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Autore: Hikari_Sengoku    19/02/2018    1 recensioni
Ehilá, mi chiamo Hikari_Sengoku, e questa é la mia prima fanfiction su questo fandom. Ringrazio chiunque vorrá leggere e a maggior ragione dare il suo giudizio. Sono a conoscenza dell'usura del tema, ma vedere le cose da un'altra prospettiva é sempre una buona cosa, invito perciò alle critiche costruttive. Per questioni di trama, la storia si baserá unicamente sull'anime.
Cori é una ragazza italiana alle soglie della maturitá, con una famiglia particolare, un fratello scomparso che adorava ed un nonno pieno di misteri... Cosa potrá accadere quando da uno dei suoi anime preferiti pioverá letteralmente uno dei personaggi?
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Roronoa Zoro, Un po' tutti, Z
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Allenamento


Cori stava radunando le sue cose in tutta fretta davanti alla famiglia riunita, schierata per salutarla. Si accorse di non aver mai usato il sacco a pelo durante tutto il tempo in cui era stata lì. Aveva spiegato a Sy che doveva andare, che era necessario, anzi, che lei voleva andare, che lo riteneva quasi un dovere dopo aver fatto la sua scelta. Era vero, erano stati due mesi di convalescenza piacevoli, insieme ad una famiglia di amici, ma sapeva di essere, o di voler essere, forse, qualcosa di diverso. Non era nata per chiudersi in un’isola, per essere prigioniera. Lei era libera, a prescindere! E per quanto amasse stare con gli amici, amava avere la libertà di scelta. Questo non impediva ad una strisciante sensazione di disagio di sibilarle nella testa, come se in qualche modo stesse facendo la scelta sbagliata, quasi stesse peccando di superbia nel credersi così importante, all'Interno di se stessa e degli altri, o di non considerare affatto gli altri di fronte alla sua decisione. Temeva di essere sbagliata, perché dopo tutto non si sentiva male andandosene. Era il senso di colpa che la faceva star male, perché sapeva di comportarsi da ingrata nel suo cuore, da bugiarda, perché fino ad allora si era giurata che avrebbe potuto dar la vita per gli amici, e ora li abbandonava senza troppo rimorso. Si grattò senza troppa decisione la pelle liscia del cranio, dipingendo strisce rossastre con le unghie, fermandosi per un solo istante mentre si alzava per stringere bene la sacca principale dello zaino, poi riprese, chiudendo le clip. Si gettò sulle spalle il mantello che Sy aveva voluto a tutti i costi che si comprasse un mese prima, quando aveva cominciato ad andare a fare commissioni per il paese, in modo da potersi nascondere a suo piacimento dagli sguardi crudeli del villaggio, e si avvicinò lo zaino con la cinghia di tessuto grigio sul retro, appena sopra gli spallacci. Si girò verso i suoi amici, tutti compresi in quell’atmosfera da addio. In silenzio, abbracciò stretta Sy, affondando il viso nelle pieghe morbide degli abiti sopra la spalla, con gli occhi gonfi di lacrime, le mani esili della ragazza sulla sua schiena e la sua lunga chioma castana libera al vento, le disse ‘Ti voglio bene’. Poi aveva stretto a se Lurichiyo, sussurrandole che sarebbe tornata. Alla fine strinse la mano a Lerik, con una leggera increspatura delle palpebre che tradiva il suo sorriso impassibile. Tirò su e mise lo zaino, si avviò verso le porte del villaggio. Ad un chilometro da lì la attendevano. La famiglia la seguì per un pezzo, poi si fermò, e mentre lei riprendeva il cammino, girandosi appena aggirata la sommità della collina, li vide sorridere un’ultima volta prima che venissero inghiottiti dalla gobba verde giù dalla quale scendeva il sentiero. Poco più in là, il carretto che cercava costeggiava lentamente la foresta. La ragazza si diede tutto il tempo per raggiungerli, non volendo arrivare triste. Si accostò alla cassetta, richiamando l’attenzione del Maestro con una bussata.
“Eccomi!” si annunciò.
“Mi chiedevo quando ci avresti raggiunto. Slega il cavallo e portalo dietro” le ordinò l’uomo, senza nemmeno guardarla. Cori obbedì diligentemente, portando il robusto cavallo baio dietro il carretto dei fiori e legandolo alla sbarra posteriore. Poi tornò davanti.
“Ora mettiti al suo posto e tira”. Cori lo guardò stortissima, ma l’uomo non le permise di dar fiato alla bocca. “Me l’hai detto tu, no? Vuoi diventare più forte o sbaglio?” La giovane tirò su le aste e se le issò sulle spalle, consegnando lo zaino all’uomo.
Il carretto cigolò in una maniera spaventosa al primo tiro, poi Cori vinse l’attrito statico e cominciò a solcare il sentiero e a sudare copiosamente mentre tirava il carro. Si chiese come mai fosse così pesante se sopra c’erano solo due persone e tanti fiori, che non pesano tantissimo. Schiacciava i piedi nel terriccio molle ad ogni passo per darsi la spinta. Ringraziò che quel trabiccolo avesse le ruote, mentre tirava e strattonava le aste per accelerare e liberarle dal terreno in eccesso. Il viaggio durò un giorno intero compresa una lunga pausa pranzo, e alle 21 erano arrivati, preceduti due ore prima dalla ragazza misteriosa che damblè era scesa dal carro e si era incamminata da sola nel bosco. L’uomo le ordinò di girare a sinistra ad una svolta e si ritrovarono in un vasto prato fiorito, dove alla sua destra c’era una bassa e larga casa di legno giapponese, affiancata da una piccola serra. Una lanterna fuori la porta e la luce di quella che presumibilmente era la cucina illuminavano l’ambiente, il resto era avvolto dalla luce della luna e circondato dai lumicini delle lucciole. Ricordò che una volta uno di quegli insetti si era spaccato a metà nella sua mano. Smontò, e con le gambe che tremavano prese la sua roba, seguendolo in casa, lasciando le sue scarpe affianco ai tabi del Sensei. Finalmente l’uomo si degnò di rivolgerle la parola: “Complimenti per lo sforzo, bella ragazza! Adesso possiamo presentarci. Io sono Sensei Tenshi, e lei è Mitsuru, la mia assistente!” La ragazza si inchinò educatamente.
“Io sono Cori” rispose stremata la ragazza appoggiandosi allo stipite della porta. Il Sensei la superò, aprendo la porta di quello che sembrava uno stanzino delle scope appena liberato, largo un metro e mezzo e lungo due, giusto lo spazio per stendere uno stuoino e mettere lo zaino di traverso come cuscino. Un finestrino 50 x 50 occhieggiava a circa 1,70 metri d’altezza. “Questa sarà la tua stanza per tutto il tempo che starai qui. Domani Mitsuru ti assegnerà i compiti domestici e comincerai l’allenamento, ma oggi puoi stare tranquilla. Avrai un giorno libero ogni due mesi”. Le disse il Sensei lasciando che sistemasse la sua roba. Cori si rincantucciò nel suo bugigattolo, pronta giá a tirar fuori la sua spiritiera, ma l’uomo la chiamò: “Vieni a mangiare con noi, bella ragazza!” la esortò. Ancora quel nomignolo! Cosa poteva mai trovarci di bello in lei? Si chiese scuotendo la testa e raggiungendoli. Osservò il Sensei e Mitsuru ringraziare con le mani giunte per il cibo e li imitò, prima di fiondarsi sulle bacchette. La sua attenzione mentre mangiava venne catturata dalla ragazza al suo fianco. Al contrario del Sensei, che sferrava occhiate sornione ogni due per tre da sopra il bordo della sua ciotola, Mitsuru appariva lontanissima. Piluccava con disinteresse il cibo nel piatto, ma senza giocarci. Si limitava a fissare lo sguardo bovino e languido in un punto imprecisato fra il suo piatto e la lampada sopra il tavolo e a mantenere un’espressione che nemmeno Ulquiorra o Kristen Stewart avrebbero potuto far di meglio, tant’era inespressiva. Anzi, più che inespressiva, sembrava concentrata su tutt’altro.
Si risvegliò solo a fine pasto, quando il Sensei le strinse piano il braccio e le disse che avevano finito, grazie, allora lei si alzò e in totale silenzio tolse le stoviglie e andò in cucina. Cori la fissò stranita, prima che il Sensei attirasse la sua attenzione.
“Non fissarla troppo, la metti a disagio” la redarguì. “Comunque, parlando di cose serie, adesso dimmi chi sei. Le cose importanti, non quanti anni hai o il giorno in cui hai perso l’ultimo dente da latte, per favore”
“Ok. Allora…” e così raccontò a grandi linee la sua storia, omettendo il fatto di venire da un altro mondo, ovviamente. Il Sensei la ascoltò tenendo la guancia premuta su un pugno, poi sbadigliò. “Va bene, per oggi basta, va a dormire. La sveglia è alle cinque” ed entrò in una stanza che dava sul piccolo corridoio che portava in sala.
Cori si ritirò nel suo antro, addormentandosi quasi subito.


La prima mattina in un posto nuovo è sempre qualcosa di molto particolare. Si respira nell’aria l’idea di ignoto, il fresco profumo dell’ignoranza, e la luce è più luminosa, fredda, in un certo senso. Quella mattina non fece eccezione. Mitsuru si palesò davanti all’uscio del suo personale sgabuzzino alle cinque in punto, dedicandole un fievole “Ohayo, Cori-san”, dopo il quale la strana ragazza, giá vestita di tutto punto, girò i tacchi e si rintanò in cucina. Cori rimase frastornata per un attimo, rigirandosi nell’ora caldo sacco a pelo. L’escursione termica doveva essere ingente, giudicò sfiorando appena con la punta delle dita gli abiti lasciati fuori la sera prima. Erano gelati. Ciò non toglieva che doveva comunque uscire, quindi si fece forza e si alzò sulle ginocchia (sempre dentro al sacco a pelo) e tirò fuori prima le braccia, poi il busto, spogliandosi della maglia del pigiama e rimanendo in canottiera. Così si diresse all’acquaio e si lavò, sentendo sulla pelle la piacevole frescura del primo mattino e poi il gelo rinvigorente dell’acqua da lavaggio.
Dopo dieci minuti era già vestita con i suoi abiti da lavoro al cospetto di Mitsuru, che in un tono pacatissimo le spiegò : « Il vostro compito sarà di assistermi nei lavori pesanti. Preferisco spiegarveli durante la giornata, se non vi é di troppo disturbo » La ragazza le arrivava giusto ad altezza occhi, sui quali lei non alzava mai quel vuoto sguardo castano.
“Nessun problema. Cosa devo fare?” le chiese a sua volta, cercando di carpire i segreti di quella strana ragazza fuori dal tempo.
“Intanto potete andare a prendere l’acqua alla Fonte. Scendete giù dal Crepaccio e costeggiate il Muro di More” le rispose indicandole la direzione, dalla parte opposta della casa. Cori obbedì, caricandosi sulle spalle due grossi otri in terracotta, trovandosi davanti una ripida scesa di una decina di metri, dalla quale una grossa roccia era franata qualche metro più in la. La grigia roccia era avvolta nei rovi. La ragazza la costeggiò, finchè scendendo ancora di un paio di metri vide una polla d’acqua grande abbastanza perché vi potesse pascolare una mucca alla volta, che sgorgava da sotto la roccia, e che vi aveva creato nel tempo una minuscola insenatura per topi e scavato un anfratto tale da poter contenere appena la sua borraccia, se non la tana di uno di quei pelosi mostriciattoli. Piano piano gli otri si riempirono, e Cori salì su, arrancando un po’ sulla salita con tutto quel peso. Il Sensei era sveglio, e la attendeva all’ingresso a braccia incrociate. Cori lo sorpassò in silenzio, salutandolo con un gesto del capo, depose gli otri all’entrata sul retro, quella della cucina, e poi tornò a presentarsi al suo cospetto.
“Ben svegliata!” la salutò schernendola e ridendo di lei con quegli occhi spalancati “Dai lombrico, cominciamo con un po’ di ginnastica, fammi vedere che sai fare” la invitò col braccio a cominciare a correre.


Era in momenti come quelli che la sua vena acida faceva a cazzotti per risalire dal suo essere blando e deforme, dalla sua palude depressiva di mancanza di autostima e voglia di fare il cosplay del Fantasma dell'Opera, tanto le potenzialità le aveva. Quando finiva per fare un allenamento che le distruggeva i polmoni ogni singolo giorno impedendole una conversazione compiuta preferibilmente non composta di grugniti e imprecazioni di dubbio gusto, a cui il Sensei prontamente ribatteva con una bastonata sulle dita o un commento sagace, seguito poi da una propria rovinosa caduta. Quando – testuali parole – qualche centinaio di flessioni non faranno di te qualcosa di superiore ad un verme! – con successiva morte apparente della protagonista. O quando, inevitabilmente, finiva per compiere un triplo carpiato sul collo prima di crollare, per l’ennesima volta, a terra, con un’espressione da opossum ‘se ti fingi morto, non ti vede’. E quello che era peggio, era che in realtà quello non era altro che l’anticamera del vero e proprio allenamento, quello per sviluppare i suoi sedicenti poteri! Perché se non hai un corpo forte, come pretendi di poterlo reggere? Nel momento in cui si allenava avrebbe potuto rispondere con una variabilità di volgari argomentazioni a dir poco sorprendente, ma doveva ammettere che il Sensei aveva pur sempre ragione. E quando, arrivati a fine giornata, Mitsuru li attendeva a bordo campo con il kit del pronto soccorso (per lei) e un asciugamano (per il Sensei), doveva ammettere di provare una certa soddisfazione nell’ammirare i propri progressi. Peccato questi sembrassero estendersi poco e niente alla strategia di combattimento. In queste peculiari situazioni si sarebbe potuto mettere come simpatico sottofondo musicale la theme song dell’allenamento di Rocky mentre sullo sfondo cartonato di una giornata al tramonto – perché l’ambientazione è importante – i due si scontravano con raggi fotonici d’ira tattici. E così lo scontro cominciava, con quello che l’uomo definiva un ‘balletto degno di un elefante’, per cui lei si ostinava a spingere e tirare l’avversario senza un motivo preciso, compiendo circonvoluzioni uniche per destreggiarsi tra i piedi del Sensei che attentavano alla sua vita. A quel punto le opzioni erano due: O l’uomo con un Ko Soto Gake la buttava giù come una pera cotta, rovinandole poi sopra con la delicatezza di un rinoceronte e braccandola con una furiosa lotta greco romana che lo vedeva sempre tristemente vincitore (nonostante a sua detta Cori fosse fisicamente più forte di lui), oppure decideva di voler giocare, conducendo un attacco palesemente finto, un O Soto Gari. A quel punto, Cori ribatteva con un O Soto Gari a sua volta, finendo per sbilanciarsi e cadere. Di nuovo. Ovviamente, le variazioni sul tema erano innumerevoli. In particolare, la lotta a terra era la sua preferita. In ginocchio, nessuna tecnica fino all’immobilizzazione… a quel punto, con una velocitá degna di Bolt, per lei era già pronto un soffocamento coi fiocchi. Iiih, la rabbia.
Rabbia che andava velocemente sbollendo a sera, quando, come ogni allegre famigliola del Mulino Bianco che si rispetti, cenavano tutti e tre insieme scambiandosi opinioni sulla giornata appena trascorsa. O meglio, il Sensei esprimeva sarcastici commenti sui suoi movimenti da orso e sulla sua resistenza da verme, il tutto condito con una gran varietà di metafore di rara simpatia e dolci ricordi di variabile violenza. Cori aveva a malapena la forza di buttarsi a peso morto sul sacco a pelo e addormentarsi così, salvo poi risvegliarsi un’ora dopo in preda ai tremori del freddo. Era così stanca la sera da non avere nemmeno la forza di pensare, mentre il suo corpo sfogava la fatica in una serie di brividi liberatori. Mitsuru la salutava col suo classico sorriso assente, le veniva risposto con un grugnito molto espressivo e la cosa finiva lì. Almeno fino alla mattina dopo, quando tutto ricominciava. Ogni tanto poi, il Maestro si adoperava in rari slanci di fantasia, inventandosi bizzarri allenamenti. Da quando aveva sgranato lavanda per dodici ore di fila, sia Cori che il suo naso non erano stati più gli stessi, e la ragazza aveva sviluppato un’avversione per il violaceo fiore che sfiorava il ridicolo. Per non parlare delle scampagnate nei boschi alla Hercules per debellare la piaga degli Alienati. Da sola. Praticamente a suon di sberle. Piccolo inciso: Gli Alienati erano creature più bestiali a volte degli animali stessi, possedevano una straordinaria propensione per la strategia di caccia ed erano tutti ugualmente orrendi, se possibile ancor più di quei disgraziati del villaggio, per quanto le loro fattezze non fossero diverse dalle loro. Erano in tutto e per tutto simili alle bestie cui somigliavano, a volte in modo alquanto grottesco. Insomma, era già tanto se tornava indietro intera, sempre premurandosi prima che quei mezzi-scemi subissero un trattamento adeguato alla loro molesta presenza. Non che non le facessero pena, quei poveracci, ma non se la sentiva di affrontare un lungo discorso da terapia di gruppo con un branco di creature inumane che in lei vedeva una bistecca con le gambe, aveva già abbastanza gente a considerarla alla stregua di carne da frollare, grazie.
Un mese dopo l’inizio di questo stremante allenamento, il Sensei la chiamò al suo cospetto: “Mi è tornato in mente quello che mi hai detto tempo fa. Mostrami quello che sai fare, bella ragazza!” le chiese con un sorriso sardonico.
Cori protestò, dando un'occhiata al posto in cui si trovava per imprimerselo bene nella memoria: Il solito largo campo , pieno di pietre e altri inciampi. Un percorso a ostacoli. Ormai sapeva come ‘accendersi’, l’aveva capito quella sera in cui per un incidente aveva quasi rischiato la pelle. Pigiando il sesto foro che aveva in testa, automaticamente il suo corpo sviluppava una gran febbre, che a sua volta aiutava la genesi di quella sostanza nera. Sperava un giorno di poterlo controllare senza quell’espediente, perché non era esattamente comodissimo.
“Oh, non ha importanza. Mi hai detto tu che quando ti adformenti torni normale, no?” Le rispose tranquillo, sollevando un sopracciglio con scetticismo.
“Come se fosse facile” borbottò la ragazza in risposta.
“Al massimo sverrai, su! Mostrami quello che sai fare” la spronò l’uomo battendo un paio di volte le mani. Al massimo sverrai, certo, è una cosa da niente! Cori concentrò tutta se stessa, lasciando che la febbre la conducesse alla fonte del proprio potere, qualcosa che bruciava nelle sue cellule, lasciando che questo emergesse con le classiche e rapidissime bolle ulcerose sulla sua pelle. Quando la sua visuale si fece completamente nera, la prima (e anche unica) cosa che vide fu l’aura luminosissima del Sensei, una sagoma brillante di un celeste chiarissimo, più o meno dello stesso colore del cielo in prossimità del sole, e un fortissimo odore di borotalco, che le fece venire voglia di starnutire. Il Sensei si stava muovendo, probabilmente anche parlando, anche se lei non lo poteva sentire. Di nuovo le crollò addosso quella sensazione claustrofobica che accompagnava la trasformazione, quella cosa pesante che improvvisamente la schiacciava al suolo, e che paradossalmente, oltre all’aura del Sensei, era l’unica cosa che le garantisse ancora la sua esistenza. Al contrario della prima volta, stavolta fu più facile processare la situazione, soprattutto ora che non era più totalmente cieca. Quando, guardandosi incontro, si accorse che il Sensei si era seduto, vi si avvicinò e lo toccò, propagando l’appiccicosa sostanza anche sul suo corpo. L’uomo sussultò un istante, prima di scomparire dalla sua visuale. Ora percepiva soltanto la sua presenza sotto le dita, ma la sua aura si era improvvisamente spenta. Cori lasciò di scatto la sua spalla, e l’aura tornò a brillare. Evidentemente, la sostanza come per lei stessa accecava la sua Percezione. Infatti, lei non poteva vedersi, ne sentire il proprio odore. Il Sensei si rialzò in piedi di colpo, Cori barcollò in risposta e cadde all’indietro. Non si sarebbe detto, ma quella roba pesava.

Non c’era molto da fare, se non potevi vedere o sentire nulla. Una volta che avevi analizzato le poche forme di vita aventi un briciolo di senno nel raggio di chilometri, era la noia a farla da padrone. Oltre che un pressante senso di inquietudine e il desiderio al momento inesaudibile di strapparsi quella roba di dosso. Non. La. Sopportava. Avrebbe sbattuto la testa al muro, se avesse potuto vederne uno. Per un breve periodo di tempo si era divertita – craniate contro mura e stipiti a parte – ad osservare le fluttuazioni emotive delle aure del Sensei e Mitsuru, seguendoli come un’ombra, ma alla fine si era stancata pure di quello. Mitsuru era di uno spento giallo senape, e emanava un odore lieve lieve, quasi impercettibile, di metallo incandescente, ma era talmente volatile e inconsistente che per sentirlo doveva prestarci attenzione. Aveva preferito seguire lei, al posto del Sensei, ma la ragazza non si era minimamente scomposta, almeno da quello che lei vedeva, e aveva continuato a fare i suoi lavori di casa ignorandola. Solo quando per errore Cori aveva inavvertitamente (lei non se n’era nemmeno accorta, ma aveva subito ricollegato la sua reazione) spostato un oggetto, la sua aura si era come compattata, illuminandosi violentemente, mentre il sentore incandescente del metallo le aveva invaso le narici accompagnato da un chiaro messaggio di allarme. Aveva preferito defilarsi, a quel punto, ma erano ormai al tramonto e nessuna lampadina si era accesa nel suo cervello illuminando un’esistenza altrimenti grigia, o per meglio dire nera, e lei era rimasta così per dodici lunghissime ore. Alla fine, presa dalla disperazione, si tastò la testa alla ricerca dei pulsanti della plancia di comando del proprio corpo, toccò il primo. Immediatamente, la sua massa si espanse a dismisura, la sentiva raggiungere un raggio di chilometri, le tirava il petto quasi come se volesse strapparlo. Dall’altra parte, la forza peso esercitata sul suo corpo era immensa, sentiva le costole scricchiolare, mentre il fiato spariva e la vita le faceva ciao ciao con la manina. Con tutto il suo cuore, mentre veniva pressata, cercò di contenersi, perché sentiva che se non l’avesse fatto avrebbe potuto inghiottire il mondo. Strinse i pugni, mentre la sfera immensa intorno al suo corpo sussultava e si contraeva. L’immenso sforzo mentale che stava facendo era estenuante, ma Cori si costrinse a retrocedere, e quasi avesse fatto scattare un interruttore la massa si ritirò con un sol colpo, abbandonando anche lei, agonizzante sul terreno.
A quelli che la videro da fuori apparve un’enorme sfera nera che divorava tutto nel raggio di due chilometri, lasciando terra bruciata intorno, o meglio congelata. Tutto intorno a lei era ghiacciato, freddo e immobile. Doveva ringraziare di essersi inoltrata a lungo nei campi, perché altrimenti avrebbe ucciso sicuramente il Sensei e Mitsuru. Ora, invece, tutta la vegetazione era improvvisamente gelata dall’interno, ricoprendosi di un velo di brina data dall’umidità dell’aria, che era improvvisamente ripiombata dove prima c’era la sfera. Gli animali erano tutti morti, il raccolto distrutto ed il freddo innaturale che permeava l’aria la ghiacciava fin nelle ossa, nonostante la febbre che le era tornata. Diede uno sbocco di sangue, doveva essersi incrinata più di una costola. Piano piano, tutto il mondo riprese calore, mentre la brina sciogliendosi colava, lasciando ampie lacrime su ogni cosa, di un nero necrotico e improvviso, affiancato a strisce azzurre. Chissà se un giorno quel terreno sarebbe tornato a fiorire. Per il momento, Cori si limitò a rannicchiarsi in posizione fetale e svenire.


Si svegliò una settimana dopo, avvolta nel suo sacco a pelo, di nuovo con l’inquietante sensazione di essere paralizzata, di star soffocando. Stavolta chiuse gli occhi, nonostante il peso sul suo petto le ricordasse in modo orribile ciò che era accaduto, mentre nelle orecchie risuonava dieci volte più potente il battito cardiaco. La crisi passò, e la ragazza li riaprì di nuovo, fissando lo sguardo lacrimoso sul soffitto. Mitsuru la raggiunse poco dopo con un brodo caldo che le ficcò a viva forza in gola, con una veemenza che tradiva una grande irritazione. Passarono due ore prima che il Sensei facesse capolino. “Come stai, bella ragazza?”
“Uno schifo” ribatté lei sincera.
“Riesci a spiegarmi quello che è successo?” le chiese, più pacato del solito mentre si sedeva a gambe incrociate affianco al suo stuoino. Cori spiegò a grandi linee quello che era accaduto, e il Sensei rimase pensieroso. “Secondo me, potremmo prenderlo come suggerimento. Forse non è il caso di usare questo genere di mezzi, ma tu stessa hai detto che quando hai provato a ritirarti il tuo corpo ha reagito di conseguenza e ti ha obbedito. È deciso, la prossima volta tenteremo in questo modo” decise tutto da solo, sbattendosi una mano sulla coscia in segno di conferma e rialzandosi.
“In questo modo come?” chiese lei perplessa e un po’ spaventata. Non le sembrava un gran ché come idea, avrebbero potuto provocare una catastrofe.
“Proverai ad espanderti. Stavolta senza usare bottoni magici per favore, ma credo che questa possa essere la strada giusta per controllare meglio il tuo potere” si spiegò il Sensei uscendo. Ah-ah. Proverai ad espanderti. Facile come bere un bicchier d’acqua. Sì, appesi a testa in giù su uno stagno pieno di alligatori per il mignolo del piede sinistro, con una scimmia che rosica la corda. Ah, e la minaccia di una catastrofe a livello planetario sospesa sopra la testa come una spada di Damocle. Grande idea, complimenti, geniale proprio, perché non ci aveva mai pensato prima? Ah, già, perché era terribilmente pericoloso.
Cori rimase a fissare il soffitto a lungo. Cosa diamine le avevano fatto?! Stava per creare una catastrofe di dimensioni epocali! Avrebbe potuto uccidere tutte le persone nel raggio di chilometri, e tutto questo per un esperimento! Ma porca la miseria, perché? Volevano usarla come arma di distruzione di massa?! Cosa diavolo volevano che facesse? Cosa aveva fatto di male per meritarsi tutto questo? Che rabbia!




Sy era un po’ triste da quando la sua amica se n’era andata. Chiyo aveva pianto un po’, ma alla fine era tornata ai suoi giochi con Kanna, e Lerik era stato richiamato al lavoro, quindi lei doveva stare a casa a controllare le bimbe e andare avanti col suo lavoro di cucito, se le riusciva. Non le era mai piaciuto cucire, ma da sei anni era una necessità. Non le era mai piaciuto?! Lo odiava a morte, ecco la verità. Pensò sbuffando e lasciando cadere il calzino sformato sulle ginocchia, quando sentì una melodia esitante penetrare il suo malumore. Era Chiyo che cantava una delle strambe canzoni di Cori, Corri Indiano, storpiando le frasi . Che cosa poteva mai essere un indiano? Cori aveva provato a spiegarglielo, ma come per molte altre cose si era dimenticata. Le ritornò subito il sorriso e riprese a sferruzzare, mentre le bimbe non si facevano problemi a confondere tranquillamente frasi o intere strofe di canzoni, creando bizzarri miscugli come Cavaliere io sarò, ricordo quel tempo quando ero bambino e Colore del Sole, bisogna fare presto c'è la colazione! Totalmente prive di senso.




Cori continuò a lamentarsi incessantemente per tutto il viaggio d’andata, aveva ancora le costole rotte e di avallare quella tremenda idea proprio non le andava. Il Sensei la stava praticamente trascinando alla baia. La prima scusa era che dovessero ‘fare pratica’, cosa che lei aborriva nel profondo, quella più veritiera era che i marine, visto il fattaccio, sarebbero venuti prima di subito per un’ispezione, quindi l’uomo le aveva ordinato di fare i bagagli e ora la stava portando sulla spiaggia, dove non c’era rischio di far male a nessuno e dove nessuno sarebbe mai venuto a cercarla. Cori era tornata sul luogo del misfatto una volta, e l’aveva trovato – con sua somma sorpresa – pieno di fiori e piante rigogliosissime, come se nulla fosse accaduto, e questo versava a loro vantaggio. Era stato allora che aveva scoperto che Mitsuru aveva mangiato un frutto del diavolo, il Tango Tango no mi, che le permetteva di dare una forte importanza alle parole, specie ai verbi. Gli ordini che dava erano legge, almeno i più semplici. Era bastato ordinare al terreno di ‘accelerare’, e che lei attivasse il suo potere, perché tutto rinascesse e tornasse vivo e vegeto. Gliel’aveva mostrato poco prima di andare: Aveva visto un ramo particolarmente carico sulla sua testa, gli aveva ordinato di spezzarsi e subito dopo di bloccarsi, quello si era appena illuminato di quello spento giallo senape e aveva obbedito, sospendendosi a mezz’aria. Nello stesso istante, anche lei era stata avvolta dalla stessa luce soffusa, e i suoi occhi si era illuminati dall’interno. Si trattava di un potere limitato alle singole parole, non ad ordini complessi, ma anche fosse stato illimitato, vista la loquacità della sua detentrice potevano star sicuri che non sarebbe mai andata oltre una secca parola d’ordine.
“Starai qui per un po’, almeno il tempo necessario perché tu sappia controllarti” la avvertì il Sensei, mostrandole la baia: Era una piccola caletta nascosta, con una barchetta minuscola portata in secca sulla sabbia fine. Tutto intorno c’era una fitta foresta scura, incombente e un po’ inquietante, mentre il mare era di un azzurro cristallino, che all’orizzonte quasi si confondeva col cielo. Dando un’occhiata più attenta, si avvide che in lontananza c’era un’isola. Si portò la mano sulla fronte a visiera e aggrottò le sopracciglia, tentando di vederla meglio.
“Quella è l’isola di Kayou Ushi” la informò l’uomo “è l’isola più vicina alla nostra. Prima che chiudessero le frontiere ci andavamo abbastanza spesso” sentiva forse una nota nostalgica nella sua voce? Magari ci aveva lasciato qualcuno di importante, su quell’isola. Cori si accorse di non avergli mai chiesto come mai a loro fosse stato permesso di rimanere sull’isola, considerando che erano del tutto umani.
“Sensei, come mai vi hanno lasciato su quest’isola?” chiese curiosa, spostando lo sguardo sull’uomo al suo fianco. Non dava l’idea di essere un criminale. Certo, era massiccio, e lei stessa aveva saggiato la sua forza, ma si comportava sempre in modo molto pacifico, e a parte i loro allenamenti non faceva male a una mosca. Non aveva segni particolari, aveva un volto disteso, solcato appena da una rete di rughe leggere, due occhi azzurri brillanti e vivaci, senza ombre. Avevano combattuto abbastanza insieme perché lei sapesse che non aveva cicatrici di sorta, anche se le dita dei piedi erano tutte storte, dovevano essersi rotte più di una volta, ma si trattava di una cosa più che normale per un maestro di arti marziali. Checché ne sapesse, aveva l’Haki della percezione, ma questo non bastava a fare di lui un criminale quanto un potenziale e utile alleato.
“Niente di importante, bella ragazza, pensa al tuo allenamento piuttosto” rispose sridacchiando il Sensei, eludendo la risposta senza nasconderlo e girando i tacchi per tornare su. “A domani, mi raccomando!” la salutò, lasciandola sola con il suo zaino. Beh, per lo meno era un bel posto!

Cara Sy,
Spero fortemente ti stia andando tutto bene. Qui in quest’angolo sperduto nella Contea del Nulla sta andando tutto benissimo, non devi preoccuparti: Quella sfera nera che è comparsa l'altro giorno era opera mia, e per fortuna ero abbastanza lontana da non far male a nessuno. Io sto bene. L'allenamento è pesante, ma sto sopravvivendo. Puoi stare tranquilla: Non mi hanno uccisa e la mia mano non sta scrivendo da sola tagliata in pezzi sul fondo di un bagagliaio. Come sta la piccola Chiyo? E Lerik, state tutti bene? I tuoi dolori sono passati? Purtroppo non posso darti nessun sostegno da questa distanza, ma sappi che sono lì con te. Gli Alienati sono ancora così insistenti? Da noi hanno smesso di attaccarci da un po’. Scusa per tutte queste domande, ma voglio sapere. Cosa hanno detto al villaggio, dopo la mia scomparsa? Se vengo a sapere che hai portato dei pesi da sola ti vengo a cercare a casa. Per un po’ di tempo mi toccherà stare sulla baia, i marine mi stanno cercando, ma alla fine la cosa non mi dispiace, il posto è bello e ho molta libertà di movimento.







































Spero che il capitolo non appaia frettoloso, vi assicuro che era programmato, ma l’ispirazione va e viene e sembra proprio che dovrò attendere un nuovo capitolo per farmi valere. La maggior parte di voi starà pensando che io sia autolesionista (cosa che fortunatamente non sono), o che qualcuno mi stesse prendendo a badilate sul collo mentre scrivevo, visti i dialoghi a singhiozzo e le scene scritte un po’ così…. Ma spero piaccia comunque. Buona notizia, questa volta capitolo extra! L’avevo programmato per Natale, ma ho dovuto procrastinarlo perché all’epoca non avevo raggiunto un livello della storia sufficiente. Vi anticipo già da ora che dopo questa parentesi comparirà un nuovo magico personaggio, come se non ce ne fossero già abbastanza, e la scena potrebbe farsi un pochino più felice, finalmente. Ringrazio coloro che mi recensiscono con costanza, alla prossima,
Hikari_Sengoku


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