Cinque giorni.
Cinque giorni di preparativi, poi
erano partiti alla
volta dell’ignoto, alla volta di Quetzalli.
Arrivare a Phantasia senza dare
nell’occhio non era
stato così difficile, non quanto una Madre Natura preda
delle paure derivanti
da brutti ricordi aveva inizialmente temuto almeno, complice il fatto
che Phobos
avesse “un piano”.
Suddetto piano aveva la forma di
pietre multicolore
simili a opali, che -a detta del rosso- avrebbero permesso la stessa
identica
cosa dei globi di neve di Nord, con la differenza che, se questi ultimi
permettevano ai guardiani di spostarsi sulla Terra, allora i suoi
sassolini
sbrilluccicanti possedevano un raggio d’azione ben
più esteso.
E aveva avuto ragione, a dispetto
della profonda
sfiducia e diffidenza dimostrata dalla sua lamentosa compagna
d’avventure.
Il tempo che la gemma toccasse il
pavimento, e un
portale si era aperto davanti ai loro occhi increduli di una,
compiaciuti
dell’altro; oltrepassato quello, erano spuntati ai confini
del regno di Phantasia,
dove finiva l’area direttamente governata da Harmonia e
iniziava Tauremorna,
“il bosco nero”, un luogo proibito e addirittura
maledetto, secondo alcuni.
Talmente maledetto che Phobos ed
Emily Jane Pitchiner
stavano facendo un pic-nic poco lontano dal suo perimetro, sdraiati
com’era sul
dorso di Thorax sotto l’ombra di giganteschi funghi bianchi
dalle lamelle verde
acqua luminescenti.
Il ritratto del terrore,
assolutamente.
Reduce da un violento litigio a
tema “nelle provviste
mettiamo le Pringles alla panna acida e cipolla, che piacciono a me, o
quelle
BBQ, che piacciono a te?”, l’uomo prese una
patatina e se la infilò in bocca. Ringraziò
di aver optato per il portarle entrambe.
«Che si fa,
adesso?»
«È la stessa
domanda che mi hai fatto quando siamo
arrivati quattro ore fa, genio».
Emily si alzò e si pose
davanti al compagno guardandolo
dall’alto in basso, imbronciata. Alzò una mano e
iniziò a contare con le dita.
«Da allora, le tue idee
in proposito sono state le
seguenti, in ordine: “diamoci un’occhiata
intorno”, “cerchiamo una via
d’entrata”,
“cerchiamo una via d’uscita in caso
d’emergenza”, “guardiamo su Exodus Maps
perché non si trova un cazzo di niente”,
“mangiamo fino a perdere la cognizione
del tempo”. Di tutto ciò, abbiamo portato a
termine con successo giusto
l’ultima cosa, capitan “fidati che ho un
piano”» si lamentò «inoltre,
siamo
anche pericolosamente esposti. Te l’ho detto che prima mi
è pure parso di
intravedere Myricae impegnata in un giro di guardia, no?
Ecco».
«Non è colpa
mia! Quella roba» controbatté lui,
indicando la foresta «è fottutamente impenetrabile
senza che si passi per
l’ingresso principale! Che nemmeno
c’è!»
E Phobos aveva ragione, purtroppo
per loro.
A proteggerla, la città
di Quetzalli non aveva solo
quella distesa di alberi millenari e arbusti fitti e sterpaglie alte
quanto un
uomo a perdita d’occhio che era Tauremorna, ma -attorno ad
esso- c’era una
serie non meglio definita di vulcani attivi,
una sorta di muraglia naturale di roccia e fuoco che circondava
totalmente il
territorio in mano alle Ophidians. Come se ciò non bastasse,
svariati di quei
vulcani erano talmente antichi da avere i pendii erosi e fessurati
dagli eventi
naturali, motivo per cui -di tanto in tanto- si potevano osservare
lacrime
incandescenti fare capolino sulle guance di quei giganti di terra,
sottilissimi
fiumi di magma che colavano fin sull’erba e lì si
solidificavano, complice
l’abbondanza di fiumi nella zona che arrestavano il flusso
lavico prima che
potesse dar vita a ben più pericolosi incendi.
Cola e cola, solidifica e
solidifica, millennio dopo
millennio anche l’acqua aveva ceduto, e quelle bisce
fiammeggianti si erano
accumulate a tal punto da straripare fuori dagli argini e crearne di
nuovi,
questa volta di pura ossidiana.
E l’ossidiana non si
rompeva, quando la lava ci colava
sopra, anzi!
La lasciava accumulare e
accumulare, fino a creare
curiosi corsi di magma anziché d’acqua, una
cintura di fuoco che seguiva i confini
di Tauremorna e rendeva impossibile accedervi a piedi;
l’unica strada
percorribile era il ponte scavato all’interno di un
gigantesco vulcano spento
-la cui sommità era stata intagliata a forma di testa di
serpente, giusto per
rendere chiaro dove portasse- che lo attraversava da un lato
all’altro.
Un ponte ormai crollato, tanto per
cambiare.
O meglio, fatto crollare dalle
Ophidians secoli prima,
così da impedire a chicchessia di violare
dall’esterno la clausura atta a
salvaguardare il loro popolo, ma ciò non cambiava le cose:
Emily e Phobos
avevano bisogno di entrare, e non c’erano vie per farlo.
«Passiamo
sottoterra».
Non vie convenzionali, almeno.
A sentire l’assurda
proposta della Pitchiner, l’altro
scattò in piedi strabuzzando gli occhi.
«Cosa ti sei fumata,
precisamente?»
«Di sicuro nulla di
peggiore di ciò che ti devi essere
fumato tu quando sei piombato nella mia vasca dopo averla riempita di
fagioli
in salsa» ridacchio Emily Jane. Tornò
però subito seria «Tralasciando l’uso di
sostanze stupefacenti da parte di uno o dell’altra, quando
siamo andati in
esplorazione ho notato dei grossi crateri di terra smossa sparsi nel
terreno tutt’intorno
alla foresta, specie in quello roccioso ai piedi dei vulcani».
«E quindi? Cosa credi,
che ci siano pure dei tunnel
sotterranei che portato a Khazad-dûm, il Reame di
Nanosterro?»
«Precisamente
quello» confermò «anche se temo che non
troveremo Thorin Scudodiquercia a darci il benvenuto offrendoci birra e
cinghiale, quanto più dei lombrichi grossi, brutti e molto, molto, affamati».
«Cos-»
«Diggerwurm. Colossali
vermi che si muovono nelle
profondità di tutto Exodus scavandovi gallerie nella roccia
come se fosse
gelatina» lo anticipò, invitandolo ad alzare il
culo e seguirla. Forse perché troppo
occupato a tenere aperta la bocca in un misto fra sorpresa e terrore,
Phobos obbedì
senza fiatare.
Lo portò fino al cratere
di cui parlava.
«Hanno mascelle immani,
capaci di spaccare montagne e inghiottire
intere città tutte d’un colpo, facendole svanire
in un battito di ciglia quando
-occasionalmente- riaffiorano in superficie, ma sono bestie totalmente
cieche
ed estremamente pacifiche» fece una pausa, pensierosa
«… per quanto possa
definirsi pacifico un verme chilometrico che scava la terra per
assicurare il
cibo a se stesso, e l’uniformità
dell’orogenesi al pianeta, insomma. Lezione di
biologia a parte, hai capito dove voglio arrivare, sì o
no?»
Lui scosse la testa, provocando un
sospiro rassegnato
da parte dell’altra.
«Intendo dire che
possiamo passare per quelle
gallerie, Phobos, sono talmente fitte che è matematicamente
impossibile che non
ce ne sia almeno una che porta dentro a Quetzalli! Tipo ques-»
«E se non la troviamo? Se
questa» additò
la buca davanti a loro «portasse da qualsiasi altra
parte, ma non a Quetzalli? E se spuntassimo dove dobbiamo spuntare, ma
venissimo circondati? Se ci trovassimo dietro il culo uno di quei
mostri? Se-»
«Se tu stessi zitto,
allora ti renderesti conto che
non abbiamo alternative!»
La giovane Pitchiner
allargò le braccia, come a
indicare la vastità che li circondava.
«Guardati intorno: hai
un’idea migliore? Perché se ce
l’hai, allora sono tutta orecchi!»
sbottò irritata. Dal compagno di avventure
non provenne risposta. Lei, allora, si chinò a prendere una
manciata di terra,
passandola fra le dita «È completamente asciutta,
questo passaggio non viene
utilizzato da svariato tempo» rifletté ad alta
voce «dovrebbe essere sicuro».
«Dovrebbe?»
«Non posso averne la
certezza. Basterà entrare e stare
attenti a non prendere i tunnel dove il suolo è umido o
vetrificato, perché
potrebbe essere segno della presenza di qualche diggerwurm: si muovono
nella
crosta rocciosa, sì, ma né il magma incandescente
né le tremende pressioni oceaniche
fanno paura alla loro stazza, per cui se dovesse esserci uno di questi
segnali…»
«Significherebbe che
siamo fottuti».
«Vedo che hai
capito» convenne lei, non senza un velo
di amarezza «per cui… ?»
«Per cui vai avanti tu.
“Prima le signore”, come si
suol dire» rispose pacificamente Phobos, esibendosi in un
inchino e un
sorrisetto compiaciuto.
Maledicendo come mai prima
d’ora il suo essere donna, Emily
Jane tenne per sé la serie di insulti che iniziarono a
balenargli nella mente,
limitandosi a fulminarlo con lo sguardo.
Lasciato Thorax ad attenderli
nascosto in una grotta,
infine si mise a capo della spedizione, il rosso dietro di lei che
teneva
accesa sul palmo della mano una fiamma per illuminare il luogo dove si
stavano
addentrando.
“Pregando che non diventi
la nostra tomba”, aggiunse
mentalmente.
Quando però furono
appena ad una decina di metri dall’entrata,
e notò che la rassicurante luce dei Soli già li
aveva abbandonati, quelle
preghiere iniziarono a sembrarle inutili.
Nelle gallerie scavate dai
diggerwurm regnava un
silenzio assoluto, irreale, quasi inquietante, come se quegli oscuri
meandri fossero
troppo sacri per essere violati da qualsiasi suono che-
«Questa è la
danza del serpeeenteeeee che vieeen
giùùù dal mooonte per ritrovare la sua
cooodaaaa che peeerse un dì!»
Che non fosse la voce di Phobos
mentre cantava
filastrocche per bambini, appunto.
Con agilità degna del
rettile le cui gesta stava cantando,
alla cantilena aggiunse pure un movimento più o meno
serpentino del corpo,
ondeggiando a destra e sinistra mentre girava intorno ad una
mentalmente
esaurita Madre Natura.
Ad un certo punto le si
fermò davanti, ovviamente
continuando a dimenarsi.
«Ma dimmi un po’!»
le puntò gli
indici sul naso, tirando fuori e agitando la lingua nel penoso
tentativo di
sibilare. O meglio, sputacchiare.
«Smettila».
«Sei proprio tu!»
iniziò a
punzecchiarle, palpeggiarle, molestarle, le guance pallide e scavate,
nemmeno
fosse una vecchia zia con addosso il caratteristico profumo di
patchouli.
«Finiscila».
«Quel pez-zet-tin del mio
co-din! Sì-»
«NO!»
Di fronte ad una reazione tanto
violenta da parte
della sua amyketta, il povero serpente rosso di capelli voglioso di
faciola rimase
interdetto qualche istante, evidentemente sconvolto; qualche istante,
appunto,
perché subito dopo le fece una linguaccia degna di un vero
ofide, a giudicare
da quanto aveva tirato fuori la lingua.
«…
Malmostosa» la rimproverò semplicemente,
imbronciato.
L’altra si astenne dal
dargli corda: con lui bisognava
agire così, lasciarlo parlare e attendere che si stancasse
di farlo da solo; in
caso contrario, bisognava avere sottomano una serie non meglio definita
di
frecciatine particolarmente pungenti per sostenere il botta e risposta
che sarebbe
scaturito dall’assecondare le sue uscite infelici.
Ed Emily Jane, che aveva ben altre
priorità per la
mente, certo non poteva permettersi il lusso di cazzeggiare e dimenarsi
e
rompere l’anima a chicchessia.
Specie perché iniziava
ad avere il vago sentore che si
fossero persi.
E si poteva pure togliere il
“vago”.
Non aveva la più pallida
idea del tempo da cui
stessero camminando, come nemmeno sapeva dove accidenti fossero finiti:
la
bussola non funzionava, il cellulare non aveva campo, gli enormi tunnel
-di
terra nerastra talmente compatta da sembrare cemento, sulle cui pareti
spuntavano ogni tanto ossa, pietre preziose e radici grandi quanto una
persona-
tutti uguali fra loro, che si incrociavano e diramavano fin dove solo
gli dei
sapevano.
Un labirinto sotterraneo, insomma.
Per evitare le gallerie umide -e
quindi fresche,
riconoscibili dalla terra più morbida che al solo tocco
cadeva come polvere ai
piedi- avevano svoltato una, due, tre, cinque, forse anche dieci volte,
ma non
era servito a nulla… se non a perdersi ulteriormente,
ovviamente.
Come se ciò non fosse
bastato a rendere un vero e
proprio inferno quella traversata, appena il buio li aveva avvolti
l’ansia era
arrivata a rischiarare le loro menti: la minima vibrazione o rumore,
pure che
fosse quello di un sasso calciato da uno dei due, e scattavano dritti
con le
orecchie tese, il cuore in gola all’idea che -da un momento
all’altro- sarebbe
spuntato un diggerwurm da dietro l’angolo. Non avrebbero
avuto vie di fuga,
allora, come pure non ne avevano adesso: ritrovare la via del ritorno
sarebbe
stato impossibile, andare avanti lo sarebbe stato altrettanto, dal
momento che
si muovevano alla cieca!
Madre Natura gettò uno
sguardo verso il rosso, che
continuava a ballettare tranquillissimo e sereno come non mai: era
pazzo,
assolutamente e indubbiamente pazzo.
Loro rischiavano di rimanerci
secchi, e lui che
faceva? Cantava e ballava.
«Emily».
E la importunava, anche quello.
Non si girò nemmeno,
consapevole che quasi sicuramente
si trattava di una delle sue solite stronzate.
«Cosa vuoi? Ti avviso che
se devi raccontarmi una
delle tue barzellette sconce, se vuoi propormi di fare sesso prima di
crepare
quaggiù, o se hai nuovamente intenzione di commentare la mia
mancanza di un
fondoschiena col quale puoi deliziarti mentre mi cammini dietro,
allora-»
«Devo andare al
bagno».
Ora però si
girò, basita.
«Ah! Affari tuoi! Dovevi
farla prima che entrassimo,
adesso vai a sapere dove cazzo siamo finiti!» gli
urlò contro, evidentemente
adirata «Se proprio devi, allora falla su qualche parete!
Tanto ce ne sono in
abbondanza!»
«Ma poi mi
guardi».
«Non
m’interessa proprio nulla dell’appendice che hai
in mezzo alle gambe, puoi starne assolutamente sicuro. Non tirarla per
le
lunghe, Phobos, fai quello che devi fare andiamo!»
«Dove?»
«Non ne ho la minima
idea, per gli dei! NON LO SO!»
urlò, salvo prendendoselo a braccetto subito dopo.
Lo accompagnò ad una
ventina di metri da dov’erano.
«Quando avrai una
risposta, allora falla sapere pure a
me, ma intanto» gli slacciò la cintura, lasciando
cadere mollemente i pantaloni
a terra «piscia e taci!»
«Ma-»
«TACI!»
Lui, gli occhi fuori dalle orbite a
causa
dell’improvvisa severità dell’altra, non
rispose, limitandosi a marchingegnare
per fare ciò che doveva.
Nell’attesa che quel
disgraziato terminasse ciò che
doveva fare, la figlia dell’Uomo nero chiuse gli occhi e si
godette quell’attimo
di silenzio che, finalmente, poté concedersi: forse si erano
persi, ma almeno
non aveva suo padre e Gwenllian intorno, il che era-
«Emily».
“Non
prenderlo a
pugni, non prenderlo a pugni, non prenderlo a pugni”.
Inspirando ed espirando
profondamente per svariate
volte, esibendo il miglior sorriso che aveva nel repertorio e
fingendosi calma,
la Pitchiner si decise ad ascoltarlo.
«Cosa
c’è?»
«Per caso i diggerwurm
hanno il corpo che somiglia
alla roccia di cui si nutrono, con una mandibola che si divide in
più pezzi
vagamente somiglianti alle tenaglie di un insetto, con grossi buchi o
placche
al posto degli occhi, la testa scavata come un teschio animale e delle
specie
di ossa che spuntano dal loro corpo?»
«Ci sono molte forme di
diggerwurm ma sì, l’aspetto
grossomodo corrisponde alla tua descrizione»
confermò «perché?»
«Per quello»
rispose indicandogli le profondità della
galleria.
Essendo rischiarati solo i pochi
metri circostanti a
loro dal fuoco dell’uomo, lei proprio non vedeva nulla;
decise di rimediare
strappando una radice dal soffitto e chiedendo al compagno di
incendiare
quella, così da usarla come una torcia.
La gettò verso il fondo
del tunnel.
E vide un cucciolo di diggerwurm
-nulla di che
rispetto agli adulti, sarà stato lungo una quarantina di
metri o giù di lì- che
curiosava poco lontano da dove si trovavano.
Dietro di lui, uno dei genitori,
una bestia lunga venti
volte tanto.
Che stava allargando la galleria.
E puntava verso di loro.
Mantenendo una calma proverbiale,
Emily Jane prese la
mano al suo compagno di disavventure, stringendogliela fino a farla
diventare
bluastra.
«Phobos».
«Sì?»
«CORRI!»
Di disavventure, e ora pure di
maratona.
---
Si strofinarono gli occhi per
cinque minuti buoni, non
convinti com’erano che il tunnel sotterraneo li avesse
seriamente portati dove avrebbe
dovuto portarli.
Alberi talmente alti e fitti da
oscurare persino i
raggi solari su tutti i fronti, qualche rustica capanna con mura di
fango e
tetto di paglia, un terreno sterile -per la mancanza di luce e calore-
con una
manciata di orti coltivati a frutta e verdura e cereali frugali, quel
che
bastava per sfamarsi insomma, fiumiciattoli quasi aridi e, infine,
terre
devastate dalle eruzioni vulcaniche.
Una civiltà
sull’orlo del baratro, in poche parole.
Ecco, la loro idea di Quetzalli era
qualcosa di molto
simile a questo: una città sperduta nella foresta, popolata
da tristi naga
ermafrodite abbandonate a se stesse, scarnite per la mancanza di cibo
e,
soprattutto, arrabbiate col mondo che aveva voltato loro le spalle.
La realtà,
però, era un tantiiiiiiiiiino differente.
Una città immersa fra
gli alberi, sì, ma circondata da
una foresta che assicurava una costante frescura anche durante i giorni
più
torridi, quando -come ora- i raggi dei Soli si riversavano roventi
sulle imponenti
piramidi azteche e gli innumerevoli castelli che parevano usciti da
“Le mille e
una notte”; le abitazioni, coperte d’oro e di gemme
preziose com’erano, risplendevano
al punto da colorare anche l’acqua delle numerose oasi
presenti qua e là nella
città, sulle quali si affacciavano svariate di quelle case
che -grazie alle
rampe e rampe di scalini che emergevano dalle acque come alberi di
mangrovia- vi
si gettavano letteralmente dentro a capofitto.
Se non era El Dorado quella, allora
non avrebbe potuto
esserlo nessun’altra città.
A dispetto del terreno arido
atteso, le strade dorate
di Quetzalli si snodavano invece in un vero e proprio tappeto di un
acceso
verde smeraldo, una distesa rigogliosa nella faceva capolino ogni
genere di fiori
e frutti e bacche -commestibili e non- dai colori vividi e brillanti,
complice
la cenere vulcanica che rendeva estremamente fertile il suolo.
E nemmeno le abitanti parevano poi
tanto malinconiche
e inconsolabili a causa del loro isolamento, tutt’altro!
Ovunque si gettasse lo sguardo, si
potevano vedere Ophidians
e Ophidians ora impegnate a strisciare serenamente per le vie della
città con
ceste di frutti esotici fra le mani, ora a conversare fra loro sulla
riva del
fiume tenendo d’occhio le figlie che sguazzavano
nell’acqua, ora a combattere in
quella sinuosa danza di corpi serpentini che s’avvolgevano
l’uno con l’altro in
nodi impossibili da sciogliere. Qualsiasi cattività stessero
facendo, però, una
cosa era certa: non erano tristi, né scarnite, né
arrabbiate col mondo.
Emily e Phobos si scambiarono uno
sguardo fugace,
impegnati com’erano a tenere la bocca aperta per lo stupore,
immobili come
statue.
«È la cosa
più bella che abbia mai visto in
millecinquecento anni di vita».
«Sì, lo
è» confermò lui, incapace di aggiungere
altro
«e dimostra che-»
Improvvisamente, il rosso
avvertì una forte pressione
sulla spalla, come se l’altra gliela stesse stringendo con
particolare forza;
d’istinto mise una mano dove iniziava a sentire i muscoli
intorpiditi, per
levargliela.
«Cosa diavolo stai- oh».
O Madre Natura aveva la pelle
più secca che esistesse
nell’intero cosmo, o stava toccando la mano di
un’Ophidians. E i serpenti
corallo che si trovò tutto d’un tratto a
sibilargli ad un palmo dal naso
confermarono la seconda opzione.
Una naga dalla coda nera costellata
di squame rosse e
gialle aveva poggiato le proprie mani squamate sulle spalle di
entrambi,
cogliendoli totalmente di sorpresa.
«Mani naa essa en lle?
Qual è il vostro nome?» sibilò.
I due avventurieri -paralizzati
com’erano da un misto
di puro terrore, adrenalina a mille e l’istinto da
“fight-or-flight” incapace
di prendere una decisione- non risposero, limitandosi a fare la parte
degli
stoccafissi lasciati a seccare al Sole.
Lei, allora, li girò
verso di sé con una certa
decisione.
«Vi ho fatto una domanda,
e siete pregate di rispondere:
chi siete? Dove siete state catturate e, soprattutto, da quale Airë
Tári? Di chi siete schiave?»
«Naa rashwe?
C’è qualche problema?» intervenne
un’Ophidian
dalle squame bianco e arancio e rosse armata di lancia, accodandosi
alla prima.
«Ho trovato or ora queste
due schiave che si
guardavano intorno, ma non paiono intenzionate a parlare e dirmi chi
sia la
regina che le ha catturate» spiegò
l’altra serpentessa, indicandoli «secondo te
a chi possono appartenere? I loro volti non mi sono nuovi».
«No, infatti, anche a me
pare di averle già viste»
convenne pensierosa; afferrò il mento di entrambi e si mise
prima a studiarli,
poi a sollevare lembi di stoffa come a cercare qualcosa.
Controllò loro il collo,
poi smise.
«Confermo che sicuramente
sono nuove schiave, non indossano
ancora alcun ruxal' ambönnar e le loro vesti sono lerce e
consumate, ma resta
da capire a quale regina appartengono. E bisogna saperlo con certezza,
dal
momento che il furto di serve altrui costa carissimo».
«A mio avviso»
intervenne la naga dalle squame nere «sono
proprietà di Airë Tári Hippolyta.
Considerando la quantità di femmine da lei
catturata durante l’ultima battuta di caccia, non mi
sorprenderebbe sapere che
un paio di loro si sono separate dal gruppo, magari mentre venivano
scortate
all’harem per essere marchiate».
«Avrebbe senso»
concordò «del resto è risaputo che lei
e l’Airë Tári Antiope sono le prime a
muoversi, quando arriva la notizia di
qualche straniera nei nostri territori. E considerando che Antiope
è gravida e
fuori forma, poco ma sicuro che è Airë
Tári Hippolyta l’è sfilata davanti al
naso con lazo e rete in bella vista» ridacchiò.
Tirò fuori dalla
saccoccia che teneva appesa in vita
una spessa corda, con la quale legò le mani di uno e
dell’altra. Nessuno dei
due oppose resistenza.
«Le riporto a lei,
allora, e le riferirò che sei stata
tu a ritrovarle. Aa’ menealle nauva
Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta,
mellonamin»
fece un breve inchino quella dalle squame arancioni.
«Aa’
i’sul nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle,
mellonamin»
ricambiò l’altra, allontanandosi.
Il rosso guardò la
Pitchiner dritta negli occhi,
incontrando due sfere dorate rese totalmente inespressive dalla
preoccupazione.
«Spero almeno abbiano i
faciola in salsa», le disse.
Il tragitto per arrivare
all’abitazione della loro
“padrona” era stato più lungo del
previsto, e anche più istruttivo di quanto
potessero lontanamente immaginare: girando e svoltando per vie dalle
mattonelle
d’oro, i due prigionieri avevano avuto l’occasione
di osservare la città da una
prospettiva differente.
Una prospettiva che li avrebbe
decisamente dissuasi
dall’impresa, se solo l’avessero notata prima di
entrare.
Ora come ora, mischiati
com’erano in mezzo alla
popolazione, potevano finalmente notare che non erano solo Ophidians ad
abitare
Quetzalli: insieme a loro, spesso e volentieri affianco,
c’erano anche delle
donne.
Non Ophidians.
La maggioranza di loro avevano
tratti umanoidi, ma -cammina
e cammina- c’era voluto poco perché ne
incrociassero anche di razze sconosciute
ad entrambi: umane, aliene, succubi, dalle fattezze animalesche,
talmente alte
e muscolose da sembrare montagne o così minute e magre da
parere fragili come
ali di farfalla. Tutte sorridenti e serene, in quegli abiti succinti
-che andavano
dai variopinti tessuti indiani, ai leggeri veli in stile arabo, fino a
bikini
che lasciavano ben poco su cui lavorare alla fantasia- che nulla
avevano a che
fare con i collari intorno alle loro gole, segno inequivocabile dello
status di
schiave.
Schiave, certo, ma che non si
comportavano affatto
come tali: parlavano e ridevano e scherzavano con le Ophidians, davano
preziosi
consigli su quale stoffa o gioiello meglio s’intonasse alle
squame, badavano
alle stesse figlie della loro padrona che scorrazzavano da una parte
all’altra
del mercato.
Erano schiave, ma sembravano quasi entusiaste di quella loro condizione.
Impegnati com’erano a
guardarsi intorno, non notarono
quando la naga che li stava accompagnando si fermò; finirono
per sbattere
addosso alla sua schiena.
Intuendo di essere arrivati,
alzarono entrambi il
naso: se le altre abitazioni erano immense, allora quella le superava
tutte, tutte.
La piramide azteca centrale era
tremendamente alta,
talmente tanto che a malapena si vedeva la sommità,
affiancata da un’infinità
di statue -prevalentemente di serpenti o naga- e da un complesso di
torri dalle
coloratissime cupole che parevano essere uscite dal film
“Aladdin”; di fianco ad
essere c’erano appartamenti più bassi,
sì, ma ugualmente curati e maestosi,
considerata l’imbarazzante quantità di gemme e
mosaici che ne rivestivano le
facciate.
E il sobrio color oro che ricopriva
tutto e accecava
al solo guardarlo, ovviamente.
Sentirono la presa sui propri polsi
allentare, fino a
svanire completamente.
«Questa è la
vostra nuova casa. Il mio compito e le
mie responsabilità terminano dove iniziano questi
cancelli» asserì l’Ophidian
che li aveva accompagnati, slegandoli. Indicò loro
l’ingresso alla casa «D’ora
in avanti, siete nelle mani della vostra nuova Airë
Tári, la vostra regina
nonché padrona dei vostri corpi e delle vostre vite, mi
avete capito?»
Entrambi annuirono, sebbene non
stessero seguendo
minimamente il discorso. L’altra si guardò intorno.
«Dovrebbe arrivare una
schiava a prender- oh, eccola».
Una figura fece capolino dalla
porta, una donna dalla
pelle scura ed i capelli verde acqua abbigliata nemmeno fosse la
principessa
Jasmine, con la differenza che il suo ampio abito era di un tenue rosa
ciclamino.
Appena arrivò e la
salutò inchinandosi, la serpentessa
spinse i due verso di lei con la coda.
«Appartengono alla tua
regina. Miulë Otrera le ha
ritrovate ai confini di Quetzalli, probabilmente si erano perse, ma ora
sono
dove devono essere» asserì con un cenno del capo.
«La mia parte di lavoro l’ho
fatta riportandole qui, ora devo andare: porgi i miei saluti alle tue
signore,
mi raccomando».
«Sarà
fatto» le sorrise la schiava «le mie padrone
sicuramente apprezzeranno il vostro gesto e si premureranno di
ringraziarvi a
dovere».
Si chinò nuovamente in
segno di riverenza, mantenendo
la posizione finché la naga non uscì dal suo
campo visivo.
Allora, e solo allora, si
girò verso Emily e Phobos.
«Che bello che bello che
bello che bello CHE BELLO!»
squittì entusiasta, afferrando le mani di entrambi
«Nuove amiche! Nuove amichette
con le quali fare conoscenza e prendere il tè assieme e
insegnare cucinare e truccare
da mattina a sera e con le quali massaggiare con l’olio
profumato la regina tuuuuuuutto
il giornoooooooooo!» iniziò a saltellare e
ballettare «Sono così contenta!
CONTENTISSIMA! IL
VOSTRO ARRIVO È UNA
NOTIZIA BELLA BELLISSIMA ESATTAMENTE COME LO SIETE VOI VI AMO
GIÁ SIETE
MERAVIGL-»
«Ma cosa stracazzo ti sei
fumata?!!» tuonò il rosso,
divincolandosi dalla presa della serva. Quest’ultima si
fermò e si mise a
guardarlo, pensierosa.
Solo per due secondi netti, sia
chiaro.
«Niente! Giuro di non
aver ancora toccato il narghilè,
oggi!» esclamò mettendosi la mano sul cuore,
ridacchiando «Sto solo esprimendo
esternamente l’immensa gioia che riempie il mio petto nel
vedere che sono
arrivate in casa due future amiche amicissime
amicissimissime!»
«Non puoi esprimerlo in
modo più calmo?» bofonchiò lui.
«NO! Non bisogna
contenersi di fronte a cose così
belle bellissime!» rispose con tanto di linguaccia. Gli
afferrò le guance e gli
si pose davanti, naso contro naso, facendolo perdere in quelle iridi
grigio
scuro «Ma non stiamo qui a cincischiare! Dovete conoscere
tutte le altre! E la
regina! E pure l’altra regin- ah no, ora non è in
casa…» si bloccò, mollando il
rosso con un buffetto «E va beh! La conoscerete dopo, tanto
di tempo ne avete a
bizzeffe! Però priiiiiiiiiiiiima di andare a fare
conoscenza... PRESENTAZIONI!»
Ballonzolò qualche metro
più avanti, estraendo dalla
tasca degli ampi pantaloni rosati due ventagli con
-all’estremità- un lungo
velo dello stesso colore che andava sfumando fino al bianco;
iniziò ad agitare
il corpo sinuoso e ballare per loro, inscenando qualcosa che doveva
somigliare
ad una danza orientale.
Il teatrino durò una
manciata dei minuti, al termine
dei quali fece un inchino.
«Il mio nome è
Amira, piacere!» incrociando le
braccia, strinse le mani a entrambe «Il vostro invece qual
èèèèèèèè?»
«Io sono Emily
Ja-»
Phobos se la tirò a
sé girandosi, dopo averla
interrotta con una gomitata sul fianco.
«Che diavolo stavi
facendo? Vuoi dirle “Ehi! Sono
Emily Jane Pitchiner, ma tu puoi chiamarmi pure Madre Natura o sovrana
di
Tandokka”, ti sei rincoglionita?!!» la
rimproverò a bassa voce, severo.
La donna non
controbatté, ben sapendo che il suo
compagno aveva ragione: probabilmente nessuna delle schiave conosceva o
aveva
anche solo sentito nominare uno dei due, ma -per un motivo o per un
altro- era
meglio non rischiare; erano già nella tana del serpente,
metterlo in allarme e
lasciare che si svegliasse avrebbe significato essere sicuramente morsi.
E avevano come
l’impressione che quel morso gli
sarebbe stato fatale.
«Lieta di conoscerti,
Amira, il mio nome è-»
«Emilia Gianna»
rispose l’altro per lei «mentre io sono
Phoebe, piacere di fare la tua conoscenza».
«Figuratevi! È
un piacere tutto mio, quello di
scortare due belle signorine come voi dalla mia signora,
così possiamo già
parlare del più e del meno fra noi ancora prima di
presentarvi a tuuuuutte le altre!»
cinguettò lei, letteralmente in visibilio.
Le prese frettolosamente a
braccetto.
«Presto, presto,
andiamo!»
Avvicinandosi
all’abitazione verso la quale stavano
venendo condotti, entrambi non poterono fare a meno di notare il
lussureggiante
e ampio giardino che circondava la villa: alberi da frutto, piante
rampicanti
che si avvinghiavano sugli stessi come a stringerli in un abbraccio
verde
smeraldo, e infine fiori, fiori a non finire, così profumati
da spargere il
loro aroma dolciastro per tutta l’area lì intorno.
Appena visibili da dove si trovavano
loro, delle lunghe vasche -piantate nel terreno- tappezzate di tasselli
colorati, nella cui acqua limpida si specchiavano e giocavano almeno
una
dozzina di donne come Amira.
«All’interno le
piscine sono mooooooolto più grandi»
li informò la schiava, notando i loro sguardi meravigliati
«quelle dentro sono
grosse tanto… tanto… ecco! Tanto
così!» allargò a più non
posso le braccia,
fiera.
«Amira».
«Sì, Emilia
Gianna?»
“Giuro che questa gliela
farò pagare, a quel maledetto
disgraziato!”, si promise mentalmente la figlia
dell’Uomo Nero.
«Posso chiederti una
cosa?» domandò timida, sperando
di non osare troppo. I suoi dubbi vennero però fugati dalla
schiava, che le
sorrise bonariamente.
«Certo! Chiedi pure tutto
ciò che vuoi, tutto
tuttissimo tuttissimissimo!»
Tirò un sospiro di
sollievo.
«Quando quella naga ci ha
catturato ai confini della
città, ha iniziato a chiederci insistentemente da chi
fossimo state catturate,
e come lei ci è stato chiesto anche dall’altra
serpentessa che ci ha portato
fin qui; parlavano entrambi di “Airë
Tári”, se non ricordo male, e -alla fine-
hanno concluso che appartenessimo ad una certa “Airë
Tári Hippolyta”. Hai idea
di chi sia, per caso?»
«Ma certo! È
la mia padrona, e ora è anche la vostra!»
rispose entusiasta.
Tirò fuori un paio di
occhiali e se li poggiò sul
naso, come per sembrare più acuta di quanto non fosse e
avere quel nonsochè di
intellettuale.
«Dovete sapere che qui a
Quetzalli, “Airë Tári”
è il
titolo che spetta alle regine che possiedono gli harem più
grandi, e che -per
questo e altri motivi- fanno parte
del Calaciryandë, una sorta di gran consiglio della
città» spiegò, continuando
a camminare. «Immediatamente dopo di loro, troviamo le
“Airë”: sono simili alle
precedenti, semplicemente non hanno ancora raggiunto un livello tale da
meritare un posto nel consiglio; dulcis in fundo, ci sono le
“Miulë”, ovvero le
principesse che non hanno ancora un harem proprio, o che sono agli
inizi della
costruzione di quest’ultimo. È una spiegazione
molto approssimativa, lo
riconosco, ma le differenze principali sono queste».
«Immagino che Hippolyta
sia una sovrana piuttosto
importante, se erano così sicure che ci avesse catturate
lei» azzardò Phobos.
«Lo è
eccome!» confermò fiera.
«La mia signora
è molto stimata da tutte le altre Airë
Tári, così come lo è la sua consorte,
Airë Tári Phentesilea. Per quanto possa
contare l’opinione di noi schiave, servirle non è
un compito gravoso,
tutt’altro! È un vero e proprio piacere!
All’inizio può essere difficile
accettare l’idea di appartenere a qualcuno che può
disporre del tuo corpo a
proprio piacimento, ma -detto fra noi- ci sono posti ben peggiori dove
finire,
e soprattutto regine molto meno
magnanime da compiacere per il resto della propria esistenza. Vi
è andata di
lusso, posso assicurarvelo!».
Si avviarono in un lungo corridoio
che passava sopra
ad un piccolo laghetto, una sorta di tunnel dorato le cui pareti erano
traforate da colonne e archi inflessi che -dando direttamente
sull’acqua- fungevano
pure da trampolino di tuffo.
Infine, si fermarono davanti ad una
pesante porta di
pietra, le ante intagliate a formare una miriade di serpenti dagli
occhi costituiti
da gemme preziose.
«Priiiiiiima di procedere
oltre, dovete avere queeeeeesti»
si mise a frugare e frugare e frugare nel borsello che aveva attaccato
alla
cintura. Tirò fuori due collari dorati.
Senza attendere oltre, li mise
intorno al collo prima
di uno, poi dell’altra.
«“Ruxal'
ambönnar”, “collana della
sottomissione”:
questo» lo tocco, facendo tintinnare l’anello che
pendeva sulla parte frontale
«è ciò che dice a tutti “Ehi!
Sono una schiava!”. Vi stringe troppo?»
Entrambi scossero la testa.
Amira, soddisfatta e rassicurata,
spalancò allora la
porta; i due compagni di sventure si scambiarono uno sguardo veloce, ma
sufficiente
per intendersi: non si tornava più indietro, adesso.
Si sarebbe potuto prendere in mano
un dizionario e
sfogliarlo per ore e ore e ore, per tentare di trovare trovare una
serie di
aggettivi che rendessero l’idea di ciò che si
presentava dinanzi ai loro occhi
increduli.
Nessuno di essi, tuttavia, sarebbe
stato adatto a
descrivere anche solo vagamente la realtà.
Complice il lucernario circolare di
vetri colorati al
centro del complesso, quell’immensa stanza dalle pareti blu
cobalto e oro -intarsiata
di pietre preziose e minuziose decorazioni e mattonelle variopinte per
tutti i
gusti- riusciva a essere luminosissima in ogni sua parte, compressa
l’ampia
piscina che si snodava per tutta la stanza. Così facendo,
non solo tutta l’area
risplendeva dei raggi dorati del Sole, ma pure dei riflessi multicolore
creati
dalle piccole tessere dei mosaici subacquei -visibili
nell’acqua limpida- che
formavano la pavimentazione della gigantesca vasca.
Ai bordi di essa, poi,
c’era una zona completamente
asciutta, dove sorgevano rientranze più o meno grandi
agghindate come salotti: divani,
montagne di cuscini, candele profumate, fiori, tavoli apparecchiati con
ogni
sorta di pietanza. Non mancava assolutamente nulla, insomma.
Nemmeno qualcuno che usufruisse di
quel ben di dio.
Donne, donne ovunque girassero lo
sguardo: che
sguazzavano nell’acqua, che crogiolavano sui divanetti a
parlare, che si
acconciavano i capelli sedute a bordo piscina; tutte giovani, tutte
d’indubbia
bellezza, creature sorridenti e radiose che ballavano e cantavano e
giocavano
con tale entusiasmo da far dubitare chiunque che si trattasse di pure e
semplici schiave.
«Se questo è
lo schiavismo» si rivolse il rosso verso
Emily Jane «allora prenditi lo scettro e vai pure senza di
me, che ho
un’improvvisa voglia di essere sodomizzato da una naga
ermafrodita!»
«Vuoi essere sodomizzato
pure da quelle?» gli
indicò uno dei salotti.
Lì, con le code
attorcigliate intorno alle colonne che
reggevano gli archi coperti da tendaggi che offrivano un po’
di privacy alla
zona, se ne stavano quattro di Ophidians, impegnate a scambiarsi particolari effusioni con altrettante
donne, forse pure un paio di più.
In allarme, entrambi iniziarono a
guardarsi intorno
-cercando di non essere distratti da seni e fondoschiena al vento, che
mica era
facile per nessuno dei due!- sospettosi, trovando conferma alle proprie
preoccupazioni: c’erano altre naga, là dentro, a
occhio croce in quella stanza
se ne contavano almeno una dozzina!
Guardando meglio, però,
notarono che tutte loro
portavano al collo un collare del tutto simile a quello di Amira e di
tutte le
altre schiave, per non dire che era lo stesso.
… Possibile che anche
loro fossero-
«Aiiiiiirëëë
Táriii
Phenteeesiiiiileaaaa! Aaaiiiiiiiiiirëëëëë
Táááriiiiiiii
Pheeeeenteeesiiiiileeeaaaaaaaaa
» si mise a gridare Amira, saltellando «Ho delle
nuove schiave sono belle
bellissime giuro che PER LA TESTA MOZZATA DI MEDUSA MIA SIGNORA DEVE
VEDERLE
DEVE DEVE DEEEEEEEEVEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!»
Quella benedetta ragazza era folle,
folle.
Dalla piscina fece capolino una sua
coetanea, la pelle
chiara ed i capelli violetti come i suoi occhi.
«La regina è
là in fondo!» le indicò il salotto
più
grande dall’altra parte della stanza.
Quest’ultimo dava
direttamente sulla piscina -raggiungibile
tramite alcuni scalini- e su una sorta di piccolo chiosco, una
costruzione
circolare di pietra semi-immersa nella vasca che, ora, era parzialmente
nascosta dai tendaggi tirati.
Ringraziata l’amica, la
serva condusse entrambi fin
dove aveva indicato l’altra, salutando e sorridendo a
chiunque incontrasse
sulla propria strada. Quando fece per aprire le tende, Phobos le mise
una mano sul
polso, per trattenerla
«Ma sei sicura che
possiamo entrare?» chiese preoccupato
«C’è rumore, qui, magari stanno facendo
qualcosa che non vogliono sia
interrotto, magari stanno scopando!»
«In quel caso, stai
sicura che la regina non si
nasconderebbe certo!»
Aprendo la tenda, rivelò
un salotto grosso modo simile
agli altri, solo più grande e con più divanetti
dei precedenti, oltre che con
più ospiti.
Com’era prevedibile, le
schiave non mancavano mai.
Alcune appollaiate sul divano a
mangiare e cantare in
una lingua sconosciuta -sicuramente quella delle Ophidians- e suonare
curiosi
strumenti dalle forme bizzarre, altre sedute sul muretto del chiosco a
battere
le mani e, infine, decine di concubine impegnate invece a esibirsi in
quella
che aveva tutta l’aria di essere una vera e propria danza del
ventre, con tanto
di ali di Iside e ventagli e nastri variopinti.
Era solo un po’
più… osè.
Una delle ragazze si
staccò dal gruppo, avvicinandosi
ad un’Ophidian dalle squame di un brillante bianco
opalescente, fra le quali
faceva capolino qualche squama solitaria di un rosso acceso; le si
sedette in
braccio, si tolse il velo azzurrino da intorno ai fianchi e glielo mise
intorno
al collo, tirandola e sé e baciandola in modo alquanto
appassionato.
Nel mentre, iniziò a
strusciare sensualmente il
proprio bacino su quello della naga, che -di tutta risposta- le strinse
le
natiche con le mani artigliate, affondandole gli artigli in esse mentre
l’accompagnava nel movimento.
Non era affatto ambiguo,
ciò che stavano facendo.
Era
palesissimo.
Amira mosse qualche passo in
avanti, inchinandosi.
«Vanimle sila tiri
belegohtar curucuar, Airë Tári
Phentesilea» salutò semplicemente.
“Dunque quella
è una delle regine”, pensò Emily Jane,
scambiandosi uno sguardo con Phobos per assicurarsi che anche lui
avesse tirato
le stesse conclusioni.
A vederla, in realtà,
non avrebbe scommesso nemmeno
mezza moneta di rame che quella
fosse
una fra le sovrane che se ne stavano ai vertici di Quetzalli, piuttosto
avrebbe
pensato che potessero esserlo uno delle due Ophidians che
l’affiancavano!
Magrolina, senza il minimo accenno
alla muscolatura
come le sue simili, il corpo come la coda -più lunga di
altre, indubbiamente,
ma non altrettanto spessa- snello e delicato, che pareva potersi
spezzare solo
guardandolo, la pelle talmente pallida da sembrare candida come le sue
squame;
persino i serpenti che aveva per capelli erano lunghissimi,
sì, ma esili, una
cascata color della neve dalla quale qua e là
s’intravedevano le loro piccole
teste rosse che schioccavano la lingua a saggiare l’aria.
Che loro fossero convinti o meno
che si trattasse della
regina, la serpentessa gettò il proprio sguardo verso la
serva, sorridendole.
«Mae govannen,
Amira» ricambiò il saluto, piegando
impercettibilmente la testa.
Un paio di decisi movimenti
d’anca, e la concubina che
aveva in grembo inarcò la schiena, crollandole poi
letteralmente fra le braccia;
con un segno della mano, Phentesilea fece segno ad una sua simile di
prendere la
donna con la quale aveva appena copulato e portarla su uno dei divani.
Invitò i tre a sedersi.
«Eccoci qui,
dunque» batté le mani, come a
ufficializzare quell’incontro. Si girò verso la
serva «Allora, vuoi dirmi un
po’ chi sono queste due splendide ragazze?»
«Oh! Certamente! Lei
è Emilia Gianna!» indicò la prima
«E lei è Phoebe!» poi il secondo.
Si sdraiò a testa in
giù sul divano, si prese un
grappolo d’uva e, con tutta la calma del mondo,
iniziò a mangiarlo.
«Quando sono uscita, si
trattava di Airë Talestrie. Mi
ha riferito che Miulë Otrera ha trovato loro due» li
additò di nuovo «ai
confini del regno, fuori dalla foresta, e che -dopo essersi consultata
con lei-
hanno concluso che parevano entrambe due delle donne catturate da
Airë Tári
Hippolyta nell’ultima battuta di caccia. Non ne era sicura al
cento percento,
in verità, ma ha ritenuto comunque più opportuno
consegnarle a voi, piuttosto
che ad altre regine».
«Hanno avuto un pensiero
molto gentile entrambe, la
mia consorte sarà felice di sapere che non sono andate ad
Airë Tári Antiope!»
annuì Phentesilea ridendo.
«Assicurati di mandare
loro i dovuti ringraziamenti,
Amira, mi raccomando. Voglio che sia riservata particolare attenzione
ai doni
di Miulë Otrera, inoltre: è solo una principessa,
ma noto con piacere che si
sta dando da fare per ingraziarsi noi cosiddetti “piani
alti”, tanta
intraprendenza va certamente premiata».
«Cosa preferite che le
mandi? Oro? Argento? Gemme?»
«L’ultima che
hai detto. Silmarillis» si fece
pensierosa «una manciata. Dovrebbe bastarle per comprarsi
qualche schiava per iniziare
a fare concorrenza a sua madre, considerando che quello è
l’obiettivo che
abbiamo tutte da quando veniamo al mondo, qui!» rise.
Gli altri presenti non potevano
saperlo, ma le gemme
di Silmarillis erano la merce di scambio dal più alto valore
che esistesse a
Quetzalli, dinanzi alla quale qualsivoglia diamante impallidiva.
Donate all’alba dei tempi
da Quetzalcoatl al regno di
sua figlia, altro non erano che piccole pietre preziose grandi quanto
un chicco
di riso dall’aspetto adamantino, il cui interno -percorso da
venature e
sfaccettature colore dell’arcobaleno- brillava di luce
propria talmente intensa
da illuminare ciò che aveva intorno. Non potevano essere
estratte in nessun
luogo e con nessun attrezzo, però: l’unica fonte
di Silmarillis erano delle fontane
di cristallo che rarissimamente le
regine
possedevano nei loro territori, motivo per cui erano considerate come
un
ennesimo indicatore sociale.
Discusso un altro po’ con
Amira sulle ricompense da
elargire alle altre Ophidians, finalmente Phentesilea rivolse le sue
attenzioni
alla figlia dell’Uomo nero e il rosso.
«Gradite qualcosa da
bere? Da mangiare, forse? Non
fate complimenti, chiedete pure ciò di cui avete bisogno:
alle mie serve non è
mai stato negato nulla, potete tranquillamente chiedere a qualunque
donna
incontriate».
Nessuno dei due era troppo sicuro
di cosa rispondere:
se avessero accettato forse avrebbe pensato che si stessero
approfittando della
sua gentilezza, o che fossero troppo viziate, o che, ancora, non
avrebbero
dovuto e potuto parlare senza il suo permesso; se avessero rifiutato,
al
contrario, magari l’avrebbe presa come un’offesa, o
un segno di maleducazione,
o che non gradissero le buone maniere e volessero sperimentare quelle
cattive!
Alla fine, optarono per il silenzio.
«FACIOLA! FACIOLA IN
SALSA!»
O almeno ci provarono.
Emily avrebbe voluto sprofondare
sottoterra, o
affogare in piscina: tentativi e tentativi per non dare
nell’occhio, e cosa
succedeva? Phobos voleva i fagioli.
I fagioli.
Sarebbe morta per mano di stupidi,
maledetti,
dannatissimi, fagioli in salsa.
Contro ogni più rosea
previsione, però, la regina si
mise a ridere.
«Faciola?»
ripeté divertita «Intendi quei piccoli
legumi a forma di bottone, leggermente ricurvi, con la buccia sottile
sottile e
quella consistenza pastosa quando si masticano?
«Sì! Quelli!
QUELLI!» le si gettò davanti, le mani
giunte e lo sguardo implorante «DITEMI CHE AVETE ANCHE QUELLI
IN SALSA
PICCANTE! VI PREGO VI SCONGIURO VI SUPPLICOOOOOH!»
«Ovvio che li abbiamo,
qui accontentiamo i gusti
culinari di chiunque».
Uno schiocco di dita, e comparve
una serva con una
grossa ciotola di vetro finemente lavorata fra le mani; al suo interno,
un
numero non meglio definito di chili di fagioli.
«Prego, serviti
pur-»
Ancor prima di ricevere
l’invito della sovrana, lui si
trovava già con la testa letteralmente immersa nel
contenitore, a sbafare
faciola piangendo commosso nemmeno fossero finiti in un “Lo
chiamavano Trinità”.
Se uno si strafogava senza ritegno
alcuno, però,
l’altra lo fissava perplessa.
E la regina la notò.
«Qualcosa ti turba, mia
cara?»
Prima di risponderle, Emily
esitò: non pareva avere
cattive intenzioni, ma preferiva andarci piano sia con le domande, sia
con le
risposte. Meno diceva, meglio era.
«Come fate ad avere un
cibo tipico della Terra? Non è
proprio dietro l’angolo, e ho sentito dire che voi Ophidians
non uscite mai dai
confini della vostra città, mi risulta difficile capire come
facciate a
procurarvi dei… fagioli». A quella parola, si
diede una sonora pacca sulla
fronte «Lasci perdere, lasci perdere. Mi scusi, sono
mortificata, non so perché
sto chiedendo informazioni sui legumi ad una regina, non-»
«Oh, è molto
semplice» l’anticipò la sovrana,
sorridendo «avrai notato da sola che qui ci sono esemplari
femmina delle più
svariate razze che popolano il cosmo, non penso che le
Almáttki del pianeta
Dragsa passino poi tanto inosservate» ridacchiò,
facendo riferimento a quelle
donne che parevano montagne di muscoli viste in città.
«Comunque sia, il modo o
il motivo per cui suddette
femmine finiscono nei territori di nostra competenza non è
un nostro problema:
se bevono dai nostri fiumi, se colgono i frutti dai nostri alberi, se
riposano
le loro stanche membra sulle nostre pietre, se si sfamano con il nostro
grano,
se entrano a Quetzalli, allora diventano nostra proprietà.
Noi Ophidians le
cacciamo, le catturiamo e le reclamiamo come nostre schiave, e da
allora
diventiamo le padrone dei loro corpi e delle loro vite».
Prese un fagiolo caduto a terra.
«Un giorno
arrivò una ragazza terrestre, una
commerciante del deserto se non ricordo male, e con sé aveva
questi legumi:
fagioli, appunto» glielo mise sul palmo della mano
«li piantò e ci mostrò come
prendercene cura, e da allora crescono anche qui a Quetzalli.
Innumerevoli
altre piante aliene -che immagino tu abbia visto venendo qui- sono
arrivate qui
con la stessa metodologia, sai? Non usciamo mai dal nostro regno, ma
abbiamo
una varietà di fauna e di flora incredibilmente vasta e
variegata».
«È una storia
davvero affascinante» convenne Emily,
sinceramente sorpresa.
Non seppe se fosse
l’effetto del sentirsi priva di vie
d’uscita, se dovesse dare la colpa al rincoglionimento di
Phobos che l’aveva
contagiata via aerea, o se fosse stata ipnotizzata
dall’innegabile bellezza di
quell’Ophidian così diversa dalle altre, fatto
stava che, istintivamente, si
trovò a cercare con la propria mano quella artigliata
dell’altra, portandosela
sulla coscia.
«E ditemi, Airë
Tári Phentesilea» gliela fece
scivolare sotto la gonna «ne avete altre, di storie come
questa?»
La naga le sorrise, compiaciuta.
«Sono una creatura
immortale di migliaia e migliaia di
anni, Emilia, ne ho quante ne vuoi» le si accostò
all’orecchio, sibilando e
sfiorandoglielo con la lingua biforcuta, gli artigli che lasciavano
piccoli
segni rosati dove toccavano la pelle «e sembrano tutte
più avvincenti, se le si
ascolta nelle mie stanze, magari a mollo nella vasca da bagno, o
sdraiate sul
mio letto a godersi un bel massaggio, oppure potremmo
starcene-»
«Sotto le
lenzuola» le prese il volto fra le mani, avvicinando
le proprie labbra a quelle dell’altra «a godere e
basta».
L’Ophidian non ebbe il
tempo di rispondere, che la
lingua della Pitchiner stava già avidamente intrecciandosi
alla propria.
La regina si abbandonò
piacevolmente al contatto delle
labbra della sua nuova schiava con le sue, un contatto dapprima
gentile, poi
sempre più esigente, avido, impetuoso, che le smorzava il
fiato in gola, da
com’era stata presa alla sprovvista. Emise un mugolio
sommesso, quindi sollevò
le braccia per passargliele attorno al collo, tirando Madre Natura a
sé e
ricambiando il bacio con tanto e più ardore, complice la
mano che era finita chissà dove.
E che era tornata indietro
insospettabilmente bagnata.
Ah, i misteri di Quetzalli! Quale
meraviglia!
Quando si staccarono
l’una dall’altra, i loro occhi
non si persero di vista nemmeno un istante.
«Amira»
chiamò la serva, che alzò la testa dalla sua
improbabile posizione «mi ritiro nelle mie camere. Bada alle
altre concubine,
che a quella nuova» guardò Emily, maliziosa
«penso io. Ne avremo per molto, molto,
tempo».
«Il più a
lungo possibile, assolutamente» convenne la
sovrana di Tandokka, aggrappandosi al suo petto.
«Come desiderate,
Airë Tári Phentesilea!» scattò
sull’attenti l’altra, portando la mano alla fronte
in un saluto militaresco.
Infine, fece un breve inchino al congedarsi della sua regina.
Dall’altra parte, Phobos
-letteralmente paralizzato,
con i faciola che gli cadevano dalla bocca a causa della temporanea
paresi
facciale- non fu in grado di fare nulla: non reagì, non si
alzò per impedire il
folle gesto della sua partner di fagiolate, non sembrava nemmeno in
grado di
respirare, in quella modalità “statua di
marmo”. Semplicemente, fissò con occhi
vuoti Emily Jane Pitchiner, la che andava imboscandosi con una regina
Ophidians.
A svegliarlo, ci pensò
la pacca di Amira sulla
schiena.
«Uh-uh! Vedrai che la inaugurerà come si deve, non
ho mai sentito nessuna schiava
lamentarsi della sua prima notte nell’harem!»
Annegò la testa nei
fagioli per non sentirla.
[…
la mattina
seguente…]
«TU! MALEDETTA LESBICA
INFOIATA! FORNICATRICE! CORTIGIANA!»
«Quante storie».
«“Quante
storie”? “QUANTE STORIE”?»
Batté i pugni sul
tavolo, facendo traboccare del
karkadè dalla tazza che aveva davanti.
«Sei sparita da un
momento all’altro, ieri, e sei
rimasta da allora fino a questa mattina inoltrata a farti scopare in
ogni
posizione possibile e martellare gli orifizi da qualsiasi angolazione e
sfondare l’anima dalla regina! E non credere che non abbia
visto tutte le altre
schiave che sono entrate nella stanza mentre eravate impegnate a
copulare!
Minimo erano una quindicina! UNA QUINDICINA!»
«Come sei
noioso».
«E ci credo che sono
noioso! Dopo quell’orgia voglio
proprio vedere cosa reputi interessante!» sbottò
il rosso, alzandosi di scatto
e rovesciando la sedia.
Furibondo, si afferrò i
lembi della lunga gonna -di un
giallo acceso con uno spacco che mostrava la stoffa blu notte
sottostante,
costellata di piccole perline argentee che la rendevano somigliante ad
un cielo
pieni di astri- che indossava e gliela mostrò, orripilato.
«Non puoi nemmeno
immaginare cosa ho rischiato,
quando le concubine sono venute a svegliarmi per
lavarmi e vestirmi con gli abiti dell’harem! Avrebbe potuto
scoprire che sono
un uomo! Erano a tanto così dal farlo!»
Di tutta risposta, lei gli
toccò il pacco.
«Sei vivo e hai ancora il
cazzo attaccato, quindi
suppongo non lo abbiano scoperto».
«No, per
fortuna! Sono riuscito -anzi, riuscita!-
a fingermi troppo timida per
denudarmi davanti a loro, ho detto che dovevo ancora abituarmi
all’idea di
essere vista senza veli da altre donne e che avrei fatto da sola,
ringrazia il
cielo che abbia funzionato! E non ti dico quando hanno notato che non
ho il
seno! Solo gli dei sanno come hanno fatto a credere al fatto che avessi
troppi
muscoli perché si notasse!»
Si sedette, mettendosi le mani fra
i capelli.
«Potevi farmi ammazzare,
ma stai sicuro che -se fosse
accaduto- ti avrei trascinata con me»
l’informò, facendosi scuro in volto «ma
tanto che te ne frega, tu eri a scopare e divertirti. Per il resto, che
si
fotta il mondo! Letteralmente!»
Emily Jane, calmissima,
poggiò la propria tazza di tè
verde sul piattino. Si lisciò il lungo abito da danzatrice
del ventre verde e
bronzo-dorato che portava.
Chiuse gli occhi, tirando un
profondo respiro.
«Ho fatto sesso con
Phentesilea, lo ammetto, ma le ragazze
che hanno partecipato alla suddetta orgia saranno state cinque o sei,
non di
più» raccontò tranquilla,
prendendo un biscotto e inzuppandolo nel tè «e non
l’ho certo fatto per divertimento. Non solo per quello,
almeno. Ero piuttosto
curiosa di soperimentare di persona l’ermafroditismo di
queste naga ninfomani,
sì, non puoi nemmeno immaginare cosa-»
«Mezzo metro di cazzo,
Emily, mezzo metro!»
«Non ero lì
con un metro in mano ma sì, da quel che so
le dimensioni di un’Ophidians adulta sono quelle, forse
qualcosa di meno.
Tralasciando che mia vagina non debba rendere conto a nessuno che non
sia me
stessa, il punto non è questo».
«E quale
sarebbe?» domandò stizzito.
«Sarebbe che
sì, mi sono messa a flirtare con lei e mi
sono tolta lo sfizio di averci un rapporto sessuale insieme, ma
è stato tutto
dettato dalla necessità di carpire informazioni,
più che dagli ormoni. Quelli
hanno reso l’esperienza più interessante e
godibile, in tutti i sensi, ma la
missione aveva e ha ancora la priorità sul piacere
personale».
L’uomo parve calmarsi,
abbastanza da riuscire a tenere
il bicchiere in mano senza romperlo dalla rabbia.
«Cos’hai
scoperto?»
«Che abbiamo poco tempo.
Pochissimo. Se vogliamo
agire, allora dobbiamo farlo oggi: dopo questa sera, tu sarai morto, e
io
gravida».
«C-come?»
strabuzzò gli occhi, pallido in volto «Cosa
intendi per… gravida?»
«Intendo ciò
che ho detto» ribatté lei, apatica. «Da
quel che ho sentito e mi hanno detto, siamo capitati giusto giusto
all’inizio
del periodo dell’anno in cui le Ophidians fanno ingravidare
le proprie schiave.
La cerimonia inizierà questa sera stessa, appunto».
«Credevo pensassero loro,
a queste cose».
«Per dare vita a ibridi?
Nah. Ricordati che sono solo
serve, concubine, schiave sessuali: ingravidarne una non sarebbe poi
questo
grande vanto, per una sovrana» fece spallucce
«soprattutto perché i marmocchi
verrebbero tenuti nell’harem di provenienza della madre
prigioniera, per cui la
regina finirebbe per accoppiarsi con i suoi stessi figli. Qui non siamo
dalle
parti della Costellazione di Orione, Phobos, non sono Chandrasekhar:
l’incesto
non si pratica».
«E quindi?»
«E quindi, una volta
l’anno, le Ophidians aprono le
porte della città ad alcuni membri della Né
Räggira, una tribù mista a
prevalenza maschile che abita qui su Exodus, i cui uomini si offrono
ritualmente
volontari per accoppiarsi con gli harem delle regine e, possibilmente,
ingravidarle» spiegò. «Per tutta la
durata di questa “stagione
dell’accoppiamento”, se così vogliamo
chiamarla, i maschi scelti vengono
condotti bendati all’interno di Quetzalli, e solo al calare
della notte. In
questo modo, nessuna delle due persone coinvolte nel rapporto sessuale
può conoscere
il volto dell’individuo col quale ha giaciuto e, soprattutto,
non potrà mai
sapere l’identità dell’altro genitore,
se l’unione dovesse andare a buon fine».
«E cosa succede ai
bambini?» chiese l’altro, confuso
«Se non ci sono uomini a Quetzalli, allora-»
«Se sono femmine, allora
vengono tenute dalle
Ophidians e allevate come schiave, incontrando lo stesso destino delle
loro
madri» lo anticipò «se sono maschi,
invece, vengono riconsegnati ai Né Räggira,
e ogni membro adulto adotta un bambino. Nessuno di loro
potrà mai sapere se quello
è suo figlio o meno, ma -forse perché i neonati
vengono cresciuti da tutta la
tribù- ciò non pare disturbarli, dal momento che
continuano a offrirsi volontari
stagione dopo stagione, anno dopo anno. E noi siamo finiti
qui» allargò le
braccia per indicarsi tutt’intorno «proprio
all’inizio di questa stagione,
pensa che fortuna che abbiamo avuto».
Il rosso, evidentemente
preoccupato, si alzò,
iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro.
Su dei deliziosi tacchi a spillo,
fra l’altro.
«Se non leviamo le tende
prima di sera, allora non
potremo farlo mai più. Letteralmente, perché qui
ci ammazzano prima» rifletté
ad alta voce. Si fermò davanti a Madre Natura, che intanto
aveva finito il
proprio tè «Come ne usciamo?»
«Da cosa? Da Quetzalli, o
da questa situazione?» rigirò
la domanda.
«Fa differenza?»
«Se intendi la prima, non
ne ho idea: la città è
blindatissima, in vista della cerimonia, e la galleria dalla quale
siamo
arrivati è impossibile da raggiungere senza farci notare. Se
intendi la
seconda, allora ho un piano».
«… Hai un
piano?»
«Precisamente»
confermò la Pitchiner, gongolando.
Si alzò anche lei,
affiancandosi al compagno, che
della sua calma non sapeva cosa farsene.
«Può darsi che
qualcuno
sia stato scelto dalla regina per accompagnarla al tempio di Medusa,
per andare
a pregare, le schiave che solitamente la scortano sono andate al
mercato
qualche ora fa e non torneranno prima del pomeriggio. Se andiamo con
lei a quel
benedetto santurio, allora ci salviamo pure dalla marchiatura che ci
aspetta
giusto fraaaaa» guardò una meridiana
«trenta minuti».
«M-ma-marchiatura?»
«Quella. Non ci hai fatto
caso nemmeno mentre venivamo
qui, che ogni schiava ha inciso sulla pelle -in parti del corpo random-
un
simbolo diverso per ogni padrona? In questo modo, nessuna regina
può pretendere
la serva di un’altra regina, pratico e veloce. E un
po’ doloroso, ma Amira ha
detto che non è-»
«Andare a questo tempio
ci farà perdere tempo?»
l’interruppe, non volendo nemmeno sapere ulteriori dettagli
su quella
questione.
«Non credo,
tutt’altro» sorrise Emily «è
il luogo più
sorvegliato dell’intera città,
quiiiiiindi…?»
Lui si fece pensieroso qualche
istante. Improvvisamente,
schioccò le dita, come se avesse appena avuto un lampo di
genio.
«Quindi lo scettro
potrebbe trovarsi lì!»
«La stessa cosa che ho
pensato anche io» convenne la
Pitchiner. Subito, però, mise le mani avanti
«Sottolineo che non ne ho
la conferma, quindi bisognerà
andarci con i piedi di piombo: potremmo avere ragione, come potremmo
avere
torto. Nel primo caso, prendiamo lo scettro e ce la fuggiamo con la
certezza di
uscirne vivi. Nel secondo caso, dovremo trovare alla bene e meglio un
modo per
fuggircela, e al diavolo la copertura» fece una breve pausa
«anche se…»
«Anche
se…?»
Si portò le mani alle
tempie, massaggiandosele.
«Anche se, adiacente al
tempio, ha la propria dimora Axechasti,
la figlia di Quetzalcoatl e Medusa, come sai»
corrugò la fronte «la sua
presenza mi preoccupa abbastanza, specie perché non abbiamo
grandi informazioni
su di lei. Per quanto ne sappiamo, potrebbe già sospettare
di noi e attendere
solo un nostro passo falso, per cui-»
«Per cui dobbiamo
rimanere nell’ombra e aspettare una
conferma dei nostri sospetti sullo scettro, prima di fare qualsiasi
cosa che
implichi il giocare a carte scoperte».
«Esattamente, vedo che ci
siamo capiti» confermò.
Allungò una mano verso di lui «Siamo entrati in
due, e usciremo in due: nessuno
lascia indietro nessuno».
«Nessuno lascia indietro
nessuno» ripeté Phobos,
stringendogliela.
“A meno che tu ti riveli
completamente inutile come penso”,
aggiunse mentalmente, sorridendo.
Per un millesimo di secondo, Emily
parve notare quel
lievissimo e quasi impercettibile accenno di ghigno dipintasi sul volto
del suo
compagno, ma non fece in tempo a concentrarsi su quel dubbio che la
voce di
Phentesilea chiamò i loro nomi.
Il pensiero che dovesse guardarsi
le spalle tanto
dagli amici quanto dai nemici scivolò via dalla sua mente
come rugiada su una foglia.
Sfortunatamente per lei.
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Angolino dell’autrice
Traduzioni varie ed
eventuali
Mani
naa
essa en lle? = Qual è il
vostro nome?
Naa
rashwe?
= C’è qualche problema?
Aa’
menealle
nauva Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta, mellonamin (forma di saluto) = Possa
Quetzalcoatl cospargere d’oro
il tuo cammino, sorella
Aa’
i’sul
nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle, mellonamin
(forma di saluto con la quale si risponde a quella precedente) =
Possa Quetzalcoatl favorire sempre la tua sorte, sorella
Vanimle sila tiri belegohtar curucuar, Airë Tári Phentesilea = La tua bellezza risplende intensamente, Airë Tári Phentesilea
Mae govannen, Amira = Ben trovata, Amira
Né
Räggira
= è l’anagramma (leggermente modificato totalmente
a
caso :’D) del popolo dei Gargareni, una tribù di
uomini che -secondo la
mitologia- si accoppiavano con le Amazzoni
Eccoci qua!
Sì, è un
capitolo più corto del solito, ma infilando
anche il resto delle cose che avrebbero dovuto esserci sarebbe
diventato veramente
T(R)OPPO lungo, per restare in tema di Dragon Ball Super come piace
tanto a
Giannemilia :’D
Avrei voluto trovare una foto di
Quetzalli, ma in
realtà… GNE, non ne trovavo di adatte per
descrivere la presenza di tanto oro in
stile Aldebaran (cit.), ma se avete visto “La strada per El
Dorado” allora un’idea
piuttosto fedele alla realtà l’avete!
Ringrazio nuovamente tutti quelli
che leggono, seguono
la long e in particolare chi è sopravvissuto al
capitolo 13, ora siete
leggenda trovano il tempo di farmi sapere cosa ne pensano, fa
sempre tanto
tanto sapere le opinioni di chi legge da fuori :)
Alla prossima!