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Autore: Captain Willard    14/02/2018    0 recensioni
Quando non insegna, Kevan White naviga sul fondo delle bottiglie e osa quasi sperare in un lieto fine. Cinquantasei anni, ogni giorno da capo, le idiosincrasie fanno un'altra pelle: è una stasi che potrebbe quasi imparare ad amare, e che pure sembra cedere all'arrivo in classe di Aster, sedici anni e la stessa passione per la letteratura. È l'inizio d'una pièce dai fragili equilibri, dove il Maestro e l'Allieva rischiano di sfuggire presto al cappio sicuro dei ruoli.
[Trigger Warning: Age Difference, Age Gap]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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3.

 

 

 

Decidi di parlarne con Leah. Non che tu abbia alternative.

Alza lo sguardo dalle uova fritte, perplessa. «Collins?»

«Esatto. Allora?»

«Non lo so, che intendi per comportamenti strani?»

«Mi è sembrato stesse facendo il bulletto con una delle ragazze.»

«E chi?»

«Non ricordo, non ho visto bene. Appena mi hanno visto sono fuggiti.» Che bravo attore, sei. Ma se ti chiedessero il perché di questa bugia, cosa risponderesti?

«Collins,» ripete, scuotendo appena la testa. «Mi sembra assurdo. In ogni caso, non ho notato nulla di strano. Collins è il solito idolo delle folle,» sorride. «Ma se succede qualcosa sarai il primo ad esserne informato.»

«Grazie.» Poi, come un ripensamento: «Com'è O'Shea?»

Leah sospira, sbocconcellando il pane. «Un disastro. Segue le lezioni ma non riesce a capire, fa tutti i compiti ma la metà delle volte sono sbagliati. La matematica non fa per lei, temo.»

«È un peccato. In letteratura è brava, fin troppo.»

Leah ridacchia. «E ti lamenti?»

«Ah, io no! Collins però sì. All'orale l'ha superato di un quarto di punto, allo scritto addirittura mezzo.»

«Immagino che lui l'abbia presa benissimo.»

«Sono sicuro che abbia una bambolina vudù con le mie fattezze, a casa.»

«Non tutto è una competizione.»

«Vai a farglielo capire.»

Finite di mangiare in silenzio e temi che ne approfitti per assediarti, ma sembra tranquilla. Ti senti quasi in colpa. «Come va col corso di ballo?»

Leah si illumina come davanti a un bouquet di rose. «Tutto bene, anche se sto facendo i salti mortali per andarci questi giorni. Ho una valanga di roba da correggere.»

«Siamo tutti nello stesso schifo,» sorridi, e la saluti con la mano quando se ne va.

 

In ufficio apri la finestra e ti fumi placido una sigaretta. Per un poco, decidi di goderti l'inverno. Fingere che la malinconia non arriverà con le luci di Natale alle finestre del vicinato. Ti godi anche il whiskey stavolta, lo versi in un bicchiere, fai le cose per bene. Alcol a portata di mano, i Blur in sottofondo.

Perfezione, pensi compiaciuto, iniziando a correggere.

Due ore dopo, rileggi ancora e ancora il nome sull'ultimo foglio. Non puoi crederci.

 

 

 

L'indomani, consegni i compiti corretti in un silenzio funebre. Collins riceve la sua A con un sorriso annoiato. Dagli altri si levano sospiri di rassegnazione o di sollievo, a seconda del caso. Arrivi ai banchi davanti alla finestra.

«Reed, B+, molto brava.» Poi guardi lei, le porgi il foglio. «O'Shea,» è tutto quello che dici, davanti a quella F.

 

Il pranzo è un intralcio di cui ti liberi in fretta, muto e cupo; a passo svelto sali le scale, superi l'angolo ed eccola, seduta sola nell'ombra dietro le scale.

Sussulta al suono dei tuoi passi, ti guarda con quegli occhi torbidi. Nel modo in cui inclina la testa, leggi la rassegnazione del condannato.

«In piedi, O'Shea.»

Esegue senza fiatare, infila nello zaino il contenitore vuoto del pranzo.

«Nel mio ufficio,» e la precedi, ti accomodi dietro alla mole scura della cattedra. Quando entra e chiude la porta le sorridi, le indichi la sedia di fronte. «Prego, vieni. Siediti.»

E siede, rigida e obbediente come un soldatino di stagno. Ti farebbe quasi ridere tanta docilità, in un altro momento. Senza il tradimento.

«Che cazzo hai nel cervello, O'Shea?» Poni la domanda in tono gentile, con un sospiro. La ragazzina si stringe nelle spalle, si smuove inquieta sulla sedia.

«Che intende?»

Lo sai benissimo, stronzetta. «Il compito. Potresti cortesemente spiegarmi quella F?»

Si rigira le mani in grembo. «Dovrebbe spiegarmelo lei. È lei il professore.»

Fai un respiro profondo, perché davvero è assurdo. «Non so a che gioco tu stia giocando, O'Shea, ma so che c'entra Collins. Vi ho visti, ti teneva e non in amorevole abbraccio come un Romeo con la sua Giulietta.»

Tace. Il silenzio di vittima e colpevole.

«Voglio sapere cosa ti ha detto. O di cosa ti ha minacciato, probabilmente.»

«Non mi ha minacciato di nulla, lei fraintende, è-»

Lo schianto secco della tua mano sul legno. Ammutolisce. Stringi il pugno, il palmo ti brucia. «Io fraintendo?» Scatti in piedi, allo schedario metallico, scorri i fascicoli fino alla O.

Sbatti i due fogli protocollo sulla cattedra, davanti a O'Shea. «Ecco qua! Il tuo primo tema con me, una A. Il tuo secondo tema, a distanza di una settimana, una F

Fai il giro della cattedra, ti lasci ricadere pesantemente sulla sedia. «Le alternative sono queste: numero uno, hai avuto sfiga, non eri in forma, mettila come ti pare. Vorrei crederci, ma sono costretto a bocciarla perché hai scritto delle puttanate così gargantuesche da fare invidia a Anne Rice post rincoglionimento.»

Apre la bocca per parlare, ma la fermi con un gesto della mano. «Numero due,» e la tua voce inizia ad alzarsi, «ti sei sabotata da sola, volontariamente, per motivi che ancora mi sfuggono ma che, sono certo, hanno a che fare con Nathan Collins.»

Silenzio.

La guardi, china sui due fogli, la cascata bionda dei capelli a nasconderle il viso. Ti premi le mani sulle tempie, sospiri. «Hai una bella testa, O'Shea. Non sprecarla. Voglio aiutarti, ma non posso fare un cazzo se non mi dici quello che succede.»

Silenzio, ancora. Resti in attesa senza aspettative. Sicuro, senza aspettarti il singhiozzo che la scuote all'improvviso.

«O'Shea...» gracidi, perché è una ragazzina e sta piangendo e non sai come si asciugano le lacrime, non l'hai mai fatto.

«Mi dispiace,» dice e alza la testa, il naso rosso e le guance bagnate. «Mi dispiace, è-... è che non sapevo...»

Trai un respiro profondo, rifletti. Ti alzi e fai il giro della cattedra, ti ci siedi sopra, vicino a lei. Prendi la scatola dei fazzoletti e gliela metti davanti, sopra ai compiti.

«Con calma, O'Shea. Nessuna fretta,» cerchi di rassicurarla, mentre lei si asciuga il viso. Più facile a dirsi, calma. Ti viene naturale prendere il bicchiere di whiskey e allungarglielo. «Tieni. Un sorso ti farà bene.»

«Sono minorenne,» replica, ma non sembra scandalizzata. Inarchi le sopracciglia quando lo butta giù alla russa.

«Sì, e mi sembra che tu abbia già fatto pratica.»

Sorride, il respiro più regolare anche se le lacrime continuano a scenderle. Emette un lieve sospiro, stropicciando un fazzoletto tra le mani. «Collins se l'è presa per l'interrogazione. Ha detto che l'ho umiliato, e che se avessi provato a farlo di nuovo mi avrebbe messo contro tutta la classe.»

Non commenti, paziente. Le versi un altro dito di whiskey, che prende a sorseggiare piano. «Io non ho amici. A parte Akila, forse, ma lei ha il suo gruppo mentre io non riesco a parlare con gli altri, e allora pensano che sia strana, o snob. Ma un po' ci sto provando, a essere diversa... e quando Collins mi ha detto quelle cose mi sono sentita male. Volevo solo farlo contento, così mi avrebbe lasciato in pace.»

Sospiri, versi un bicchiere anche per te. «O'Shea, devi capire che Collins è un bullo e nessun bullo “lascia mai in pace”. Bisogna chiedere aiuto, non è vergogna.»

Si stringe nella felpa, mesta. «E a chi?»

«I tuoi genitori.»

Distoglie lo sguardo. «Non vivo con loro.»

Scuoti il capo, la osservi da sopra al bicchiere. Sai di non poter chiedere oltre. Non vuoi farla richiudere, la piccola ostrica. «Allora chiedi aiuto alla scuola. A me.»

Ti guarda, gli occhi grandi e lucidi. Una bambola vittoriana. «A... lei?»

«Non hai molta fiducia nell'autorità, vero?» Ridacchi. «Su, vatti a lavare il viso e corri, tra poco suona la campanella.»

«Ma...»

«Io mi occuperò di questa storia, tu pensa a studiare. Giovedì ti interrogo, devi recuperare quella F.»

Annuisce, la segui con lo sguardo mentre va alla porta. Si volta, un sorriso piccolo e pulito sulle labbra. «Grazie, professore. A domani.»

«A domani.» Chiude la porta, resti solo coi due fogli. Indugi per un momento prima di riporli, passi il dito sulla pagina. L'inchiostro sbava appena con la traccia d'una lacrima.

 

 

Sembrano usciti da una rivista: entrambi con lucenti capelli biondi, entrambi con i denti bianchi. Eliza Collins splendida nel suo vestito blu e il cappotto grigio tortora, Abraham Collins con la mascella scolpita al millimetro sopra al colletto della camicia immacolata e un completo che costa sicuro come tre dei tuoi stipendi.

Dopo dieci minuti di chiacchierata, li riduci rossi di vergogna e con le spalle curve per l'incredulità. Fai un respiro profondo, offri dell'acqua.

«Signori Collins, vostro figlio è ambizioso e ha un senso antagonistico esagerato. Non è un demonio, ma quel che ha fatto è puro e semplice bullismo, non possiamo girarci intorno.»

Abraham si prende la testa tra le mani. «Ma a casa è sempre così studioso, educato... ci fanno tutti i complimenti...»

«Ne sono certo, ma i fatti sono questi e non potete ignorarli. Forse dovreste far parlare Nathan con qualcuno.»

Eliza posa una mano sulla spalla del marito, ti guarda. «Uno psicologo?»

«Dipende. Credo che prima dobbiate parlarci voi, e poi valutare la situazione.»

Annuisce, le orecchie in fiamme dalla vergogna, si alza imitata dal marito. «Va bene. La ringraziamo per averci informato subito.»

Abraham ti stringe la mano, senza guardarti in faccia. «Per favore, porga le nostre più sentite scuse alla ragazza.»

«Sarà fatto. Arrivederci.»

Quando riferisci a O'Shea, il suo sorriso è caldo di gratitudine. Non ti hanno mai sorriso così.

 

 

Passano i giorni, sono quasi buoni quando sei a scuola e anneghi le ore di parole, respirando gesso e inchiostro tiepido. Le notti sono più lente a morire, le giri e rigiri con le lenzuola, ti si legano alle gambe e intorno al petto. Ti svegli nel mezzo delle ore con le costole schiacciate, trovi aria solo con le sigarette in giardino.

Chiami Marko, ma non gli chiedi risposte e lui non ti dà domande. Preferite ballarvi intorno così, senza far rumore. Senza ammettere nulla. Vi ascoltate i respiri attraverso la linea del telefono, mentre parlate di lavoro e di scadenze. Restano appese parole che non osi formare.

Perché mi fa male, la solitudine che cerco? Gravitami intorno, ma non toccarmi mai davvero.

Chiamate perse, hai smesso di contarle.

Ignori quell'esterno, quel bussare alla tua vita – lasciami in pace, non riesci a dirlo, non puoi rispondere – ti infili la giacca, aggiusti il nodo della cravatta, ti guardi nello specchio dell'ingresso. Più rughe, gli zigomi un poco più sporgenti. Dovresti lasciar perdere lo schifo, le sigarette e l'alcol, ma di qualcosa dovrai pur morire. (Vorrai.)

Prendi la cartella e vai a scuola. Ricomincia a nevicare.

 

Pranzi in fretta, poca fame, poca voglia di sentire la voce di Leah, di Tamara. Quando Weaving si aggiunge alla loro chiacchierata sulle vacanze ormai vicine, decidi che ne hai abbastanza e te ne vai senza salutare. Prendi un caffè dalle macchinette nell'atrio, lo sorseggi con calma godendo il silenzio quasi totale, solo il brusio morbido di qualche studente che passa. Lo strappo di nastro adesivo. Alzi lo sguardo a un paio di ragazzi dell'ultimo anno, stanno appendendo una locandina al muro. Aspetti che se ne vadano prima di avvicinarti: uno sfondo di velluto rosso, una maschera bianca. Corso di teatro. Aperto a tutte le età. Per informazioni chiamare il.

Leggi quelle parole un'altra volta e ti senti un prurito nella nuca. Quei pomeriggi nel suo solaio, i fogli sparsi e scribacchiati, e quando gli altri tornavano a casa tu restavi ancora un poco. Lui apriva due lattine di birra e restavate a mollo nel crepuscolo, lui che leggeva, tu che ascoltavi.

No, grazie... Ma cantare, sognare, ridere... splendido, da solo in libertà, aver l'occhio sicuro e la voce in chiarità, e mettersi se va il feltro di traverso, per un sì per un no, scrivere spada... o scrivere un verso.

 

Quasi fai per toccare una delle strisce di carta, strapparla e portarti via quel numero, quasi. Ma ti scotta. Non puoi farlo, non questo. Appartiene a un'altra estate di troppi anni fa, appartiene a un'altra vita. Un altro Kevan.

Lavori fino a tardi, ceni con un bicchiere di whisky, ti nascondi sotto le coperte. Ti nascondi da tutto.

 

 

 

 

Every day there's a boy in the mirror

Asking me “What are you doing here?”

Finding all my previous motives

Growing increasingly unclear

 

 

 

 

 

 

 

 

 

N.d.A.

 

Brano citato tratto dal Cyrano de Bergerac, di Edmond Rostand.

Canzone: Kings of Convenience, Homesick.

 

 

 

 

 

  
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