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Autore: Atlantislux    01/03/2018    1 recensioni
Le avevano insegnato solo a combattere. Ad essere una brava ragazza e ad ammazzare i nemici della Terra.
Per questo Jun il Cigno non aveva saputo che fare, quando era andata in pezzi.
~
Io ho deciso di credergli. Perché altrimenti vorrebbe dire che dovrei sparire da questo mondo, ma non voglio più. Non ora che ho una prospettiva futura che non consiste solo di infinite battaglie contro innumerevoli orde di Galactor.
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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Utoland, International Science Organization, -2 ore all'attacco


Nambu entrò nell'ufficio assegnato alla professoressa Pawar con Pandora al seguito, controllando l'orologio.
Di norma, con un attacco programmato in corso, non avrebbe abbandonato il suo posto, ma l'appuntamento con la Pawar per la presentazione dei risultati delle ricerche era stato fissato da giorni, prima del “contrattempo”, e lui reputava fosse altrettanto importante.
Si accomodò su un divanetto davanti alla sua vecchia insegnate di dottorato. La donna, che  aveva superato la settantina, lo accolse con un cenno del capo. Gli occhi intelligenti risaltavano come giaietto sulla pelle scura, e lo sguardo era grave.    
Nambu ne fu stupito. Aruna Pawar era nota nel mondo scientifico per non perdere mai il sorriso. Ma non in quel momento. D'altronde, i riscontri preliminari che lei gli aveva inviato non erano esattamente incoraggianti.

“Grazie per essere venuti” la professoressa gli disse, distribuendo a lui e a Pandora due tablet. “Qui ci sono i risultati definitivi. Non li ho condivisi sul server del laboratorio, e tra il mio staff sono noti solo a me, ai miei due assistenti diretti.”
Nambu annuì, sfiorando con un dito lo schermo. “Come sai abbiamo poco tempo. Guarderò il materiali dopo la missione. Ci puoi sintetizzare i risultati?”
“Certo” Pawar gli rispose, prendendo tempo per bere un sorso di tè dalla tazza che aveva davanti.

Altre due erano posate davanti a Nambu e Pandora, ma lui non aveva ancora toccato la sua. Scrutò la sua ex insegnante mentre beveva. C'era sicuramente qualcosa che non andava. Non ricordava di averla mai vista così. Sembrava spaventata.
“Ti sintetizzo velocemente quello che già sapevamo” la virologa ricominciò, le labbra piegate nel primo pallido sorriso di fronte allo sguardo corrucciato di Nambu. “Scusa, lo so che non hai molto tempo, ma è un'abitudine data da anni di insegnamento, e poi Pandora non ha questa specializzazione, lo faccio per lei. Dicevo, questo virus, a cui abbiamo assegnato il codice di FN 2009, è un retrovirus, che utilizza un enzima chiamato transcrittasi inversa, o DNA-polimerasi-RNA-dipendente, per sintetizzare il suo genoma RNA nel DNA dell’ospite, modificandolo.”
Nambu sapeva tutto a menadito, ma in effetti non era esattamente il campo di studi di Pandora. La scrutò. La sua assistente non perdeva una parola della professoressa Pawar.
“Normalmente,“ la donna stava continuando, pedante come se stesse in effetti tenendo una lezione. “La trascrizione avviene dal DNA all’RNA, che successivamente ordina alle nuclobasi di assemblarsi secondo lo stampo, chiamiamolo così per semplicità, datogli dal DNA. La funzione della trascrittasi inversa invece è di convertire l'RNA del retrovirus in DNA, che successivamente si integra nel DNA della cellula infettata. Questa a sua volta produce RNA mutato, in un’infinita reazione a catena. Le nuove cellule così prodotte, dal genoma modificato rispetto a quelle dell’organismo ospite, non sono più riconosciute come estranee. E non sono più rigettate.” Pawar indicò una sequenza genetica sullo schermo di Pandora. “La trascrizione è resa possibile da un gene, che innesca la produzione dell'enzima responsabile del processo. Nel caso dei nostri soggetti di studio, abbiamo rintracciato il colpevole. È un gene recessivo che sia Jun che Erlik condividono. Loro due, e nessun altro dei soggetti esaminati.”
“L'avete identificato” Nambu esalò. Non poteva sperare in un risultato migliore.
“Sì. Noi dubitiamo che i due pazienti lo posseggano in senso assoluto, sarebbe impossibile, ma è sicuramente molto molto raro. Potrebbe essere associato a qualche malattia genetica, come l'albinismo o l'anemia falciforme, ma questo dobbiamo ancora investigarlo.” La virologa fece un'altra pausa, per prendere l'ennesimo sorso di tè. “Piuttosto, quello che noi pensiamo di questo retrovirus è che il suo fine ultimo potrebbe non essere quello di uccidere l’ospite, ma bensì di modificarne il genoma.”
“Ma come?” la interruppe Pandora. “Tutti quelli a cui è stato inoculato sono morti.”
Pawar alzò una mano. “Quasi tutti, e ora sappiamo il perché: non erano geneticamente predisposti a sopravvivere. E chi lo è, sta subendo una vera e propria mutazione, tanto per cominciare a chiamare le cose con il loro nome.” 
 
“E suppongo sia quindi impossibile bloccare o invertire il processo” chiese Nambu, il quale aveva già chiaro dove quel discorso stesse andando a parare.
Pawar estrasse dalla tasca del camice un blister di pillole che gettò sul tavolo tra di loro. “Combinazioni di farmaci antimetabolici, specifici per i malati di tumore, e agenti antiretrovirali e antiproteasi usati per il trattamento dell’HIV, si sono dimostrati in questo caso inefficaci ad inibire il processo. Hanno solo rallentato il fenomeno della replicazione; anzi, quando lo scorso marzo abbiamo intensificato la terapia di Jun, gli effetti collaterali avversi sono stati più dei benefici. Dal punto di vista medico, dopo anni di sperimentazione, ti devo purtroppo chiaramente confermare che entrambi i soggetti non potranno essere curati da nessun protocollo di cura a noi conosciuto. E quanto all’invertire il processo, lo stato dell’arte delle attuali terapie geniche non ci consente nulla del genere.”
Pandora si prese il capo tra le mani, mentre Nambu abbassava lo sguardo sul palmare. Lo schermo in stand-by rifletteva la sua immagine. Non aveva un bell'aspetto. Alla fine di tutto, quindi, forse Joe era quello che più di tutti c'era andato vicino: Jun non era malata, non lo era mai stata. E se stava male, era solo a causa dei loro maldestri tentativi di invertire un processo inarrestabile.

“Ma perché?” udì Pandora chiedere. “Non ha senso per i piani dei Galactor.”
“E invece sì” lui le rispose. “Siamo noi che non abbiamo capito. Pensavamo che volessero diffondere un'epidemia, e invece miravano alla creazione di super soldati, più forti e più veloci di un normale essere umano.”
La virologa, davanti a lui, incrociò le braccia al petto. “Soldati? Nambu, tu ne sai sicuramente più di me di strategia militare, ma non trovi che il processo per ottenere questi soldati sia un po' troppo lungo e laborioso?” Senza attendere una risposta, la donna cominciò a contare sulle mani. “Innanzitutto dovrebbero lanciare una campagna di screening genetico a livello almeno continentale per trovare i portatori del gene; gli ci vorrebbero anni solo per raccogliere i risultati. Dovrebbero poi produrre le dosi di virus necessarie, che va inoculato; il contagio non si diffonde per via aerea. Senza contare eventuali decessi nel frattempo, stimo che ci metterebbero almeno sei, sette anni per avere dei risultati che, a livello numerico, e considerando la sola popolazione statunitense, potrebbero rientrare nell'ordine del milione di persone su duecentocinquanta milioni. Così, a livello puramente spannometrico considerando la diffusione del gene.”
“Mi sembra notevole come numero” commentò Pandora.
Nambu si alzò, incapace di stare seduto più a lungo. “Sì, ma non sarebbero tutti adulti” rispose alla sua assistente. “In parte sarebbero anche vecchi e bambini, inadatti al combattimento, e anche gli adulti potrebbero non voler lavorare per i Galactor. Anche ammettendo che quei maledetti selezionino solo le persone adatte, l'esito è troppo aleatorio. La professoressa ha ragione, difficilmente è questo l'obiettivo diretto.”

“Con i miei assistenti abbiamo pensato ad una cosa diversa, in effetti...” gli disse lei, debolmente, come se avesse paura a parlare. La donna si portò una mano alla zip che le chiudeva al collo il maglioncino che indossava, prendendo a tormentarsi il tiretto. “Lo leggerete nei file che vi ho dato. La mutazione è molto più estesa di quello che sembra a prima vista. Non è solo fenotipica, ma genotipica. Ha modificato il genoma stesso di Jun e, anche se non possiamo fare confronti, perché non abbiamo campioni del DNA dell’altro paziente antecedenti al momento del contagio, immagino che anche per Erlik sia la stessa cosa.”
Nambu non riusciva a staccare gli occhi dalla mano della Pawar. Ipnotizzato, si mise a posto gli occhiali, senza che ci fosse necessità di farlo. Quella era una pessima notizia. “Quindi questa mutazione” le chiese. “L'avete anche riscontrata nelle linee germinali di entrambi gli individui?”
La sua docente annuì, mentre Pandora li guardava smarrita. “Sì. Questa mutazione sarà con certezza trasmessa ai loro figli.”
Nambu spese qualche secondo a meditare, nel silenzio della stanza. “Professoressa Pawar, perché è così preoccupata?” le chiese poi, quasi dolcemente. Il Direttore dell'ISO in realtà una risposta l'aveva, ma voleva una conferma da lei, uno degli individui più intelligenti e pragmatici che conosceva.

La donna replicò immediatamente. “L'hai detto prima, Nambu. Pur con i trattamenti che gli stiamo somministrando, sono diventati in poco tempo più forti e veloci di un normale essere umano. Hanno inoltre capacità di visione notturna, e quelle strane facoltà extrasensoriali, che entrambi condividono, non sono magia, ma una combinazione di acuità capacità di osservazione, analisi del teatro di caccia, e fattori biochimici. Dobbiamo approfondire, ma temo che secernino particolari ferormoni...”
“E a cosa gli dovrebbero servire?” la interruppe Pandora, che era impallidita.
Fu Nambu a risponderle. “A bloccare le prede, una volta che le hanno individuate.”
“Esattamente” la Pawar puntualizzò annuendo. “Nel regno animale, esistono comportamenti e tratti fisiologici simili, ma lo zoologo del nostro team non li aveva mai visti in una forma così sofisticata. Come se fossero stati ingegnerizzati apposta per creare il predatore ultimo, quello che caccia l'animale più intelligente, del cui sangue si nutre. Noialtri...”
Stringendosi le mani attorno al corpo, Pandora si alzò in piedi a sua volta. “E quindi cosa vorrebbero i Galactor? Creare una... nuova specie?”

La professoressa Pawar sospirò, afferrando la tazza oramai quasi vuota per rimirarne il fondo. “Ritenete che sia un piano troppo ambizioso per un gruppo terroristico che, finora, ha preso di mira solo le nostre risorse naturali? È il vostro lavoro assodarlo. Per quello che mi riguarda, vi posso solo dire come possono farlo.” La donna posò la tazza, cominciando a contare sulla punta delle dita. “Innanzitutto hanno bisogno di mutare inizialmente un gruppo sufficientemente numeroso di persone, per ottenere il minimo della variabilità genetica necessaria a scongiurare la trasmissione di malattie genetiche. Come spiegavo poc'anzi, devono prima individuare il gruppo target, produrre e inoculare le dosi di virus, e infine controllare gli effetti collaterali. È uno sforzo organizzativo e produttivo alla portata solo delle multinazionali più forti sul mercato, con partecipazioni in cliniche private e pubbliche. Fossi in voi le terrei d'occhio, prima che una di loro entri nell'orbita dei Galactor. Dubito che ci siano di già, altrimenti i nostri nemici non avrebbero infettato persone a caso sperando di ottenerne la mutazione, come se nemmeno loro avessero capito quello che avevano per le mani.”
“Quali sono queste aziende?” le chiese Pandora.
“Pochissime. Torche, Hobson&Hobson, Mayer, Kahn-Kobashi, Rezif Phama, più altre cinque o sei. Vi preparerò una lista.”
Nambu annuì, gelato sin nell'anima. “Grazie, professoressa. Adesso andiamo, Pandora, dobbiamo seguire l'attacco.”
“Una raccomandazione, Nambu” gli disse Pawar, levandosi in piedi. Sembrava invecchiata di colpo di ulteriori dieci anni. “Sono medico per formazione e ho pronunciato il giuramento di Ippocrate. Ma ho anche una figlia e due bellissimi nipoti, e sono preoccupata, no terrorizzata, se penso a quello che li aspetta in futuro. Ti prego, Nambu, risolvi questa... aberrazione, o non saremo al vertice della catena alimentare ancora per molto. Se i Galactor dovessero portare a termine quello che noi pensiamo sia il loro piano, in pochi anni il pianeta diventerà il territorio di caccia di una nuova specie dominante.”

    
 
Nambu quasi corse fuori dall'ufficio. Fu solo quando arrivò all'ascensore che si accorse che Pandora lo stava chiamando. Era talmente immerso nei propri pensieri da non aver sentito. Come aveva potuto sbagliarsi così tanto?
La donna lo raggiunse. Era sconvolta. “Nambu. Hai sentito quello che ha detto? Siamo ancora in tempo. Abortiamo la missione.” 
“No, non possiamo. A questo punto, proprio per quello che ha detto, è vitale riavere Jun.”
“Ma se qualcosa andasse storto...” Pandora scosse la testa. I capelli rossi si mossero morbidamente attorno al suo viso esangue. “I Galactor avrebbero tutto.”
“Lo so. Ma ci penseremo se e quando succederà.”
Il Direttore dell'ISO entrò nell'ascensore con un'unica certezza: che doveva aver fiducia nei suoi ragazzi. Loro sarebbero rientrati vittoriosi, erano nati per quello.
 


Mecha Galactor, da qualche parte nell’Atlantico


Jun si risvegliò dall'incubo agitando freneticamente le braccia davanti a lei. Questa volta, quando colpì il coperchio del sarcofago, questo si aprì senza problemi.
Emerse dal liquido vischioso respirando voracemente l'aria, sentendo il gel che si asciugava  sulla sua pelle.

Dopo qualche secondo, con ancora il cuore che le martellava nel petto, aprì gli occhi, che ancora avevano davanti quello che aveva visto nel suo incubo. Concreto e reale come la stanza disadorna che la circondava.
'Un ricordo, non un incubo' si corresse. 'Evidentemente un ricordo. E non è possibile che l’alieno abbia voluto farmi vedere quello. Il dettaglio che aveva tralasciato nei suoi racconti sulla grandezza del suo popolo. Probabilmente mi ha lasciata troppo a lungo a contatto con la sua mente, ed è filtrato qualcosa che io non avrei dovuto conoscere.'
La ragazza, come in trance, si prese tra le mani le ciocche di capelli che mollemente le pendevano attorno al viso. La tinta si era sbiadita, e lasciava trasparire il candore sottostante. Erano bianchi. Come la sua pelle. Come la pelle e i capelli degli esseri che aveva visto in sogno. Gli abitanti del mondo che l’alieno magnificava.
'Senza melanina, perché non ne avevano bisogno sul loro pianeta di origine, perennemente avvolto nel crepuscolo. Erano aggressivi, e intelligenti, e avevano costruito un impero stellare basato sul terrore. Mondi di esseri dal sangue caldo erano stati resi schiavi, e costretti a pagare un tributo di sangue ai loro pallidi padroni. Letteralmente. E agli alieni il pasto piaceva vivo. Dissanguavano le vittime a poco a poco, badando a mantenerle vive il più a lungo possibile. Fino a quando gli schiavi non si erano ribellati.'
La nausea le serrò la gola, e Jun si portò una mano alla bocca, combattendo contro i ricordi che la assalivano di nuovo.
'Altri mondi invece, come la Terra, erano usati come territori di caccia. Sanguinari parchi divertimento di dimensioni planetarie, dove gli esseri umani non erano altro che selvaggina e materiale da esperimenti. A quanto risale tutto questo? Forse due o tremila anni fa? Il folclore mondiale è ricco di esseri abominevoli, che vivono di notte e si cibano del sangue dei loro simili.'   
Rabbrividì a ripensarci.
'E io? L’alieno ha detto che i suoi simili avevano lasciato una traccia del loro passaggio su questo pianeta. Forse è qui, nel mio genoma. Probabilmente è rimasta una traccia di quegli esperimenti. O forse sono il frutto di un incrocio tra gli alieni, rimasti bloccati qui quando il loro mondo di origine è stato distrutto, e la popolazione locale. È questo il motivo per cui il virus su di me ha funzionato, e non mi ha uccisa? In ogni caso, ho saputo abbastanza.'      
Tutto le era chiaro. Quello che stava cercando di fare l’alieno, e quello che doveva fare lei. Strinse i pugni cercando di non pensare a quello che si era proposta. La voce nella sua testa era ridotta ad un bisbiglio di fondo, ma non voleva comunque farlo insospettire.

Voltandosi verso la porta, scoprì un nutrito gruppo di Galactor che bloccava l'uscita. Chissà da quanto erano lì. In parte soldati ordinari, in parte Black Bird, se ne stavano impalati con i mitra in mano, a fissarla come se non l'avessero mai vista in vita loro. Nessuno si muoveva.
Avevano troppa paura di lei. E Jun non aveva bisogno di nessuna facoltà speciale per capirlo, era chiaro dalla postura.
Con uno sforzo, gettò le gambe oltre al bordo del sarcofago e si lasciò scivolare fuori. Dovette aggrapparsi al bordo per non cadere. Non voleva dare a quegli uomini alcuna occasione per vederla debole. Erano come una muta di cani davanti ad un puma. Lei era più forte ma loro erano un branco. Se avessero avvertito una fragilità, l'avrebbero attaccata. 
Invece, più elegantemente che poté, spese un momento a rassettarsi l'uniforme spiegazzata. Poi si sistemò una ciocca di capelli dietro le orecchie, lasciando pendere l'altra sul seno. Infine recuperò il suo casco, ma non lo indossò. Che la guardassero pure in faccia, oramai non le importava nulla.
Solo allora alzò gli occhi verso il gruppo, identificando in un tizio corpulento in divisa verde il capo della combriccola. Quanto meno, doveva essere quello che aveva meno paura di tutti: era un paio di passi davanti agli altri.
Jun lo fissò, piegando le labbra in un sorriso ferino. “Portami da Berg Katze.”     
  
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