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Autore: melville    11/03/2018    0 recensioni
Ricominciare.
é una parola semplice, ma forse metterne in pratica il significato non lo è altrettanto. E Peter lo sa bene, purtroppo.
Una storia dove il passato e il presente sembra continuino a inttreciarsi senza lasciarsi andare. Tra università, turni di lavori part-time e coinquilini impiccioni, Peter cerca di andare avanti con la sua vita senza dover affrontare i fantasmi del passato... ma a volte nemmeno la più forte delle volontà può bastare. Non quando, a dirla tutta, non si è pronti a voltare per sempre pagina per primi.
Una storia dove ricominciare non vuol dire necessariamente chiudere per sempre il libro, ma iniziare semplicemente un nuovo capitolo.
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Rimaniamo tutti qualche istante in silenzio prima che la voce di Jace mormori qualcosa come: “E chi era quella fica?”
Non so se sentirmi geloso per l’apprezzamento rivolto alla ragazza o ridere per il solito modo inopportuno di Jace. Scelgo l’indifferenza, che forse mi salva più di tutto ormai.
“Nessuno d’importante Jace”, solo il mio più grande amore e immenso rimpianto.
Martyn mi guarda male e Marie Claire alza un sopracciglio scettica, perché alle donne certe cose non sfuggono.
“Allora”, sospiro “Riprendiamo il lavoro?”
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo IV

mercoledì

 

Charlie non mi parla da più di dodici ore e l’ombrello giallo canarino è ancora chiuso dentro il mio zaino, senza essere tornato alla proprietaria, nonostante anche oggi piova troppo.

Questa mattina il bar è stato perennemente vuoto: tutti devono aver preferito uscire il meno possibile da casa o da lavoro viste le condizioni meteo, così io e Martyn abbiamo giocato tutta la mattina a bridge con gli unici clienti presenti: vecchiette del solito gruppo, uniche a non essere state intimorite dalla pioggia scrosciante che oggi ha deciso di invadere Londra. Loro sì che non mollano mai! Ottant’anni e nemmeno i temporali le fanno rimanere a casa; pensandoci bene sono più vitali loro di quanto io sia mai stato, o sarò mai.

Ammetto, comunque, che l’hot dog con sottiletta, maionese e ketchup che ho mangiato a pranzo mi ha risollevato da questa grigia e inutile giornata, e fortunatamente oggi la lezione di lingua straniera non è stata così pesante. Abbiamo visto un film in lingua originale niente male, era ambientato in una scuola tedesca durante un progetto scolastico basato sui regimi. Alla fine un ragazzino moriva pure! Il titolo era qualcosa come ‘Il Mare’, o forse ‘L’Onda’. Be’, una cosa del genere. ‘Che poi il tedesco non mi è mai dispiaciuto.

Oggi comunque è iniziato il mio turno settimanale per la macchina e quindi sono sicuro che almeno starò all’asciutto.

Salgo sul sedile del guidatore e Marie Claire, una ragazza francese che segue il mio stesso corso, sale su quello del passeggero. Le ho offerto un passaggio, siccome sembra piovano patate e lei era a piedi. Visto che abita vicino a noi non mi costa un grande sforzo. La conosco da due anni circa ma prima di qualche mese fa ci scambiavamo solo, ogni tanto, un saluto di circostanza nei corridoi, o in classe quando eravamo troppo vicini per non poteri ignorare.

Ora parliamo regolarmente e non avrei mai detto che i francesi avessero un così buon umorismo o un così raffinato gusto musicale. È, inoltre, una bellissima ragazza, alta e con il corpo atletico, i capelli li porta lunghi fino a metà busto. La pelle color cioccolato la fa sembrare una figura esotica e i lineamenti marcati del viso risaltano la sua bellezza. Credo abbia fatto qualche spot pubblicitario da quando è qui.

Il viaggio è tranquillo, seppur lento perché niente è peggiore dell’ora di punta sotto la pioggia, il traffico scorre lentamente ed io e Marie abbiamo tutto il tempo di parlare fino a finire qualsiasi argomento ci venga in mente.

Abbasso leggermente il finestrino alla mia destra e prendo una sigaretta dal pacchetto, lasciato vicino al cambio.

“Vuoi?”, offro a Marie Claire allungandole il pacchetto.

Annuisce regalandomi un sorriso luminoso, incorniciato dalle labbra carnose e sensuali. Guido tranquillo e nel mentre cerco l’accendino che sono certo si trovi in una delle tasche dei miei jeans; una mano color cioccolato entra nel mio campo visivo, è stretta ad un accendino lilla che scatta e fa partire la fiamma flebile. Accendo la sigaretta incastrata tra le labbra e rivolgo alla mia vicina un segno di riconoscimento con il capo.

“Come stai Peter?” mi chiede, forse più per riempire il silenzio che regna nell’auto più che per vera e propria curiosità.

Alzo le spalle indifferente e prima di rispondere aspiro una lunga boccata di fumo che mi raschia la gola secca.

“Diciamo che si tira avanti.”

Il suo sguardo si appena più serio e le sopracciglia le si aggrottano, formando così una ruga al centro della fronte, che stona con il viso grazioso. Eh sì io dovrei davvero guardare la strada ma la coda è ancora ferma e l’espressività di questa ragazza mi rapisce sempre.

“Periodo difficile?” mi domanda con curiosità, usando quel tono di voce tipico che presuppone la gentilezza di chi vorrebbe sapere ma non vuole apparire insistente.

Le sorrido stanco, “Direi più che è stato un anno complicato e ultimamente sono venuto a che fare con aspetti del mio passato con cui non pensavo sarei rientrato in contatto.”

Lei annuisce non osando chiedere altro e io butto la ciccia della sigaretta ormai consumata fino al filtro fuori dal finestrino e scrollo le spalle.

Devio il discorso perché davvero ora non ne ho proprio voglia.

“Posso farti una domanda?”

“Certo!” mi sorride incoraggiante, e davvero se non fossi così incasinato per i fatti miei probabilmente le chiederei di uscire con me, ma ora come ora non avrei la testa per portare avanti una relazione.

“Ma se tu sei francese”, ‘che tralasciando il nome e il cognome il suo accento è ancora troppo forte per passare inosservato e la sua erre non lascia dubbi, “Come ci sei finita a studiare a Londra?”

E forse e perché ho fatto una domanda stupida, oppure è colpa della mia espressione o della mia voce sempre un po’ troppo acuta, fatto sta che lei scoppia a ridere e sembra non volerla più finire se non quando è costretta, per riprendere fiato. Mi guarda con le lacrime agli occhi e l’espressione che mi chiede scusa per quella situazione.

“Scusa Pete, non volevo scoppiare così a riderti in faccia ma non sono riuscita a trattenermi! È che me l’hai chiesto con un tono un po’ scioccato e gli occhi grandi come se fosse totalmente anormale fare l’università all’estero.”

E forse ha ragione lei e una cosa del genere è davvero totalmente normale, ma non per me. Ok, forse sono io quello strano, un po’ mammone e ancora insicuro, ma vogliamo mettere tutti questi anni universitari in un paese che non puoi chiamare casa, senza amici e punti fermi?

“È solo che io non potrei mai allontanarmi per così tanto tempo da casa.”

Alza le spalle, “A me stava diventando tutto troppo stretto a Le Havre. E poi anch’io inizialmente ero molto titubante a proposito di questa scelta, fatta più per capriccio di fine adolescenza che per altro, ma sono qui da tre anni e se c’è una cosa che ho capito davvero è che casa non è tanto un luogo, quanto più una sensazione. Io l’ho trovata qui la mia casa, a Londra, nell’Università, nell’appartamento che divido con quattro ragazze di altre diverse nazionalità e negli studi che faccio. Non è detto che un giorno non la troverò in altro, o in qualcun altro. Magari in un luogo in cui prima non ero mai stata oppure di nuovo in Francia. Magari in una persona.”

Mi sorride spensierata e io, dopo le sue parole che rispecchiano la felicità che prova, non so più cosa risponderle. Perché forse ha ragione, forse casa non sono quattro mura un soffitto e il pavimento, magari per un periodo è stata mia madre che si prendeva cura di me, magari adesso è Charlie con cui ancora non parlo ma a cui non posso rinunciare. Magari per un po’ è stata Dianne.

Scrollo la testa come a scacciare una mosca, ma in realtà scaccio di nuovo solo pensieri scomodi. Siamo fermi in coda di nuovo, e diavolo che palle! Mancano davvero pochi isolati al palazzo di Marie e io già mi sogno il mio divano comodo davanti alla TV accesa su SKYcalcio e una doccia calda per dimenticare il freddo della pioggia londinese.

Mentre tamburello sul volante con i polpastrelli delle dita e Marie digita velocemente sullo schermo dell’Iphone nero, una figura sul marciapiede attira la mia attenzione. Conosco quelle gambe magre e pallide, sempre coperte da un tipo diverso di gonna, che quel giorno è verde acqua a pieghe e le arriva poco sotto il ginocchio. E vorrei rimproverarla perché come al solito non deve avere guardato le previsioni meteo e si è messa le ballerine, bianche per giunta!

Dianne si stringe come un pulcino bagnato nel suo cappotto nero, che fortunatamente ha il cappuccio perché oggi è senza ombrello e la pioggia la colpisce con forza sui vestiti e sulle parti di pelle scoperta. Basterebbe abbassare il finestrino e invitarla salire per salvarla da quella situazione, o al massimo porgerle l’ombrello che è ancora dentro il mio zaino, posato sui sedili proprio dietro di me. Eppure non mi viene da fare nulla di tutto ciò perché al mio fianco è seduta Marie Claire e io sto provando un senso di colpa che non dovrebbe appartenermi e che non ho assolutamente ragione di provare. Ora più che mai voglio che questo maledetto traffico si smuova e che io possa svoltare a destra e non vedere più quella figura che non mi permette di controllare lucidamente le mie emozioni. La macchina davanti a me si muove troppo tardi perché mentre ancora la sto osservando, Dianne si accorge di me. Sorride notando il mio sguardo e sembra felice, alza la mano come per salutare ma qualcosa nella sua espressione s’incrina e vedo i suoi occhi superare la mia figura, per posarsi sopra la bellissima ragazza seduta al mio fianco. La vedo stringere le labbra dipinte di rosa e portarsi vergognosamente la mano stratta al petto come a voler nascondere il suo gesto, distolgo lo sguardo e premo sull’acceleratore e mi sento in colpa per tutto, anche se non ho colpa di nulla.

Dopo qualche altro minuto lascio Marie Claire sotto casa sua e riparto alla volta del mio appartamento.

Suona il telefono, afferro saldamente il volante con la mano sinistra e con la destra tento di afferrare il cellulare posato sul cruscotto dell’auto. Leggo il nome del mittente di sfuggita e rispondo, incastrando l’apparecchio tra collo e orecchio torno a poggiare la mano sul volante.

“Pronto mamma?”

“Peter, tesoro! Se non ti chiamo io tu non ti fai sentire, come stai?”

Alzo gli occhi al cielo perché mia madre è la solita donna apprensiva: sempre pronta a preoccuparsi per qualsiasi cosa.

“Al solito ma’, lo sai che tra il lavoro e l’università sono molto impegnato. Tu come stai?”

Sospira, “Bene grazie. Le tue sorelle ultimamente sono sempre più esuberanti e Linda è più isterica del solito: sai com’è l’ultimo anno di scuola le pesa sulle spalle.”

Posso immaginare il sorriso stanco di mia madre in quel momento. Il solito che le compare quando parla di noi: stremato ma colmo d’affetto per i suoi figli.

“Salutamela, è tanto che non la vedo. No anzi, meglio se me le saluti tutte e tre ‘che poi sono capaci di offendersi!”

Mia madre fa un verso d’assenso che a malapena riesco a sentire dal microfono.

“Ecco Pete, pensavo: una di queste sere tu e Charlie potreste venire qui a cena, che ne dici?”

Alzo gli occhi al cielo e a quanto pare in questo periodo io e Charlie dobbiamo essere diventati personaggi importanti o che so io, perché tutti ci vogliono a cena da loro.

“Hm- sì, facciamo che ne parlo con lui e poi ti richiamo ok?”

Certo che mia madre ha un ottimo tempismo nel fare queste proposte proprio quando Charlie è così tanto arrabbiato con me proprio a causa di una cena.

“Ok. Come sta andando lo studio? Ce la fai a coprire l’affitto con il lavoro e quello che ti diamo o vuoi altri soldi?, Pete lo sai che per te ci siamo sempre.”

“Mamma davvero: va tutto bene, non devi preoccuparti per me. Adesso arrivo a casa e vedo cosa dice Charlie per la cena: appena troviamo un giorno che vada bene te lo faccio sapere.”

“Ok…”

Sospira di nuovo e sento dal fremito della sua voce la voglia di dirmi qualcosa.

“Mamma, cosa c’è? Perché mi hai chiamato?”

“Ma niente Pete,” eppure le sento la voce incrinarsi leggermente, “è che mi manchi.”

Tira su con il naso e non posso trattenere il sorriso pieno d’affetto che mi spunta sulle labbra.

“Ti vengo a trovare presto, ok? Ora però devo riattaccare perché sono in macchina. Salutami le mie pesti, intesi?”

“E tu salutami Charlie per favore, quel caro ragazzo studia troppo secondo me! Ricordati di farmi sapere quando verrete a cena, avvisate anche all’ultimo momento: non importa. Basta che veniate.”

Schiaccio il pulsante rosso sulla tastiera e faccio manovra con la macchina per entrare nel parcheggio davanti a casa.

E non è possibile che ogni volta che mia madre mi parla di Charlie mi viene da volere ancora più bene a quel ragazzo. Eppure sentirne parlare da lei mi fa tornare alla mente tutti i motivi per cui è sempre stato il mio migliore amico, la persona più fidata che ho. Charlie è colui nel quale ho sempre trovato appoggio e riparo sicuro.

Esco dall’auto e citofono al portone perché stamattina devo avere dimenticato le chiavi. Nessuna voce a chiedere “Chi è?”, solo il portone che viene aperto. Salgo di corsa le scale trovo anche la porta di casa già aperta, semplicemente accostata allo stipite.

Entro in casa e vedo i lunghi piedi di Charlie spuntare dal divano della sala. Lo trovo lì sdraiato sul divano che guarda un documentario sugli animali che abitano in Australia. Mi seggo al suo fianco e lui fa finta di non vedermi. Meno male che ero io l’immaturo tra i due. M’inumidisco le labbra e lo guardo seriamente.

“Quanto ti piace ‘sta tipa?” gli chiedo pacatamente.

Aspetta qualche secondo e poi si volta nella mia direzione, abbassa gli occhi e poi incrocia il mio sguardo.

“Tanto che quando le parlo mi sudano le mani e ho paura di sembrare uno stupido e che non mi voglia più vedere. Quando sono con lei voglio diventare perfetto, esserlo per davvero e renderle impossibile non avere la sua attenzione che su di me.”

Sbuffo perché speravo che la situazione fosse meno seria. Lo guardo sconfitto, “Chiedile quando le mette bene ‘sta cena e non pensiamoci più.”

E Charlie mi guarda incredulo, come se io non fossi capace di compiere un gesto per bontà, poi mi abbraccia: “Grazie Pete, con te al mio fianco mi sentirò più sicuro.”

“Sì be’, cercherò di non farti sfigurare con le mie battute.”

Scuote la testa e mi guarda serio, come a volermi ammonire, poi un sorriso gli scappa e ci troviamo entrambi a ridere insieme.

È difficile portare rancore per troppo tempo verso il proprio migliore amico, soprattutto quando tirate fuori l’uno la parte migliore dell’altro. Perché per quanto ne potesse dire Charlie, è vero, Dianne mi rendeva più buono, forse una persona migliore sotto molti punti di vista, ma lui mi rende me stesso in ogni situazione, e sono sicuro che nonostante le mie mille imperfezioni sia questa la vera parte migliore di me. O di chiunque altro.

~

 


 

 
 
 
 
 
 
 



Spero il quarto capitolo vi sia piaciuto!!!
Fatemi sapere cosa ne pensate :)
 
 
  
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