solo combatterci e farle il culo a strisce, dimostrarle che non aveva capito che stava scherzando col fuoco e che -se avesse continuato- sarebbe rimasta bruciata, ma che del suo corpo carbonizzato sarebbe rimasta solo cenere».

«Immagino non sia successo, però» le fece notare Phobos.

Lei sorrise.

«No, infatti» confermò amaramente Emily Jane «successe tutt’altro. Quando iniziammo a combattere, Harmonia mi scartavetrò non poco le gonadi che non ho con discorsi strappalacrime: sul non dovermi sentire minacciata perché a lei della Terra non importava come io credevo, sul cambiare idea prima di pentirmene, sul fatto che non avessi idea di dove mi sarei infilata se avessi insistito, e bla bla bla. Tutte stronzate, insomma, stronzate alle quali risposi lanciandomi su di lei per strapparle la lingua dalla gola. “Così almeno smetterai di blaterare”, le dissi».

«E poi?»

«E poi iniziò una discesa a spirale verso l’oblio. Per me, però» asserì, quel sorriso che aveva ormai scomparso.

Girò la testa vero la finestra, ipnotizzata dal ticchettio della pioggia.

«Anche quel giorno pioveva, sai? Combattemmo a lungo, ma l’esito fu chiaro fin da subito. Menai fendenti a destra e a manca fino a non sentirmi più le braccia; evocai tralci spinati incurante del trovarmici a mezzo metro pur di intrappolarla in qualche modo; arrivai ad aizzare una tempesta che riempì il nostro campo di battaglia di fulmini e incendi -a causa degli alberi colpiti e bruciati- e fango. Ma Harmonia non cedeva».

L’eco di un tuono la interruppe.

«Resistette a tutto, tutto, non la vidi piegarsi nemmeno una volta. Quando le chiesi come facesse, lei mi rispose semplicemente che non poteva permettersi di cedere, che non voleva farlo e che mai l’avrebbe fatto, specie dinanzi a qualcuno che minacciava la sua gente di schiavitù e morte: era il benessere dei suoi sudditi a guidarla, l’istinto materno che aveva verso di loro, e che per quel motivo mai avrei potuto sconfiggerla».

«E infatti non ci riuscisti».

«Precisamente. Capisci bene che -a sentire quelle parole- io divenni furiosa, iraconda, ero talmente rabbiosa da volerle spaccare il cranio in due e berci un Margarita dentro; non solo pretendeva di comandare sul mio pianeta, non solo faceva la predica a me, ma aveva pure il coraggio di darmi lezioni di politica interna, rimproverandomi di come fossi fuggita durante la guerra contro Apophis e che tale comportamento non era da regina! A me! Alla sovrana di Tandokka! A Madre Natura! A quel punto, tutto ciò che volevo fare era ucciderla».

Nei suoi occhi si accese un bagliore inquietante, a tratti grottesco, una sorta di luccichio animalesco che mise i brividi al rosso.

«Era ferita, stanca, sanguinante, incatenata a terra dai rovi, completamente disarmata: sarebbe dovuto bastare poco, pochissimo, per darle il colpo di grazia… ma non bastò». Strinse i denti, come i palmi, fino a quando non iniziarono a farle male «Quando Harmonia iniziò la controffensiva, capii che era volontariamente rimasta a subire per darmi una lezione. “D’umiltà”, come la chiamava lei, ma era più un’umiliazione finemente nascosta da quella sua finta patina di perbenismo e ammmore» squittì mentre, con le dita, formava un cuore. «All’inizio non capivo proprio dove volesse arrivare, attaccava tutto tranne che me personalmente, tanto che -a fine scontro- erano più le ferite riportate dalle mie azioni sconsiderate rispetto a quelle inflittemi da quella maledetta mezza cavalla, credevo che il suo scopo fosse quello di farmi letteralmente impazzire!»

«E invece?»

«E invece puntava allo scettro. Ai miei poteri».

Un sottile rivolo di sangue colò dal suo palmo, da quanto le unghie stavano scavando nelle carni; non provava dolore, non sentiva niente di niente, forse perché le ferite della mente stavano bruciando più di quanto quelle fisiche potessero mai fare.

«Fu una cosa breve, brevissima, quasi non me ne accorsi. Un attimo prima ero lì ad infierire sul corpo martoriato della Regina di Phantasia gridando alla vittoria» guardò a la mano sinistra, alzandola «quello dopo ero lì, immobile, gli occhi rivolti al cielo plumbeo e la pioggia che mi sferzava il volto come tizzoni di carbone ardente, scavandomi profondi solchi lungo le guance» fece lo stesso con la destra. Infine, se le ripose in grembo. «Io, Madre Natura, me ne stavo stramazzata a terra, sfinita, senza più forze per alzarmi né magia ad aiutarmi, sdraiata a guardare il firmamento. Di fianco a me, Harmonia, che mi guardava dall’alto in basso con quella sua solita aria materna, compassionevole, tendendomi una mano, tsk!»

Si lasciò scappare una risatina.

«Non capivo né cosa fosse accaduto, cosa stesse accadendo, cosa sarebbe accaduto poi: ero solo stesa e guardavo il cielo, le gocce -ora meno pungenti- che mi accarezzavano il viso mi ricordavano che ero viva, ma c’era qualcosa di strano, di diverso, tanto nel paesaggio quanto in me… le nuvole si dissolvevano lasciando posto ai Soli di Exodus, la bufera stava tornando ad essere una leggera brezza, il rumore dei tuoni si faceva sempre più lontano. Tutto ciò che la mia magia aveva evocato stava svanendo, ed io-»

«Non ne capivi il motivo» l’anticipò Phobos, completando la frase.

Emily Jane annuì.

«Tuttavia, mi bastò girare la testa per vederlo, quel motivo: il mio scettro spezzato, ridotto in frammenti, distrutto, ora un comunissimo bastone di legno scheggiato e marcescente».

«Ed i tuoi poteri? Avevi detto che erano contenuti là dentro, quindi-»

«Perduti. Completamente perduti. Ciò che rimane di essi lo hai già visto, non riesco né posso fare di più col poco che sono riuscita a recuperare in trent’anni, e qui mi va già di lusso dal momento che a Tandokka qualcosina riesco ancora a fare» si bloccò, ripensando al ramo di prima, subito seccatosi «… qualcosina, appunto. Per il resto, quel giorno Madre Natura cessò di esistere. Ma la colpa non fu della cavallina storna, no di certo, fu mia anche in quel caso!»

Sbatté gli occhi più e volte, cercando di nascondersi alla bene e meglio da quelli del rosso infilando la testa nella criniera di Thorax: ricacciare indietro le lacrime era più difficile di quanto ricordasse.

Non si seppe se l’altro la notò o meno, stava di fatto che Phobos le poggiò una mano sul suo palmo per esprimerle la sua vicinanza. Lei però la ritrasse subito, fulminandolo con lo sguardo.

«Non ho finito di parlare» commentò con tono grave, quasi di rimprovero. Lui non commentò, limitandosi a riportare le mani sulle proprie cosce.

«Colpa tua, dici?» domandò poi, per rompere quel silenzioso imbarazzo.

«Colpa mia, sì, o così la vedono tutti. Harmonia mi tese una mano per rialzarmi, come ti ho detto, ma io la rifiutai cordialmente: sai cosa successe? Riuscii a rimettermi in piedi sulle mie gambe senza il suo aiuto, non le avrei certo dato la soddisfazione di dare mostra della sua benevolenza anche in quel momento! Alla fine, dunque, ci trovammo di nuovo faccia a faccia, una di fronte all’altra; a dividerci, i resti del mio bastone».

Tirò un sospiro annoiato.

«Mi propose un accordo: se io avessi accettato un giuramento vincolante sull’utilizzare i poteri da me posseduti in quanto Madre Natura solo ed esclusivamente a fin di bene, sul non tentare nuovamente di muovere guerra a chiunque si trovi fuori dalla mia giurisprudenza terrestre, sull’essere disposta a scusarmi e ammettere i miei errori, allora lei avrebbe rimesso insieme lo scettro e mi avrebbe restituito la mia magia. Dovevo solo scusarmi, Phobos, niente di più e niente di meno». Fece spallucce «Avevo attaccato brutalmente Fairy Oak, incendiato e devastato parte del suo regno, cercato battaglia mossa solo da stupide supposizioni e fantasie e paranoie, eppure la regina voleva solo e soltanto delle semplicissime scuse. Tutto qui».

All’ultima frase, il rosso sgranò gli occhi.

«… Ti prego, dimmi che hai accettato quei termini e non ti sei fatta prendere dall’orgoglio facendo la scelta più cretina e sbagliata di questo mondo. Ti scongiuro. Ti supplico».

«Vuoi sapere quale fu la mia risposta, eh?» ridacchiò la giovane Pitchiner.

Lui fece segno di “sì” con la testa, già pronto al peggio.

«Le sputai in faccia, ecco cosa le risposi» rispose lei tranquillamente, quasi vantandosi delle proprie discutibili gesta.

Si alzò, iniziando a camminare per la stanza gesticolando.

«Avrei potuto accettare tutto l’accordo, ad essere sincera: non avevo mire espansionistiche né sulla Terra né fuori da essa, non m’interessava ammazzare chicchessia dal momento che preferivo farmi gli affari miei a Tandokka, ma non mi sarei mai piegata a chiedere scusa ad Harmonia, mai. Mai. Se potessi tornare indietro rifarei tutto, non mi pento di essermi tolta la soddisfazione di vedere la mia saliva colare su quel bel visino angelico: sta con Myricae, c’è colato ben di peggio che la saliva, su quel volto!»

«Una gran soddisfazione, immagino» applaudì lui, basito «vedo bene i risultati: senza magia, senza amici, senza famiglia, sei una sovrana senza corona e senza regno, una donna senza dignità e senza pudore, se hai il coraggio di raccontare una cosa del genere e vantartene. Ora come ora, sono io ad avere una gran voglia di sputarti addosso: sei inutile, Emily, lo sei persino più di me, per gli dei! E ce ne vuole per-»

«Taci un attimo! Non hai ancora sentito la parte migliore che viene adesso!» lo interruppe lei, gracchiando entusiasta.

«Harmonia non prese bene quel mio affronto di lesa maestà, nossignore: era furiosa, incazzata come mai prima d’ora, ancora un po’ e le sarebbe uscita la schiuma dalla bocca come la cagna rabbiosa che è!»

«E… ?»

«E allora mi afferrò per i capelli, sollevandomi i piedi da terra e facendomi penzolare come una pignatta da quanto era imponente la nostra differenza d’altezza, prese la propria spada e ZAC!» imitò il gesto «dei miei lunghi capelli neri che toccavano il pavimento e fluttuavano nell’etere non era rimasto più nulla, non attaccato alla mia testa almeno» iniziò a ridere.

«Io caddi al suolo come corpo morto cade» si gettò sul divano «senza rendermi immediatamente conto del danno; sentii uno strano prurito sulla nuca, così me la toccai: abituata com’ero a sentire le dita scorrermi fra i capelli, immagina la mia faccia quando i capelli non li sentii più, trovando al loro posto questa» si toccò la testa per indicarla «distesa rada e disordinata. Lei era radiosa, non c’è che dire, teneva il marchio di fabbrica della sovrana di Tandokka fra le mani come se fosse un trofeo! Mi disse anche qualcosa però meeeeeh, non ci feci troppo caso, forse riguardo l’essere ancora in tempo per pentirmi… oppure… mh, non mi ricordo precisamente, sto diventando vecchia, dopo millecinquecento anni».

«… Dimmi che ti sei pent-»

«Col cazzo» lo anticipò.

«E infatti raccolse i resti del mio scettro, mi mise in piedi e m’invitò a seguirla; non so se fossi ancora troppo sconvolta o troppo persa nella mia mente a dirmi che avevo preso una pessima decisione, ma non opposi resistenza e lo feci volontariamente, camminandole di fianco diligentemente ed in rigoroso silenzio».

Si asciugò gli occhi da quanto stava ridendo.

«Girammo tutte le strade principali del suo regno così, con la Regina di Phantasia che sfilava accompagnata da Madre Natura; il mio bastone nelle sue mani, i miei capelli nelle mie. Laggiù certo non mi conoscevano, probabilmente pensarono tutti che fosse una passeggiata e niente di più dal momento che mi salutarono pure, ma lo scopo di Harmonia non era certo offrire uno spettacolo alla sua gente. Voleva assicurarsi che la walk of shame alla quale mi aveva sottoposta me la ricordassi in eterno, così da non commettere più certe stronzate, ecco cosa».

Si fece pensierosa.

«… Non che potrei farlo, anche volendo, non riesco nemmeno a far fiorire una margherita».

Scoppiò in una fragorosa risata, folle, rumorosa, talmente tanto da coprire persino il temporale che imperversava fuori dall’Albero di Olduvai.

«Ma la cosa ancora più incredibile è che non possono più ricrescermi, dal momento che Harmonia mi fece un incantesimo “ad aeternum”, allora, uno di quelli che oltrepassano i confini dello spazio e del tempo e non possono essere spezzati da nessuno in nessun caso e in nessun luogo, nemmeno da chi l’ha fatto. Niente di che, sia chiaro, solo un trucchetto di magia che consisteva nel poter più riavere indietro la mia chioma, segno di riconoscimento del mio status di Madre Natura, lasciandomi tornare a casa con questo schifo addosso e la coda fra le gambe. Non lo trovi bellissimo? Esatto! Ti piace? Non servono risposte!»

Emily Jane rideva, e rideva, e rideva ancora, poi ancora, senza mai fermarsi, senza perdere mai la voce e anzi intensificando sempre di più quel suono fastidioso, fino a quando le sue guance non vennero percorse da una cascata di lacrime.

E non erano provocate dalle risate, adesso.

 

Si coprì il volto con le maniche dell’abito che aveva indosso, inzuppandole in quattro e quattr’otto dalla disperazione che l’aveva investita come un treno.

«Hai ragione, Phobosuccio, non potrei essere più d’accordo: sono inutile, fottutamente inutile. In una scala dell’inutilità, io riesco a sforare il limite massimo, sono utile quanto un dito coperto di sabbia infilato nel retto durante una visita alla prostata» rise, interrompendosi ogni tanto per via dei singhiozzi.

Si pose davanti all’altro, alzandosi di scatto e totalmente incurante di mostrare gli occhi gonfi per il pianto.

«Ti dirò un segreto: le donne sono terribili. Pensavo che le cose peggiori al mondo fossero i tagli provocati dalla carta, ma mi sbagliavo. Nessun pezzo di carta mi ha mai ferito così nel profondo, nessun pezzo di carta mi ha mai umiliata tanto, così tanto, fino a farmi pentire di essere al mondo» sputò tutto d’un fiato, crollando in ginocchio «Per gli dei, guardami, guardami!»

«Ti sto guardando».

«Guardami, guardami e renditene conto da solo: ho un brutto carattere, sono tremendamente acida e cinica, misantropa fino al midollo, sono un fardello per chiunque mi conosca, non mi è rimasto più nulla da offrire a chicchessia, anche perché non voglio nessuno vicino ma ho il terrore di morire sola mia. Come se non bastasse, mia madre è morta per colpa di mio padre, il quale ha scelto la sua troia anziché sua figlia: sono uno spreco di spazio e di tempo e di ossigeno, Phobos, persino di terreno dove venire seppellita. Se dovessi morire, nessuno mi piangerebbe, nessuno se ne accorger-»

Un bozzolo caldo l’avvolse, isolandola dal resto dei suoi problemi.

«Io sì, però» le mormorò all’orecchio, abbracciandola «… anche perché sei qui davanti ai miei occhi, la vedo ben dura non notarti nel caso in cui tu stramazzassi a terra ad arti tesi!»

«… Sei un idiota».

«Non complimentarti troppo, o potrei montarmi la testa e »

«Io faccio discorsi seri e tu mi prendi in giro! Bell’amico che sei!» tuonò una Pitchiner particolarmente indiNNNiata, cercando di scrollarsi l’altro di dosso. Il rosso, però, non mollava la presa nemmeno a pagarlo.

«Uh-uh! Ricordami in quale momento siamo passati da “compagni di bevute e di autocommiserazione” ad “amici”, perché me lo sono proprio perso!»

«Mai! MAI! E ora mollami, ho detto! Mollam-»

«Nnnnno, non ti mollo no, anzi!». Se la strinse al petto ancora più forte, iniziando ad accarezzarle la testa «Eeecco, ti stringo di più, così ti passa la crisi esistenziale: credimi, sono un esperto in questo genere di cose, per quanto -sfortunatamente- io non avevo nessuno ad abbracciarmi, solo lui» indicò Thorax «a tenermi al caldo. Per il resto…» si bloccò qualche istante.

Subito, però, si diede un colpetto sulla testa.

«Eh no! Ora stiamo parlando di te, non del sottoscritto, peeeeeer cuuuuuuuiiiii» iniziò a darle dei bacini sui capelli «vieni qui e fatti limonare la testa, Madre Pretura!»

«Madre Natura! NATURA!» ringhiò Emily Jane, tentando inutilmente di richiamare qualche ramo a darle una mano per sbrogliarsi da quella presa impossibile da sciogliere. Nemmeno quelli funzionarono, specie perché Thorax li afferrava e spezzava prima che potessero arrivare fra lei e quel polpo appiccicoso.

«Smettila di fare il deficiente! Smettila, per gli dei! Smettila o giuro che-»

«Solo se mi prometti che non ti dici di essere inutile per il resto del tempo che io mi trovo qui» disse lui, pacato e sorridente «promettimelo, e forse potrei lasciarti andare».

«Che ti frega?!!» tuonò la donna, sbuffando. «Non interessa a me e nemmeno a mio padre, di cosa io dica o pensi o faccia, figurati se deve preoccuparsene un perfetto sconosciuto quale sei tu! Non sono affari tuoi, Phobos, non lo sono!»

«Ora che mi hai raccontato la tua storia, però, sono anche affari miei» precisò il rosso «anche perché potremmo darci vicendevolmente una mano, sapendo di avere dei disagi mentali che ci accomunano. Potremmo trovare un sostegno materiale e tangibile l’uno nell’altra, insomma, un supporto non solo metaforico».

 

La Pitchiner lo fissò qualche istante, confusa.

Non era certa di aver capito cosa intendesse per “sostegno materiale tangibile”, non lo era per niente. Era sicura soltanto che Phobos volesse qualcosa di non meglio definito in cambio della sua vicinanza, se così si poteva chiamare: oro, forse, magari qualche tipo di possedimento che lei certo non possedeva, magie e incantesimi a lei sconosciuti, o forse era interessato a… oh. Come aveva a non pensarci prima?

“È un uomo, ed interessato a ciò a cui sono interessati tutti gli uomini”, pensò. Sospirò rassegnata, scuotendo impercettibilmente la testa.

Senza dare mostra della sua esitazione, afferrò i lacci del corsetto dell’abito che aveva indosso, facendo per levarselo e denudarsi. Ignorare la sua mente era difficile, ma non impossibile; vero, non aveva mai giaciuto con uomo e mai lo avrebbe fatto, ma -ora come ora- scegliere era un lusso che non poteva permettersi: o apriva le gambe, o l’unica speranza di trovarsi un alleato sarebbe andata in fumo.

“Per il bene superiore”, si disse, “e che Marigold chiuda gli occhi, dovunque si trovi”.

Le mani tremanti le impedirono di spogliarsi velocemente quanto avrebbe voluto, ma alla fine riuscì finalmente a slacciarsi la veste; tirò un respiro profondo, poi-

«COSA STAI FACENDO PRECISAMENTEH?!!»

 

Sentì una coperta atterrargli direttamente in faccia; colta di sorpresa, Emily finì per terra, avvolgendosi nella stoffa come un involtino primavera.

«Ma che diavolo-»

«Scostumata! Deprevata! Meretrice! Facilina! SABRINA INTERVIENI!» le urlò contro Phobos, gridando e gesticolando  e correndo per la stanza come un babbuino impazzito. «Cosa credevi di fare, eh? Maniaca sessuale! MANIACA!»

L’altra si rimise in piedi, non senza una certa fatica. Lo guardò interrogativa, perplessa, con gli occhi di chi non sta capendo un cazzo di niente: sapeva che gli uomini erano strani, sapeva che erano inclini alla depressione in mancanza di un orifizio in cui sfogare le proprie pulsioni sessuali, ma addirittura bipolari! Ringraziò il cielo che non le piacessero.

«Si può sapere che ti prende?» gli domandò, sinceramente confusa da quell’assurda situazione e reazione, le mani strette intorno all’abito.

Lui le gettò uno sguardo addosso come se avesse appena bestemmiato in chiesa.

«Cosa mi prende?!!» ripeté, stizzito. «Credevo fosse abbastanza palese, ma lo ripeterò: mi prende che ti stavi spogliando davanti a me, per gli dei! SPOGLIANDO! Stavi denudandoti vai a sapere il perché! Ho capito che sono affascinante, però mi pare un tantino-»

«Aspetta-aspetta-aspetta» lo interruppe lei, corrugando la fronte «mi stai dicendo che tu non vuoi fare sesso con me?»

«Quando avrei detto che voglio fare sesso con te, di preciso?»

«Come sarebbe “quando”? Prima hai detto che- fermiamoci tutti un attimo» aprì le braccia, come a dare lo “stop”. Respirò profondamente qualche minuto, assicurandosi di tornare a ragionare lucidamente «Prima tu cosa intendevi per sostegno “materiale e tangibile” e supporto “non solo metaforico” fra di noi, precisamente?»

«Intendevo che avremmo potuto diventare alleati e darci una mano a vicenda, essendo accomunati dalla voglia di vendicarsi della stessa persona» spiegò il rosso «cos’altro avrei dovuto intendere?»

Silenzio.

Poco dopo, il rumore del palmo di Emily Jane che impattava sulla sua fronte si fece largo nella stanza, insieme alla sua risata.

«Aaaaaaaaaah! Intendevi quel genere di supporto!» esclamò sorpresa e divertita contemporaneamente, finalmente conscia del malinteso. «Avevo capito che tu volessi scoparmi in cambio del tuo aiuto, ecco perché stavo per offrirti la possibilità di possedermi! Non che avrei avuto piacere nel farlo, ma la scelta era ben poca».

«T-tu s-st-stavi p-p-per… d-da-da-darme… la… ?» balbettò Phobos, gli occhi ridotti a due pozze d’acqua nelle quali stava annegando. «… M-me la s-stavi p-per… d-dare… s-sta-stavi p-pe… per-»

«Eh già, ma ora ci siamo capiti! Meglio così! Anche perché sono lesbica».

«Oh­­».

 

Ed ecco il colpo di grazia.

In quel momento, quel povero disgraziato sentì il mondo fermarsi: non solo quella sua stramaledetta lingua lunga -che avrebbe potuto utilizzare per ben altro!- gli era costata una scopata, non solo lui -pirla!- non aveva approfittato subito per correggere la sua interlocutrice e ribaltare la situazione, ma ora lei gli veniva pure a dire di essere lesbica! Lesbica! Addio qualsiasi chance di trombarsela!

Gli scese persino una lacrimuccia, per quell’erezione perduta: altro che Abisso, erano quelli i veri dolori della vita!

 

«Tutto bene?» gli chiese Emily, risvegliandolo da quel suo stato catatonico.

Ormai rassegnato, annuì: non poteva averla, del resto, tanto valeva mettersi il cuore in pace una volta per tutte.

«Ne sono contenta, anche perché volevo chiederti delucidazioni su questa nostra alleanza volta all’eliminazione di Harmonia… se non sei troppo impegnato a piangere ripensando alla mia omosessualità, ovviamente» lo ammonì ridendo, immaginando già -e c’entrando bene- a cosa fossero rivolti i suoi pensieri dopo quella scottante rivelazione.

«Intendo che tu una mano a me puoi pure darla, hai detto di possedere dei poteri non indifferenti, inoltre hai loro» indicò Thorax, più un paio di altri leoni che erano da poco saliti in casa «mentre io… io…» fece una pausa, sospirando «io non sono in grado di fare nulla più di ciò che hai mostrato, se non meno: mi chiamano ancora “Madre Natura”, ma nelle mie condizioni attuali non potrei essere più distante da quel titolo. Non posso aiutarti, Phobos, non senza i miei poteri al completo».

«E non c’è modo di recuperarli in alcun modo, ormai» rifletté lui ad alta voce.

«Nessuno, assolutamente» confermò l’altra «non posso mica fare irruzione nel tempio di Quetzalli su di un carrarmato mosso da un motore a gatto imburrato, indossare un passamontagna e stringere fra le mani un Super Liquidator 5000 gridando “O lo scettro, o la vita!”, sarebbe-»

«… Tu mi stai dicendo che il tuo scettro non è andato distrutto?» la interrogò il rosso, strabuzzando gli occhi.

«Al contrario, è stato distrutto trent’anni or sono dalla regina di Phantasia, come sai già. Mi ascolti o no, quando parlo?»

«Ma hai appena detto che esiste ancora!»

«Se con “esistere” intendi che lo scettro si trovi in condizioni di essere utilizzato allora no, non esiste più. Se invece mi stai chiedendo se sia in uno stato tale da dirsi fisicamente tangibile, allora sì, esiste ancora» puntualizzò.

«Harmonia lo distrusse, lo ridusse a pezzi e lo rese un comune bastone di legno, ma era pure conscia che -con la magia giusta- sarebbe stato possibile rimetterlo insieme e riportare totalmente indietro i poteri di Madre Natura. E soprattutto sapeva che, nelle mani sbagliate, un potere del genere avrebbe significato il caos. Letteralmente. Non puoi nemmeno immaginare di cosa fossi capace, e non usavo nemmeno il cento percento del mio potenziale! Tipo Jiren che silenzioso silenzioso e poi ZACCHETE! Fa il culo alla vostra scimmia con l’Ultra Istinto!» affermò gonfiando il petto e ridacchiando. L’altro, però, non la imitò. «Consapevole del pericolo, Harmonia consegnò e assicurò l’incolumità dello scettro alle Ophidiands, affinché lo custodissero nella loro città blindata a chiunque non vi abiti: Quetzalli, appunto. Che io sappia è ancora là, e-»

Le arrivò una scarpa dritta dritta in mezzo alla fronte.

«E POTEVI DIRMELO PRIMA!» tuonò Phobos, evidentemente alterato.

«Hai fatto fino ad ora a lagnarti di come avessi perso completamente i tuoi poteri, a dirmi che era impossibile riaverli indietro, a farmi spremere le meningi per cercare di trovarti un’utilità, e poi cosa succede?  Te ne esci dicendomi “Ehi! Guarda che con i mezzi giusti si possono recuperare eccome! Possiamo fare il culo ad Harmonia ma preferisco tenermelo per me!”, e me lo dici solo adesso! ADESSO!»

«Prima non me lo hai chiesto» lo corresse lei, indifferente.

«Io prima non te l’ho… ? MA IO TI RENDO CALVA! TI STRAPPO I CAPELLI UNO PER UNO! GIURO CHE TI- calmo, calmo, devo stare calmo. Devo. Calmarmi» si suggerì da solo, massaggiandosi le tempie. «Va bene, va bene…. innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa» si riempì i polmoni d’aria, respirando profondamente «eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa» fece lo stesso, però buttando fuori l’aria di prima innnnnnspiiiiiiiraaaaaaaa… eeeeespiiiiiiiiiraaaaaaaaaa… innnnnnsp- MA PORC-»

«Se non ci dai un taglio te ne tiro un altro, di schiaffo».

Ci fu un attimo di imbarazzante silenzio fra quei due, durante il quale -fortunatamente- Phobos smise di respirare così rumorosamente da rendere difficile persino pensare, per la povera figlia dell’Uomo Nero.

«Va bene, ora sono calmo e non ho più voglia di metterti le mani al collo» la rassicurò sorridendo «ma ora torniamo a noi. Dicevi che il tuo scettro si trova a Quetzalli, che è considerata una città blindata, uh? Quanto lo è, precisamente?»

«Abbastanza perché nessuno osi metterci piede. Non so il motivo di questo isolamento dal mondo, so solo che è immersa nella foresta e circondata da vulcani, oltre che costantemente presieduta da guardie che sorvegliano tutta la lunghezza dei confini. Sono una razza di donne naga guerriere, non hanno poteri vari ed eventuali ma non sono nemmeno da sottovalutare».

«Non hanno poteri, dici?»

«Non che io sappia» fece spallucce Emily «e non sono nemmeno originarie di Phantasia o di Exodus, aggiungo: le Ophidiands nacquero dall’unione fra il dio azteco Quetzalcoatl e la mortale Medusa, una donna greca colpita da una maledizione che la rese per metà serpente. Si unirono in matrimonio e giacquero insieme, e lei rimase incinta del dio; ebbero una sola figlia, Axechasti, “evento memorabile”, per metà divina e per metà mortale. Mortale come sua madre, del resto» raccontò.

Vedendo che l’altro pareva interessato, decise di continuare.

«Approfittando della mancanza di Quetzalcoatl, andato a presentare la figlia al resto del suo pantheon perché gli dei le donassero l’immortalità come regalo di nascita, un gruppo di umani guidati da Perseo s’intrufolò nella dimora dei coniugi per uccidere Medusa: il tempo di decapitarla e fuggire, e suo marito tornò. Furioso e reso cieco dal dolore, Quetzalcoatl decise allora di portare la sua unica figlia il più lontano possibile dalla Terra, in un luogo dove gli uomini che gli avevano già portato via sua moglie non potessero raggiungerla».

«Exodus?»

«Esattamente. Portò Axechasti su Exodus e lì la crebbe, ma arrivò un tempo in cui lei espresse a suo padre la volontà di avere dei figli a sua volta; Quetzalcoatl, tuttavia, era contrario: mai e poi mai avrebbe riportato sua figlia sulla Terra, tantomeno avrebbe permesso che lì qualche uomo si prendesse la sua innocenza e poi la reclamasse in sposa. Tuttavia, vedendo quanto lei soffrisse del suo rifiuto, alla fine trovarono un compromesso: Axechasti avrebbe avuto dei figli, ma senza che chicchessia la possedesse mai. La dotò di un apparitore riproduttore maschile, oltre a quello femminile già in suo possesso, rendendola ermafrodita: in quel modo poté riprodursi e avere degli eredi come desiderava, ma senza l’aiuto degli uomini che suo padre tanto odiava. E fu così che nacquero che Ophidians, quando lei partorì».

«E come ha fatto a… a…» balbettò Phobos, più rosso più dei suoi stessi capelli «a fare… sì insomma… quella cosa lì… cioè… dai-»

«Le Ophidians possono ingravidarsi autonomamente, essendo appunto ermafrodite possiedono sia il seme che l’ovulo necessario a farlo. Ne basta una sola per iniziare una stirpe intera, ma sarà sempre e solo una discendenza femminile: non esistono uomini, a Quetzalli, non possono esistere, così ha decretato Quetzalcoatl e così sarà sempre».

L’altro la guardò qualche istante, silenzioso, poi scoppiò a ridere.

«Com’è che sai tante cose sulle Ophidians? Una di loro è stata la tua fidanzata per caso?»

“La mia fidanzata è morta e defunta”, avrebbe voluto rispondergli, ma se lo tenne per sé: non era pronta ad aprirsi sul discorso Marigold, non lo sarebbe mai stata e non voleva esserlo.

«Fortunatamente no» si limitò a borbottare Emily Jane «mi ero solo informata per capire se avessero qualche punto debole particolare tempo fa, intenzionata com’ero a ripiegare sull’uccidere Myricae per danneggiare Harmonia».

«Almeno ne hai trovati, di punti deboli?»

«Non che possano essere definiti tali, no» riferì «il loro corpo è un fascio di muscoli, hanno serpi al posto dei capelli, qualcuna secerne anche un veleno più o meno potente -raramente mortale, però- in quantità più o meno elevata, e la maggior parte di loro sa combattere eccellentemente. L’unica mancanza che hanno è quella di poteri magici» si fece pensierosa, poi schioccò le dita come se avesse avuto un’illuminazione «e di alleanze, anche quello: si tengono lontane da chiunque, le Ophidians, Harmonia comp-»

«Mi stai dicendo che non hanno l’appoggio di Harmonia? Ho capito bene?» domandò Phobos, alzandosi di scatto dal divano.

«Beh, sì, quando dico che rifiutano la vicinanza di chiunque intendo proprio tutti-tutti, anche della Regina di Phantasia» rispose lei. Sollevò un sopracciglio, perplessa «Ma perché ti-… aspetta. Non dirmi che stai seriamente prendendo in considerazione l’idea di andare a Quetzalli!»

Da parte del rosso non provenne nessuna risposta, solo un sorriso compiaciuto.

«Tu lo stai pensando per davvero!» gli gridò contro, schizzando in piedi e mettendosi le mani nei capelli dall’esasperazione. «Cerca di essere serio, cristo! Pensaci! Non puoi farlo oggi, né domani, né mai! È un’impresa impossibile! IMPOSSIBILE!»

«No, non lo è» le disse indifferente.    

«Lo è, invece!» controbatté. «Metti pure caso che riuscissi miracolosamente a prendere lo scettro, cosa accidenti te ne faresti, dopo? Sicuramente non conosci incantesimi sufficientemente potenti per rimetterlo insieme e renderlo utilizzabile, quella è roba magica che compete a gente tipo chi se ne sta lassù» indicò la Luna fuori dalla finestra «non certo a te! Nemmeno a me!»

«Sei davvero sicura che io non conoscenza suddetta roba magggica, uh?»

«Al cento percento, Phobos, non puoi farcela» asserì.

«Sicura sicura? Abbastanza da scommetterci sopra?» la provocò. Tirò fuori un sacchetto di monete d’oro che riversò sul tavolo «Venghino, signore! Venghino! Sono aperte le scommesse!»

«Ah! Al diavolo te e la tua arroganza!» sbottò l’altra, ormai stanca da tutte quelle sceneggiate. Si diresse verso il corridoio che portava alla sua stanza «Io me ne vado a dormire, tu fai ciò che preferisci: sbronzati ancora, lavati nei legumi, fottiti Shajira, non m’interessa. Se trovi un modo per mettere in pratica il tuo folle piano, allora fammi un fischio» concluse, oltrepassando la porta.

Il motivetto fischiettato della marcia di Topolino raggiunse le sue orecchie, facendole girare il capo.

«Cosa dovrebbe significarmi?»

«Che fra qualche giorno, ai tuoi alberi, appenderemo teste di naga anziché lanterne».

Si scambiarono uno sguardo indecifrabile, non si capiva bene se fosse d’intesa o più di profondo disaccordo, ma nemmeno una parola volò fra di loro, nemmeno un respiro: il tempo parve essersi fermato, bloccato, immobilizzato, come intimidito dalla tensione che c’era fra i loro occhi.

Infine, fu Emily Jane a prendere parola.

«Sarà meglio per te, se non vuoi che appena pure la tua, di testa» lo avvisò semplicemente; si chiuse la porta alle spalle.

E pregò che avesse dannatamente ragione.

 

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

Niente strani suicidi, niente divinità ambigue e mentalmente disturbate dai dubbi gusti gastronomici, niente traumi in giro: tutto è tornato alla normalità, insomma. Compresa la quotidiana dose di dramma e altarini scoperti, adoVo troppo scoprirli! :’D

Il titolo del capitolo, “Exulansis”, indica il momento in cui ci si arrende nel raccontare la propria storia perché l’altro non sta ascoltando, trovandosi a parlare letteralmente al vento senza la pretesa che importi a qualcuno, continuando a farlo più per sfogarsi che per altro, insomma: considerando il contenuto di suddetto capitolo, non potevo trovare nulla di più appropriato!

Detto ciò non ho nulla da aggiungere, ne approfitto giuro per ringraziare chi segue la storia, chi legge e chi recensisce (nonostante il curry del capitolo scorso :’D), fa sempre piacere :)

Alla prossima!

   
 
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