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Autore: Lost In Donbass    04/02/2018    3 recensioni
Tom è un alcolizzato, cinico, apatico, coltiva marijuana e se ne frega del resto.
Bill è uno scrittore, ha subito un crollo psicologico non da poco, cucina torte di mele a raffica e mostra cicatrici che nemmeno lui sa di avere.
Ma se questi due squilibrati si trovassero a dover condividere la casa? In una campagna opprimente e inquietante, tra segreti sepolti in cantina, torte di mele, musica punk, fantasmi non del tutto morti, esperimenti umani, occhiate languide e case-reliquiario, riuscirà Tom a salvare sé stesso e Bill? Oppure sprofonderanno nel baratro dove nessuno li tirerà mai fuori?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
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CAPITOLO QUATTRO: UN ANGELO E UN BENTO

Tom aveva deciso che vedere la televisione con Bill era un’esperienza da fare, almeno una volta nella vita. Da quando aveva portato la sua vecchia tv nella casa nuova, avevano pigramente preso l’abitudine di passare le serate insieme in compagnia di qualche film pescato all’ultimo momento. Ma qualunque fosse il film proiettato, Bill aveva il suo spettacolino da fare, condendo la visione da continui commenti a mezza voce, che potevano passare dagli scioccati “ma guarda te se ti sembrano cose da fare!” se c’erano scene di sesso più o meno esplicite, a terrorizzati “ma … ma Tom! Lo stanno uccidendo! Fai qualcosa!” ogni volta che vedevano un film d’azione agli inevitabili “ma che carini che sono” se era una pellicola romantica. Tom oramai guardava più le smorfie stupefatte del suo coinquilino che il film, sorridendo da solo a seconda delle reazioni quasi infantili che aveva Bill verso ogni scena possibile e immaginabile. Compreso lo storico “guarda che film diseducativo! La besciamella non si cucina così!” che avrebbe fatto ridere Tom fino alla fine dei suoi giorni. Bill era un vero e proprio personaggio meraviglioso, viveva in una dimensione tutta sua che era impossibile smontare, chiuso in una bolla di innocenza e stupore che sarebbe stato un delitto rompere.
Anche quella sera Tom lo stava osservando, raggomitolato sul divano, avvolto in uno scialle, concentratissimo a seguire la trama estremamente contorta del thriller in onda, con tanto di tazza di tisana in mano. Teneva la sopracciglia aggrottate, e gli occhioni scuri saettavano da una parte all’altra dello schermo, quasi che avesse voluto cogliere elementi che neanche erano mostrati. Era adorabile, pensava Tom, adorabile nella sua algida bellezza berlinese. Gli sembrava una sorta di bambolina di porcellana da guardare e non toccare, chiusa nella sua teca di vetro e segretamente gli faceva piacere essere il custode della suddetta bambolina. Come fosse una sirena che nuota in una piscina credendo che sia l’oceano. Come un angelo al quale anno strappato le ali. Come una silfide abbandonata in una città. Ma Tom non si sentiva un ignobile carceriere, semmai solo un guardiano, un vecchio amico, il ragazzino visionario che vede ciò che nessun altro può vedere.
Non sapeva dare un nome al piacere che derivava dal stare seduti accanto a Bill sul divano; non era qualcuno di sensuale, e nemmeno di romantico. Era piuttosto la sensazione di essere vicino a qualcuno che, per quanto strano, ti poteva capire. Tom e Bill erano agli opposti, ma il ragazzo moro era sicuro di non aver mai incontrato una persona che lo facesse sentire così a posto con sé stesso, e non importava che si conoscessero da poco, importava solo che gli bastava guardarlo negli occhi e pensare che fosse un ragazzo meraviglioso. C’era calma in Bill, una calma che Tom non aveva mai avuto il lusso di conoscere, una tranquillità naif che avrebbe rilassato il più focoso degli animi, una tranquilla marea che lambiva la barca ancorata da troppo tempo e le faceva tornare voglia di solcare il mare. Il sorriso un po’ triste sembrava l’ultimo lumicino in una notte di tempesta, la voce vellutata con quel buffo accente berlinese abbastanza incomprensibile era qualcosa di rilassante per le orecchie. Tom non avrebbe saputo dire se quella fosse attrazione, ma aveva deciso che era una bella sensazione e che finché avesse potuto, avrebbe continuato a gioire di avere Bill vicino. Era una sensazione estranea, qualcosa che non aveva mai provato prima d’ora e dalla quale non sarebbe di sicuro scappato. Assurdamente, gli pareva che la sua apatia congenita venisse continuamente attaccata da ogni lato per colpa di quegli occhi di cristallo nero.
Si voltò quando sentì la testa bionda di Bill sfiorargli la spalla e lo vide, addormentato sul divano come una bambina, raggomitolato su su stesso e appoggiato a lui come se fosse un’ancora. Tom, l’ancora di tutti e di nessuno, l’amico già perso, il finto suicida, il ragazzo fantasma di una perifera soffocante, il morto che fuma, stella deflagrata di un universo in via di estinzione. Guardò con un certo stupore il viso da bambola del suo coinquilino chiuso in una sfera di sonno timido e fanciullesco; Tom non era abituato al contatto fisico. Era troppo vuoto e insensibile per una cosa simile e ogni volta che qualcuno tentava anche solo di abbracciarlo si ritraeva arrossendo e borbottando frasi sconnesse. Eppure Bill gli faceva un effetto diverso. Qualcosa che non si poteva catalogare come nulla di umano, era più qualcosa che avrebbe capito un filosofo, un suicida oppure un bambino. Ecco sì, quello che in fondo era Tom: stufo della vita, cercatore di nuove esistenze e infantile nelle sue scelte.
-Bill, vai a dormire.- sussurrò, ma non ottenne risposta che non fosse un mugolio indistinto nel sonno. Si era già addormentato, pensò, e sorrise impercettibilmente. Gli passò un braccio attorno alle spalle magrissime, come quelle di un passerotto. O come quelle di un angelo. Bill poteva sembrare anche un angelo, considerò Tom, ma non di quelli custodi o di quelli di cui parla la Bibbia. No, qualcosa di più melanconico, di più etereo ancora. Uno spirito del tempo, forse, figlio del vento e della polvere di stelle, una creatura futuristica piovuta per sbaglio su questa terra mortale. Un soffio vitale di mondi inimmaginabili persi in angeliche galassie fuori dal tempo dove vanno a morire gli astronauti, un gelido tocco spaziale come ultime gocce di sangue di supernova, un fantasma senza casa e senza dimensione che vagabonda nel mondo e nell’esistenza senza davvero farne parte, una creatura alata che può esistere da sempre come non essere ancora nata. Sì, Bill era un angelo, aveva le ali, potevi scorgerle sorgere da quelle spalle ossute e sporgenti, ali bellissime, ali oceaniche che si trascinavano dietro le sabbie di tempi perduti e ferite di mondi che dovranno ancora venire, ali che hanno volato per tutto l’universo, in ogni spazio, in ogni spaccatura temporale, ali che hanno vinto la morte e la vita, ali che non hanno né inizio né fine ma solo un eterno presente che si protrae da millenni. Per gli angeli non esiste passato e nemmeno futuro, esiste l’attimo dilatato fino agli estremi possibili, manipolano il tempo per rinchiudersi in milioni di uguali attimi in mille parallelismi che si snodano nelle curve sinusoidali delle curve dello spazio, nuotando in  oceani stellati e volando in cieli marini. Tom non aveva mai creduto negli angeli, ma dopo aver visto il suo coinquilino, beh, era pronto a crederci.
-Bill, forse è ora di andare a letto.- disse, a voce poco più alta, scuotendo delicatamente il ragazzo al suo fianco, che, pacifico, si girò dall’altra parte. Tom si morse il labbro: bene, dormiva. E lui, cosa avrebbe dovuto fare? Parte di sé stava urlando per farlo andare a letto e lasciare Bill lì sul divano, mentre l’altra commentava che avrebbe dovuto portarlo su di peso e metterlo a dormire. Ora, che Tom propendesse naturalmente verso la prima era un dato di fatto, ma la vocina gli ricordò, con tono amaro, che ci avrebbe fatto una figura meschina nei confronti del ragazzo biondo. Giusto. Con che coraggio gli avrebbe dato il buongiorno il giorno dopo? Sospirò rumorosamente, si alzò e, impacciato come mai in vita sua, gli passò un braccio sotto le ginocchia e dietro le spalle, sollevandolo con estrema facilità. Era così leggero … leggero come se avesse le ossa cave. Irrazionalmente, fece attenzione a non ferire le ali di cristallo ripiegate sulla schiena di Bill e lo guardò in viso. Tom non era mai stato capace di osservare la bellezza pura e non ottenebrata dai mille veli che l’alcol gli sovrapponeva davanti alle iridi scure. Eppure, adesso che vedeva i tratti delicati e la pelle pallida del suo coinquilino, fu quasi convinto di aver trovato quella Bellezza ideale che non era mai riuscito a desumere. Bill era bellissimo. Truccato, certo, e ingioiellato, ma erano i leggeri tratti somatici, il sorriso triste che illuminava il viso addormentato, le lunghe ciglia, gli occhi chiusi che rendevano Bill così meraviglioso, contemporaneamente angelico e mortale.
Aumentò la presa e cominciò a salire le scale, lentamente, ben deciso a non svegliarlo e lo portò nella sua camera. A ben pensarci, non l’aveva mai vista. Si fermò per un attimo sulla soglia, incerto; non che avesse davvero paura ma non poteva nascondere a sé stesso il sottile filo di ansia che lo aveva preso. Era pur sempre la camera del padrone di casa, e, che lo volesse o no, la stanza di Barbablu. Se vi avesse trovato crudeli strumenti di tortura non si sarebbe nemmeno stupito così tanto. Fece leva sulla maniglia e si infilò nella stanza in penombra, accedendo la luce a tentoni. E, per poco, non lasciò il povero Bill precipitare al suolo: c’era un altare. Un altare! Prima di fargli veramente del male, lo depositò con tutta la grazia possibile sulle coltri blu notte del grosso letto matrimoniale intagliato in legno scuro e poi si guardò intorno, fino a focalizzare la sua attenzione sull’altarino ai piedi del letto. C’erano foto di Hansi e Bill, altre decine di foto una sopra all’altra. Foto di due ragazzini su una moto, foto del matrimonio, foto di due giovani uomini seduti sull’uscio di casa, foto delle lauree, foto di congressi scientifici, premi di ricerca, oggettini, mazzi di fiori freschi. Un vero e proprio reliquiario per Hansi, e qualcosa che fece correre un brivido lungo la spina dorsale del ragazzo. Era qualcosa di ossessivo, malato, … inquietante. Sembrava che dovunque ti girassi, avessi sempre quei sottili occhi azzurro ghiaccio che ti perforavano la schiena. Tom si chiese come Bill avesse potuto condividere il letto, la casa, la vita con un uomo del genere; bello, certo, bellissimo, ma era così angosciante quello sguardo e quel ghigno sadico, faceva a pugni con la dolcezza e la stucchevole innocenza di Bill. Si guardò attorno, studiando i quadri alle pareti, quadri cupi, bui, di paesaggi fangosi e soffocati da soli spenti, le pareti di legno scuro, una piccola libreria incassata nel muro dove riposavano tomi rilegati dall’aria difficile. Tom deglutì, e si voltò verso il biondo, raggomitolato sul letto; sospirando, gli aggiustò addosso una coperta accuratamente ripiegata ai piedi del letto, con gesti impacciati e vagamente infantili. Non era abituato a mettere persone a dormire; non sapeva se doveva infilargli un pigiama, se doveva metterlo sotto le coperte o se doveva lasciarlo lì com’era, ma alla fine optò per una sana via di mezzo: lo lasciò con la sua ridicola veste da camera rosa confetto ma gli mise sopra una coperta. Perfetto, non avrebbe potuto rinfacciargli niente la mattina dopo. Senza quasi rendersene conto, gli mise a posto un ciuffo di capelli sfuggito alla perfetta pettinatura. Aveva i capelli così morbidi.
-Tom?
Fosse stato un ragazzo normale probabilmente avrebbe sobbalzato, o avrebbe cacciato un urlo, ma siccome era Tom, non si preoccupò particolarmente del fatto che in realtà Bill avesse aperto gli occhi impastati di sonno e lo stesso guardando con ancestrale stupore. Senza muoversi. Come un animale ferito e braccato.
-Stavi dormendo, Bill. Ti ho messo a letto. Buonanotte.- sussurrò Tom, scandendo bene le frasi, e gli sorrise, impacciato. Lui non aveva mai dato la buonanotte a nessuno. Cioè, non sapeva quando la bottiglia di gin potesse contare.
-Oh. Grazie.- Bill si aggiustò un pochino e poi gli tese una mano, magrissima e bianca – Vuoi dormire con me, per caso?
Tom rimase un attimo spiazzato, ma fu rapido a tossicchiare
-Ehm, no, grazie dell’offerta, ma … no. Vado in camera mia, sì.
Non aveva mai condiviso il letto con nessuno in vita sua, e non avrebbe sicuramente iniziato in quella camera con annesso reliquario. Sinceramente, aveva paura di come avrebbe potuto comportarsi, lui, che non aveva nemmeno mai dormito da piccolo nel lettone con i suoi genitori. Non gli piacevano le persone, non gli piaceva il contatto fisico e non gli piaceva nemmeno doversi distendere al fianco di qualcuno. E poi, non era abituato a dormire. Le sue ore di sonno erano poche e agitate, forse colpa del suo cervello sovraeccitato e ridotto in pappa, passava le sue notti sveglio, a guardare il soffitto in cerca di un’ispirazione che mai trovava, una bottiglia vuota accanto al letto e la musica a palla per non sentire i proprio pensieri che cozzavano furiosi nel suo cervello. Le teste matte non troveranno mai pace, gli ricordava sempre Gustav e lui non poteva essere più d’accordo. Non sapeva nemmeno cosa volesse dire essere in pace con sé stesso, divorato costantemente da demoni dei quali a stento conosceva l’origine e da idee strane e perniciose che non riusciva a eliminare. No, non avrebbe potuto dormire con Bill, rimanendo sveglio a fissare fuori dalla finestrella. Capace di arrivare al punto di svegliarlo e chiedergli se secondo lui esisteva la reincarnazione delle anime.
-Oh. Allora, buonanotte Tom.- Bill sorrise timidamente, chiudendo gli occhi già impastati di sonno, aggiustandosi un po’ meglio nelle coperte e Tom si limitò a fargli un cenno di saluto che avrebbe voluto essere rassicurante, e si avviò verso la sua stanza. Bill … gli faceva davvero un effetto strano. Ma estremamente positivo.
Come tutto in quella casa, d’altronde, si ritrovò a pensare mentre accendeva le casse con gli Hollywood Undead e cominciava a sistemare la sua piantagione illegale di marijuana, con cura estrema.
 
All’officina dove Tom prestava servizio, nessuno poteva davvero dire di conoscerlo. Solitario, silenzioso, lavorava alacremente senza rivolgere troppe parole in giro, si sapeva fosse affetto da depressione e che fosse caduto nell’alcolismo e si sapeva anche che era appena uscito dalla riabilitazione. Niente altro. Quindi, fu una bella sorpresa per tutti i suoi colleghi quando, in pausa pranzo, assistettero all’arrivo di una creatura che nessuno di loro poteva nemmeno sognare.
Il gruppetto di meccanici si stava giusto dividendo tra chi andava al pub e chi si era portato il pranzo da casa, che una strana voce vellutata e innocente, col pesante accento berlinese, non aveva fatto voltare tutti. Davanti a loro, stava una sorta di modello di haute couture coi capelli biondi che pareva più uscito dalle più esclusive passerelle parigine che da una scassata corriera della campagna, con addosso una pelliccia di foca autentica dalla quale sbucavano un paio di stivali col tacco a spillo di pelle nera lucida.
-Ehm, scusatemi se vi disturbo ma … sto cercando Tom.
-Bill? Bill, ma cosa ci fai qui?
Tom sbucò fuori dalla piccola folla, sotto gli sguardi increduli di tutti. Già il fatto che Tom parlasse era un caso da segnare sul calendario, e che poi conoscesse un tipo del genere … fuori dal mondo.
Dal canto suo, l’interessato non sapeva veramente come comportarsi. Bill era uscito di casa ed era piombato lì all’officina, così, senza una motivazione. Ma perché?
-Oh, caro, meno male che ti ho trovato.- il biondo infilò le mani nella borsa di lacca rossa e ne cavò fuori un piccolo bento – Ti ho portato il pranzo!
-Eh? Il pranzo? Ma … aspetta, vieni un attimo.
Sbattendo gli occhi incredulo, il ragazzo guidò Bill in un angolo più appartato, guardando con aria stranita il bento dal quale proveniva un delizioso profumo di torta di mele. Tutto ciò era assurdo. Va bene che gli aveva dato l’indirizzo della sua officina, ma che senso aveva venire a portargli il pranzo quando era un uomo adulto e vaccinato, e, soprattutto, capace di badare a se stesso? Non c’era niente che lo obbligasse ad occuparsi di lui quando era fuori casa, e nemmeno dentro, se era per quello. Afferrò Bill per le spalle, tentando per un sorriso gentile
-Bill, io ti ringrazio davvero per avermi portato da mangiare ma … vedi, non ti devi preoccupare per me. Mi ero già preparato un panino questa mattina. Hai preso la corriera da solo, sei uscito solo per …
-Certo che mi preoccupo per te!- strillò Bill, sfarfallando gli enormi occhi truccati – Sei stato molto bravo questa mattina a rimettere a posto la cucina, tanto che non ci ho fatto caso che ti fossi preparato già il pranzo. Dunque ho pensato che saresti rimasto senza mangiare fino a sera, ed è inaccettabile!
Dio, quel ragazzo. Tom non aveva mai incontrato nessuno che si preoccupasse così tanto per lui, che fosse così attento e premuroso. Insomma, cosa lo obbligava a stare attento alla sua salute? Nulla. Eppure guardalo lì Bill, col pranzo pronto e quell’aria adorabilmente cocciuta sul viso da bambola.
-Sei stato davvero carino, Bill. Grazie. Vuoi rimanere qui in città, torniamo a casa insieme questa sera?- il fatto che Tom odiasse i contatti sociali non significava che fosse un completo cafone. A favore, corrispondeva favore.
-Oh no, io prendo la corriera subito. Sai che odio stare lontano da casa. Tutta questa gente, e queste macchine, e questo traffico, atroce!
Era uscito per lui. Aveva affrontato una delle sue paura per lui. Tom non ci credeva.
-Come preferisci. Però vuoi che compro qualcosa per stasera?
Bill si illuminò e batté le lunghe mani ingioiellate. Ci voleva poco per farlo ridere.
-Uh, sì! Sarebbe fantastico! Allora, io direi che potresti comprare del latte, dell’insalata, fresca mi raccomando, delle mele, tante mele, per fare le torte, e del lievito, tanto lievito. Anche qualche pacco di farina 00 già che ci sei. Uh, e del formaggio, quello che preferisci.
Tom tentò per un sorriso accondiscente e si appuntò mentalmente la lista, quando gli venne in mente un’altra cosa. Insomma, Bill era stato un angelo. Lui era solo un lurido umano di periferia, ma poteva fare almeno finta di fare la persona buona e affettuosa, anche se non lo era.
-Devo passare in farmacia? Non so, le tue pastiglie … ne hai finita qualcuna?
Non passava certo inosservato il fatto che Bill fosse continuamente impegnato a ingoiare pillole su pillole. Di tutti le forme e i colori. Non che a Tom interessasse più di tanto, ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi che razza di complicazioni potesse avere un ragazzo così giovane per doversi imbottire così tanto di medicine. Chissà, magari aveva avuto un tumore. O forse aveva problemi di cuore. O l’asma.
-Come? Oh no, non ti preoccupare. Non sono medicine che si comprano in farmacia.
Bill gli sorrise, passandosi una mano tra i capelli perfettamente tirati all’indietro, e Tom fece una buffa smorfia. “Non si comprano in farmacia” – e allora dove diavolo le andava a comprare? Il suo primo pensiero fu internet, ma si rese conto che era già tanto che Bill sapesse cosa fosse un telefono fisso, ci mancava giusto spedizioni su Ebay. Non avevano confezioni, o, almeno, lui non le aveva mai viste. Vedeva solo pillole blu, rosa, rosse, gialle che sembravano caramelle scivolare nella gola di Bill, accompagnate da un singulto e da un bicchiere d’acqua. Chissà, forse avrebbe dovuto indagare un po’ più a fondo, magari la notte, invece di stare a guardare il soffitto e leggere per l’ennesima volta i libri di Oscar Wilde, nemmeno che nelle righe di Dorian Gray potesse trovare la risposta ai suoi drammi esistenziali. Per passare il tempo, anche solo per colorare quelle notte colorate dall’alcol che ora erano solo tristi scene vuote di un teatro polveroso dimenticato a Manhattan. In fondo, Bill poteva rivelarsi un ottimo divertimento per Tom. Tanti misteri, incongruenze, segreti, fotografie: un sano passatempo che non gli rovinava il fegato.
-Capisco. Beh … allora, grazie mille. Per il bento con la torta.- Tom si grattò distrattamente il collo, vagamente imbarazzato. – Ci vediamo stasera?
-Ti aspetto, caro. Corro, rischio di perdere la corriera!
Tom avrebbe voluto accompagnarlo alla stazione, ma si ritrovò semplicemente immobile nel vicoletto mal acciottolato a fissare la ciondolante figura di Bill zampettera incerta sui tacchi, la borsa appesa alla spalla. Guardò il bento e sorrise tra sé, scuotendo i lunghi capelli scuri. Sì, Bill meritava indubbiamente un’indagine. Anche solo per la sua gentilezza che, se fosse stato un ragazzo normale, avrebbe commosso lo stesso Tom.
  
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