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Autore: Neferikare    17/02/2018    2 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Cinque giorni.

Cinque giorni di preparativi, poi erano partiti alla volta dell’ignoto, alla volta di Quetzalli.

Arrivare a Phantasia senza dare nell’occhio non era stato così difficile, non quanto una Madre Natura preda delle paure derivanti da brutti ricordi aveva inizialmente temuto almeno, complice il fatto che Phobos avesse “un piano”.

Suddetto piano aveva la forma di pietre multicolore simili a opali, che -a detta del rosso- avrebbero permesso la stessa identica cosa dei globi di neve di Nord, con la differenza che, se questi ultimi permettevano ai guardiani di spostarsi sulla Terra, allora i suoi sassolini sbrilluccicanti possedevano un raggio d’azione ben più esteso.

E aveva avuto ragione, a dispetto della profonda sfiducia e diffidenza dimostrata dalla sua lamentosa compagna d’avventure.

Il tempo che la gemma toccasse il pavimento, e un portale si era aperto davanti ai loro occhi increduli di una, compiaciuti dell’altro; oltrepassato quello, erano spuntati ai confini del regno di Phantasia, dove finiva l’area direttamente governata da Harmonia e iniziava Tauremorna, “il bosco nero”, un luogo proibito e addirittura maledetto, secondo alcuni.

Talmente maledetto che Phobos ed Emily Jane Pitchiner stavano facendo un pic-nic poco lontano dal suo perimetro, sdraiati com’era sul dorso di Thorax sotto l’ombra di giganteschi funghi bianchi dalle lamelle verde acqua luminescenti.

Il ritratto del terrore, assolutamente.

Reduce da un violento litigio a tema “nelle provviste mettiamo le Pringles alla panna acida e cipolla, che piacciono a me, o quelle BBQ, che piacciono a te?”, l’uomo prese una patatina e se la infilò in bocca. Ringraziò di aver optato per il portarle entrambe.

«Che si fa, adesso?»

«È la stessa domanda che mi hai fatto quando siamo arrivati quattro ore fa, genio».

Emily si alzò e si pose davanti al compagno guardandolo dall’alto in basso, imbronciata. Alzò una mano e iniziò a contare con le dita.

«Da allora, le tue idee in proposito sono state le seguenti, in ordine: “diamoci un’occhiata intorno”, “cerchiamo una via d’entrata”, “cerchiamo una via d’uscita in caso d’emergenza”, “guardiamo su Exodus Maps perché non si trova un cazzo di niente”, “mangiamo fino a perdere la cognizione del tempo”. Di tutto ciò, abbiamo portato a termine con successo giusto l’ultima cosa, capitan “fidati che ho un piano”» si lamentò «inoltre, siamo anche pericolosamente esposti. Te l’ho detto che prima mi è pure parso di intravedere Myricae impegnata in un giro di guardia, no? Ecco».

«Non è colpa mia! Quella roba» controbatté lui, indicando la foresta «è fottutamente impenetrabile senza che si passi per l’ingresso principale! Che nemmeno c’è!»

 

E Phobos aveva ragione, purtroppo per loro.

A proteggerla, la città di Quetzalli non aveva solo quella distesa di alberi millenari e arbusti fitti e sterpaglie alte quanto un uomo a perdita d’occhio che era Tauremorna, ma -attorno ad esso- c’era una serie non meglio definita di vulcani attivi, una sorta di muraglia naturale di roccia e fuoco che circondava totalmente il territorio in mano alle Ophidians. Come se ciò non bastasse, svariati di quei vulcani erano talmente antichi da avere i pendii erosi e fessurati dagli eventi naturali, motivo per cui -di tanto in tanto- si potevano osservare lacrime incandescenti fare capolino sulle guance di quei giganti di terra, sottilissimi fiumi di magma che colavano fin sull’erba e lì si solidificavano, complice l’abbondanza di fiumi nella zona che arrestavano il flusso lavico prima che potesse dar vita a ben più pericolosi incendi.

Cola e cola, solidifica e solidifica, millennio dopo millennio anche l’acqua aveva ceduto, e quelle bisce fiammeggianti si erano accumulate a tal punto da straripare fuori dagli argini e crearne di nuovi, questa volta di pura ossidiana.

E l’ossidiana non si rompeva, quando la lava ci colava sopra, anzi!

La lasciava accumulare e accumulare, fino a creare curiosi corsi di magma anziché d’acqua, una cintura di fuoco che seguiva i confini di Tauremorna e rendeva impossibile accedervi a piedi; l’unica strada percorribile era il ponte scavato all’interno di un gigantesco vulcano spento -la cui sommità era stata intagliata a forma di testa di serpente, giusto per rendere chiaro dove portasse- che lo attraversava da un lato all’altro.

Un ponte ormai crollato, tanto per cambiare.

O meglio, fatto crollare dalle Ophidians secoli prima, così da impedire a chicchessia di violare dall’esterno la clausura atta a salvaguardare il loro popolo, ma ciò non cambiava le cose: Emily e Phobos avevano bisogno di entrare, e non c’erano vie per farlo.

 

«Passiamo sottoterra».

Non vie convenzionali, almeno.

A sentire l’assurda proposta della Pitchiner, l’altro scattò in piedi strabuzzando gli occhi.

«Cosa ti sei fumata, precisamente?»

«Di sicuro nulla di peggiore di ciò che ti devi essere fumato tu quando sei piombato nella mia vasca dopo averla riempita di fagioli in salsa» ridacchio Emily Jane. Tornò però subito seria «Tralasciando l’uso di sostanze stupefacenti da parte di uno o dell’altra, quando siamo andati in esplorazione ho notato dei grossi crateri di terra smossa sparsi nel terreno tutt’intorno alla foresta, specie in quello roccioso ai piedi dei vulcani».

«E quindi? Cosa credi, che ci siano pure dei tunnel sotterranei che portato a Khazad-dûm, il Reame di Nanosterro?»

«Precisamente quello» confermò «anche se temo che non troveremo Thorin Scudodiquercia a darci il benvenuto offrendoci birra e cinghiale, quanto più dei lombrichi grossi, brutti e molto, molto, affamati».

«Cos-»

«Diggerwurm. Colossali vermi che si muovono nelle profondità di tutto Exodus scavandovi gallerie nella roccia come se fosse gelatina» lo anticipò, invitandolo ad alzare il culo e seguirla. Forse perché troppo occupato a tenere aperta la bocca in un misto fra sorpresa e terrore, Phobos obbedì senza fiatare.

Lo portò fino al cratere di cui parlava.

«Hanno mascelle immani, capaci di spaccare montagne e inghiottire intere città tutte d’un colpo, facendole svanire in un battito di ciglia quando -occasionalmente- riaffiorano in superficie, ma sono bestie totalmente cieche ed estremamente pacifiche» fece una pausa, pensierosa «… per quanto possa definirsi pacifico un verme chilometrico che scava la terra per assicurare il cibo a se stesso, e l’uniformità dell’orogenesi al pianeta, insomma. Lezione di biologia a parte, hai capito dove voglio arrivare, sì o no?»

Lui scosse la testa, provocando un sospiro rassegnato da parte dell’altra.

«Intendo dire che possiamo passare per quelle gallerie, Phobos, sono talmente fitte che è matematicamente impossibile che non ce ne sia almeno una che porta dentro a Quetzalli! Tipo ques-»

«E se non la troviamo? Se questa» additò la buca davanti a loro «portasse da qualsiasi altra parte, ma non a Quetzalli? E se spuntassimo dove dobbiamo spuntare, ma venissimo circondati? Se ci trovassimo dietro il culo uno di quei mostri? Se-»

«Se tu stessi zitto, allora ti renderesti conto che non abbiamo alternative!»

La giovane Pitchiner allargò le braccia, come a indicare la vastità che li circondava.

«Guardati intorno: hai un’idea migliore? Perché se ce l’hai, allora sono tutta orecchi!» sbottò irritata. Dal compagno di avventure non provenne risposta. Lei, allora, si chinò a prendere una manciata di terra, passandola fra le dita «È completamente asciutta, questo passaggio non viene utilizzato da svariato tempo» rifletté ad alta voce «dovrebbe essere sicuro».

«Dovrebbe?»

«Non posso averne la certezza. Basterà entrare e stare attenti a non prendere i tunnel dove il suolo è umido o vetrificato, perché potrebbe essere segno della presenza di qualche diggerwurm: si muovono nella crosta rocciosa, sì, ma né il magma incandescente né le tremende pressioni oceaniche fanno paura alla loro stazza, per cui se dovesse esserci uno di questi segnali…»

«Significherebbe che siamo fottuti».

«Vedo che hai capito» convenne lei, non senza un velo di amarezza «per cui… ?»

«Per cui vai avanti tu. “Prima le signore”, come si suol dire» rispose pacificamente Phobos, esibendosi in un inchino e un sorrisetto compiaciuto.

Maledicendo come mai prima d’ora il suo essere donna, Emily Jane tenne per sé la serie di insulti che iniziarono a balenargli nella mente, limitandosi a fulminarlo con lo sguardo.

Lasciato Thorax ad attenderli nascosto in una grotta, infine si mise a capo della spedizione, il rosso dietro di lei che teneva accesa sul palmo della mano una fiamma per illuminare il luogo dove si stavano addentrando.

“Pregando che non diventi la nostra tomba”, aggiunse mentalmente.

Quando però furono appena ad una decina di metri dall’entrata, e notò che la rassicurante luce dei Soli già li aveva abbandonati, quelle preghiere iniziarono a sembrarle inutili.

 

 

Nelle gallerie scavate dai diggerwurm regnava un silenzio assoluto, irreale, quasi inquietante, come se quegli oscuri meandri fossero troppo sacri per essere violati da qualsiasi suono che-

«Questa è la danza del serpeeenteeeee che vieeen giùùù dal mooonte per ritrovare la sua cooodaaaa che peeerse un dì!»

Che non fosse la voce di Phobos mentre cantava filastrocche per bambini, appunto.

Con agilità degna del rettile le cui gesta stava cantando, alla cantilena aggiunse pure un movimento più o meno serpentino del corpo, ondeggiando a destra e sinistra mentre girava intorno ad una mentalmente esaurita Madre Natura.

Ad un certo punto le si fermò davanti, ovviamente continuando a dimenarsi.

«Ma dimmi un po’!» le puntò gli indici sul naso, tirando fuori e agitando la lingua nel penoso tentativo di sibilare. O meglio, sputacchiare.

«Smettila».

«Sei proprio tu­!» iniziò a punzecchiarle, palpeggiarle, molestarle, le guance pallide e scavate, nemmeno fosse una vecchia zia con addosso il caratteristico profumo di patchouli.  

«Finiscila».

«Quel pez-zet-tin del mio co-din! Sì-»

«NO!»

Di fronte ad una reazione tanto violenta da parte della sua amyketta, il povero serpente rosso di capelli voglioso di faciola rimase interdetto qualche istante, evidentemente sconvolto; qualche istante, appunto, perché subito dopo le fece una linguaccia degna di un vero ofide, a giudicare da quanto aveva tirato fuori la lingua.

«… Malmostosa» la rimproverò semplicemente, imbronciato.

L’altra si astenne dal dargli corda: con lui bisognava agire così, lasciarlo parlare e attendere che si stancasse di farlo da solo; in caso contrario, bisognava avere sottomano una serie non meglio definita di frecciatine particolarmente pungenti per sostenere il botta e risposta che sarebbe scaturito dall’assecondare le sue uscite infelici.

Ed Emily Jane, che aveva ben altre priorità per la mente, certo non poteva permettersi il lusso di cazzeggiare e dimenarsi e rompere l’anima a chicchessia.

Specie perché iniziava ad avere il vago sentore che si fossero persi.

E si poteva pure togliere il “vago”.

Non aveva la più pallida idea del tempo da cui stessero camminando, come nemmeno sapeva dove accidenti fossero finiti: la bussola non funzionava, il cellulare non aveva campo, gli enormi tunnel -di terra nerastra talmente compatta da sembrare cemento, sulle cui pareti spuntavano ogni tanto ossa, pietre preziose e radici grandi quanto una persona- tutti uguali fra loro, che si incrociavano e diramavano fin dove solo gli dei sapevano.

Un labirinto sotterraneo, insomma.

Per evitare le gallerie umide -e quindi fresche, riconoscibili dalla terra più morbida che al solo tocco cadeva come polvere ai piedi- avevano svoltato una, due, tre, cinque, forse anche dieci volte, ma non era servito a nulla… se non a perdersi ulteriormente, ovviamente.

Come se ciò non fosse bastato a rendere un vero e proprio inferno quella traversata, appena il buio li aveva avvolti l’ansia era arrivata a rischiarare le loro menti: la minima vibrazione o rumore, pure che fosse quello di un sasso calciato da uno dei due, e scattavano dritti con le orecchie tese, il cuore in gola all’idea che -da un momento all’altro- sarebbe spuntato un diggerwurm da dietro l’angolo. Non avrebbero avuto vie di fuga, allora, come pure non ne avevano adesso: ritrovare la via del ritorno sarebbe stato impossibile, andare avanti lo sarebbe stato altrettanto, dal momento che si muovevano alla cieca!

Madre Natura gettò uno sguardo verso il rosso, che continuava a ballettare tranquillissimo e sereno come non mai: era pazzo, assolutamente e indubbiamente pazzo.

Loro rischiavano di rimanerci secchi, e lui che faceva? Cantava e ballava.

«Emily».

E la importunava, anche quello.

Non si girò nemmeno, consapevole che quasi sicuramente si trattava di una delle sue solite stronzate.

«Cosa vuoi? Ti avviso che se devi raccontarmi una delle tue barzellette sconce, se vuoi propormi di fare sesso prima di crepare quaggiù, o se hai nuovamente intenzione di commentare la mia mancanza di un fondoschiena col quale puoi deliziarti mentre mi cammini dietro, allora-»

«Devo andare al bagno».

Ora però si girò, basita.

«Ah! Affari tuoi! Dovevi farla prima che entrassimo, adesso vai a sapere dove cazzo siamo finiti!» gli urlò contro, evidentemente adirata «Se proprio devi, allora falla su qualche parete! Tanto ce ne sono in abbondanza!»

«Ma poi mi guardi».

«Non m’interessa proprio nulla dell’appendice che hai in mezzo alle gambe, puoi starne assolutamente sicuro. Non tirarla per le lunghe, Phobos, fai quello che devi fare andiamo!»

«Dove?»

«Non ne ho la minima idea, per gli dei! NON LO SO!» urlò, salvo prendendoselo a braccetto subito dopo.

Lo accompagnò ad una ventina di metri da dov’erano.

«Quando avrai una risposta, allora falla sapere pure a me, ma intanto» gli slacciò la cintura, lasciando cadere mollemente i pantaloni a terra «piscia e taci!»

«Ma-»

«TACI!»

Lui, gli occhi fuori dalle orbite a causa dell’improvvisa severità dell’altra, non rispose, limitandosi a marchingegnare per fare ciò che doveva.

Nell’attesa che quel disgraziato terminasse ciò che doveva fare, la figlia dell’Uomo nero chiuse gli occhi e si godette quell’attimo di silenzio che, finalmente, poté concedersi: forse si erano persi, ma almeno non aveva suo padre e Gwenllian intorno, il che era-

«Emily».

Non prenderlo a pugni, non prenderlo a pugni, non prenderlo a pugni”.

Inspirando ed espirando profondamente per svariate volte, esibendo il miglior sorriso che aveva nel repertorio e fingendosi calma, la Pitchiner si decise ad ascoltarlo.

«Cosa c’è?»

«Per caso i diggerwurm hanno il corpo che somiglia alla roccia di cui si nutrono, con una mandibola che si divide in più pezzi vagamente somiglianti alle tenaglie di un insetto, con grossi buchi o placche al posto degli occhi, la testa scavata come un teschio animale e delle specie di ossa che spuntano dal loro corpo?»

«Ci sono molte forme di diggerwurm ma sì, l’aspetto grossomodo corrisponde alla tua descrizione» confermò «perché?»

«Per quello» rispose indicandogli le profondità della galleria.

Essendo rischiarati solo i pochi metri circostanti a loro dal fuoco dell’uomo, lei proprio non vedeva nulla; decise di rimediare strappando una radice dal soffitto e chiedendo al compagno di incendiare quella, così da usarla come una torcia.

La gettò verso il fondo del tunnel.

 

E vide un cucciolo di diggerwurm -nulla di che rispetto agli adulti, sarà stato lungo una quarantina di metri o giù di lì- che curiosava poco lontano da dove si trovavano.

Dietro di lui, uno dei genitori, una bestia lunga venti volte tanto.

Che stava allargando la galleria.

E puntava verso di loro.

 

Mantenendo una calma proverbiale, Emily Jane prese la mano al suo compagno di disavventure, stringendogliela fino a farla diventare bluastra.

«Phobos».

«Sì?»

«CORRI!»

Di disavventure, e ora pure di maratona.

 

 

---

 

 

Si strofinarono gli occhi per cinque minuti buoni, non convinti com’erano che il tunnel sotterraneo li avesse seriamente portati dove avrebbe dovuto portarli.

Alberi talmente alti e fitti da oscurare persino i raggi solari su tutti i fronti, qualche rustica capanna con mura di fango e tetto di paglia, un terreno sterile -per la mancanza di luce e calore- con una manciata di orti coltivati a frutta e verdura e cereali frugali, quel che bastava per sfamarsi insomma, fiumiciattoli quasi aridi e, infine, terre devastate dalle eruzioni vulcaniche.

Una civiltà sull’orlo del baratro, in poche parole.

Ecco, la loro idea di Quetzalli era qualcosa di molto simile a questo: una città sperduta nella foresta, popolata da tristi naga ermafrodite abbandonate a se stesse, scarnite per la mancanza di cibo e, soprattutto, arrabbiate col mondo che aveva voltato loro le spalle.

La realtà, però, era un tantiiiiiiiiiino differente.

Una città immersa fra gli alberi, sì, ma circondata da una foresta che assicurava una costante frescura anche durante i giorni più torridi, quando -come ora- i raggi dei Soli si riversavano roventi sulle imponenti piramidi azteche e gli innumerevoli castelli che parevano usciti da “Le mille e una notte”; le abitazioni, coperte d’oro e di gemme preziose com’erano, risplendevano al punto da colorare anche l’acqua delle numerose oasi presenti qua e là nella città, sulle quali si affacciavano svariate di quelle case che -grazie alle rampe e rampe di scalini che emergevano dalle acque come alberi di mangrovia- vi si gettavano letteralmente dentro a capofitto.

Se non era El Dorado quella, allora non avrebbe potuto esserlo nessun’altra città.

A dispetto del terreno arido atteso, le strade dorate di Quetzalli si snodavano invece in un vero e proprio tappeto di un acceso verde smeraldo, una distesa rigogliosa nella faceva capolino ogni genere di fiori e frutti e bacche -commestibili e non- dai colori vividi e brillanti, complice la cenere vulcanica che rendeva estremamente fertile il suolo.

E nemmeno le abitanti parevano poi tanto malinconiche e inconsolabili a causa del loro isolamento, tutt’altro!

Ovunque si gettasse lo sguardo, si potevano vedere Ophidians e Ophidians ora impegnate a strisciare serenamente per le vie della città con ceste di frutti esotici fra le mani, ora a conversare fra loro sulla riva del fiume tenendo d’occhio le figlie che sguazzavano nell’acqua, ora a combattere in quella sinuosa danza di corpi serpentini che s’avvolgevano l’uno con l’altro in nodi impossibili da sciogliere. Qualsiasi cattività stessero facendo, però, una cosa era certa: non erano tristi, né scarnite, né arrabbiate col mondo.

Emily e Phobos si scambiarono uno sguardo fugace, impegnati com’erano a tenere la bocca aperta per lo stupore, immobili come statue.

«È la cosa più bella che abbia mai visto in millecinquecento anni di vita».

«Sì, lo è» confermò lui, incapace di aggiungere altro «e dimostra che-»

Improvvisamente, il rosso avvertì una forte pressione sulla spalla, come se l’altra gliela stesse stringendo con particolare forza; d’istinto mise una mano dove iniziava a sentire i muscoli intorpiditi, per levargliela.

«Cosa diavolo stai- oh».

 

O Madre Natura aveva la pelle più secca che esistesse nell’intero cosmo, o stava toccando la mano di un’Ophidians. E i serpenti corallo che si trovò tutto d’un tratto a sibilargli ad un palmo dal naso confermarono la seconda opzione.

 

Una naga dalla coda nera costellata di squame rosse e gialle aveva poggiato le proprie mani squamate sulle spalle di entrambi, cogliendoli totalmente di sorpresa.

«Mani naa essa en lle? Qual è il vostro nome?» sibilò.

I due avventurieri -paralizzati com’erano da un misto di puro terrore, adrenalina a mille e l’istinto da “fight-or-flight” incapace di prendere una decisione- non risposero, limitandosi a fare la parte degli stoccafissi lasciati a seccare al Sole.

Lei, allora, li girò verso di sé con una certa decisione.

«Vi ho fatto una domanda, e siete pregate di rispondere: chi siete? Dove siete state catturate e, soprattutto, da quale Airë Tári? Di chi siete schiave?»

«Naa rashwe? C’è qualche problema?» intervenne un’Ophidian dalle squame bianco e arancio e rosse armata di lancia, accodandosi alla prima.

«Ho trovato or ora queste due schiave che si guardavano intorno, ma non paiono intenzionate a parlare e dirmi chi sia la regina che le ha catturate» spiegò l’altra serpentessa, indicandoli «secondo te a chi possono appartenere? I loro volti non mi sono nuovi».

«No, infatti, anche a me pare di averle già viste» convenne pensierosa; afferrò il mento di entrambi e si mise prima a studiarli, poi a sollevare lembi di stoffa come a cercare qualcosa.

Controllò loro il collo, poi smise.

«Confermo che sicuramente sono nuove schiave, non indossano ancora alcun ruxal' ambönnar e le loro vesti sono lerce e consumate, ma resta da capire a quale regina appartengono. E bisogna saperlo con certezza, dal momento che il furto di serve altrui costa carissimo».

«A mio avviso» intervenne la naga dalle squame nere «sono proprietà di Airë Tári Hippolyta. Considerando la quantità di femmine da lei catturata durante l’ultima battuta di caccia, non mi sorprenderebbe sapere che un paio di loro si sono separate dal gruppo, magari mentre venivano scortate all’harem per essere marchiate».

«Avrebbe senso» concordò «del resto è risaputo che lei e l’Airë Tári Antiope sono le prime a muoversi, quando arriva la notizia di qualche straniera nei nostri territori. E considerando che Antiope è gravida e fuori forma, poco ma sicuro che è Airë Tári Hippolyta l’è sfilata davanti al naso con lazo e rete in bella vista» ridacchiò.

Tirò fuori dalla saccoccia che teneva appesa in vita una spessa corda, con la quale legò le mani di uno e dell’altra. Nessuno dei due oppose resistenza.

«Le riporto a lei, allora, e le riferirò che sei stata tu a ritrovarle. Aa’ menealle nauva Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta, mellonamin» fece un breve inchino quella dalle squame arancioni.

«Aa’ i’sul nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle, mellonamin» ricambiò l’altra, allontanandosi.

Il rosso guardò la Pitchiner dritta negli occhi, incontrando due sfere dorate rese totalmente inespressive dalla preoccupazione.

«Spero almeno abbiano i faciola in salsa», le disse.

 

 

Il tragitto per arrivare all’abitazione della loro “padrona” era stato più lungo del previsto, e anche più istruttivo di quanto potessero lontanamente immaginare: girando e svoltando per vie dalle mattonelle d’oro, i due prigionieri avevano avuto l’occasione di osservare la città da una prospettiva differente.

Una prospettiva che li avrebbe decisamente dissuasi dall’impresa, se solo l’avessero notata prima di entrare.

Ora come ora, mischiati com’erano in mezzo alla popolazione, potevano finalmente notare che non erano solo Ophidians ad abitare Quetzalli: insieme a loro, spesso e volentieri affianco, c’erano anche delle donne.

Non Ophidians.

La maggioranza di loro avevano tratti umanoidi, ma -cammina e cammina- c’era voluto poco perché ne incrociassero anche di razze sconosciute ad entrambi: umane, aliene, succubi, dalle fattezze animalesche, talmente alte e muscolose da sembrare montagne o così minute e magre da parere fragili come ali di farfalla. Tutte sorridenti e serene, in quegli abiti succinti -che andavano dai variopinti tessuti indiani, ai leggeri veli in stile arabo, fino a bikini che lasciavano ben poco su cui lavorare alla fantasia- che nulla avevano a che fare con i collari intorno alle loro gole, segno inequivocabile dello status di schiave.

Schiave, certo, ma che non si comportavano affatto come tali: parlavano e ridevano e scherzavano con le Ophidians, davano preziosi consigli su quale stoffa o gioiello meglio s’intonasse alle squame, badavano alle stesse figlie della loro padrona che scorrazzavano da una parte all’altra del mercato.

Erano schiave, ma sembravano quasi entusiaste di quella loro condizione.

 

Impegnati com’erano a guardarsi intorno, non notarono quando la naga che li stava accompagnando si fermò; finirono per sbattere addosso alla sua schiena.

Intuendo di essere arrivati, alzarono entrambi il naso: se le altre abitazioni erano immense, allora quella le superava tutte, tutte.

La piramide azteca centrale era tremendamente alta, talmente tanto che a malapena si vedeva la sommità, affiancata da un’infinità di statue -prevalentemente di serpenti o naga- e da un complesso di torri dalle coloratissime cupole che parevano essere uscite dal film “Aladdin”; di fianco ad essere c’erano appartamenti più bassi, sì, ma ugualmente curati e maestosi, considerata l’imbarazzante quantità di gemme e mosaici che ne rivestivano le facciate.

E il sobrio color oro che ricopriva tutto e accecava al solo guardarlo, ovviamente.

Sentirono la presa sui propri polsi allentare, fino a svanire completamente.

«Questa è la vostra nuova casa. Il mio compito e le mie responsabilità terminano dove iniziano questi cancelli» asserì l’Ophidian che li aveva accompagnati, slegandoli. Indicò loro l’ingresso alla casa «D’ora in avanti, siete nelle mani della vostra nuova Airë Tári, la vostra regina nonché padrona dei vostri corpi e delle vostre vite, mi avete capito?»

Entrambi annuirono, sebbene non stessero seguendo minimamente il discorso. L’altra si guardò intorno.

«Dovrebbe arrivare una schiava a prender- oh, eccola».

Una figura fece capolino dalla porta, una donna dalla pelle scura ed i capelli verde acqua abbigliata nemmeno fosse la principessa Jasmine, con la differenza che il suo ampio abito era di un tenue rosa ciclamino.

Appena arrivò e la salutò inchinandosi, la serpentessa spinse i due verso di lei con la coda.

«Appartengono alla tua regina. Miulë Otrera le ha ritrovate ai confini di Quetzalli, probabilmente si erano perse, ma ora sono dove devono essere» asserì con un cenno del capo. «La mia parte di lavoro l’ho fatta riportandole qui, ora devo andare: porgi i miei saluti alle tue signore, mi raccomando».

«Sarà fatto» le sorrise la schiava «le mie padrone sicuramente apprezzeranno il vostro gesto e si premureranno di ringraziarvi a dovere».

Si chinò nuovamente in segno di riverenza, mantenendo la posizione finché la naga non uscì dal suo campo visivo.

Allora, e solo allora, si girò verso Emily e Phobos.

«Che bello che bello che bello che bello CHE BELLO!» squittì entusiasta, afferrando le mani di entrambi «Nuove amiche! Nuove amichette con le quali fare conoscenza e prendere il tè assieme e insegnare cucinare e truccare da mattina a sera e con le quali massaggiare con l’olio profumato la regina tuuuuuuutto il giornoooooooooo!» iniziò a saltellare e ballettare «Sono così contenta! CONTENTISSIMA!  IL VOSTRO ARRIVO È UNA NOTIZIA BELLA BELLISSIMA ESATTAMENTE COME LO SIETE VOI VI AMO GIÁ SIETE MERAVIGL-»

«Ma cosa stracazzo ti sei fumata?!!» tuonò il rosso, divincolandosi dalla presa della serva. Quest’ultima si fermò e si mise a guardarlo, pensierosa.

Solo per due secondi netti, sia chiaro.

«Niente! Giuro di non aver ancora toccato il narghilè, oggi!» esclamò mettendosi la mano sul cuore, ridacchiando «Sto solo esprimendo esternamente l’immensa gioia che riempie il mio petto nel vedere che sono arrivate in casa due future amiche amicissime amicissimissime!»

«Non puoi esprimerlo in modo più calmo?» bofonchiò lui.

«NO! Non bisogna contenersi di fronte a cose così belle bellissime!» rispose con tanto di linguaccia. Gli afferrò le guance e gli si pose davanti, naso contro naso, facendolo perdere in quelle iridi grigio scuro «Ma non stiamo qui a cincischiare! Dovete conoscere tutte le altre! E la regina! E pure l’altra regin- ah no, ora non è in casa…» si bloccò, mollando il rosso con un buffetto «E va beh! La conoscerete dopo, tanto di tempo ne avete a bizzeffe! Però priiiiiiiiiiiiima di andare a fare conoscenza... PRESENTAZIONI!»

Ballonzolò qualche metro più avanti, estraendo dalla tasca degli ampi pantaloni rosati due ventagli con -all’estremità- un lungo velo dello stesso colore che andava sfumando fino al bianco; iniziò ad agitare il corpo sinuoso e ballare per loro, inscenando qualcosa che doveva somigliare ad una danza orientale.

Il teatrino durò una manciata dei minuti, al termine dei quali fece un inchino.

«Il mio nome è Amira, piacere!» incrociando le braccia, strinse le mani a entrambe «Il vostro invece qual èèèèèèèè?»

«Io sono Emily Ja-»

Phobos se la tirò a sé girandosi, dopo averla interrotta con una gomitata sul fianco.

«Che diavolo stavi facendo? Vuoi dirle “Ehi! Sono Emily Jane Pitchiner, ma tu puoi chiamarmi pure Madre Natura o sovrana di Tandokka”, ti sei rincoglionita?!!» la rimproverò a bassa voce, severo.

La donna non controbatté, ben sapendo che il suo compagno aveva ragione: probabilmente nessuna delle schiave conosceva o aveva anche solo sentito nominare uno dei due, ma -per un motivo o per un altro- era meglio non rischiare; erano già nella tana del serpente, metterlo in allarme e lasciare che si svegliasse avrebbe significato essere sicuramente morsi.

E avevano come l’impressione che quel morso gli sarebbe stato fatale.

«Lieta di conoscerti, Amira, il mio nome è-»

«Emilia Gianna» rispose l’altro per lei «mentre io sono Phoebe, piacere di fare la tua conoscenza».

«Figuratevi! È un piacere tutto mio, quello di scortare due belle signorine come voi dalla mia signora, così possiamo già parlare del più e del meno fra noi ancora prima di presentarvi a tuuuuutte le altre!» cinguettò lei, letteralmente in visibilio.

Le prese frettolosamente a braccetto.

«Presto, presto, andiamo!»

Avvicinandosi all’abitazione verso la quale stavano venendo condotti, entrambi non poterono fare a meno di notare il lussureggiante e ampio giardino che circondava la villa: alberi da frutto, piante rampicanti che si avvinghiavano sugli stessi come a stringerli in un abbraccio verde smeraldo, e infine fiori, fiori a non finire, così profumati da spargere il loro aroma dolciastro per tutta l’area lì intorno. Appena visibili da dove si trovavano loro, delle lunghe vasche -piantate nel terreno- tappezzate di tasselli colorati, nella cui acqua limpida si specchiavano e giocavano almeno una dozzina di donne come Amira.

«All’interno le piscine sono mooooooolto più grandi» li informò la schiava, notando i loro sguardi meravigliati «quelle dentro sono grosse tanto… tanto… ecco! Tanto così!» allargò a più non posso le braccia, fiera.

«Amira».

«Sì, Emilia Gianna?»

“Giuro che questa gliela farò pagare, a quel maledetto disgraziato!”, si promise mentalmente la figlia dell’Uomo Nero.

«Posso chiederti una cosa?» domandò timida, sperando di non osare troppo. I suoi dubbi vennero però fugati dalla schiava, che le sorrise bonariamente.

«Certo! Chiedi pure tutto ciò che vuoi, tutto tuttissimo tuttissimissimo!»

Tirò un sospiro di sollievo.

«Quando quella naga ci ha catturato ai confini della città, ha iniziato a chiederci insistentemente da chi fossimo state catturate, e come lei ci è stato chiesto anche dall’altra serpentessa che ci ha portato fin qui; parlavano entrambi di “Airë Tári”, se non ricordo male, e -alla fine- hanno concluso che appartenessimo ad una certa “Airë Tári Hippolyta”. Hai idea di chi sia, per caso?»

«Ma certo! È la mia padrona, e ora è anche la vostra!» rispose entusiasta.

Tirò fuori un paio di occhiali e se li poggiò sul naso, come per sembrare più acuta di quanto non fosse e avere quel nonsochè di intellettuale.

«Dovete sapere che qui a Quetzalli, “Airë Tári” è il titolo che spetta alle regine che possiedono gli harem più grandi, e che -per questo e altri motivi- fanno parte del Calaciryandë, una sorta di gran consiglio della città» spiegò, continuando a camminare. «Immediatamente dopo di loro, troviamo le “Airë”: sono simili alle precedenti, semplicemente non hanno ancora raggiunto un livello tale da meritare un posto nel consiglio; dulcis in fundo, ci sono le “Miulë”, ovvero le principesse che non hanno ancora un harem proprio, o che sono agli inizi della costruzione di quest’ultimo. È una spiegazione molto approssimativa, lo riconosco, ma le differenze principali sono queste».

«Immagino che Hippolyta sia una sovrana piuttosto importante, se erano così sicure che ci avesse catturate lei» azzardò Phobos.

«Lo è eccome!» confermò fiera.

«La mia signora è molto stimata da tutte le altre Airë Tári, così come lo è la sua consorte, Airë Tári Phentesilea. Per quanto possa contare l’opinione di noi schiave, servirle non è un compito gravoso, tutt’altro! È un vero e proprio piacere! All’inizio può essere difficile accettare l’idea di appartenere a qualcuno che può disporre del tuo corpo a proprio piacimento, ma -detto fra noi- ci sono posti ben peggiori dove finire, e soprattutto regine molto meno magnanime da compiacere per il resto della propria esistenza. Vi è andata di lusso, posso assicurarvelo!».

Si avviarono in un lungo corridoio che passava sopra ad un piccolo laghetto, una sorta di tunnel dorato le cui pareti erano traforate da colonne e archi inflessi che -dando direttamente sull’acqua- fungevano pure da trampolino di tuffo.

Infine, si fermarono davanti ad una pesante porta di pietra, le ante intagliate a formare una miriade di serpenti dagli occhi costituiti da gemme preziose.

«Priiiiiiima di procedere oltre, dovete avere queeeeeesti» si mise a frugare e frugare e frugare nel borsello che aveva attaccato alla cintura. Tirò fuori due collari dorati.

Senza attendere oltre, li mise intorno al collo prima di uno, poi dell’altra.

«“Ruxal' ambönnar”, “collana della sottomissione”: questo» lo tocco, facendo tintinnare l’anello che pendeva sulla parte frontale «è ciò che dice a tutti “Ehi! Sono una schiava!”. Vi stringe troppo?»

Entrambi scossero la testa.

Amira, soddisfatta e rassicurata, spalancò allora la porta; i due compagni di sventure si scambiarono uno sguardo veloce, ma sufficiente per intendersi: non si tornava più indietro, adesso.

 

 

 

Si sarebbe potuto prendere in mano un dizionario e sfogliarlo per ore e ore e ore, per tentare di trovare trovare una serie di aggettivi che rendessero l’idea di ciò che si presentava dinanzi ai loro occhi increduli.

Nessuno di essi, tuttavia, sarebbe stato adatto a descrivere anche solo vagamente la realtà.

Complice il lucernario circolare di vetri colorati al centro del complesso, quell’immensa stanza dalle pareti blu cobalto e oro -intarsiata di pietre preziose e minuziose decorazioni e mattonelle variopinte per tutti i gusti- riusciva a essere luminosissima in ogni sua parte, compressa l’ampia piscina che si snodava per tutta la stanza. Così facendo, non solo tutta l’area risplendeva dei raggi dorati del Sole, ma pure dei riflessi multicolore creati dalle piccole tessere dei mosaici subacquei -visibili nell’acqua limpida- che formavano la pavimentazione della gigantesca vasca.

Ai bordi di essa, poi, c’era una zona completamente asciutta, dove sorgevano rientranze più o meno grandi agghindate come salotti: divani, montagne di cuscini, candele profumate, fiori, tavoli apparecchiati con ogni sorta di pietanza. Non mancava assolutamente nulla, insomma.

Nemmeno qualcuno che usufruisse di quel ben di dio.

Donne, donne ovunque girassero lo sguardo: che sguazzavano nell’acqua, che crogiolavano sui divanetti a parlare, che si acconciavano i capelli sedute a bordo piscina; tutte giovani, tutte d’indubbia bellezza, creature sorridenti e radiose che ballavano e cantavano e giocavano con tale entusiasmo da far dubitare chiunque che si trattasse di pure e semplici schiave.

«Se questo è lo schiavismo» si rivolse il rosso verso Emily Jane «allora prenditi lo scettro e vai pure senza di me, che ho un’improvvisa voglia di essere sodomizzato da una naga ermafrodita!»

«Vuoi essere sodomizzato pure da quelle?» gli indicò uno dei salotti.

Lì, con le code attorcigliate intorno alle colonne che reggevano gli archi coperti da tendaggi che offrivano un po’ di privacy alla zona, se ne stavano quattro di Ophidians, impegnate a scambiarsi particolari effusioni con altrettante donne, forse pure un paio di più.

In allarme, entrambi iniziarono a guardarsi intorno -cercando di non essere distratti da seni e fondoschiena al vento, che mica era facile per nessuno dei due!- sospettosi, trovando conferma alle proprie preoccupazioni: c’erano altre naga, là dentro, a occhio croce in quella stanza se ne contavano almeno una dozzina!

Guardando meglio, però, notarono che tutte loro portavano al collo un collare del tutto simile a quello di Amira e di tutte le altre schiave, per non dire che era lo stesso.

… Possibile che anche loro fossero-

«Aiiiiiirëëë Táriii Phenteeesiiiiileaaaa!  Aaaiiiiiiiiiirëëëëë Táááriiiiiiii Pheeeeenteeesiiiiileeeaaaaaaaaa » si mise a gridare Amira, saltellando «Ho delle nuove schiave sono belle bellissime giuro che PER LA TESTA MOZZATA DI MEDUSA MIA SIGNORA DEVE VEDERLE DEVE DEVE DEEEEEEEEVEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!»

Quella benedetta ragazza era folle, folle.

Dalla piscina fece capolino una sua coetanea, la pelle chiara ed i capelli violetti come i suoi occhi.

«La regina è là in fondo!» le indicò il salotto più grande dall’altra parte della stanza.

Quest’ultimo dava direttamente sulla piscina -raggiungibile tramite alcuni scalini- e su una sorta di piccolo chiosco, una costruzione circolare di pietra semi-immersa nella vasca che, ora, era parzialmente nascosta dai tendaggi tirati.

Ringraziata l’amica, la serva condusse entrambi fin dove aveva indicato l’altra, salutando e sorridendo a chiunque incontrasse sulla propria strada. Quando fece per aprire le tende, Phobos le mise una mano sul polso, per trattenerla

«Ma sei sicura che possiamo entrare?» chiese preoccupato «C’è rumore, qui, magari stanno facendo qualcosa che non vogliono sia interrotto, magari stanno scopando!»

«In quel caso, stai sicura che la regina non si nasconderebbe certo!»

Aprendo la tenda, rivelò un salotto grosso modo simile agli altri, solo più grande e con più divanetti dei precedenti, oltre che con più ospiti.

Com’era prevedibile, le schiave non mancavano mai.

Alcune appollaiate sul divano a mangiare e cantare in una lingua sconosciuta -sicuramente quella delle Ophidians- e suonare curiosi strumenti dalle forme bizzarre, altre sedute sul muretto del chiosco a battere le mani e, infine, decine di concubine impegnate invece a esibirsi in quella che aveva tutta l’aria di essere una vera e propria danza del ventre, con tanto di ali di Iside e ventagli e nastri variopinti.

Era solo un po’ più… osè.

Una delle ragazze si staccò dal gruppo, avvicinandosi ad un’Ophidian dalle squame di un brillante bianco opalescente, fra le quali faceva capolino qualche squama solitaria di un rosso acceso; le si sedette in braccio, si tolse il velo azzurrino da intorno ai fianchi e glielo mise intorno al collo, tirandola e sé e baciandola in modo alquanto appassionato.

Nel mentre, iniziò a strusciare sensualmente il proprio bacino su quello della naga, che -di tutta risposta- le strinse le natiche con le mani artigliate, affondandole gli artigli in esse mentre l’accompagnava nel movimento.

Non era affatto ambiguo, ciò che stavano facendo.

Era palesissimo.

 

Amira mosse qualche passo in avanti, inchinandosi.

«Vanimle sila tiri belegohtar curucuar, Airë Tári Phentesilea» salutò semplicemente.

“Dunque quella è una delle regine”, pensò Emily Jane, scambiandosi uno sguardo con Phobos per assicurarsi che anche lui avesse tirato le stesse conclusioni.

A vederla, in realtà, non avrebbe scommesso nemmeno mezza moneta di rame che quella fosse una fra le sovrane che se ne stavano ai vertici di Quetzalli, piuttosto avrebbe pensato che potessero esserlo uno delle due Ophidians che l’affiancavano!

Magrolina, senza il minimo accenno alla muscolatura come le sue simili, il corpo come la coda -più lunga di altre, indubbiamente, ma non altrettanto spessa- snello e delicato, che pareva potersi spezzare solo guardandolo, la pelle talmente pallida da sembrare candida come le sue squame; persino i serpenti che aveva per capelli erano lunghissimi, sì, ma esili, una cascata color della neve dalla quale qua e là s’intravedevano le loro piccole teste rosse che schioccavano la lingua a saggiare l’aria.

Che loro fossero convinti o meno che si trattasse della regina, la serpentessa gettò il proprio sguardo verso la serva, sorridendole.

«Mae govannen, Amira» ricambiò il saluto, piegando impercettibilmente la testa.

Un paio di decisi movimenti d’anca, e la concubina che aveva in grembo inarcò la schiena, crollandole poi letteralmente fra le braccia; con un segno della mano, Phentesilea fece segno ad una sua simile di prendere la donna con la quale aveva appena copulato e portarla su uno dei divani.

Invitò i tre a sedersi.

«Eccoci qui, dunque» batté le mani, come a ufficializzare quell’incontro. Si girò verso la serva «Allora, vuoi dirmi un po’ chi sono queste due splendide ragazze?»

«Oh! Certamente! Lei è Emilia Gianna!» indicò la prima «E lei è Phoebe!» poi il secondo.

Si sdraiò a testa in giù sul divano, si prese un grappolo d’uva e, con tutta la calma del mondo, iniziò a mangiarlo.

«Quando sono uscita, si trattava di Airë Talestrie. Mi ha riferito che Miulë Otrera ha trovato loro due» li additò di nuovo «ai confini del regno, fuori dalla foresta, e che -dopo essersi consultata con lei- hanno concluso che parevano entrambe due delle donne catturate da Airë Tári Hippolyta nell’ultima battuta di caccia. Non ne era sicura al cento percento, in verità, ma ha ritenuto comunque più opportuno consegnarle a voi, piuttosto che ad altre regine».

«Hanno avuto un pensiero molto gentile entrambe, la mia consorte sarà felice di sapere che non sono andate ad Airë Tári Antiope!» annuì Phentesilea ridendo.

«Assicurati di mandare loro i dovuti ringraziamenti, Amira, mi raccomando. Voglio che sia riservata particolare attenzione ai doni di Miulë Otrera, inoltre: è solo una principessa, ma noto con piacere che si sta dando da fare per ingraziarsi noi cosiddetti “piani alti”, tanta intraprendenza va certamente premiata».

«Cosa preferite che le mandi? Oro? Argento? Gemme?»

«L’ultima che hai detto. Silmarillis» si fece pensierosa «una manciata. Dovrebbe bastarle per comprarsi qualche schiava per iniziare a fare concorrenza a sua madre, considerando che quello è l’obiettivo che abbiamo tutte da quando veniamo al mondo, qui!» rise.

Gli altri presenti non potevano saperlo, ma le gemme di Silmarillis erano la merce di scambio dal più alto valore che esistesse a Quetzalli, dinanzi alla quale qualsivoglia diamante impallidiva.

Donate all’alba dei tempi da Quetzalcoatl al regno di sua figlia, altro non erano che piccole pietre preziose grandi quanto un chicco di riso dall’aspetto adamantino, il cui interno -percorso da venature e sfaccettature colore dell’arcobaleno- brillava di luce propria talmente intensa da illuminare ciò che aveva intorno. Non potevano essere estratte in nessun luogo e con nessun attrezzo, però: l’unica fonte di Silmarillis erano delle fontane di cristallo che rarissimamente le regine possedevano nei loro territori, motivo per cui erano considerate come un ennesimo indicatore sociale.

 

Discusso un altro po’ con Amira sulle ricompense da elargire alle altre Ophidians, finalmente Phentesilea rivolse le sue attenzioni alla figlia dell’Uomo nero e il rosso.

«Gradite qualcosa da bere? Da mangiare, forse? Non fate complimenti, chiedete pure ciò di cui avete bisogno: alle mie serve non è mai stato negato nulla, potete tranquillamente chiedere a qualunque donna incontriate».

Nessuno dei due era troppo sicuro di cosa rispondere: se avessero accettato forse avrebbe pensato che si stessero approfittando della sua gentilezza, o che fossero troppo viziate, o che, ancora, non avrebbero dovuto e potuto parlare senza il suo permesso; se avessero rifiutato, al contrario, magari l’avrebbe presa come un’offesa, o un segno di maleducazione, o che non gradissero le buone maniere e volessero sperimentare quelle cattive! Alla fine, optarono per il silenzio.

«FACIOLA! FACIOLA IN SALSA!»

O almeno ci provarono.

Emily avrebbe voluto sprofondare sottoterra, o affogare in piscina: tentativi e tentativi per non dare nell’occhio, e cosa succedeva? Phobos voleva i fagioli.

I fagioli.

Sarebbe morta per mano di stupidi, maledetti, dannatissimi, fagioli in salsa.

Contro ogni più rosea previsione, però, la regina si mise a ridere.

«Faciola?» ripeté divertita «Intendi quei piccoli legumi a forma di bottone, leggermente ricurvi, con la buccia sottile sottile e quella consistenza pastosa quando si masticano?

«Sì! Quelli! QUELLI!» le si gettò davanti, le mani giunte e lo sguardo implorante «DITEMI CHE AVETE ANCHE QUELLI IN SALSA PICCANTE! VI PREGO VI SCONGIURO VI SUPPLICOOOOOH!»

«Ovvio che li abbiamo, qui accontentiamo i gusti culinari di chiunque».

Uno schiocco di dita, e comparve una serva con una grossa ciotola di vetro finemente lavorata fra le mani; al suo interno, un numero non meglio definito di chili di fagioli.

«Prego, serviti pur-»

Ancor prima di ricevere l’invito della sovrana, lui si trovava già con la testa letteralmente immersa nel contenitore, a sbafare faciola piangendo commosso nemmeno fossero finiti in un “Lo chiamavano Trinità”.

Se uno si strafogava senza ritegno alcuno, però, l’altra lo fissava perplessa.

E la regina la notò.

«Qualcosa ti turba, mia cara?»

Prima di risponderle, Emily esitò: non pareva avere cattive intenzioni, ma preferiva andarci piano sia con le domande, sia con le risposte. Meno diceva, meglio era.

«Come fate ad avere un cibo tipico della Terra? Non è proprio dietro l’angolo, e ho sentito dire che voi Ophidians non uscite mai dai confini della vostra città, mi risulta difficile capire come facciate a procurarvi dei… fagioli». A quella parola, si diede una sonora pacca sulla fronte «Lasci perdere, lasci perdere. Mi scusi, sono mortificata, non so perché sto chiedendo informazioni sui legumi ad una regina, non-»

«Oh, è molto semplice» l’anticipò la sovrana, sorridendo «avrai notato da sola che qui ci sono esemplari femmina delle più svariate razze che popolano il cosmo, non penso che le Almáttki del pianeta Dragsa passino poi tanto inosservate» ridacchiò, facendo riferimento a quelle donne che parevano montagne di muscoli viste in città.

«Comunque sia, il modo o il motivo per cui suddette femmine finiscono nei territori di nostra competenza non è un nostro problema: se bevono dai nostri fiumi, se colgono i frutti dai nostri alberi, se riposano le loro stanche membra sulle nostre pietre, se si sfamano con il nostro grano, se entrano a Quetzalli, allora diventano nostra proprietà. Noi Ophidians le cacciamo, le catturiamo e le reclamiamo come nostre schiave, e da allora diventiamo le padrone dei loro corpi e delle loro vite».

Prese un fagiolo caduto a terra.

«Un giorno arrivò una ragazza terrestre, una commerciante del deserto se non ricordo male, e con sé aveva questi legumi: fagioli, appunto» glielo mise sul palmo della mano «li piantò e ci mostrò come prendercene cura, e da allora crescono anche qui a Quetzalli. Innumerevoli altre piante aliene -che immagino tu abbia visto venendo qui- sono arrivate qui con la stessa metodologia, sai? Non usciamo mai dal nostro regno, ma abbiamo una varietà di fauna e di flora incredibilmente vasta e variegata».

«È una storia davvero affascinante» convenne Emily, sinceramente sorpresa.

Non seppe se fosse l’effetto del sentirsi priva di vie d’uscita, se dovesse dare la colpa al rincoglionimento di Phobos che l’aveva contagiata via aerea, o se fosse stata ipnotizzata dall’innegabile bellezza di quell’Ophidian così diversa dalle altre, fatto stava che, istintivamente, si trovò a cercare con la propria mano quella artigliata dell’altra, portandosela sulla coscia.

«E ditemi, Airë Tári Phentesilea» gliela fece scivolare sotto la gonna «ne avete altre, di storie come questa?»

La naga le sorrise, compiaciuta.

«Sono una creatura immortale di migliaia e migliaia di anni, Emilia, ne ho quante ne vuoi» le si accostò all’orecchio, sibilando e sfiorandoglielo con la lingua biforcuta, gli artigli che lasciavano piccoli segni rosati dove toccavano la pelle «e sembrano tutte più avvincenti, se le si ascolta nelle mie stanze, magari a mollo nella vasca da bagno, o sdraiate sul mio letto a godersi un bel massaggio, oppure potremmo starcene-»

«Sotto le lenzuola» le prese il volto fra le mani, avvicinando le proprie labbra a quelle dell’altra «a godere e basta».

L’Ophidian non ebbe il tempo di rispondere, che la lingua della Pitchiner stava già avidamente intrecciandosi alla propria.

La regina si abbandonò piacevolmente al contatto delle labbra della sua nuova schiava con le sue, un contatto dapprima gentile, poi sempre più esigente, avido, impetuoso, che le smorzava il fiato in gola, da com’era stata presa alla sprovvista. Emise un mugolio sommesso, quindi sollevò le braccia per passargliele attorno al collo, tirando Madre Natura a sé e ricambiando il bacio con tanto e più ardore, complice la mano che era finita chissà dove.

E che era tornata indietro insospettabilmente bagnata.

Ah, i misteri di Quetzalli! Quale meraviglia!

Quando si staccarono l’una dall’altra, i loro occhi non si persero di vista nemmeno un istante.

«Amira» chiamò la serva, che alzò la testa dalla sua improbabile posizione «mi ritiro nelle mie camere. Bada alle altre concubine, che a quella nuova» guardò Emily, maliziosa «penso io. Ne avremo per molto, molto, tempo».

«Il più a lungo possibile, assolutamente» convenne la sovrana di Tandokka, aggrappandosi al suo petto.

«Come desiderate, Airë Tári Phentesilea!» scattò sull’attenti l’altra, portando la mano alla fronte in un saluto militaresco. Infine, fece un breve inchino al congedarsi della sua regina.

Dall’altra parte, Phobos -letteralmente paralizzato, con i faciola che gli cadevano dalla bocca a causa della temporanea paresi facciale- non fu in grado di fare nulla: non reagì, non si alzò per impedire il folle gesto della sua partner di fagiolate, non sembrava nemmeno in grado di respirare, in quella modalità “statua di marmo”. Semplicemente, fissò con occhi vuoti Emily Jane Pitchiner, la che andava imboscandosi con una regina Ophidians.

A svegliarlo, ci pensò la pacca di Amira sulla schiena.

«Uh-uh! Vedrai che la inaugurerà come si deve, non ho mai sentito nessuna schiava lamentarsi della sua prima notte nell’harem!»

Annegò la testa nei fagioli per non sentirla.

 

 

 

[… la mattina seguente…]

 

«TU! MALEDETTA LESBICA INFOIATA! FORNICATRICE! CORTIGIANA!»

«Quante storie».

«“Quante storie”? “QUANTE STORIE”?»

Batté i pugni sul tavolo, facendo traboccare del karkadè dalla tazza che aveva davanti.

«Sei sparita da un momento all’altro, ieri, e sei rimasta da allora fino a questa mattina inoltrata a farti scopare in ogni posizione possibile e martellare gli orifizi da qualsiasi angolazione e sfondare l’anima dalla regina! E non credere che non abbia visto tutte le altre schiave che sono entrate nella stanza mentre eravate impegnate a copulare! Minimo erano una quindicina! UNA QUINDICINA!»

«Come sei noioso».

«E ci credo che sono noioso! Dopo quell’orgia voglio proprio vedere cosa reputi interessante!» sbottò il rosso, alzandosi di scatto e rovesciando la sedia.

Furibondo, si afferrò i lembi della lunga gonna -di un giallo acceso con uno spacco che mostrava la stoffa blu notte sottostante, costellata di piccole perline argentee che la rendevano somigliante ad un cielo pieni di astri- che indossava e gliela mostrò, orripilato.

«Non puoi nemmeno immaginare cosa ho rischiato, quando le concubine sono venute a svegliarmi per lavarmi e vestirmi con gli abiti dell’harem! Avrebbe potuto scoprire che sono un uomo! Erano a tanto così dal farlo!»

Di tutta risposta, lei gli toccò il pacco.

«Sei vivo e hai ancora il cazzo attaccato, quindi suppongo non lo abbiano scoperto».

«No, per fortuna!­ Sono riuscito -anzi, riuscita!- a fingermi troppo timida per denudarmi davanti a loro, ho detto che dovevo ancora abituarmi all’idea di essere vista senza veli da altre donne e che avrei fatto da sola, ringrazia il cielo che abbia funzionato! E non ti dico quando hanno notato che non ho il seno! Solo gli dei sanno come hanno fatto a credere al fatto che avessi troppi muscoli perché si notasse!»

Si sedette, mettendosi le mani fra i capelli.

«Potevi farmi ammazzare, ma stai sicuro che -se fosse accaduto- ti avrei trascinata con me» l’informò, facendosi scuro in volto «ma tanto che te ne frega, tu eri a scopare e divertirti. Per il resto, che si fotta il mondo! Letteralmente!»

Emily Jane, calmissima, poggiò la propria tazza di tè verde sul piattino. Si lisciò il lungo abito da danzatrice del ventre verde e bronzo-dorato che portava.

Chiuse gli occhi, tirando un profondo respiro.

«Ho fatto sesso con Phentesilea, lo ammetto, ma le ragazze che hanno partecipato alla suddetta orgia saranno state cinque o sei, non di più­» raccontò tranquilla, prendendo un biscotto e inzuppandolo nel tè «e non l’ho certo fatto per divertimento. Non solo per quello, almeno. Ero piuttosto curiosa di soperimentare di persona l’ermafroditismo di queste naga ninfomani, sì, non puoi nemmeno immaginare cosa-»

«Mezzo metro di cazzo, Emily, mezzo metro

«Non ero lì con un metro in mano ma sì, da quel che so le dimensioni di un’Ophidians adulta sono quelle, forse qualcosa di meno. Tralasciando che mia vagina non debba rendere conto a nessuno che non sia me stessa, il punto non è questo».

«E quale sarebbe?» domandò stizzito.

«Sarebbe che sì, mi sono messa a flirtare con lei e mi sono tolta lo sfizio di averci un rapporto sessuale insieme, ma è stato tutto dettato dalla necessità di carpire informazioni, più che dagli ormoni. Quelli hanno reso l’esperienza più interessante e godibile, in tutti i sensi, ma la missione aveva e ha ancora la priorità sul piacere personale».

L’uomo parve calmarsi, abbastanza da riuscire a tenere il bicchiere in mano senza romperlo dalla rabbia.

«Cos’hai scoperto?»

«Che abbiamo poco tempo. Pochissimo. Se vogliamo agire, allora dobbiamo farlo oggi: dopo questa sera, tu sarai morto, e io gravida».

«C-come?» strabuzzò gli occhi, pallido in volto «Cosa intendi per… gravida?»

«Intendo ciò che ho detto» ribatté lei, apatica. «Da quel che ho sentito e mi hanno detto, siamo capitati giusto giusto all’inizio del periodo dell’anno in cui le Ophidians fanno ingravidare le proprie schiave. La cerimonia inizierà questa sera stessa, appunto».

«Credevo pensassero loro, a queste cose».

«Per dare vita a ibridi? Nah. Ricordati che sono solo serve, concubine, schiave sessuali: ingravidarne una non sarebbe poi questo grande vanto, per una sovrana» fece spallucce «soprattutto perché i marmocchi verrebbero tenuti nell’harem di provenienza della madre prigioniera, per cui la regina finirebbe per accoppiarsi con i suoi stessi figli. Qui non siamo dalle parti della Costellazione di Orione, Phobos, non sono Chandrasekhar: l’incesto non si pratica».

«E quindi?»

«E quindi, una volta l’anno, le Ophidians aprono le porte della città ad alcuni membri della Né Räggira, una tribù mista a prevalenza maschile che abita qui su Exodus, i cui uomini si offrono ritualmente volontari per accoppiarsi con gli harem delle regine e, possibilmente, ingravidarle» spiegò. «Per tutta la durata di questa “stagione dell’accoppiamento”, se così vogliamo chiamarla, i maschi scelti vengono condotti bendati all’interno di Quetzalli, e solo al calare della notte. In questo modo, nessuna delle due persone coinvolte nel rapporto sessuale può conoscere il volto dell’individuo col quale ha giaciuto e, soprattutto, non potrà mai sapere l’identità dell’altro genitore, se l’unione dovesse andare a buon fine».

«E cosa succede ai bambini?» chiese l’altro, confuso «Se non ci sono uomini a Quetzalli, allora-»

«Se sono femmine, allora vengono tenute dalle Ophidians e allevate come schiave, incontrando lo stesso destino delle loro madri» lo anticipò «se sono maschi, invece, vengono riconsegnati ai Né Räggira, e ogni membro adulto adotta un bambino. Nessuno di loro potrà mai sapere se quello è suo figlio o meno, ma -forse perché i neonati vengono cresciuti da tutta la tribù- ciò non pare disturbarli, dal momento che continuano a offrirsi volontari stagione dopo stagione, anno dopo anno. E noi siamo finiti qui» allargò le braccia per indicarsi tutt’intorno «proprio all’inizio di questa stagione, pensa che fortuna che abbiamo avuto».

Il rosso, evidentemente preoccupato, si alzò, iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro.

Su dei deliziosi tacchi a spillo, fra l’altro.

«Se non leviamo le tende prima di sera, allora non potremo farlo mai più. Letteralmente, perché qui ci ammazzano prima» rifletté ad alta voce. Si fermò davanti a Madre Natura, che intanto aveva finito il proprio tè «Come ne usciamo?»

«Da cosa? Da Quetzalli, o da questa situazione?» rigirò la domanda.

«Fa differenza?»

«Se intendi la prima, non ne ho idea: la città è blindatissima, in vista della cerimonia, e la galleria dalla quale siamo arrivati è impossibile da raggiungere senza farci notare. Se intendi la seconda, allora ho un piano».

«… Hai un piano?»

«Precisamente» confermò la Pitchiner, gongolando.

Si alzò anche lei, affiancandosi al compagno, che della sua calma non sapeva cosa farsene.

«Può darsi che qualcuno sia stato scelto dalla regina per accompagnarla al tempio di Medusa, per andare a pregare, le schiave che solitamente la scortano sono andate al mercato qualche ora fa e non torneranno prima del pomeriggio. Se andiamo con lei a quel benedetto santurio, allora ci salviamo pure dalla marchiatura che ci aspetta giusto fraaaaa» guardò una meridiana «trenta minuti».

«M-ma-marchiatura?»

«Quella. Non ci hai fatto caso nemmeno mentre venivamo qui, che ogni schiava ha inciso sulla pelle -in parti del corpo random- un simbolo diverso per ogni padrona? In questo modo, nessuna regina può pretendere la serva di un’altra regina, pratico e veloce. E un po’ doloroso, ma Amira ha detto che non è-»

«Andare a questo tempio ci farà perdere tempo?» l’interruppe, non volendo nemmeno sapere ulteriori dettagli su quella questione.

«Non credo, tutt’altro» sorrise Emily «è il luogo più sorvegliato dell’intera città, quiiiiiindi…?»

Lui si fece pensieroso qualche istante. Improvvisamente, schioccò le dita, come se avesse appena avuto un lampo di genio.

«Quindi lo scettro potrebbe trovarsi lì!»

«La stessa cosa che ho pensato anche io» convenne la Pitchiner. Subito, però, mise le mani avanti «Sottolineo che non ne ho la conferma, quindi bisognerà andarci con i piedi di piombo: potremmo avere ragione, come potremmo avere torto. Nel primo caso, prendiamo lo scettro e ce la fuggiamo con la certezza di uscirne vivi. Nel secondo caso, dovremo trovare alla bene e meglio un modo per fuggircela, e al diavolo la copertura» fece una breve pausa «anche se…»

«Anche se…?»

Si portò le mani alle tempie, massaggiandosele.

«Anche se, adiacente al tempio, ha la propria dimora Axechasti, la figlia di Quetzalcoatl e Medusa, come sai» corrugò la fronte «la sua presenza mi preoccupa abbastanza, specie perché non abbiamo grandi informazioni su di lei. Per quanto ne sappiamo, potrebbe già sospettare di noi e attendere solo un nostro passo falso, per cui-»

«Per cui dobbiamo rimanere nell’ombra e aspettare una conferma dei nostri sospetti sullo scettro, prima di fare qualsiasi cosa che implichi il giocare a carte scoperte».

«Esattamente, vedo che ci siamo capiti» confermò. Allungò una mano verso di lui «Siamo entrati in due, e usciremo in due: nessuno lascia indietro nessuno».

«Nessuno lascia indietro nessuno» ripeté Phobos, stringendogliela.

“A meno che tu ti riveli completamente inutile come penso”, aggiunse mentalmente, sorridendo.

Per un millesimo di secondo, Emily parve notare quel lievissimo e quasi impercettibile accenno di ghigno dipintasi sul volto del suo compagno, ma non fece in tempo a concentrarsi su quel dubbio che la voce di Phentesilea chiamò i loro nomi.

Il pensiero che dovesse guardarsi le spalle tanto dagli amici quanto dai nemici scivolò via dalla sua mente come rugiada su una foglia.

Sfortunatamente per lei.

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

Traduzioni varie ed eventuali

Mani naa essa en lle? = Qual è il vostro nome?

Naa rashwe? = C’è qualche problema?

Aa’ menealle nauva Quetzalcoatl’orn calen ar’ malta, mellonamin (forma di saluto) = Possa Quetzalcoatl cospargere d’oro il tuo cammino, sorella

Aa’ i’sul nora Quetzaltocatl’orn lanne’lle, mellonamin (forma di saluto con la quale si risponde a quella precedente) = Possa Quetzalcoatl favorire sempre la tua sorte, sorella

Vanimle sila tiri belegohtar curucuar, Airë Tári Phentesilea = La tua bellezza risplende intensamente, Airë Tári Phentesilea

Mae govannen, Amira = Ben trovata, Amira

Né Räggira = è l’anagramma (leggermente modificato totalmente a caso :’D) del popolo dei Gargareni, una tribù di uomini che -secondo la mitologia- si accoppiavano con le Amazzoni

 

Eccoci qua!

Sì, è un capitolo più corto del solito, ma infilando anche il resto delle cose che avrebbero dovuto esserci sarebbe diventato veramente T(R)OPPO lungo, per restare in tema di Dragon Ball Super come piace tanto a Giannemilia :’D

Avrei voluto trovare una foto di Quetzalli, ma in realtà… GNE, non ne trovavo di adatte per descrivere la presenza di tanto oro in stile Aldebaran (cit.), ma se avete visto “La strada per El Dorado” allora un’idea piuttosto fedele alla realtà l’avete!

Ringrazio nuovamente tutti quelli che leggono, seguono la long e in particolare chi è sopravvissuto al capitolo 13, ora siete leggenda trovano il tempo di farmi sapere cosa ne pensano, fa sempre tanto tanto sapere le opinioni di chi legge da fuori :)

Alla prossima!

   
 
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