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Autore: Avareil    23/02/2018    3 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Far finta di nulla
 
 
“Spiegatemi”.
Ade osservava con sguardo affilato la distesa di acqua placida e grigia dinnanzi a sé.
Lo Stige, implacabile e pericoloso, scorreva sereno e lento verso i meandri più profondi e oscuri del suo regno, totalmente incurante del peso che le promesse sancite nel suo nome fossero, la maggior parte delle volte, causa di sgomento e dolore dei promettenti.

“Ho detto: spiegatemi”.

Con un tono di voce spietato, il dio aveva richiamato l’attenzione dell’essenza del fiume, non lasciandosi intimorire dal frusciare sinistro dei flutti contro i margini scoscesi.

“Cosa dovrei spiegarti, dio?”,

una voce cavernosa e suadente aveva riempito l’etere avernale generando un brivido fastidioso lungo la colonna vertebrale dello ctonio: erano secoli, forse millenni, che quella sensazione – spiacevolissima e lugubre- non ne pervadeva l’animo, turbandolo.

“Sapete bene cosa desidero conoscere, sovrano degli obblighi”.

Ade aveva formulato quella asserzione secco e diretto senza alcuna inflessione di reverenza nella voce: era inutile perdersi in parole, spiegazioni o preghiere.

Lo Stige ben sapeva il motivo della sua domanda.
 
“Per nessun motivo e per molte ragioni, giovane dio”.

Spiazzato da quella risposta sibillina, Ade aveva digrignato i denti mentre le mani, rigide lungo i fianchi, si stringevano in pugni serrati: uno schiocco invito a tacere, a ben ragionare sulle parole che avrebbe dovuto formulare prima di scagliarsi con odio contro quell’essenza torbida come le sue acque.
Lo Stige ben sapeva giocare con i sentimenti e le debolezze.

Lui lo sapeva bene.

Se qualcuno gli avesse chiesto di descrivere quell’entità che solo e sempre gli riempiva il petto e l’orecchio ma mai l’occhio, l’avrebbe immaginata con fattezze meravigliose e terribili: un bambino che sbadiglia placido dinnanzi ad un’efferatezza compiuta dinnanzi ai suoi occhi.
Assolutamente disinteressato a ciò che vi era dopo o prima del patto sancito, lo Stige si limitava ad offrire una via di fuga o un vincolo, a seconda della situazione, e con quello accresceva il suo potere imprescindibile.

Lui lo sapeva fin troppo bene.

Per questo gli era sembrato assolutamente sciocco perdersi in chiacchiere: Ade voleva capire con che animo- se di animo si poteva parlare- quel maledettissimo essere avesse accettato il voto di Estia, un’Estia di cui in quel momento riusciva a percepire a malapena l’esistenza.

“Non prendetemi in giro, essere spietato. È di mia sorella che vi beffate al mio cospetto”.

“Se è questo ciò che ti preoccupa, caro figlio, allora sta tranquillo. Cesserà molto presto anche il supplizio della rea Estia”.

Un bieco gorgheggio di acque aveva accompagnato la risposta dello Stige.
Dopo qualche secondo di silenzio assordante, Ade, cupo in volto, aveva articolato a mezza voce:

“Cosa intendete?”

“Intendo che molto presto l’esistenza di tua sorella non sarà più un qualcosa di cui preoccuparsi, dio avernale”.

Con il respiro mozzato in gola, il dio aveva abbassato il capo verso l’acqua grigia ai propri piedi,

“Perché”.

“Ha spezzato il patto al quale si era consacrata. E’ venuta meno a me e alla mia inesorabilità. Cesserà di esistere, in eterno…”.

Lo Stige, crudele nel suo distacco dalle sofferenze, si era limitato ad illustrare la sorte scelta dalla dea e abbracciata dalla stessa con follia e avversione alla vita.

“Non era un voto spontaneo, lo sapete bene”.

“Anche non volendolo ella ha giurato, mentito e tradito. Va punita come ogni altro spergiuro”.

“Ditemi perché-”, Ade aveva chiuso gli occhi nel vano tentativo di contenere la furia devastante che sentiva montare dentro,

“Ditemi perché vi accanite con così tanto odio contro quell’essere, Stige”.

“Nessun motivo mi muove, nessuna ragione in particolare: mi infastidisce il fatto che si possa pensare, anche solo immaginare, di poter violare un patto stipulato ai miei piedi, Ade. Anche tu dovresti saperlo”.
 
Veramente aveva udito quelle parole?
Fastidio?
Orgoglio?
 
“Voi, fiume empio…” Con una voce simile ad un ringhio Ade lo aveva maledetto,

“… un patto non è un Fato immutabile. Le migliori strategie di guerra mutano al mutare dei tempi e delle situazioni. Le migliori pianificazioni diplomatiche cambiano al cambiare delle esigenze e tu, infimo essere che ti atteggi a destino imbrigliabile, condanni per fastidio una dea buona, colpevole solo di essersi infine opposta a un desiderio che non sentiva suo? Siete stato voi, voi e quell’altro, quel dio brillante, a far finta di non vedere il vero!”
 
Al silenzio assordante provenire dal nulla intorno a lui, Ade aveva urlato con sdegno,

“Rispondete, seduttore di anime! È così che agite? Per tornaconto?”

Al sentir solamente le acque incresparsi e farsi più vive, il dio delle ombre eterne aveva continuato cercando di riguadagnare la calma,

“Cosa ha chiesto Zeus? Quali le parole vincolanti per Estia?”.

“Il suo ventre non dovrà mai generare vita, nessun figlio vedrà la luce dell’Olimpo”.
 
“E cosa ha promesso lui in cambio? Cosa vi ha promesso Zeus in cambio di questo voto estorto con forza, efferato fiume?”.
Indifferente a quelle accuse lanciate con gelida serietà, lo Stige aveva sospirato senza vergogna:

“Ha concesso la parola presso l’uomo e, con essa, un giuramento che fosse valido solo e soltanto in grazia dei miei vincoli”.
 
Bastardo e maligno seduttore.

“Serpe, veleno e miasma. Il vostro giuramento non vale il vostro nome. Non siete migliore delle creature che giudicate”.
Sconcertato da quella rivelazione -perfettamente in linea con l’egoismo e l’egocentrismo del minore dei fratelli- Ade aveva sputato quella maledizione dando le spalle al fiume e, con lo sdegno dipinto sul viso, aveva abbandonato quel luogo infetto.

Un ghigno amaro aveva incurvato le labbra sottili del dio avernale:
come poteva essere stato tanto cieco da non capire che anche un’entità come lo Stige si sosteneva per mezzo del nome pronunciato a fior di labbra dai promettenti?

Se lo Stige esisteva, se le sue acque fluivano imperiose abbracciando i vincoli dei viventi, era solo grazie a quel nutrimento promessogli dal più giovane degli dei: patti che solo stipulati in lui e per mezzo di lui, potente e inesorabile, avrebbero trovato compimento.

Sopravvivere ad ogni costo. Questo l’obiettivo dello Stige che Zeus aveva saputo piegare al suo volere.

Avvolto nell’ombra nera e demoniaca e mangiato da una latente frustrazione, Ade aveva rallentato il passo solo quando il piede aveva oltrepassato il limitare delle mura.

 “Nessuna prole, nessun figlio che reclami il trono Olimpico”.
 

Un attimo.
 

Un ghigno animalesco gli si era aperto in volto scoprendo denti bianchi e affilati: Ade, trasfigurato in ombra tetra, aveva assaporato le parole precedentemente udite dallo Stige.

“Nessuna prole, nessun figlio che reclami il trono Olimpico”.

Se quello era il voto meschino toccato in sorte alla povera Estia, se quelle erano le intenzioni latenti dietro le azioni di Zeus, allora entrambi quegli esseri avrebbero fatto meglio ad indietreggiare dinnanzi ad un Fato oscuro e, stranamente, benevolo: la verginità di Estia non sarebbe mai stata carpita con l’intento di generare vita.
Nessun dio o uomo avrebbe osato toccare la divina sorella al solo scopo di raggiungere il brillante Olimpo. Nessun essere l’avrebbe mai avuta per il suo grembo e, soprattutto, nessuna vita sarebbe mai stata generata dall’assenza di vita.

“Radamanto è morto”, aveva mormorato con un sorriso affilato,

“E con lui è perita la possibilità di generare vita già da lungo tempo”.

Un gorgheggio cupo e roco, possente e vibrante era risalito dalla cavità del suo petto per trovare eco nello sperduto orizzonte nero:

Estia non violava nessun patto.

Nessun vincolo sarebbe stato leso da quella unione strana ma felice e lui avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per convincere Zeus a ritrattare il vincolo un tempo stretto con lo Stige.

Anche i patti sarebbero mutati.

È finito il tempo di far finta di non vedere, fratello.
 
 
L’espressione infervorata aveva trovato pace solo alla vista del fidato Cerbero che, all’oscuro di qualsiasi macchinazione ignobile, lo aveva accolto con reverenza e affetto. In compagnia della silente creatura aveva organizzato i pensieri e le idee, le riflessioni e i progetti: necessitava di una strategia brillante e rapida nell’azione. Estia soffriva e lui doveva sbrigarsi.

Serviva solo l’occasione, l’occasione adatta in cui, faccia a faccia con quell’essere, avrebbe potuto sibilare l’unica minaccia in grado di smuovere l’attenzione del minore dei fratelli:

o Estia o guerra.

Che per una volta si facesse finta di non vedere per il suo tornaconto e non per quello di altri infimi e egoisti esseri.
Nessun altro sarebbe stato sacrificato per giochi di potere tra divinità ingorde.

Le riflessioni argute, i machiavellici piani elaborati con affannato e preoccupazione avevano però fiaccato lo spirito del dio, già a lungo tormentato anche da altre questioni.
Ancora di fianco a Cerbero aveva sentito le gambe stranamente pesanti e con una mano tremolante per la fatica aveva schermato gli occhi: una fame sorda alla ragione premeva sullo stomaco vuoto e stretto.

Anche lui aveva bisogno di preghiere e libagioni che lo sostenessero nell’esistenza.

Per questo motivo, lasciata una carezza affettuosa e distratta all’altezza della zampa pelosa del fido guardiano, si era mosso velocemente presso l’altare profumato di miele, dolce e avvolgente.
 
Non aveva badato a niente e a nessuno e una volta raggiunta la sala aveva sbattuto con violenza la porta alle spalle. Al cospetto dell’immensa lastra nera apparecchiata, ad occhi chiusi aveva inspirato profondamente, trovando appagamento nelle voci sommesse che riempivano il suo cuore alla ricerca di pietà e grazia.
 
Sedeva sul grande trono nero con poca della solita compostezza: era stanco, paurosamente stanco, quasi svuotato da tutte quelle improvvise novità che, aggravate da una fastidiosa assenza, sentiva pesare all’altezza della bocca dello stomaco come un carbone bruciante.

Assenza, più acuta presenza.

Un sospiro affranto era sfuggito alle labbra tristi ombreggiate da una peluria che si faceva via via più ispida e lunga.
Il solo ricordo della dea, abbandonata tra le sue braccia con occhi dolci e languidi e labbra schiuse, innescava lungo il suo corpo un brivido animalesco che, a partire dall’inguine, risaliva con furia verso l’altro, verso quel cuore che sentiva battere magnificamente dentro la cassa toracica.
Come avrebbe fatto? Come avrebbe resistito a quel richiamo fatto di sussurri che sentiva levarsi ogni notte verso la luna pallida e distante?
Quelle preghiere bisbigliate come una nenia a mezza bocca, il suo nome, pasteggiato tra labbra morbide e tremanti per la sofferenza, come avrebbe potuto resistere?

Maledizione!

Maledizione a lui, al Fato e al suo desiderio malsano e bruciante di averla per sé, per sempre.

Abbi pazienza Ade, non puoi raggiungere la superficie per tuo diletto. Hai promesso del tempo.

Una scarica di rabbia gli aveva percorso la spina dorsale portandolo a raddrizzarsi sulla seduta di marmo ostico.

Estia.

Estia. Prima di tutto doveva pensare ad un modo per trarla da quella terribile situazione.

Doveva parlare con Zeus, suggerirgli l’azione migliore da compiere.
Alzatosi in piedi aveva iniziato a fare un logorante avanti e indietro lungo il fianco dell’altare alla ricerca del momento migliore per recarsi sul luminoso Olimpo. Se solo avesse potuto conciliare quella visita, a uno sporadico incontro con la sua dolce Persefone…

“Ade…”

Ad occhi sgranati e leggermente rivolto verso l’altare al suo fianco, aveva osservato la lastra nera a bocca leggermente aperta.

Non è possibile.

“Ade, signore della dimora sotterranea presso la quale conducesti Kore, figlia di Demetra, strappandola alla madre e alla fanciullezza.

“Oh dei”.

“Ade, voi invoco per nome, voi che risiedete sul trono nero oltre la vita e oltre l’eterno e che amministrate con saggezza l’esistente, concedendo il riposo della morte ristoratrice: accogliete con cuore sincero questo rito”.

“No, Persefone, no…” una mano era corsa sopra la bocca nel vano tentativo di frenare lo sgomento e la sorpresa per quanto stava percependo con ogni fibra del suo corpo, del suo animo e del suo essere avernale.

Vengo a mani vuote, mio dio: non ho con me un toro nero né una pecora che vi possa offrire in sacrificio- né mai avrei potuto, come sapete non sopporto la sofferenza, soprattutto se patita da creature innocenti”,

“No!”.

Quelle parole, espresse con dolcezza e tremito di voce, scivolavano come miele dolce e giallo dentro le sue orecchie, scuotendolo con forza e ridestando desideri proibiti.

Preghiera irresistibile e maledetta.

Con quel poco di coscienza rimasta era riuscito a mettere in ordine i pensieri turbati: Persefone non doveva recarsi in quei luoghi, luoghi neri e pericolosi per una dea di luce. Posti in cui si recavano i disperati e gli addolorati, i maledetti e i rei in cerca di perdono. Lei non doveva andare lì, presso altare celato dalla fitta boscaglia, non doveva stendersi su quella lastra dove lui avrebbe potuto sentire perfino il calore del suo corpo o il suo profumo.

 “Voi, che state presso l’Averno di cui siete signore e animo, ospite gentile di radici, sostegno di alberi floridi, ascoltate la mia preghiera:
venite benevolo e benedite con la vostra presenza la vostra promessa sposa che, sulla superficie, agogna un atomo della vostra presenza”.

Condannato.

Senza speranza o via di fuga.

Quell’ultima frase, mormorata con tono basso e disperatamente implorante, l’avevano condannato per sempre.
E anche se folle, e fuori da ogni logica, e poco furbo e, sicuramente imprudente, non avrebbe potuta lasciarla lì da sola, implorante e stesa come un sacrificio sopra il suo altare.
Trasfigurato in una maschera d’amore e turbamento all’ennesima preghiera addolorata per colpa della sua assenza, aveva indossato la kunée e, nascosto dal prodigio di quell’elmo, aveva osato varcare i confini del regno dei vivi alla ricerca della sua personale ragione di esistenza.

E l’aveva trovata, infreddolita e con in mano un fermaglio.
Il suo.
 


°°°
 

 
I morti non possono lasciare questi luoghi.
I morti non possono lasciare questi luoghi, mai.
Radamanto, per la miseria! I morti non possono lasciare questi luoghi.
Era nuovamente tutto come prima, maledettamente tutto come prima.
Parlare con Ade era stato illuminante e doloroso ed aveva avuto come conseguenza quella di farlo nuovamente sentire uno straccio, proprio come i giorni precedenti alla folle decisione, con l’aggravante adesso, di sapere quanto stupido e irresponsabile fosse stato quel gesto; aveva solo fatto finta di non vedere la verità della situazione.

Un codardo. Complimenti.

Eppure non per codardia, non per paura aveva agito. Relegata nei meandri più oscuri del suo cuore, la ragione del gesto rimaneva nascosta perfino a lui stesso, troppo addolorato per affrontarla.
 
Fermo e avulso da tutto ciò che lo circondava, fissava un punto indefinito della parete dinnanzi a sé, ignorando ogni domanda, ogni richiesta, ogni essere che, come Eaco, da molto tempo lo osservava con un sorriso mesto disegnato sul volto vecchio.
Non aveva il coraggio di guardarlo.

“Credi forse che io non sappia che tu sai che ti osservo da oramai lungo tempo, secondo giudice? Quale timore nasconde il tuo sguardo schietto?”

 “Nulla, nulla che possa importarti”. Radamanto aveva risposto secco, cercando di celare il dolore nella voce.

“Come posso ignorare questo fastidiosissimo rumore?”.

“Quale rumore?”, scocciato Radamanto aveva guardato altrove, non volendo concedere a quel fastidioso indagatore alcuna risposta.

 “Quello del tuo cuore, maledetto!”. Eaco, svelata la propria conoscenza, aveva allargato il sorriso rugoso mentre il secondo, voltatosi lentamente verso di lui, palesava nel volto cinereo la propria angoscia.

“Ah Radamanto! Pensavi di poterti nascondere dietro quel volto serio e composto da un vecchio come me? Ah” – un sospiro era sfuggito da quelle labbra benevole,

“Ah, Radamanto, quanto poco della vita hai vissuto per ritrovarti turbato anche ora, nel sonno ristoratore della morte”.

Eaco, alzatosi dal seggio di legno lentamente, aveva rivolto un sorriso al collega ammutolito.

“Forza, seguimi. Parliamo un po’”, poi aveva lanciato uno sguardo a Minosse poco distante da loro, curvo sullo scrittoio,

“Minosse, a breve saremo di ritorno”, ma quello si era limitato ad alzare una mano distrattamente accompagnandola con un grugnito, mentre con l’altra annotava imperterrito quanto riferito da una tremolante anima al suo cospetto.

“Andiamo”.

Radamanto lo aveva raggiunto in poche falcate e, in silenzio, aveva iniziato a seguirlo, assolutamente all’oscuro della meta da raggiungere.

“Dove mi conduci, vecchio re?”.
“Presso le porte degli inferi”.

Bloccato da quella risposta, Radamanto aveva afferrato la manica del compagno di cammino con sgomento.

“Cosa hai intenzione di fare, folle? Non sai chi ha dimora presso le porte del Tartaro?”
Eaco, con un sorriso rugoso stampato in volto, aveva staccato con delicatezza la mano dalla tunica bianca e aveva risposto con la dolcezza di un padre,

“E’ proprio perché so che ti conduco presso quei luoghi: la mia intenzione è offrirti una strada, Radamanto.  A te la scelta di intraprenderla o meno”, poi aveva ondeggiato un paio di chiavi color dell’oro davanti agli occhi intimoriti del secondo giudice e, sempre sorridendo, aveva continuato:

“Ade, il giusto, approverebbe”.
 
Radamanto aveva deglutito rumorosamente: la mente imperlata di sudore era l’unica testimone di un turbamento cocente intrecciato ad una maledetta voglia di fare, di seguire il consiglio benevolo, di affrontare a viso aperto il Fato contorto.

“Conducetemi presso le porte dei gemelli, ma vi prego non lasciatemi in balia di folli sentimenti. Siate la mia ragione, ve ne prego”.

Una risata profonda aveva scosso il petto dell’anziano che, dategli le spalle, aveva ripreso fischiettando la marcia verso i confini dell’Ade nero e pieno di misteri.

“Sai bene Radamanto, che non due esseri ma solo uno può varcare le soglie, non posso accompagnarti ma tranquillo, aspetterò qui il tuo ritorno, non preoccuparti”.

Sbagliato, sbagliato, sbagliato.
Non doveva assecondare i suoi desideri.

I gemelli sapevano essere creature terribili e sibilline: mai aveva osato varcare quelle soglie, mai se non Eaco, il più anziano e il più saggio, aveva interagito con i geni.
“Vai Radamanto, il tempo scorre diversamente per noi e per gli altri…”

Per lei.

Sapeva che quel termine, enfatizzato da uno sguardo che molto diceva, era stato pronunciato con un certo sottile riferimento a qualcosa che ben conosceva ma che non voleva palesare apertamente.
Se Ade conosceva ed era l’Averno e solo lui decideva chi mettere a parte di ciò che in esso avveniva, allora anche Eaco, ritenuto adatto al conoscere, era stato messo al corrente della situazione e con tatto aveva offerto una via, un tentativo di pacificare l’animo turbato.  

“Vai Radamanto...”

...


Mezzo passo oltre la porta.
Un passo e un tonfo secco alle sue spalle.
 

“Chi osa varcare la soglia della mia dimora, disturbando il mio sonno?!”
Una voce paurosamente roca e cavernosa aveva accolto il secondo piede poggiato oltre la porta del sonno, mentre un’ombra spaventosamente grande si proiettava dinnanzi al povero giudice.
Impietrito dalla reazione fulminea del genio, egli aveva raddrizzato la schiena riacquistando la solita compostezza, fatta di pseudo freddezza,

“Genio illustre, il mio nome è Radamanto, giudice di Ade, il sommo signore di questi luoghi”, il tono serio e composto non riusciva a mascherare una nota di incertezza: del resto nemmeno lui sapeva quale fosse lo scopo di quella visita.
Una risata, prima leggera come un sospiro, poi via via più forte e intensa aveva accompagnato l’emergere di Ipnos dalle tenebre fumose delle sue stanze: un giovane delicato e longilineo gli sorrideva con serenità dipinta sul volto.

“Perdonami giudice, ma da molto non ricevevo visite ufficiali. Morivo dalla voglia di giocare”- il genio gli aveva rivolto un sorriso tutto denti prima di ritornare composto, a dispetto di un Radamanto impietrito e senza parole.

“Devo indovinare il motivo della tua visita o sei così gentile da illuminarmi con parole tue?”.
Quel richiamo scherzoso aveva ridestato il giudice dallo stato catatonico nel quale era precipitato:

“Si, si, il mio nome è Radamanto”,

“L’hai già detto”,

“Sono il secondo giudice di Ade il signore-”,

“Hai già detto anche questo”, Ipnos sorrideva maligno e divertito dinnanzi all’incapacità comunicativa di quello strano essere avernale,

“Genio… non ho idea del perché io sia qui”, Radamanto, esasperato, aveva sospirato con uno sguardo perso nel vuoto fumoso delle camere.

“Accomodati allora, lascia che lo capisca da me… da quanto tempo non dormi, demone?”, Ipnos aveva poggiato le mani all’altezza delle scapole del giudice che, colto da un fremito per quell’improvviso contatto, aveva irrigidito la schiena:

“Stai tranquillo, non ho alcuna intenzione di arrecarti danno, il mio unico interesse è capire il motivo della tua presenza senza perdere preziose ore di sonno ristoratore. Il sonno è un ottimo modo di impiegare il tempo eterno che si ha a disposizione, sai?”.

Al mutismo prolungato di Radamanto, Ipnos aveva nuovamente sorriso serafico e aiutatolo a prendere posto sopra un morbido letto di piuma e fumo, aveva parlato con una strana lentezza.

“Goditi questo dono che ti concedo, essere morto e vivo al contempo, dubito che potrai giovarne nuovamente in futuro”.
 

E lì, semplicemente, non era stato più.
 

“Mostrami cosa nascondi agli occhi dell’Ade, mostrami cosa nascondi ai tuoi stessi occhi fatti di dolore e freddo disincanto.
Mostrami, in nome del dio che abita questi luoghi, cosa cela il profondo del tuo cuore turbato così che io possa aiutarti nei limiti dello spumoso e fumoso sonno che porta ristoro o morte. Mostrami Radamanto”.

Quella melodia, quella voce di cui non riusciva a captare le parole ma solo il ritmo cullante, l’aveva sedotto verso la porta della sua mente, quella porta che si ostinava a tenere chiusa, serrata persino a sé stesso.

“No, non voglio varcare quella soglia, no, abbiate pietà, vi prego”.

Ma quella preghiera non aveva ricevuto ascolto e, come richiamato da quelle barriere impenetrabili, aveva allungato la mano sulla maniglia della consapevolezza.
Aperta la porta, un fiume di immagini avevano travolto il giudice: immagini di cui non avrebbe mai e mai più voluto sentire l’odore, magnifico e dolce di fuoco, e che invece erano lì, davanti ai suoi occhi, chiusi nella paralisi onirica.
 
 


“Vi sono divinità sciocche come voi o il signore dell’Averno che provano a recare aiuto al prossimo, e poi vi sono esseri gloriosi come Zeus che, ad esempio, non esitano un istante a ingannare chiunque, anche il sangue del loro sangue, per ottenere vantaggi. Eri sua sorella e non ha esitato un momento, illudendoti con la virtù della verginità e privandoti dei piaceri della vita, della primogenitura e con essa il diritto alla libertà, donandoti in cambio due cavigliere sonanti”.

L’aveva ferita, l’aveva ferita con l’intenzione di ferirla, di farle provare dolore, lo stesso che sentiva bruciargli dentro dal momento in cui l’aveva vista.

Quante volte l’aveva vista? Poche, pochissime.

E quante, invece, aveva sperato di rivederla ancora dopo quello sguardo fugace?

Folgorato da quelle due iridi verdi e saettanti che con pudore e curiosità avevano scandagliato il suo essere, Radamanto era sprofondato in un caos caldo e avvolgente senza rendersi conto né come né perché.

La prima volta, fin da quella prima volta, aveva immediatamente avvertito un qualcosa di diverso nell’aria pesante dell’Averno e, di questa sensazione piacevolissima e stranissima, aveva avuto la conferma quando, non resistendo alla preoccupazione di sapere che un qualche essere di essenza diversa si trovava al cospetto del suo dio, aveva bussato alla grande porta della sala dell’altare.
Lì il suo signore, stranito da quel bussare improvviso, l’aveva accolto al suo cospetto e sempre lì, scostato l’uscio pesante, aveva intravisto la figura di una piccola dea vestita di verde e dai capelli di fiamma.
I piedi erano nudi al suolo.
Leggermente turbato da quella vista- non aveva mai visto prima di allora un altro essere di superficie, se ne era sempre ben guardato data la fama pessima- era riuscito a formulare solamente una parola:

“Signore?”

Molti i significati dietro quell’interrogativo:
state bene? Siete turbato? Qualcosa o qualcuno osa disturbare il vostro regno di pace e giustizia?
Il dio nero aveva colto tutte le sfumature di quella domanda e, indirizzandogli un sorriso tirato e per parte turbato, aveva liberato il giudice,

“Radamanto, è mia sorella. Non preoccupatevi, ritornate ai vostri uffici. Mi premurerò di chiamarvi non appena avrò concluso con la divina Estia”.

Estia

Prima che l’avernale lo congedasse con un gesto della mano, l’aveva vista voltarsi verso di lui e lanciargli uno sguardo curioso, interessato a capire chi fosse quell’essere d’oltretomba animano da sentimenti umani.
Poi era andato via, non riuscendo a percepire il sospiro della dea.

“Siete circondato da persone che vi amano e rispettano”,

“Si, avete ragione. Sono fortunato”.

Ma il dio, turbato dal modo in cui la sorella aveva raggiunto la sua cella, richiamata dal fuoco del suo cuore spento e bramoso di calore domestico e familiare, non aveva badato al secondo sguardo indirizzato da quella verso la porta dietro nella vana speranza di ritrovare quella curiosa figura ancora lì sull’uscio.
 
Ma quella non era stata l’unica volta in cui i due avevano avuto modo di incontrarsi, anzi, scontrarsi: Radamanto lo sapeva bene.
Era stato lui a prenderla tra le braccia quando la fatica e la paura l’avevano travolta, lasciandola esanime sotto il peso di un’aria d’Averno che poco aveva di ospitale per lei che non apparteneva a quel luoghi.
Lui l’aveva stretta al petto cercando in tutti i modi di nascondere a sé stesso quel piacere provato nel semplice respirare il profumo della chioma intrisa di oli e spezie sacre, e le mani che, delicate e pudiche, l’avevano avvolta in un abbraccio di supporto, avevano scatenato un formicolio violento riverberato fin alla spina dorsale, lasciando dietro di sé una pelle morta e paradossalmente turbata da brividi.
Ade, dinnanzi a lui, l’aveva richiamata alla vita offrendole un’ambrosia di superficie non vincolante, eppure in cuor suo per un istante aveva sperato di saperla più vicina, magari per parte legata a quei luoghi che lui stesso abitava da lungo tempo.
Salvata la dea da un destino infelice, salvata dal sonno e dalla stanchezza, l’aveva osservata ridestarsi, aprire quegli occhi verdi e vividi e sorridere al fratello e a lui, assolutamente perso nell’osservare quel volto rifiorito: lì, in quel momento era sorta la rabbia, cieca e agonizzante, della certezza di non poterla mai avere pur desiderandola con purezza di cuore.
L’aveva ferita per ferire sé stesso, per cacciarla lontano, verso quei luoghi che lui non avrebbe mai potuto varcare, ma quando il senso di colpa e il dolore l’avevano corroso dentro, non aveva esitato un attimo a trovare uno stratagemma che gli permettesse di parlarle un’ultima volta, anche a costo di non venir ascoltato.

Ecco la prima volta in cui Ade aveva fatto finta di non vedere, forse perché travolto dalla bella Persefone, forse perché anche lui tormentato dalla possibilità di vedersela portare via da un Fato beffardo.

Radamanto aveva scritto il proprio pentimento su carta impregnata di fumo e zolfo e lei, non molto tempo dopo, aveva risposto.

Ecco la seconda volta in cui Ade aveva rivolto lo sguardo altrove.

Estia aveva ricevuto il suo messaggio e, incredula, aveva fissato il foglio con occhi sgranati: in quell’istante aveva capito che non solo il suo stupido cuore era stato trafitto dalla freccia di Eros.
Per questo, presa di coraggio, aveva utilizzato in segreto le due monete comunicanti col regno dei morti e, quatta quatta, ne aveva varcato le soglie infuocate, vagando di braciere in braciere, di stanza in stanza, alla ricerca del giudice penitente.
Lui l’aveva sentita arrivare ma, rigidamente steso sul letto, non aveva avuto il coraggio di muovere un muscolo.

“Ho ricevuto il vostro messaggio, giudice”, il bisbiglio della dea di fuoco solleticava le orecchie vive di un Radamanto stranamente travolto da emozioni che non sapeva di possedere.

“Giudice, mi udite?” la dea, prima un’ombra tra le lingue di fuoco, si era fatta immagine di donna reale e, infine, era divenuta un corpo vivo presso il suo letto.
Pietrificato.

“Eravate onesto? Quelle parole che voi avete scritto, erano vere?” seria e triste in volto per colpa della freddezza del demone, ad occhi bassi Estia aveva formulato quella domanda con la morte nel cuore.

Estia, quello lì è un morto, cosa pretendi di vedere in lui? Quale viva reazione speravi di notare in questo corpo giovane eppure spento?

Sempre con la serietà, la compostezza e il timore che lo contraddistingueva quando lei era nei paraggi, Radamanto aveva sollevato il busto e, sempre con la rigidità di un soldato, si era seduto sul bordo del letto: lo sguardo fisso dinnanzi a sé, aveva mosso solo il capo in un cenno d’assenso.

“Bene, sappiate che ero fin qui giunta per darvi l’occasione di chiedere perdono con la vostra voce e non col volto celato dietro una lettera”.

Sorpresa da quel cenno – una risposta secca, ma pur sempre una risposta- Estia aveva incrociato le braccia sul petto, in volto un cipiglio di sfida furbo.

“Non avrei mai dovuto scrivere quelle parole, divina Estia. Voi non dovreste essere qui e io non dovrei anche solo osare rivolgervi la parola, solo al vostro cospetto”.
Il giudice si era alzato e, facendo ben attenzione a non sfiorarla nemmeno per errore, aveva raggiunto l’angolo della camera più distante.
Una cocente delusione aveva imporporato il viso di Estia che, senza parole, aveva sciolto il nodo delle braccia lasciandole cascare al suolo con tristezza.

“Radamanto, io…”.
“Non dite oltre. Sono stato un folle e un illuso, ho commesso un crimine atroce scrivendovi e turbando il vostro animo e la vostra pace di vergine e dea. Abbiate pietà”.

Radamanto, serio in volto, non aveva guardato quegli occhi verdi nemmeno per un istante. Non avrebbe mai sorretto il peso della delusione e del rammarico e della rabbia dipinti in quelle pozze solitamente brillanti e felici.

“Mi avete ferita per la seconda volta giudice. Non può esserci perdono per chi infrange una promessa di scuse”.

Estia aveva parlato di getto, infuocata dalla vergogna e dalla speranza stracciata nel cuore e non si era assolutamente accorta di come il giudice, al solo udire quelle parole, avesse sollevato lo sguardo nero e vacuo sul suo volto arrossato dalla collera.

“Non può esserci perdono per chi infrange una promessa…”

Era chiara l’allusione: il voto della dea, la sua promessa sopra le altre, non poteva essere infranta mai, pena: il tormento.

Estia aveva mormorato nuovamente quella frase tra sé e sé non smettendo di osservare quell’essere che, oramai non più celato dal velo della serietà, l’aveva osservata con uno sguardo disperato.

Poteva un morto soffrire a quel modo? Perché ora lo leggeva distintamente in quello sguardo che urlava un dolore ignobile.

Poteva quell’essere sacrificare sé stesso e i suoi sentimenti per lei e la sua incolumità?
Chi mai aveva fatto questo per lei? Sempre usata e raggirata per loschi scopi?

“Radamanto…-”

“Andate via, ve ne prego”.

“Radamanto, io-”,

“Voi non potete dir nulla per dare sollievo a questo essere che dovrebbe giacere tra i defunti e che invece, salvato dall’Ade, sta ora al vostro cospetto con insolita tracotanza sperando in un qualcosa che non potrà mai ottenere. Mi contento di avervi vista un’ultima volta, mia divina signora. Non spero in altro”.
Estia aveva mosso un passo verso di lui ma quello, sollevata una mano perentoriamente, l’aveva tenuta a distanza.

“Divina Estia vi prego, non acuite il mio tormento. Mi basta sapere che siete venuta e che avete ascoltato la supplica di questo folle. Ma ora andate prima che l’Ade e lo Stige svelino i nostri cuori e ci diano in pasto ai titani del Tartaro come traditori dei patti”.

“Sono io colei che è vincolata, voi non correte alcun rischio-“.

Il giudice, al semplice udire quelle parole dette con fremito, l’aveva folgorata con uno sguardo di brace, un diavolo e un demone al contempo:

“Il mio pensiero è rivolto unicamente a voi, Estia, e mi caverò il cuore dal petto non appena avrete varcato questa soglia se solo oserete portare con voi qualche insano proposito”.

“Voi non potete seguirmi, non potete sapere quello che la mia mente desidera”.

“Non costringetemi a scegliere per entrambi, Estia”.

“Siete voi ad aver già scelto!”.

Estia, con gli occhi lucidi di rabbia e pianto, aveva mosso altri due passi verso quell’essere all’angolo e, a pochi centimetri da lui, l’aveva visto ancora ritrarsi nel vano tentativo di non sfiorarla.
Mortificata, si era nuovamente allontana ma, con sguardo fiero aveva continuato:

“Io non posso più nascondere quello che altri hanno fatto finta di non vedere fin dal principio, giudice”.

“Ma non capite l’assurdità della situazione? Io sono un morto risanato da Ade, voi una dea vincolata allo Stige. Cosa potremo mai decidere per noi stessi?”.
Con rabbia Radamanto le aveva risposto digrignando i denti: addolorato e sdegnato dal Fato, bloccato dalla propria serietà. L’aveva a pochi passi, avrebbe potuto stringerla, accarezzarne le curve, baciare quelle labbra di rosa e, invece, rimaneva all’angolo, ostacolato da sé stesso.

“Potremmo iniziare ad agire, potremmo iniziare a sovvertire le leggi immobili che vincolano la nostra esistenza. La vita e la morte sono mutamento costante”.

L’aveva sentita con forza, con fervore aveva pronunciato quelle parole di sfida al cosmo e poi l’aveva vista sollevarsi sulle punte dei piedi al suo cospetto: la dea aveva chiuso gli occhi e, avvicinatasi al volto sconvolto del giudice impietrito, aveva deposto un umido e casto bacio sulle labbra strette.

Radamanto, a occhi sgranati, aveva accolto immobile quell’improvviso gesto.

“Cavatevi pure il cuore dal petto, stupido demone. Io, Estia, ho scelto il mio destino”.

A pochi centimetri da quelle labbra tentatrici e virginali, il giudice era riuscito a malapena a formulare uno sconvolto “Vi prego-”, prima che la dea, rincuorata dal rossore che aveva tinto il volto giovane del demone, aveva nuovamente accostato le labbra a quelle fredde e leggermente schiuse di Radamanto, ancora stupito ma in attesa di un’altra dolce carezza che agognava con tutto il suo essere.

L’aveva sentito sospirare quando un nuovo bacio aveva solleticato le sue labbra e, alla postura rigida lentamente si era sostituito un abbraccio titubante e incerto che aveva avvolto la piccola figura di Estia con delicatezza, gli tremavano le mani.

Due inesperti, due amabili inesperti che per la prima volta saggiavano il piacere dell’amore a fior di labbra.

Avevano sospirato entrambi quanto le labbra si erano distaccate, ma nessuno dei due aveva osato parlare o allontanarsi dalla tenera presa in cui erano avvolti.

Lui, alto e longilineo curvato su di lei, piccola e sottile, in un abbraccio delicato.

“Vi prego, divina Estia, vi supplico. Non fate nulla di sconsiderato”, Radamanto, sempre ad occhi chiusi, aveva mormorato quella preghiera con voce sottile e tremolante, nella vana speranza che la dea stretta tra le sue braccia sentisse il tormento che lo lacerava dentro al solo pensiero di saperla in pericolo ma, a quella supplica era seguita solamente un’altra carezza umida.

“Non state in pena per me, giudice. Con il benevolo volere del Fato, ci rivedremo, forse”.

Sorridente e con le gote arrossate, Estia aveva sciolto il caldo abbraccio ritrovandosi al cospetto di un Radamanto stranamente colorito in volto e col fiato leggermente accelerato, aveva accarezzato con lo sguardo quella figura strana e bellissima e, indietreggiando verso le fiamme alte del fuoco senza mai smettere di guardarlo, aveva mormorato un dolce saluto: gli occhi erano lucidi per la felicità.

Resosi conto troppo tardi delle intenzioni della dea, Radamanto si era slanciato verso il camino nella vana speranza di fermarla ma la sua mano si era persa nel vuoto.

L’aveva persa.

Un ringhio gutturale aveva scosso il petto del giudice, lacerato dentro.
 
 

“Oh miei dei”

Ipnos, con un’espressione sconvolta dipinta sul volto, aveva osservato quanto il giudice avesse tentato con forza di tenere nascosto perfino a sé stesso.

Giudice degli uomini, rinato nel regno di Ade e legato al regno del cielo”.

Con una mano sotto il mento, in una chiara posa pensante, il genio del sonno aveva osservato la figura del giudice che, steso sul lettino, si rigirava affannosamente.

Cosa c’era ancora?

Assottigliando lo sguardo con fare indagatore, il genio aveva scandagliato le profondità del cuore del demone e, calamitato da un’immagine tetra e nascosta tra le piaghe dei pensieri del dormiente, vi aveva posto sopra le mani al fine di schiuderla dinnanzi ai propri occhi.

Una paura, una paura segretamente alimentata dall’angoscia.


 “Schiudi il tuo segreto”, aveva mormorato con impazienza.

Poi aveva nuovamente visto, e questa volta era rimasto veramente basito.
 
Radamanto aveva mantenuto la propria promessa.
Non aveva più ricevuto notizia di quella dea, non aveva più saputo alcunché: niente, assolutamente il niente.
E non aveva saputo resistere, non dopo aver visto la promessa sposa del suo signore stesa morente e morta su un letto troppo grande e troppo freddo per quell’essenza pura. Non era riuscito a rimanere fermo in sé stesso, soprattutto quando non la giovane Persefone ma un’altra, piccola, calda e vestita verde gli aveva riempito la vista: un’immagine mentale che andava perfettamente a sovrastare la realtà che lo circondava.

Quella la paura di Radamanto.

L’aveva vista morta dinnanzi a sé, e anche se quella era solo un’immagine della sua mente, egli non aveva saputo resistere.
Quella la goccia che aveva fatto traboccare il cuore macilento del giudice avernale. Quell’essere temeva per la vita di Estia e immaginarla stesa e morente, proprio come Persefone, l’aveva raggelato dentro conducendolo al folle gesto.

Folle e inutile gesto.

 
“Adesso, Radamanto infelice, ristora il tuo animo”.

Ipnos, esausto, aveva dissolto il sogno del demone lasciandolo in balia di un riposo sereno e senza immagini tormentose, poi, aggraziato ma impensierito, aveva percorso agilmente il lungo corridoio che dalla soglia del sonno conduceva le anime alla soglia della morte: lì, a metà strada, nel luogo in cui il sonno diventa morte e la morte si fa sonno, aveva scorto il gemello di spalle, intento ad osservare l’orizzonte del nero Averno.

“Thanatos”.

“Uhm? Ipnos?”.

“Thanatos, un nome: Estia è tua anima infelice?”.
Con gli occhi persi oltre la porta schiusa sul profondo tartaro, il genio lugubre aveva risposto pacatamente,

“Estia è in balia del suo voto infranto. Giace sottoterra in costante tormento e in costante sofferenza, non può morire e non è mia preda. Non è la morte che per ella è stata decisa”.

Nessuna intonazione in quella frase.

“Fratello, sapresti indicarmi dove?”

“Ai piedi del suo tempio, uomini inconsapevoli calpestano la loro dea”, atono, Thanatos, si era limitato a stirare il labbro in modo da mostrare con un impercettibile sdegno i denti affilati.

“Uomini in preghiera calpestano una dea, giovane fratello, degli uomini, e la dea si dibatte in cerca di ossigeno, inascoltata”. Solo a quel punto la morte si era voltata verso il sonno con un’espressione scura e terribile in volto.
Thanatos, stretto nelle ali nere, teneva le braccia incrociate sul petto.

“Solo Ade, il signore dei morti, può trarla da questa situazione spinosa”, Ipnos aveva mormorato tetro al cospetto del genio taciturno e sdegnato.

“Solo Ade-”. Con quelle parole Thanatos aveva nuovamente dato le spalle al suo interlocutore: gli occhi questa volta persi nella direzione opposta: verso il mondo dei vivi alla ricerca di un qualcuno da prendere con sé.

“Se lo ritieni necessario dì a quell’infelice cosa tocca in sorte ad una dea per amore”.

Ipnos, raggiunto il fianco del fratello, aveva scosso in silenzio il capo.

Radamanto aveva già patito abbastanza.
 
 

°°°



“Ade, Ade mio signore”, Persefone, tremolante tra le mani del dio avernale, aveva sospirato quel nome con devozione e amore mentre godeva della guancia ruvida del dio che sentiva strofinarsi contro la sua alla ricerca di un contatto sempre più intimo.

“Zitta, fai silenzio, non disturbare il sonno del dio di questi luoghi”, Ade l’aveva fatta stendere sull’altare mentre un sorriso furbo gli aveva illuminato persino gli occhi rendendolo magnifico.
Senza fiato per poter dire alcunché, Persefone si era resa creta tra quelle mani che sapevano sfiorarla con delicatezza, facendola sentire amata.
Lo aveva toccato come mai aveva osato fare, aveva sentito i suoi gemiti strozzati quando la mano, guidata da quella gelida dell’avernale, l’aveva sfiorato nel punto più bramante del suo essere, lasciandolo sbigottito e trascinandolo in un vortice fatto di gemiti e sospiri.
Lei non si era fatta mancare nulla: con le gote imporporate di un qualcosa ben oltre la semplice pudicizia oramai resa lussuria, aveva percorso con la mano il membro del dio, assecondando i tremolii e i rochi ruggiti che sentiva risalire dalla profondità di quel petto muscoloso e definito sotto di sé. Lui la proteggeva dal freddo e, sempre tenendola stretta tra le braccia, non aveva smesso per un istante di guardarla negli occhi mentre quella carezza, intima e tormentosa, diventava la sua personale ossessione.
Voleva che lo guardasse, che guardasse in che modo riusciva a farlo stare bene e male al contempo, tormentato e soddisfatto tra quelle mani piccole e delicate e calde.

Se solo avesse potuto sarebbe morto.

“Persefone, mia signora, tornate con me, ora, ve ne prego. Non posso, non posso…”, le aveva bisbigliato quella preghiera sulle labbra con gli occhi stretti in due fessure e il respiro affannato per quella carezza che lo stava portando al delirio.


“Mio dio, sapete bene cosa devo fare prima di potervi donare tutta me stessa”, adesso era lei, la dolce dea, ad aver usato un tono malizioso mentre la mano, con più vigore, scendeva imperiosa sul membro del dio completamente travolto.

Lo aveva visto boccheggiare, sgranare gli occhi e stringerla per le spalle, poi aveva spinto la bocca verso il suo collo tenero e caldo e lì aveva affondato i denti assaporando quella carne profumata e pulsante.

“Non essere spregevole, kore, non posso essere ancora paziente. Esigo una regina”.
“Voi l’avrete, solo non ora. Abbiate fiducia, vi prego”.
L’aveva sentita gettare impercettibilmente la testa all’indietro per esporre ancor di più sé stessa e la propria debolezza al suo signore che, scosso da tremiti, si era ancorato a quelle spalle piccole nel vano tentativo di farsi forza.

Non era servito a nulla.

L’aveva sentito prepotente e incontrollabile salire dentro di lui come un’onda capace di prendere e distruggere tutto: aveva ringhiato roco mentre l’avida bocca si avventava sulle labbra schiuse e gonfie della dea.
Poi aveva perso tutto sé stesso tra le braccia di Persefone che, con amore, lo aveva cullato contro il suo petto ansante mentre il deliro lo svuotava in un gemito roco.
 
Si erano rivestiti in silenzio senza mai staccare gli occhi l’uno dall’altra.
Persefone, ben lontana dalla virginale pudicizia, lo scrutava centimetro per centimetro, amando quello di cui i suoi occhi si nutrivano avidamente e Ade, lusingato da quello sguardo per niente vergognoso, le si faceva vicino aiutandola a rivestirsi non esitando, a volte, a denudare lembi di pelle morbida per lasciare morbidi e devoti baci.

Poteva un dio vivere di felicità e angoscia al contempo?

Ade tremava di rabbia e sconcerto al solo pensiero di doversi allontanare da lei così come la dea che, incerta, sapeva che sarebbe stato ingiusto pregarlo di restare o di rivedersi presso quell’altare solitario e nero, col rischio di essere scoperti.

Eppure, addolorata, Persefone non poteva accettare quella separazione, nemmeno sapendo quanto fosse giusta e necessaria.

Voleva tutto, per una volta voleva tutto.

“Ade…”

“Sai bene quanto sia pericoloso, mia dolce signora”, Ade, mesto, aveva accarezzato il capo velato della giovane che, col volto triste, aveva stretto il labbro superiore tra i denti nel vano tentativo di frenare l’angoscia.
 
Ma entrambi sapevano, in cuor loro, che lei lo avrebbe supplicato ancora di raggiungerla solo una volta, una volta ancora e lui l’avrebbe esaudita,
tutte le volte.
















L'angolo di Avareil
Ecco svelato l'arcano! Ecco il senso della frase di Ade: ho fatto finta di non vedere!
Sorpresa! C'era un mondo nascosto dietro la storia di Estia e Radamanto ma volevo rivelarvela così: stile porta in faccia, all'improvviso.
Spero di essere riuscita a incastrare tutto per come lo avevo in mente, temporalmente il quadro dell'episodio è il momento in cui Ade, dopo aver discusso con Radamanto, prima si accinge presso lo Stige e poi, dopo aver assaporato le libagioni, accoglie la preghiera di Persefone, mentre Radamanto, nello stesso arco di tempo,  viene prima condotto da Eaco presso le porte del sonno e della morte e poi sprofondato nel sonno rivelatore.
E' un ripercorrere quello che è successo veramente ma che prima non era stato per intero svelato. Del resto l'unico modo per Radamanto di sopravvivere era proprio questo: relegare il tormento lontano.
Spero di avervi stupiti.
Un bacio 

 
  
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