Spazio
autore
Nueblackcrowfriend:
Ma no, quello
“schifo immondo” era solo per
scherzare….e quando ho scritto che Zoro è
analfabeta allora? Se proprio volessi farti quattro risate leggiti
“Arlong
all’asilo”, lì sì che prendo
in giro veramente tutti…
Quanto
a “Carissimi Rogia” non c’è
bisogno che ti scomodi, visto che io stesso sto scrivendo gli ultimi
due
capitoli dedicati a Ace e Smoker ( ho preferito evitare i cattivi dei
film che
non conosco e Barbanera che non essendo intangibile è un
po’ diverso dagli
altri Rogia) e fra pochi giorni li pubblicherò,
dopodichè tornerò con una nuova
storia, la mia prima AU di One Piece.
ShessomaruJunior:
Grazie di tutto,
anche se continuo a pensare che le mie supposizioni siano un
po’ troppo ardite.
Spero solo che un giorno il maestro Oda ci illumini sul passato degli
Schichibukai…
Jinbei-
Il giorno che sei partito
Rotta maggiore,
presso l’isola degli
uomini pesce
Il
mercantile continuava a
veleggiare, le bianche ali gonfiate dal vento, lasciando dietro di
sé una lunga
scia di schiuma, interrotta soltanto dagli occasionali movimenti del
timone.
L’equipaggio
era in apparenza
tranquillo, ma in realtà la tensione era palpabile; non era
mai consigliabile
navigare troppo vicino all’isola degli uomini pesce, per il
rischio di
incontrare questi ultimi, non proprio bendisposti verso gli uomini, o
temibili
pirati diretti verso il Nuovo mondo.
Ma
la nave portava un carico
importante, e al comandante premeva di consegnarlo presto.
La
calma era addirittura
innaturale, come se stesse per essere rotta da qualcosa di terrificante
e
inaspettato: ed era ciò che quasi accadde.
Infatti,
ad un certo punto, i
marinai che si riposavano indolenti sul ponte scorsero i loro colleghi
sui
pennoni e sulle coffe agitarsi improvvisamente in preda al terrore,
come
posseduti.
Uno
di essi abbassò il binocolo e,
balbettando fuori di sé per lo spavento, disse, indicando
con il dito la
macchia nera all’orizzonte che veniva verso di loro a gran
rapidità: “La nave
di Jinbei…Che il cielo ci aiuti o moriremo
tutti…”.
A
sentire quel nome, i marinai
imprecarono o cominciarono a tremare, poiché era assai
temuto il nome del capo
dei pirati uomini pesce, e non si potevano certo aspettare
pietà.
Il
comandante optò per la fuga e
fece spiegare tutte le vele, ma per precauzione ordinò che
si distribuissero i
moschetti alla ciurma.
Passarono
i minuti e il vascello
nemico gli raggiunse; i malcapitati potevano sentire il rumore del
vento che
faceva sbattere le vele e delle onde che si infrangevano sulle fiancate.
La
nave pirata era grossa circa
tre volte la loro, e in proporzione ben più armata; le vele
e gli alberi,
estesi e in ottimo stato, potevano sospingerla sui flutti a
velocità
difficilmente eguagliabili.
La
prua, dolcemente arrotondata,
era decorata con un sottile strato d’oro sovrapposto al legno
su cui spiccavano
le pesanti ancore e la polena a forma di squalo, mentre la poppa,
impreziosita
nella stessa maniera, ospitava la pala del timone, una cabina dalle
grandi
vetrate e tre lanterne per la navigazione notturna.
Sulla
velatura, sulle bandiere e
su ogni parte dello scafo pitturato di giallo e blu si distinguevano
rosse
figure rappresentanti pescecani e rotondi soli circondati da una corona
di
raggi.
Curiosamente,
non vi era traccia
né uditiva né visiva degli occupanti, forse
nascosti per tendere un imboscata;
ma gli sbalorditi marinai dovettero certo tirare un insperato sospiro
di
sollievo vedendo che i bucanieri cambiavano rotta, come disdegnandoli.
La
verità era che il vascello era
di ritorno da una lunga crociera attraverso gli oceani fatta di
arrembaggi,
massacri e saccheggi, e quindi, pieno di bottino, non poteva certo
permettersi
di inseguire altre prede ormai inutili.
Sul
ponte vi erano poi pochi
uomini pesce, che si occupavano di governare il timone e la velatura,
mentre
gli altri erano ai livelli inferiori a fare baldoria per celebrare i
ricchi
successi.
I
pirati erano seduti attorno ai
tavoli, ovviamente di misure proporzionate alle loro, e festeggiavano
cantando,
mangiando i cibi più prelibati che si potessero trovare
nella stiva e bevendo
fiumi di rum e gettando a terra bottiglie e bicchieri in preda
all’euforia.
Alcuni,
stretti in un
angolo, contavano in silenzio i propri
piccoli patrimoni, derivanti dalla somma di varie quote di bottino, e
facevano
affari; altri, al centro della mensa, si improvvisavano ballerini e
piroettavano al suono di flauti, violini e tamburelli.
A
un tavolo più lussuoso degli
altri sedeva capitan Jinbei, enorme, valido combattente, avvolto in un
kimono
colorato e, come spesso accadeva, di buon umore.
Era
orgoglioso della propria
ciurma, composta da giovani esuberanti e ardimentosi, membri di tutte
le razze:
infatti, come gli uomini si dividevano in vari popoli a seconda
dell’aspetto,
della cultura, della lingua, gli uomini pesce si distinguevano in vari
tipi a
seconda dell’animale marino cui somigliavano: polpi,
anguille, squali, pesci
spada, pesci rossi, triglie e altri ancora.
Jinbei
era uno squalo balena, il
più poderoso pesce che abitasse gli oceani, il re delle
bestie.
Quel
che gli dispiaceva era che i
veterani, gli ex membri dei pirati del sole, coloro che erano stati
sottratti a
un destino di misera schiavitù dal leggendario Fisher tiger,
fossero sempre
meno: in effetti dopo la morte di quel glorioso comandante la ciurma si
era
divisa in tante altre, come quella di Jinbei, mentre altri compagni si
erano
messi a viaggiare per il mondo, come il celebre Tom, carpentiere a
Water 7,
divenuto famoso e giustiziato per aver costruito il veliero di Gold
Roger.
Ma
fortunatamente c’erano le nuove
generazioni con il loro entusiasmo a riempire i vuoti.
“Capitano,
perché non ci
raccontate una delle vostre avventure?”domandò uno
dei commensali.
“Certamente
Francisco. Dovete
sapere che era una notte buia e tempestosa…”.
***
Il
giorno stesso la nave gettò
l’ancora davanti all’isola degli uomini pesce.
Il
comandante scese dalla
passerella, osannato da una folla in delirio che aveva preso
letteralmente d’assalto
il molo e lo invocava come il loro re e salvatore, che li proteggeva
dalle
minacce esterne.
“Grazie,
grazie gente” diceva
alzando le mani per salutare la popolazione esultante. “Ma
ricordate che c’è un
altro angelo che veglia su di noi”.
Alludeva
al pirata Barbabianca,
uno dei pochi umani di cui si fidasse, che da quando si era imposto
come il
filibustiere dominante nella regione impediva che avventurieri senza
scrupoli
sbarcassero sull’isola per farne schiavi gli abitanti, come
purtroppo accadeva
spesso in passato.
Mentre
i più giovani membri
dell’equipaggio ostentavano orgogliosi ai connazionali gli
ingenti bottini o si
pavoneggiavano davanti a capannelli di sirene adoranti, Jinbei si
recò su una
spiaggia solitaria per riposarsi dalle fatiche del viaggio.
Stava
per tuffarsi in acqua, dove
si sarebbe trovate perfettamente a proprio agio, quando vide
un’altra
figura passeggiare sulla
battigia e la riconobbe.
Era
Arlong, uno dei suoi migliori
capitani, evidentemente anche lui in cerca di quiete.
Era
un pesce sega molto alto e
sconciato, estremamente muscoloso, di colore, blu; aveva lunghi capelli
neri,
mani palmate, labbra carnose da cui spuntavano denti acuminati e
indossava
sandali, un lungo cappotto blu, pantaloni corta, una cintura di seta
verde, una
sciarpa e un cappello.
Nei
calzoni teneva una grossa
pistola, mentre con una mano imbracciava un’enorme spada
dalla lama a forma di
sega con tutta noncuranza.
I
due si videro e si salutarono
calorosamente, dati i buoni rapporti che scorrevano fra loro:
“Allora signore,
come è andata la scorreria? Purtroppo non ho potuto
partecipare per via dei
preparativi”.
Jinbei
assentì, toccato in un
punto particolarmente dolente.
Entrambi
i pirati avevano tatuato
sul petto un sole rosso, che indicava la loro passata condizione di
schiavi, ma
il tatuaggio di Arlong raffigurante un pesce sega, ora nascosto dalle
maniche
del cappotto mostrava la sua inequivocabile decisione di fondare una
ciurma
tutta propria.
I
“preparativi” a cui accennava
erano quelli della nave che lo avrebbe portato lontano, sin nel Mare
orientale,
dove avrebbe iniziato la conquista di quelle terre che, seguite da
tutte le
altre isole del mondo, avrebbero dato vita all’impero degli
uomini pesce, dove
questi ultimi avrebbero potuto vivere finalmente liberi e non
discriminati.
A
Jinbei dispiaceva che un amico
tanto fidato dovesse separarsi da lui, forse per sempre, ma non doveva
biasimare altri che sé stesso: egli infatti aveva dato
l’ordine ad Arlong.
“Guardate
comandante, non è un
gioiello?” chiese il pesce sega indicando un grosso veliero
pitturato di rosso
che giaceva placido in una baia riparata.
“Arlong…Un’ultima
raccomandazione.
Sii fedele e non dimenticarti mai della tua missione. Addio amico
mio” disse lo
squalo balena in tono solenne, al che l’altro fece per
rispondere ma non poté,
scorgendo il proprio ufficiale Kuroobi che lo cercava incespicando su
una duna.
Pochi
minuti dopo il vascello
sciolse le vele e si avviò verso il mare aperto, mentre una
bandiera nera
decorata da un pesce sega rosso e due ossa incrociate sventolava
sull’albero
maestro.
D’un
tratto Jinbei, ancora
addolorato per la partenza del proprio braccio destro, fu colto dai
dubbi: e se
la missione di Arlong fosse stata sbagliata? Non era ingiusto sottrarre
agli
uomini le loro case?
Ma
cosa importava ormai: erano
pirati!