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Autore: ___Page    17/03/2018    2 recensioni
"Abbassò gli occhi sui foglietti che lo guardavano di rimando, minacciosi e giudicanti.
Si era infilato in un bel casino, non aveva la più pallida idea di come Perona avesse deciso di disporre i posti su quel tavolo. Inspirò profondamente per farsi coraggio.
«Ma sì, Ace. Così andrà sicuramente bene.»"
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*Fan Fiction partecipante al Crakc&Sfigaship's Day indetto dal Forum Fairy Piece*
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Liberamente ispirato al film "Se sposti un posto a tavola"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Lamy, Trafalgar Law
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Okay. Riproviamo un’altra volta»
«Come?!» si accigliò Pen, avanzando di un altro passo.
«No niente, io…» Ace si bloccò un attimo prima di confessare che non ce l’aveva con lui ma con i segnaposto. Per quanto amici e per quanto strano a sua volta, persino Pen avrebbe dato per spacciata la sua sanità mentale se avesse ammesso che conversava con dei pezzi di carta. Il che era davvero ironico, considerato cos’erano in grado di fare quei maledetti segnaposto. Ace cominciava ad averne il terrore e non aveva idea di quante altre occasioni gli sarebbero state ancora concesse. Magari erano nove come le vite dei gatti, magari ne aveva a disposizione infinite finché non riusciva a far quadrare tutto, magari – e sapeva che anche se qualcuno gli avesse assicurato che ne avrebbe avute davvero infinite avrebbe continuato a temere quell’evenienza – quella era l’ultima e non poteva più sbagliare.
Gli avvenimenti che avevano portato alla disfatta dei suoi compagni di tavolo erano tutti fuori dal suo controllo, ma tutti erano stati innescati dal posto a tavola che ciascuno di loro si era trovato a occupare.
Ergo, in quel momento Ace non aveva in mano dei semplici segnaposto ma la felicità futura dei propri amici e che si realizzasse o meno dipendeva da lui.
Ma come fare per azzeccare la giusta disposizione? Pur cambiandola una terza volta, erano infiniti gli sviluppi che ne sarebbero potuti conseguire, troppi per poterli anche solo concepire tutti, figuriamoci vagliarli e valutarli e nel giro di una manciata di minuti per giunta.
Se solo avesse potuto parlarne con qualcuno.
Un lampo attraversò i suoi occhi scuri quando il pensiero lo colpì. Sbatté le palpebre un paio di volte, avanzando poi verso Pen, spinto da un moto di speranza. «… io… io ho bisogno del tuo aiuto!» esclamò, più sollevato. «Mi serve un parere» precisò immediatamente.
Non aveva intenzione di scaricargli la responsabilità nemmeno in parte ma era certo che confrontarsi con qualcuno gli avrebbe schiarito le idee. 
«Dimmi tutto» lo incitò subito Pen, più rilassato ora che Ace si stava comportando di nuovo in maniera normale, per i suoi standard ovviamente.
«Ho fatto cadere questi dal nostro tavolo» confessò con un falso sorriso colpevole e tese i segnaposto a Pen che li fissò alcuni istanti prima di rivolgergli uno sguardo tra il compassionevole e lo spaventato.
«Perona ti ucciderà» constatò sottovoce.
«Non se li rimetto a posto. Solo che non so come erano disposti e devo fare una cosa sensata. Per esempio…» si portò al suo fianco perché potesse leggere i nomi insieme a lui. «Killer e Bonney. So che non stanno passando un gran periodo e forse sarebbe meglio non metterli vicini o mettere almeno una persona in mezzo a loro ma non saprei chi. Avrei detto Lamy ma non ne sono più così sicuro, ora»
E non era affatto necessario stare a spiegare perché non ne era più sicuro. Per sua sorpresa e sollievo, Pen si mise a riflettere con impegno sulla faccenda.
«Sono d’accordo anche io, non isolerei Lamy in mezzo a loro due. Che ne dici di Koala? Sa come gestire Bonney e così la teniamo separata da Law. Prendi due piccioni con una fava»
Ace lo guardò ammirato e ringraziò per un attimo soltanto l’entità che su tutti loro vegliava, chiunque essa fosse, per avergli fatto il dono di un amico tanto prezioso. «Sì, sì giusto! Certo sperando che Bonney non faccia battute di cattivo gusto su Koala e la sua “oasi” o Law potrebbe non prenderla proprio benissimo…»
«Hai ragione» convenne Pen con un sospiro.
«Anche se certo, Law è una persona ragionevole, non farebbe una scenata, e se lo mettiamo vicino a sua sorella… Oh ecco! Ci sono! Lamy tra Sugar e Law, così li tiene d’occhio tutti e due e…»
«Sai cosa? Questa storia di Killer e Bonney, sei proprio sicuro che sia necessario dividerli? Potrebbero anche prenderla male»
«Beh ammetto che non sono so cos’avesse pensato Perona…» tentennò Ace.
A ben pensarci in effetti il problema con Killer e Bonney non era mai stata la vicinanza. Forse doveva concentrarsi di più su Law e Koala e limitarsi a tenere gli altri due fuori dalla portata del cameriere che avrebbe rovesciato la panna. E Pen lontano da Sugar, ovviamente.
«Sarebbe tutto molto più semplice se potessimo far decidere a loro» considerò Pen con un’alzata di spalle.
Ace sollevò il capo e fissò il vuoto per un attimo, colpito per la seconda volta da un’illuminazione. «Giusto! Questa… questa è decisamente una grande idea, Pen. È questa la soluzione» gli puntò contro il dito, euforico. «Facciamo scegliere loro» decise.
«Cos… A-Ace? Che stai f-facendo?» domandò Pen quando Ace raggruppò tutti i segnaposto per infilarli nella tasca interna della giacca. «Perona ci ammazza se…»
«Tranquillo. Anche se dovesse accorgersene non dirà niente, fidati di me» Ace gli passò un braccio intorno alle spalle e si diresse con lui verso l’uscita della sala ricevimenti. «Piuttosto tu come stai, amico? Casa, dolce casa eh?»
«Ahhhh, sì infatti…» mugugnò Pen, passandosi una mano trai capelli scarmigliati. «A tal proposito io-io… ci tenevo ancora a ringraziarti per l’ospitalità e tutto il resto sai… Non sapevo proprio dove altro andare e…»   
«Ehi ma non scherzare!» lo interruppe di nuovo Ace, con una mezza risata. «Non dirlo nemmeno. È ancora casa tua» insistette, come aveva fatto entrambe le due precedenti volte.
«Sì lo so è che… sembra sempre un fallimento, ogni volta che me ne vado e poi torno» ammise Pen e Ace sgranò gli occhi, preso in contropiede.
Era diverso dalle due volte precedenti ma non ci mise che più di qualche secondo, Ace, a capire che Pen  si sarebbe volentieri sfogato anche le due precedenti volte se solo lui non fosse stato così preso con quegli stupidi segnaposto.
Ancora un po’ stordito dalla rivelazione, si riscosse e strinse impercettibilmente la presa sulla sua spalla. «Io non la vedrei così. Sei un combattente, tu almeno hai le palle di provarci davvero. Certo magari dovresti sforzarti di essere un po’ più selettivo…» concesse, facendo ciondolare la testa a destra e a sinistra. «E comunque sai come si dice, no? Non è quella giusta finché non la incontri, quella giusta»
Pen gli lanciò un’occhiata di striscio mentre apriva in simultanea con lui la porta di vetro a doppia anta, e sbuffò un suono a metà tra un grugnito e una risata. «Sempre che quella giusta non sia già stata trovata e persa…» precisò con una malinconia che subito contagiò anche Ace.
«Beh…» il giovane cuoco lanciò un’occhiata alle proprie scarpe tirate a lucido senza perdere il sorriso. «Tu sei sempre stato il meno coglione dei due. Saprai tenertela stretta»
Pen aprì e richiuse la bocca un paio di volte, scosse il capo e sorrise di nuovo, anche se non proprio totalmente convinto. «Grazie amico» annuì deciso. «Ora andiamo. Non ci conviene arrivare dopo la sposa, soprattutto questa sposa»
«No, hai ragione» ridacchiò anche Ace. «Andiamo»
 

 
§

 
Ace aveva tante belle qualità, sebbene non fossero in molti a dirglielo, e una di queste era indubbiamente la pazienza. Forgiata negli anni, come fratello maggiore di Rufy, caro amico di Izou e, ultimo ma decisamente non meno importante, fidanzato di Perona.
Senza una così raffinata pazienza, Ace non era affatto certo che sarebbe sopravvissuto al terzo ingresso trionfale degli sposi, con annessa rotazione di tovaglioli nell’aria. Questa volta, però, non finse nemmeno di metterci la verve delle due volte precedenti – anche quelle, comunque, un atto di pura recitazione –, non urlò auguri che non sentiva sinceri e che si sarebbero dissolti nel caos generale, non fece nulla per incrociare lo sguardo di Perona ma nemmeno per evitarlo.
E siccome Ace ci credeva, decise di etichettare come coincidenza il fatto che, comunque, alla fine, Perona aveva posato gli occhi proprio su di lui, in quel mare di facce. Le aveva sorriso incoraggiante, al che la sposa si era concessa un momento di stupore prima di farsi, se possibile, ancora più raggiante, e Ace non era andato in fissa quando lei si era voltata per raggiungere il tavolo riservato a lei e a Robb ma si era affrettato a raggiungere il proprio, più teso di quanto non desse a vedere.
Strinse con entrambe le mani lo schienale di quella che sarebbe stata verosimilmente la propria sedia, mentre il resto dei commensali raggiungeva il tavolo alla spicciolata, primo fra tutti Pen che scambiò un paio di furtive e nervose occhiate con Ace, tenendosi a una distanza dal tavolo tale da non dare l’impressione di aver scelto ancora il posto ma abbastanza da poter discutere con gli altri, che intanto erano arrivati e osservavano perplessi la bianca tovaglia, priva di qualsivoglia segnalazione.     
«Mancano i segnaposti» constatò atona Sugar.
Ace osservò con un interesse degno di un antropologo come la mancanza di una decisione dall’alto, riguardo la posizione del tavolo che ciascuno di loro avrebbe dovuto occupare, avesse gettato nel più totale disagio un gruppo di persone che si conosceva da una vita intera, pur essendo, Ace ci tenne a precisarlo mentalmente, il “tavolo degli scarti”.
Nessuno si mosse per una manciata di secondi, Bonney si ficcò due pizzette in bocca, Killer si strinse nelle spalle e tornò a smanettare sul cellulare e Lamy commentò: «Strano…» guardandosi intorno perplessa.
«Beh scegliete voi!» propose Ace con entusiasmo, dopo un’ultima occhiata con Pen.   
Bonney corrugò le sopracciglia. «Che vuoi dire?!» domandò, la bocca ancora colma di pasta sfoglia e pomodoro.
«Ah ehm… che… che potete sedervi dove più vi piace. L-liberamente» li incitò un po’ meno convinto ma sempre rigorosamente con il sorriso, che cominciò a scemare quando vide che nessuno ancora si muoveva. «È un problema?» domandò, scuotendo appena il capo.
Di sicuro gli sfuggiva qualcosa anche se non capiva cosa. Provò a cercare aiuto da Pen che però non lo stava nemmeno guardando, impegnato a fissare il vuoto con il fiato sospeso.
«Certo che no!» esclamò alla fine quella voce che, nemmeno Ace sapeva come e per quale immeritato motivo, non mancava mai di giungere al momento più giusto in suo aiuto. «Mi sembra la soluzione perfetta» proseguì Koala, con un sorriso splendente, che non riuscì a nascondere agli occhi di Ace il piccolo respiro di coraggio che la sua migliore amica prese prima di aggiungere. «Tu non trovi, Law?»
Il tempo parve fermarsi e Ace era certo che fosse solo per quello, e non perché fisicamente impossibile, che la sua mascella non era caduta al suolo. Law sollevò il capo e puntò i propri occhi in quelli di Koala.
«Assolutamente» mormorò alla fine per poi avvicinarsi deciso al tavolo, scostare una sedia e girarsi verso sua moglie in un muto invito ad accomodarsi e infine sedersi accanto a lei.
Fu in quel momento, quando tutti finalmente si liberarono da qualunque cosa li avesse tenuti bloccati che Ace realizzò che nessuno aveva osato fare la prima mossa per non rischiare di mettere in imbarazzo Law e Koala. E come sempre, Koala aveva preso in mano la situazione e lo aveva tirato fuori dai casini a proprio discapito.
Ace le lanciò un’occhiata colpevole ma non appena la vide si sentì subito più leggero, perché non c’era traccia di tensione nella sua figura e perché per la prima volta in sei mesi Koala sorrideva davvero, mentre Law si svaccava sulla sedia e si girava ad ascoltare la sua domanda.
«Come va al lavoro?»
Ace si sbrigò a sedersi a sua volta e notò con la coda dell’occhio Killer che si lasciava cadere pesantemente sulla sedia di fianco a Koala e di fronte a lui.
«Oh beh sai…» cominciò Law, proprio nel momento in cui Sugar prendeva posto accanto a lui, isolandoli dal resto del tavolo.
Ace si girò verso Bonney, che lo fulminò per paura che volesse rubarle una pizzetta, e registrò solo inconsciamente Pen che si offriva di versare un po’ di vino nel calice di Lamy. Ci avrebbe scommesso la sua mano destra che Law stava per risponderle “Il solito”. Cosa gli avesse fatto cambiare idea Ace non riusciva a  immaginarlo e nemmeno gli importava.
«…Ieri c’è stato un disguido con delle analisi di un paziente e…»
Una mano sottile si posò sulla sua spalla e un profumo fin troppo famigliare lo avvolse.
«Ehi ragazzi, come sta andando?»
Ace lanciò un’occhiata verso l’alto, proprio mentre Perona gliene lanciava una verso il basso, con un sorriso e un’espressione talmente radiose che il cuore di Ace quasi si fermò. Perché era bellissima e perché la felicità di Perona era, in una qualche misura, quella di Ace ma anche perché faceva un gran male.
Faceva male la totale assenza di rimprovero negli occhi di Perona, come se il loro amplesso di quella mattina non avesse mai avuto luogo. Faceva male rendersi conto che era Robb, non lui, a renderla tanto felice. Ma se Robb la rendeva così felice, non era giusto farsi da parte? La sua occasione, dopotutto, l’aveva avuta.
«Contenti dei… posti?» si accigliò, tornando subito a cercare con gli occhi Ace che, dal canto suo, fece spallucce.
«Sì, sì!» 
«Eccome!» 
Un coro di voci si alzò all’unisono, per rispondere entusiasta alla domanda della sposa, prendendola in contropiede.
«Alla grande!»
«Oh» Perona non riuscì a nascondere il momentaneo stupore prima di tornare a sorridere più convinta. «Bene, allora godetevi la festa!» augurò e premette un po’ più forte sulla spalla di Ace «Ci vediamo più tardi» aggiunse, guardando soprattutto lui che annuì con un tranquillo cenno del capo.
«A dopo» la salutò come avrebbe fatto qualsiasi altro vecchio amico e poi si concentrò immediatamente sulla conversazione al tavolo, prima che la voce nella sua testa cominciasse a cantilenare la solita solfa riguardo al fatto che loro due, però, non erano semplicemente vecchi amici.
Se non che non c’era nessuna conversazione ben avviata al tavolo, come sarebbe dovuto essere. Law parlava con Koala, Pen con Lamy, Killer non staccava gli occhi dal cellulare, Bonney continuava a ingozzarsi e Sugar li osservava tutti.
Ace si accigliò. Cosa stava succedendo? Era ora che cominciassero a parlare di nudi se non ricordava male. Ed era certo di non ricordare male. Lanciò un’occhiata carica di aspettativa a Pen ma il ragazzo non sembrava minimamente interessato a coinvolgere nessuno né tantomeno provare a ottenere informazioni utili per il decollo della propria carriera.
Ace tamburellò con le dita sul tavolo, a disagio. Si sentiva un idiota e si girò verso sinistra con l’intento di avviare una conversazione a sua volta ma desistette non appena si rese conto che alla sua sinistra c’era Sugar. Sapeva come sarebbe andata a finire, non valeva la pena sprecare energie, così optò per la destra.
«Allora Bonney…» esordì e subito la rosa gli rivolse un’espressione scocciata. «Uhm… beh… come…» tentennò alla ricerca di un argomento. «Come va al lavoro? Cosa va di più in questo momento nel mondo dell’arte?» domandò alla fine.
Che cavolo, Ace! Per una volta tanto che le cose stavano prendendo una piega diversa!
Bonney avvolse una mano curata intorno al proprio calice prima di pronunciare la parola magica, che avrebbe attirato l’attenzione di tutti. «Nudi, Ace. Non ho mai visto i nudi spopolare così come negli ultimi due anni. Chi espone fotografia ormai non espone altro.»
Cinque paia di orecchie si rizzarono all’istante, uno più delle altre.
«Nudi eh?» domandò Pen, con un misto di interesse e rassegnazione.
«La cosa ti mette a disagio?» s’informò Sugar, senza il minimo tatto.
Pen, gli occhi puntati sul piatto ancora vuoto, sbuffò una risata amara. «A disagio. No, direi di no. Mi piace il nudo artistico, è uno dei miei preferiti ma sapete… io sono giovane, poco conosciuto e ho, beh… la fama che ho» ammise un po’ in imbarazzo, incassando con classe le risatine che si levarono. «Sì, sì okay. Lo so. Il punto è che non è un problema da poco. le ragazze non ci credono o non si fidano ed è difficile trovare qualcuna che posi senza veli senza chiederti una cifra assurda.»
Bonney ammiccò maliziosa verso di lui. «Sono certa che potresti usare altre valide argomentazioni oltre al denaro»
«Oh ti prego, non dargli certe idee che già casa è un porto di mare così!» protestò Ace.
«Ehi!» reagì immediatamente Pen, indignato.
«Sapete, io ho sempre voluto provare a posare nuda»
Tutti si girarono  guardarla, non tanto per ciò che aveva detto quanto per il candore con cui l’aveva detto.
«E lo farei gratis» aggiunse Lamy, ignara degli sguardi puntati su di sé, almeno per i primi tre secondi. «Beh?!» domandò, sgranando gli occhi, quando se ne accorse.
Law piegò il busto in avanti e intrecciò le dita sul tavolo. «Ma ti sembra il caso?» le domandò in quello che sembrava un assurdo tentativo di avere una conversazione privata con sua sorella nel bel mezzo del ricevimento di un matrimonio.
Incredula, Lamy sbuffò una risata. «Sono adulta, sai?»
«E quindi annunci ai quattro venti che poseresti nuda»
«Non vedo cosa ci sia di male. Anche io lo farei» intervenne Koala, con un’alzata di spalle e una falsa innocenza a cui Ace non credette nemmeno per un istante, ma che quantomeno riuscì ad attirare di nuovo la totale e completa attenzione di Law. «Che hai detto?»
Koala gli sorrise e prese ad argomentare come se niente fosse, con un’ultima rapida occhiata verso Lamy, che mormorò un “grazie” a fior di labbra prima di accorgersi che Pen la stava ancora fissando come se improvvisamente al suo posto fosse apparso un essere mitologico. 
«Ehm… P-Pen?» lo chiamò cauta Lamy, senza ottenere nessuna reazione. Cercò con gli occhi l’aiuto di Ace e Sugar ma erano tutti e due troppo lontani per intervenire e non era il caso di lasciare che Bonney prendesse l’iniziativa. Delicata come una piuma, Lamy posò un palmo sulla guancia di Pen che sobbalzò come se lo avesse appena schiaffeggiato.
«Eh?! Come?! Hai… hai detto qualcosa?»
Il volto di Lamy si contrasse in una strana smorfia per poi rilassarsi e illuminarsi di una cristallina risata. «No, niente di importante. Ma sei sicuro di stare bene?» gli chiese subito dopo e Pen sorrise con uno sguardo e un’espressione conosciuti anche con il nome di… di… con nessun nome perché, Ace se ne rese conto in quel preciso istante, non aveva mai visto il suo amico con quello sguardo e quell’espressione.
«Mai stato meglio» annunciò Pen, piegandosi verso di lei in una rivisitazione nervosa della sua Mossa del Giaguaro.
Ace scosse impercettibilmente il capo, perplesso.    
Le cose stavano prendendo una piega ben strana.
 

 
§

 
Nonno Garp lo aveva cresciuto secondo sani principi e valori solidi come il ferro. Primo fra tutti, l’importanza di prendersi le proprie responsabilità e non essere omertosi.
In un universo alternativo in cui Nonno Garp avrebbe potuto credere alla sua pittoresca storia dei segnaposto e del riavvolgimento temporale o qualunque cosa fosse, l’ex colonnello avrebbe maciullato il cranio a Ace per aver scelto di nascondere i cartigli e aver affidato tutto al caso.
Ora Ace, osservando i suoi amici sistemare da soli i casini delle loro incasinate esistenze, si chiese perché mai suo nonno si fosse dato tanta pena per inculcargli un così inutile principio, dal momento che era evidente anche al più imbecille degli imbecilli che non immischiarsi nelle faccende altrui fosse la giusta soluzione.
Era vero, Killer e Bonney continuavano a ignorarsi ma non avevano litigato nemmeno una volta e Ace aveva colto l’amico a lanciare un paio di rapide occhiate a Bonney, all’insaputa della ragazza, come a volersi accertare che fosse ancora lì e stesse bene. Law e Koala, dal canto loro, gli facevano quasi venire voglia di picchiarli selvaggiamente. Se pensava ai sei mesi di inferno appena trascorsi, vederli non solo parlare civilmente ma addirittura scherzare e spalleggiarsi lo infiammava di istinti omicidi di cui non si sarebbe mai creduto capace, non tanto nei confronti di Koala quanto verso Law. A sapere che il cretino aveva solo bisogno di una situazione in cui mettere da parte il proprio patologico orgoglio fosse il male minore, avrebbe finto un attacco cardiaco molto prima.
Era sicuro che Koala avrebbe negato l’evidenza pur di non farsi illusioni ma il semplice fatto che, quando Lamy aveva chiesto cosa fosse un taglio di maiale con fiori di zucca e mantecatura filante, avessero risposto all’unisono “Un tentativo di farti pagare tanto un flan di verdure e prosciutto”, a suo avviso la diceva molto lunga.
Ora, a pochi minuti dall’arrivo del primo giro di dolce prima del buffet, nonostante Koala non fosse al tavolo, Law appariva rilassato come Ace raramente ricordava di averlo visto.
«Ehi ragazzi! Dovete vedere questo video!» esclamò Killer, riemergendo senza preavviso dal mondo a cristalli liquidi in cui era immerso da ore. Con uno scatto agile, girò intorno al tavolo per sedersi al posto di Sugar, momentaneamente libero, giusto in mezzo a loro due. Ace e Law si piegarono verso di lui con il busto. «A Pen non vuoi farlo vedere?» s’informò Law.
«Sì beh, quando torna» si giustificò Killer, sfiorando poi lo schermo per avviare il video che partì e si bloccò per due volte consecutive nel giro di mezzo secondo. «Che strano. Eppure qui di campo ce n’è» si accigliò Killer, osservando la rotella del caricamento girare senza sosta.
Sollevò appena le braccia in un gesto quasi meccanico, alla ricerca di connessione, quando un urlo lontano ma non troppo che raggelò Ace.
«Cibooooooo!!!»
Com’era possibile che si continuasse a dimenticare?
Ma, d’altra parte, Ace sapeva che c’era poco da fare ormai, perché conosceva benissimo l’effetto Doppler, essendo l’unico argomento di fisica in cui avesse mai preso un voto che non fosse una sufficienza stringata. E ciò che più lo affascinava di quel fenomeno, era come suo fratello minore riuscisse a esserne un lampante esempio. Senza contare che ora aveva ben chiaro quanto Rufy fosse spaventosamente veloce e così Ace si riappoggiò allo schienale, braccia conserte, consapevole che, tanto, non c’era più niente da fare.
Con rassegnata calma, Ace osservò Rufy far volare il cellulare di Killer a terra, pestarlo con un piede e dare una spallata a un cameriere che rovesciò inavvertitamente della panna addosso a Law.
Il tempo parve congelarsi per un momento, solo Rufy continuò a muoversi, correndo verso il tavolo dei dolci, le braccia ondeggianti ai lati del corpo. Poi Law abbassò lo sguardo sulla macchia soffice e bianca che attraversava il bavero della giacca e minacciava di colare sulla cravatta, Ace sollevò un sopracciglio in attesa e Killer si inginocchiò di fronte ai resti del suo cellulare, distrutto. Killer, oltre che il cellulare.
Bonney gli lanciò un’insensibile occhiata e riprese a parlare con Lamy, mentre Killer cercava di rimettere insieme le spoglie del telefonino, e Law si alzò per raggiungere la toilette e ripulirsi, proprio mentre Pen tornava al tavolo con un piatto di dessert, per sé e per Lamy.
«Che è successo?» domandò, preoccupato.
«Oh nulla…» cominciò Ace, minimizzando, ma Law era già abbastanza distante da non riuscire a distinguere il resto della frase. Prese a disfare il nodo della cravatta e spinse la porta del bagno con l’altra mano, dirigendosi a passo sicuro verso il lavandino di mezzo.
Tolse la cravatta e la appoggiò sul ripiano in marmo scuro, venato di bianco e così lucido da potercisi specchiare, e poi lasciò scivolare giù la giacca dalle spalle. Non sentì la porta di uno dei cubicoli alle sue spalle aprire e richiudersi, sovrastata dallo scroscio dell’acqua.
«Ehi, che hai fatto?» domandò Koala e Law girò il viso di un quarto per individuarla, ai margini del proprio campo visivo, salvo poi non riuscire a tornare a concentrarsi su ciò che doveva fare. Invece lasciò vagare gli occhi su e giù, lungo le sue gambe, il vestito verde-acqua che le segnava il punto vita e metteva in risalto il suo fisico a clessidra, i suoi giganteschi occhi blu-viola, il volto illuminato da un sorriso e incorniciato da ciocche caramello.
Lo stomaco fece una capriola e per un attimo il cervello gli andò in blackout. Da quanto non la guardava, guardava davvero?  
«Un cameriere… Rufy…» cominciò, recuperando un po’ a rilento la facoltà del linguaggio. Chiuse gli occhi e mise in ordine le parole. «Rufy è andato addosso al cameriere che portava la panna» riuscì a spiegarsi alla fine.
«Le cose divertenti sempre quando io non ci sono» scherzò Koala, avvicinandosi a lui. «Ma se la pulisci così rischi di allargare la macchia. Aspetta…» si allungò per prendere la giacca dalle sue mani e il suo sbraccio strusciò inavvertitamente contro il suo fianco, solo il cotone della camicia bianca e sottile a dividerli.
«Se vuoi vedere una cosa divertente fai ancora in tempo» commentò al volo Law. Doveva pur trovare il modo di restare in sé e mantenere il controllo. «Rufy ha anche distrutto il cellulare di Killer e lui… sta...» le parole gli morirono in gola quando, con un’innocenza – falsa o vera non era dato saperlo – che rendeva il tutto ancora più difficile da gestire, Koala rimosse dal bavero il grosso della panna con le dita e la leccò via.
«Serve una mano?»
Entrambi si voltarono verso sinistra, dove una prosperosa ragazza mora con un abito porpora li osservava con una mano sul bordo del lavabo e una posa volutamente provocante, rivolta non si sapeva esattamente a chi.
Entrambi la studiarono qualche istante, Law con indifferenza, Koala con determinazione.
«È tutto a posto, grazie» rispose secco Law ma la ragazza non sembrava molto propensa a cedere, non così facilmente almeno. Con un movimento fluido, si portò più vicina a Law e, con un mezzo miagolio, allungò una mano verso la camicia un po’ aperta sul torace. «Posso controllare la camicia mentre lei si occ…»
La ragazza sgranò gli occhi e si zittì sorpresa quando si ritrovò stretta tra le dita la giacca blu scuro che fino a un attimo prima era nelle mani di Koala. «Puoi lavare la macchia da questa, se ci tieni ad aiutare. A lui penso io» mise in chiaro con un sorriso che avrebbe potuto incendiare l’Artico. 
La ragazza provò a resistere ancora qualche istante, provò a sostenere lo sguardo di sfida di Koala che prometteva morte e distruzione, ma poi, conscia di essersi messa sufficientemente in imbarazzo, si schiarì la gola, scostò una ciocca di capelli dal proprio viso, posò la giacca e lasciò la toilette, percependo gli sguardi di Law e Koala che la seguivano come delle coltellate nella schiena.
La porta si chiuse con un lieve flomp e Koala si voltò nuovamente, con l’intenzione di riprendere da dove si era interrotta se non che Law la stava fissando con un ghigno che era tutto un programma, divertito e ammirato al tempo stesso, un ghigno che non vedeva da quasi un anno ormai e che per un momento mandò tutto il suo essere, dal cuore alla testa, in cortocircuito. Incapace di coordinarsi a dovere, afferrò la manopola del rubinetto ma non riuscì ad aprire l’acqua, troppo impegnata a rispondere a suddetto ghigno.
«Che c’è?» domandò, scuotendo appena il capo.
«L’hai terrorizzata»
Koala corrugò le sopracciglia. «Ma di che stai parlando? Io non ho fatto niente»
«A me è sembrata spaventata»
«Allora non abbiamo visto la stessa cosa»
«Sicura? Perché in effetti quando fai la possessiva, sei un po’ spaventosa» insistette, insolitamente in vena di scherzare. Di sicuro era anche a causa dell’alcool. E della vicinanza con lei. E di quella strana sensazione che si espandeva e gorgogliava vivace e calda al centro del suo petto.
Koala lo guardò senza parlare per una manciata di secondi, con un sorriso sul volto e gli occhi pieni di entusiasmo e di un… qualcosa… e il fiato sospeso, prima di sollevare il mento con sfida, portando involontariamente le proprie labbra più vicine alle sue. «Io non stavo facendo la possessiva» annunciò fiera ma anche, in un certo qual modo, maliziosa per poi staccare a fatica gli occhi da lui e cercare di nuovo, e di nuovo invano, di aprire l’acqua.
Percepiva fisicamente lo sguardo di Law addosso, ed era già troppo considerato che le bastava essere anche solo in sua presenza per sentirsi come un fiammifero che aspettava solo la scintilla per accendersi. Stargli così vicino rischiava di compromettere la sua salute mentale ma la faceva anche sentire viva, viva come raramente era successo negli ultimi sei mesi.
«Peccato» Koala fece giusto in tempo a salutare per sempre le proprie sinapsi quando Law si abbassò per parlarle all’orecchio, sfiorandole l’elice con le labbra e chiudendo gli occhi, travolto da tanta vicinanza. «Mi piace quando fai la possessiva»
C’era da dire, a sua discolpa, che se anche Koala avesse avuto in corpo la volontà di resistere, non ci sarebbe comunque riuscita. Ma purtroppo, o per fortuna, Koala era abbastanza matura e non così orgogliosa da non ammettere, almeno con se stessa e sebbene non prima di quel momento, che di resistere non ne aveva mai avuto l’intenzione. Si girò di nuovo verso di lui e inspirò a fondo quando Law le morse le labbra.
Era come tornare a respirare dopo mesi di apnea e, proprio come una persona appena salvata dall’annegamento, si aggrappò al suo collo quasi che ne andasse della sua stessa vita. A Law bastò fare una lieve pressione sul retro della sua coscia perché Koala facesse leva e gli avvolgesse la vita con le gambe, lasciandosi issare sul ripiano dei lavandini. Law premette più forte contro i suoi fianchi, impaziente, penetrando con i polpastrelli nella carne morbida ed elettrizzata e si produsse in un mugugno di cui mai si sarebbe creduto capace quando Koala lo afferrò per i capelli.
Fu il principio di svenimento a ricordargli che doveva anche riprendere aria tra un bacio e l’altro e Koala doveva avere avuto la stessa illuminazione nello stesso momento, perché si staccarono simultaneamente l’uno dall’altra.
Le labbra gonfie, il respiro affannato, i capelli in disordine quanto i vestiti e gli occhi pieni di un qualcosa di così intenso che non bastava nemmeno la parola “bramosia” per descriverlo, si osservarono scioccati per un attimo.
«Koala…»
«Ti prego, sì» fu tutto quello di cui Law ebbe bisogno per caricarsela in braccio e chiudersi in uno degli spaziosi cubicoli alle sue spalle.
 

 
§

    
Da quella posizione, Ace riusciva a vedere bene praticamente tutto il salone.
Vedeva bene Bonney che bilanciava sulla mano un piatto così carico di dolci da fargli domandare come facesse a non slogarsi la spalla. Vedeva bene Pen e Lamy che chiacchieravano fitto da ore ormai, seduti al bancone dell’open bar. Vedeva bene che Law e Koala non erano mai tornati dal bagno.
L’unica cosa che non riusciva a vedere da lì era…
«Ehi, straniero»
Il cuore gli balzò in gola e una fitta di malinconia si irradiò in tutto il suo petto. «Ehi» mormorò, voltandosi verso di lei con un sorriso privo di qualsivoglia velleità.
Non voleva sedurla.
Non voleva farle compassione.
Voleva solo che fosse felice.
«Un ricevimento perfetto» si complimentò Ace ma Perona ciondolò con il capo, con l’aria di quella poco convinta. 
«A parte la voce del DJ…»
Ace si accigliò, divertito. «Che ha la voce del DJ?»
«Non è carina» s’imbronciò per un attimo Perona, portandosi al suo fianco per studiare a sua volta il salone.
Ace si perse a fissarla mentre studiava con occhi luccicanti le lanterne di carta appese al soffitto, l’atmosfera soffusa, i fiori impeccabili. «Sei felice?» chiese e quando Perona si voltò a guardarlo seppe che non stava parlando semplicemente della festa. E Perona non riuscì a non esitare, anche se solo per un istante.
«Sì» ammise alla fine, abbassando per un attimo gli occhi al suolo. «Ace, riguardo stamattina io…» provò a inziare un discorso senza sapere nemmeno lei cosa dire ma una musica fin troppo nota rimbombò nella sala.
Perona sgranò gli occhi verso la postazione del DJ. «Oh andiamo… non ci credo!» provò a protestare ma già sentiva una risata salirle alle labbra nel riconoscere le prime note di Party Rock Anthem e nel vedere l’espressione estasiata che Ace fece di conseguenza.
Era l’inno della loro adolescenza e non c’era veramente nulla, matrimonio, reputazione o sentimento, che tenesse di fronte a un simile tuffo nel passato.
«Beh? Non vai?» lo incitò Perona, indicando la pista con la mano, sinceramente sorpresa che Ace non ci si fosse ancora buttato e stesse anzi cercando di darsi un contegno.
Ace si girò a guardarla, quasi come se si fosse momentaneamente dimenticato che lei era lì – “quasi” perché era impossibile che Ace dimenticasse una cosa del genere – e, dopo un attimo di profondo, travolgente amore per lei, sulla sua faccia si disegnò un ghigno che aveva un che di perverso. «Non senza di te» bisbigliò prima di afferrare deciso la mano che Perona teneva ancora aperta davanti a sé.
Colta alla sprovvista, Perona cercò di portare tutto il proprio peso corporeo all’indietro, in un vano tentativo di contrastare la presa ferrea di Ace. «No! Non ci penso…» cercò di protestare tra le risate.
«Oh andiamo!» ribatté subito Ace, anche lui più divertito che mai. «Non ci vado senza di te e non puoi avermi sulla coscienza così!»
«Ace!» rise ancora più forte.
«Eddai. Oggi ti guardano tutti comunque. Puoi fare quello che vuoi» insistette a voce più bassa e con uno guardo così intenso che a Perona mancò per un attimo l’aria.
Lanciò un’occhiata alla pista, poi a Ace, di nuovo alla pista. Di nuovo a Ace. «D’accordo» cedette poi con un cenno convinto del capo, prima di seguirlo a precipizio sulla pista, una mano a tenere la gonna dell’abito, l’altra ancora stretta a quella di Ace.
 

 
§

 
«Oh Santo Roger» mormorò Pen, girando gli occhi intorno per individuare la postazione del DJ.
Se qualcuno gli avesse chiesto, a festeggiamenti terminati, di descrivere un minimo la sala in cui si era tenuto il ricevimento, Pen non avrebbe saputo cosa dire perché da ore ormai il suo campo visivo era limitato a Lamy, gli occhi di Lamy, il sorriso di Lamy.
«Quanto è vecchia questa canzone?» chiese Lamy, scandagliando la pista che si era svuotata di fronte all’improvviso e drastico cambio di ritmo.
«Ehi! Non così tanto!» protestò Pen e Lamy sgranò gli occhi presa in contropiede prima di scoppiare a ridere.
«Oh mi scusi! Pensavo che ormai avessi superato la crisi di mezz’età» gli fece la linguaccia prima che qualcosa dietro le spalle di Pen attirasse la sua attenzione. «Ehi guarda! Non ci credo!» alzò appena la voce per farsi sentire sopra il crescendo della musica e indicando Ace e Perona sulla pista da ballo. «Come ha fatto a convincerla?!»
Pen osservò qualche secondo i due scatenarsi senza ritegno e qualche altro invitato che azzardava un paio di movimenti senza veramente buttarsi nella mischia. «Ace può questo e altro» affermò solenne prima di girarsi a guardarla. «E se andassimo a fargli compagnia?» propose, con una sicurezza che celava meglio del solito il nervosismo nella sua voce.
Lamy lo fissò per un paio di secondi – probabilmente i due secondi più lunghi della vita di Pen – e poi allungò una mano verso di lui. «Qualunque ragazza sogna di essere invitata a ballare sulle note di questa canzone» ironizzò e avrebbe giurato che la faccia di Pen fosse praticamente del colore dei suoi capelli a quel punto.
«Magari possiamo ballare anche quella dopo poi» aggiunse lui mentre le prendeva la mano e si alzava insieme a lei.
Lamy sorrise sincera. «Mi piacerebbe…» e Pen si perse per un attimo a contemplarla prima di riscuotersi e fare strada.
«Sperando che non sia Gangnam Style»
 

 
§

 
«Sugar, vedi anche tu quello che vedo io?» chiese Bonney a occhi sgranati, un pasticcino fermo a mezz’aria.
«Non so, dipende. Tu stai guardando la fetta di sacher nel tuo piatto?»
«Killer sta… ballando?»
Del tutto disinteressata, Sugar alzò lo sguardo sulla pista ormai gremita il tempo di individuare una massa di capelli biondi che ondeggiava a ritmo di musica. «Oh. Quindi anche quello è classificato come “ballare”»
«Sono settimane che non lo vedo fare altro che usare quel maledetto cellulare!» esclamò Bonney ma non suonava arrabbiata, notò Sugar. Sollevata semmai. Perché mai sembrasse anche contenta che Killer si stesse rendendo così ridicolo, questo proprio le sfuggiva.
Ma comunque.  
«Quindi la sacher la mangi o no?»
 

 
§

 
Lisciò le pieghe della gonna mentre usciva dal cubicolo, Law alle sue spalle che si stringeva la cravatta. Sperava che i capelli non fossero in condizioni troppo impresentabili per tornare alla festa ma non fece nemmeno in tempo a specchiarsi che qualcosa di famigliare attirò la sua attenzione.
Si girò sorpresa e allertata verso l’ingresso del bagno.
«È Party Rock Anthem?» domandò indicando verso la porta chiusa con il pollice, già esaltata all’idea di correre a ballarla. Si mise in più attento ascolto e le sue spalle si incurvarono appena. «Oh è già oltre la metà. Che peccato»
«Sì è un vero peccato» mormorò Law con voce roca e quando Koala tornò a focalizzarsi di nuovo su di lui una seconda scarica la attraversò da capo a piedi. «Non so se ha senso andare a ballare a questo punto» 
Law la stava guardando come un uomo assetato potrebbe guardare un bicchiere d’acqua.
E correre a ballare divenne l’ultimo dei suoi pensieri.
 

 
§

 
Finì di sciogliere il nodo alla cravatta per sfilarla completamente, una mano occupata da un cocktail fresco e refrigerante. Stava morendo di caldo dopo i venti minuti di follia in cui aveva ballato senza alcun rispetto per il proprio pudore, come se avesse avuto ancora vent’anni.
Se non che Killer non aveva più vent’anni e riteneva che quattro o cinque esibizioni fossero più che sufficienti per quel giorno, aveva voglia di bere il suo drink, seduto, e sì, aveva voglia di stare un po’ con la sua donna e non si vergognava neanche un po’ per questo.
Prese una sorsata dal bicchiere e allungò il collo. Sapeva che cercando verso il tavolo dei dolci aveva più probabilità di trovarla ma non c’era traccia di teste rosa in quella zona. Stranito, fece una veloce ma attenta panoramica della sala a trecentosessanta gradi e ci mise quei due secondi in più a registrare che l’aveva vista, tornare indietro con lo sguardo e individuarla, su una della panche disposte vicine alla zona adibita a pista da ballo.
Stranito da quella strana scelta logistica, Killer si avviò per raggiungerla, fermandosi a recuperare al volo un’altra fetta di torta da portarle. Non c’era nessuno accanto a lei e Killer si sentì pervadere da una sensazione che non provava più da tempo, molto simile a quando, ancora single, usciva a caccia il sabato sera.
Il che era idiota perché quella che si accingeva ad approcciare era la sua donna e non una sconosciuta da sedurre. E allora perché si sentiva proprio come se fosse una sconosciuta da sedurre ma con il vantaggio di conoscere già buona parte dei suoi punti deboli e/o erogeni?
Con un agile movimento, scavalcò la panca senza girarci intorno e si sedette a fianco a Bonney che fissava intenta la pista da ballo. «Madame» le sorrise suadente mentre le porgeva il piatto.
Bonney si girò di scatto verso di lui, sorpresa di vederlo lì, sorpresa dalla torta, sorpresa dal fatto che Killer la stesse effettivamente guardando mentre le parlava.
«Ciao, ma…» si voltò stranita verso la pista. «Credevo ti stessi scatenando»
«Nah! Per oggi ho dato. Ora è arrivato il momento di stare un po’ con te» rispose e poco ci mancò che Bonney non facesse cadere il boccone di torta dalla forchetta, ferma a metà strada verso la sua bocca spalancata in un’espressione esterrefatta.
Killer corrugò le sopracciglia. Che aveva da guardarlo come se fosse stato un alieno con due teste? Non si stava mica comportando in modo strano.
Era quello che faceva sempre, ogni giorno. Quando, pur continuando a lavorare al suo progetto di diventare un security hacker, si metteva accanto a lei sul divano anziché restare nello studio, oppure quando staccava dal pc e continuava con il suo cellulare per seguirla in cucina mentre preparava la cena.
Ora che ci pensava bene, gli faceva proprio strano non avere il cellulare in mano. Sul momento, quando era andato in pezzi, si era spaventato ma quando aveva capito che non c’era più niente da fare se n’era fatto in fretta una ragione. Aveva già deciso di cambiarlo e tutti i dati aggiornati del progetto si trovavano al sicuro sul suo cloud. La sola cosa che gli era scocciata era stata l’idea di vedersi obbligato a prendere un giorno di riposo dal lavoro ma, dopotutto, si trovava a una festa e sarebbe potuta andare molto peggio.
Solo che, nonostante la sua testa gli dicesse che poteva fare a meno di stare con il telefonino sempre in mano, il suo corpo sembrava pensarla diversamente. Si era sorpreso già più volte a cercarlo per controllare l’ora, anche se aveva l’orologio al polso e continuava a disegnare con il polpastrello sul bicchiere la sequenza di sblocco della tastiera.
Era una sensazione strana. Come se gli mancasse qualcosa, una parte del corpo, una qualche appendice aggiunta. Era strano e, se ne rese conto immediatamente, per niente sano. Forse doveva farci più attenzione.
«Tu volevi passare del tempo con me?»
La domanda  di Bonney, posta con così tanta incredulità da ferirlo quasi, riuscì a catalizzare tutta la sua attenzione. Si girò verso di lei, accigliato. «Ma certo che sì! Perché non dovrei, scusa! Sei la mia…» il pensiero si perse mentre Killer si distraeva a guardarla meglio. Aveva qualcosa di diverso, aveva già avuto quell’impressione ma pensava che fosse appunto solo questo, un’impressione. E invece… «Sei… sei… ti sei tagliata i capelli?» domandò, ormai praticamente certo di avere risolto il mistero.
Era piuttosto sicuro che l’ultima volta che l’aveva guardata Bonney non avesse affatto un caschetto e che i capelli le arrivassero ben oltre le spalle.
«Quando sei andata a tagliarti i capelli?»
Bonney sospirò e mandò gli occhi al cielo. «Tre settimane fa, Killer. Grazie per esserti finalmente degnato di notarlo» grugnì per poi mettersi ad aggredire la fetta di torta, mangiandola  a grandi forchettate, gli occhi fissi sulla pista.
Killer la studiò sorpreso per un lungo istante. Tre settimane?! Era mai possibile? Se fossero state davvero tre settimane se ne sarebbe dovuto accorgere prima, no?!
Abbassò gli occhi sul proprio bicchiere dove con il pollice, senza pensare, aveva ricominciato a disegnare senza posa la sequenza segreta. Lentamente, si rese conto di cosa stava davvero succedendo. Si rese conto del perché Bonney era sorpresa e sempre nervosa e di come lui non avesse notato un cambio tanto drastico prima di quel momento.
Si rese conto e prese un profondo respiro, perché era un coglione.
«Non ti ho guardato molto ultimamente, vero?»  chiese, retorico, riuscendo a stupirla per la terza volta in neanche cinque minuti. Killer sorrise, un sorriso di scuse, e allungò una mano per posarla a coppa sulla sua guancia. Avvicinò il volto al suo, fermandosi solo quando sentì le punte dei loro nasi sfiorarsi. «Ti stanno davvero bene» mormorò e fu con non poco sollievo che la sentì rabbrividire. «Sei bellissima» soffiò con le labbra già sulle sue.
 

 
§

 
Ace non smetteva mai di stupirsi per quanto il tempo scorresse veloce quando c’era di mezzo una festa, che fosse attesa o temuta. Tanti mesi spesi a organizzare una giornata che sembrava durata il tempo di un alito di vento.
Ora, a dirla tutta, per quanto si fosse divertito, stavolta Ace non aveva affatto l’impressione che la giornata fosse volata via ed era ben grato che, per la terza volta ormai, fosse finita. Anche se doveva ammetterlo, non sapeva se sperare di viverla un’altra volta o che quella fosse l’ultima.
Il dubbio, per lo meno, non nasceva da un qualche tragico risvolto, come le due precedenti. Anzi, se di una cosa poteva vantarsi, era che la sua intuizione di lasciar fare al caso si era rivelata più che giusta. Quando aveva visto che persino Bonney e Killer stavano limonando come due adolescenti in un angolo della sala, circa un’ora prima, aveva avuto la tentazione di darsi una pacca sulla spalla da solo.
Ora, subito fuori dalla villa del ricevimento, le mani in tasca e i capelli spettinati dal vento, Ace si stava interrogando sul da farsi. Tanto per cominciare, non aveva idea di che fine avessero fatto tutti ma aveva ben più di un motivo per credere che Killer e Bonney, così come Lamy e Pen avessero levato le tende già da un pezzo. Il che significava che andare a casa era rischioso e doveva trovare un alloggio alternativo per la notte, che sarebbe anche potuto essere l’appartamento della sua migliore amica se solo fosse riuscito a trovarla per chiederle la cortesia di dormire da Law e lasciargli le chiavi.
In realtà, per quel che ne sapeva, i due coniugi ricongiunti potevano non essere ancora usciti dal bagno della villa o potevano essersi dileguati senza dare nell’occhio, ma non c’era modo di sapere a casa di chi e anche se Ace stava setacciando con gli occhi il parcheggio per vedere se riusciva a individuare o meno il macinino di Koala tra le vetture ancora presenti, si rese conto che potevano anche aver preso la macchina di Law ed essere comunque andati da Koala.
Non c’era modo di uscirne, era inutile.
Si passò una mano tra i capelli, ancora indeciso su che pesci pigliare. «Puoi venire da me se vuoi» una voce atona lo sorprese alle spalle. «Ho un divano letto. Ma niente sesso» mise in chiaro Sugar, l’indice puntato verso di lui, prima di imboccare le scali di pietra. «Non sono abbastanza ubriaca»
«Oh. Che disdetta» commentò con un sarcasmo che per fortuna Sugar non aveva interesse – o non era in grado – di cogliere. Ace posò un piede sul primo scalino, pronto a seguirla, quando accadde.
Una risata, la sola capace di rivoltarlo dentro come un terremoto e illuminare anche la più nera delle giornate e Perona apparve sulla porta, sottobraccio a Nami e Zoro, e Ace si immobilizzò.
Lei e lei soltanto era il motivo del suo dubbio, del suo dilemma se desiderare o meno di ripetere quella giornata una volta ancora soltanto. Si era interrogato al riguardo per tutta la durata della festa. Se l’universo gli avesse concesso una possibilità ancora, ora che sapeva che ai suoi amici sarebbe andato tutto bene, avrebbe avuto finalmente il coraggio di intervenire prima della cerimonia? Se avesse potuto tornare indietro ancora una volta, avrebbe fatto quello che ogni fibra del suo corpo gli aveva urlato di fare dal principio? Avrebbe lottato per riprendersela?
Ma Ace conosceva già la risposta ed era no. E la ragione, molto semplice, era la stessa per cui quel giorno, paradossalmente, l’aveva osservata più a lungo e più attentamente di tutte le due volte precedenti messe assieme eppure non aveva fatto nulla per attirare la sua attenzione.
Perché si era accorto e sapeva con certezza, anche se non aveva resistito a chiederle conferma, che Perona era felice e lui non era nessuno per spezzare quella felicità.
Aveva avuto la propria occasione, l’aveva persa e ora doveva farsi da parte com’era giusto.
Quindi no, non c’era nessun bisogno di riavvolgere il tempo un’altra volta, andava bene così. Con lui che finiva a dormire sul divano di Sugar e lei che iniziava la sua vita insieme a un uomo che aveva saputo meritarla e che la rendeva felice.
Con un sospiro, Ace si riempì gli occhi di lei, conscio che era l’ultima volta che i loro sguardi sarebbero rimasti così intensamente agganciati l’uno all’altro, consapevole che non sarebbe mai più stata così bella come in quel momento. Fece quello che doveva per imprimersi quell’immagine a fuoco nella mente e quasi sospettò che Perona avesse capito le sue intenzioni perché non si mosse finché Ace non ebbe finito e così, nel dubbio, quando Ace ebbe finito, le fece un lieve cenno di saluto a cui Perona rispose prima di riprendere a camminare con fratello e cognata, non senza aver prima sillabato un “Grazie” a fior di labbra.
Ace esitò, per un attimo soltanto ancora diviso tra andarsene e correre da lei. Poi, con uno sforzo di volontà immane, infilò le mani in tasca e riprese a scendere le scale. Doveva darsi una mossa, Sugar non lo avrebbe certamente aspettato.
 

 
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A Lamy era capitato di svegliarsi in un letto non suo, con niente addosso, il profumo di caffè nelle narici e una piacevole sensazione di leggerezza. Quando capitava, Lamy sapeva che le cose stavano prendendo una piega positiva, perché quei tre indizi facevano la prova che aveva fatto sesso e non da ubriaca e che, quindi, il ragazzo con cui aveva fatto sesso le piaceva e non sarebbe dovuta sgusciare via dalla sua casa di nascosto. E nel caso fortuito in cui il ragazzo in questione ricambiasse il suo pensiero, potevano concedersi una tranquilla colazione e forse addirittura una tranquilla mattinata insieme. Se poi il ragazzo in questione era anche qualcuno, come in quel caso, che conosceva da tempo e con cui era sempre andata d’accordo non ci avrebbe visto niente di strano se avessero passato l’intera giornata insieme a spararsi una qualche maratona cinematografica. Che fosse come amici o come… qualcos’altro.
Quello che non le era mai capitato era svegliarsi con quello strano rumore di sottofondo. Una serie di click, piuttosto ravvicinati ma nient’affatto molesti. Lamy si cullò ancora un istante nell’invitante limbo del dormiveglia per poi decidere che era arrivato il momento di scoprire cosa fosse quel suono. Si stiracchiò appena  e aprì piano gli occhi.
Pen era seduto in fondo al letto, una gamba a terra e l’altra piegata sul materasso per usare il ginocchio a mo’ di treppiede per la Reflex, puntata dritta verso di lei. Stupita, Lamy piegò appena il capo di lato, gli occhi ancora assonnati.
«Ferma» sussurrò Pen con urgenza prima di scattare. «Questa era perfetta» aggiunse soddisfatto per poi irrigidirsi di colpo. «Oh, ehi!» esclamò, abbassando la macchina fotografica. «Buongiorno…» mormorò, grattandosi la nuca in imbarazzo. «Scusa, so che risulta inquietante ma non ho saputo resistere. Eri troppo bella e…» Pen si irrigidì di nuovo, diventando lentamente dello stesso colore dei propri capelli.
Lo stomaco di Lamy fece una capriola e le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Continua» lo invitò, con non poco stupore da parte di Pen, tirandosi su a sedere nel letto, solo il lenzuolo a coprirla dal seno in giù. «Non voglio che il mio bioritmo rovini il tuo momento creativo»
Pen stette un attimo a fissarla imbambolato nonché legittimamente indeciso tra continuare a fotografarla o lasciar perdere la Reflex e rifare l’amore con lei ma gli bastò un secondo per rendersi conto che era troppo rischioso farsi scappare un’occasione del genere.
Lamy era così bella sempre e sempre lo sarebbe stata ma il colore del lenzuolo, il modo in cui la luce entrava dalla finestra in quel momento, il modo in cui i suoi capelli le circondavano il viso scompigliati a regola d’arte. Doveva immortalarla subito.
«Okay, allora potresti…» cominciò, spostandosi dal fondo al lato del letto. «…piega il ginocchio e poggia il gomito… sì, così. Perfetto» riprese a scattare, la testa leggera per l’euforia e la felicità. Non riusciva a credere che stesse succedendo davvero. «Inclina un po’ il capo… esatto. Sei stupenda»
E avanti così, per quasi mezz’ora. Pen si dovette quasi fare violenza per smettere ma Lamy non aveva ancora bevuto il caffè e gliel’aveva anche dovuto rifare perché quello che le aveva portato prima di venire colpito dall’improvviso rush artistico si era intanto raffreddato.
Le lanciò una rapida occhiata, seduta al tavolo della cucina, con addosso solo una sua camicia e intenta a sbocconcellare un biscotto ai cereali, prima di tornare a scorrere le foto che le aveva appena fatto. Non che preferisse quelle al soggetto reale ma, dopo come l’aveva svegliata, l’ultima cosa che voleva era farsi beccare a fissarla mentre faceva colazione. Non voleva sembrare un maniaco. Senza contare che non riusciva a credere a cos’era riuscito a estrapolare da quella situazione del tutto casuale e non programmata.
Di solito su mezz’ora di lavoro si riteneva fortunato quando riusciva a salvare tre o quattro scatti. Questa volta era difficile scegliere quali scartare e non certo solo per merito suo. Lui aveva talento da vendere ma Lamy sembrava nata per posare.
Non aveva niente a che fare con le modelle con cui aveva lavorato prima. Era così fresca, spontanea. Così vera. E bellissima.
«Ce n’è qualcuna buona?»
Pen sollevò gli occhi per guardarla, preso in contropiede non tanto dalla domanda ma dal sincero interesse che trapelava dalla voce di Lamy. Si perse a osservarla, il trucco un po’ colato dal giorno prima, i capelli tirati su alla bell’e meglio, la curva del seno appena visibile dalla scollatura della camicia.
Sì, era bellissima. Anzi, bellissima non bastava per descriverla ma questa non era certo una novità per Pen.   
«Pen?»
«Uh?! Oh! Sì! Sì, direi anche più di qualcuna in realtà. Ehm…» si passò una mano tra i capelli fulvi. «Grazie! Davvero per aver… per…» agitò la Reflex nell’aria, incapace di trovare le parole. «Insomma lo sai»
Lamy prese un sorso di caffè, sorridendogli con gli occhi. Pen era adorabile, lo aveva sempre trovato adorabile.
Un bravo ragazzo, pieno di passione per l’arte, divertente e adorabile. E attraente. Quella era stata una rivelazione.
Non che Lamy non lo avesse mai considerato attraente prima. Cieca non era, sapeva da sempre che Pen era un bel ragazzo e le era già capitato di sentirsi attratta da lui. Non ci sarebbe andata a letto insieme altrimenti.
Ma quella mattina, mentre la fotografava, dandole direttive, scostandole i capelli dal volto, sorridendole di tanto in tanto da sopra la macchina fotografica, Lamy si era resa conto di quanto lei lo trovasse attraente. E non era nemmeno una sensazione che si limitava alla sfera fisica se ripensava al giorno precedente. Avevano parlato per ore, praticamente per tutta la durata del ricevimento, e sentiva che sarebbe potuta andare avanti ancora.
Qualunque cosa stesse succedendo – e Lamy non aveva idea di cosa le stesse succedendo – era spaventosamente piacevole e non voleva che finisse così in fretta. Con una punta di imbarazzo che riuscì a celare senza fatica, Lamy riappoggiò la tazza sul tavolo e ne studiò per un attimo il contenuto. «Io oggi non ho niente da fare. Se vuoi farmi altre foto o vuoi guardare un film o… anche dell’altro» propose, alzando gli occhi su di lui.
Pen la fissò a bocca aperta. Un riflesso incondizionato gli fece afferrare più saldamente la Reflex prima che scivolasse via dalla sua presa e si fracassasse a terra. Anche se non sarebbe stato comunque un problema visto che quello era chiaramene un sogno.
Non poteva stare succedendo per davvero.
Eppure la sensazione della pelle d’oca sulle braccia sembrava così reale!
«Se non vuoi o hai altro da fare io…» ricominciò Lamy, stranita dalla sua reazione e Pen fu attraversato da una scarica di panico.
«Ah, no! No assolutamente, non ho altro da fare e voglio! E-eccome se voglio!»
Quando Lamy gli sorrise, più radiosa che mai alla prospettiva di passare la giornata con lui, a posare per lui, a parlare con lui, Pen pensò sinceramente che sarebbe morto di felicità ma non fece quasi in tempo a formulare mentalmente il pensiero che un calore al basso ventre gli ricordò che in realtà era molto, molto vivo.
Con rinnovata sicurezza in se stesso, posò la Reflex sul tavolo e si alzò per avvicinarsi a Lamy. «Anche se prima, forse, potremmo…» lasciò la frase in sospeso, prendendole il meno tra pollice e indice e accarezzandole il labbro inferiore con il polpastrello. La guardò, con un misto di speranza e spavalderia che non avrebbe mai saputo quanto lo rendeva sexy.
E decise, un attimo prima di chinarsi a baciarla, che l’espressione che Lamy gli stava rivolgendo, felice, bramosa e quasi ipnotizzata, era senz’ombra di dubbio la cosa più bella che avesse mai visto. E non gli serviva una macchina fotografica per non dimenticarsene mai più.
 

 
§

 
Il matrimonio portava tanti cambiamenti.
Perona se l’era sentito ripetere spesso, dalle più svariate persone ma non ci aveva mai dato troppo peso. Suonava molto come una frase fatta, quella saggezza popolare spiccia che nove volte su dieci ci azzeccava ma che spesso riguardo i rapporti uomo-donna era lontana dalla realtà, quanto lo era l’epoca in cui la frase fatta in questione era nata rispetto all’anno corrente.
Da donna moderna, emancipata e indipendente del ventunesimo secolo qual era, sapeva che non sarebbe bastato un anello al dito per cambiare la percezione di sé. Il fatto che proprio le amiche a lei più simili in fatto di carattere forte e personalità spiccata fossero tra le poche a non averla messa in guardia al riguardo, per Perona era stata solo una conferma.
Ora però, doveva ammetterlo. Un fondo di verità, in quella frase fatta, c’era.
Quando la rituale uscita tra donne del terzo giovedì del mese appena passato – che sarebbe stato il primo “terzo giovedì del mese” dopo il suo matrimonio – era saltata, Perona si era dispiaciuta molto meno di quanto si sarebbe dispiaciuta senza il pensiero che le pareva poco… carino l’idea di lasciare da solo suo marito a così pochi giorni di distanza dall’ufficiale inizio della loro vita coniugale. C’era anche da dire che, se la serata era saltata, era perché tutte avevano dichiarato di avere da fare – tutte tranne Sugar che era poi andata al cinema per avere una scusa per mangiare i pop-corn al caramello – e probabilmente si era trattato per tutte di qualcosa che in quel particolare momento delle loro vite, coincidente con il terzo giovedì del mese appena passato, era un “qualcosa di meglio”.
Sempre per lo stesso motivo, per il terzo giovedì di quel mese, Perona aveva pensato di invitarle tutte a casa loro. Tanto Robb aveva in programma di dedicarsi un po’ ai suoi francobolli quella sera e la casa era abbastanza grande per non darsi fastidio a vicenda. Se non che, quando Koala l’aveva battuta sul tempo e aveva proposto una vera e propria cena, cucinata da lei, resistere alla prospettiva era stato impossibile e Perona aveva messo a tacere l’irrazionale senso di colpa e tutte le sue migliori intenzioni di essere la moglie perfetta, perché semplicemente alla paella di Koala non si poteva dire di no.
«Dite sul serio?!?»
Perona spostò gli occhi sgranati da Bonney a Lamy un paio di volte, la forchetta sospesa sopra il gambero che stava per infilzare quando sua cugina aveva sganciato la notizia della serata.
«M-mh» confermò Bonney con un cenno del capo, mentre si rigirava in bocca un sorso di vino. «Iceburg è rimasto folgorato dallo stile di Pen. Mi ha chiesto di organizzare la mostra in appena dieci giorni, e serale per di più!»   
«Sarà al settimo cielo!» sorrise Koala mentre si allungava per versare dell’altro vino a tutte.
«Più sull’isterico andante… grazie» la ringraziò Lamy, tendendole il bicchiere. «È convinto che non riuscirà a finire di sistemare tutto in tempo. Mi sono dovuta rifiutare di fare una “sessione d’emergenza” come la chiama lui. Avevo paura che con altri scatti da visionare si sarebbe giocato il cervello»
«Tra l’altro vedrete questa insospettabile topina» s’intromise di nuovo Bonney, passando un braccio intorno alle spalle di Lamy, che mando gli occhi al cielo ma non riuscì a smettere di sorridere. «Ha talento da vendere. Sembra che posi nuda da una vita e non ho trovato nemmeno mezzo scatto volgare. Davvero impressionante»
«Sarà che cerca di fare colpo su chi sta dietro alla macchina fotografica»
«Eh, come se ce ne fosse bisogno»
«Però questo spiegherebbe lo sguardo da “adesso ti spoglio e ti faccio di tutto”»
«Ehi!!!» protestò Lamy, colpendo Bonney sulla spalla con il dorso della mano e trattenendo a stento le risate. «Io non ho nessuno sguardo da “adesso ti spoglio, eccetera, eccetera” e anche se ce l’avessi non è vero che nelle foto si vede!»
«Forse a un occhio inesperto…»
«Anche Iceburg ha detto che ho l’aria innocente! Anzi, ha detto che gli piacciono proprio per quello!»
«Secondo a me anche a Pen piacciono proprio per quello»
«Oh ma finitela!» esclamò, scoppiando a ridere insieme a loro.
Koala sollevò il calice a mezz’aria. «Beh allora un brindisi alla prima mostra di Pen»
«E al trasloco di Lamy» aggiunse Sugar.
Perona e Koala si scambiarono un’occhiata perplessa. «Trasloco?» domandò la rosa.
«Ah sì, ecco…» cominciò Lamy, abbassando per un attimo gli occhi tra l’imbarazzato e il felice. «Io e Pen abbiamo deciso di andare a vivere insieme» azzardò un’occhiata di sottecchi alle amiche, che per quanto sorprese da quella notizia inaspettata la guardavano soprattutto intenerite da quanto fosse persa. «Cioè in realtà è nato tutto perché Pen voleva levare le tende e smettere di dare noia a Ace ma poi Ace ci ha offerto di restare. Nel senso, Pen gli ha sempre pagato l’affitto ma tecnicamente quella casa è di proprietà solo di Ace da tre anni. Però quando gliel’abbiamo detto ha insistito e siccome il mio appartamento è veramente piccolo e tutta la roba di Pen è già là… E niente, insomma» si strinse nelle spalle.
«Ma quando avete deciso? Ace non mi ha detto niente» domandò Koala.
«Oggi pomeriggio. Cioè Ace lo ha saputo oggi pomeriggio e ci ha detto di restare, noi ne avevamo già parlato»
Perona abbassò gli occhi sul proprio piatto, giocando con un paio di chicchi di riso gialli. Sorrideva, perché era davvero felice per la sua amica, ma non abbastanza per ignorare quella fitta al centro del petto. Era stupido vederla così, perché lei si era sposata e aveva lasciato quell’appartamento già da un pezzo e casa sua era altrove ormai, con Robb, ma era finita.
Era finita davvero, adesso.
Ace lasciava la casa, la loro casa. Lasciava i ricordi di una vita insieme, lasciava il profumo di pancake che impregnava la cucina, la stupida finestra del bagno che si apriva male e su cui si formava sempre la condensa quando facevano la doccia, lasciava il divano su cui si erano addormentati un milione di volte, cercando invano di finire la maratona di Star Wars. Tutti e sei gli episodi ovviamente.
E sì la lasciava a Pen, che aveva vissuto con loro più volte, per periodi più o meno lunghi ma era comunque finita. Perché una nuova coppia avrebbe riso tra quelle pareti, avrebbe scoperto quanto il divano fosse mille volte più comodo del letto per fare l’amore, avrebbe litigato con il termostato per l’acqua calda, finendo per decidere che la soluzione migliore era fare la doccia insieme.
Una coppia che non sarebbero stati più loro due. Mai più. E Perona non sapeva se sarebbe andata bene, non lo sapeva più.
«E dove va a stare lui?» la voce di Sugar la raggiunse, riportandola alla realtà.
Lamy prese un sorso di vino. «Abbiamo deciso che mi sposterò quando lui avrà trovato un’alternativa»
«C’è l’appartamento di Law»
Per un attimo sembrò che qualcuno avesse messo sul muto. Solo un cozzare di stoviglie contro stoviglie accompagnò il movimento simultaneo di quattro teste che si giravano lentamente verso la padrona di casa che, pur sforzandosi per mantenere un contegno, sorrideva così tanto che sembrava emanare luce propria.
«Lui… Noi… torna a casa» decise di spiegarlo alla fine nel modo più semplice. «Abbiamo deciso un paio di giorni fa ma non lo abbiamo detto ancora a nessuno. In realtà è anche per questo che vi ho invitate stasera. È una specie di addio al nubilato all’appartamento» cercò di scherzare e smorzare un po’ l’atmosfera. Cominciava a essere imbarazzante con tutti quegli sguardi puntati addosso e quelle espressioni, come se si fosse appena svegliata dal coma o addirittura l’avessero creduta morta e avessero appena scoperto che invece era viva e vegeta. «Ehm… ragazze…»
In un cacofonico coro di forchette che venivano posate nel piatto e sedie strusciate sul pavimento, Sugar, Bonney e Lamy si alzarono di gran carriera e si precipitarono verso di lei per abbracciarla.
«Oh Kay-Kay!»
«Sono così felice per voi…»
Koala sgranò gli occhi, presa in contropiede, ma ci mise giusto una frazione di secondo a ricambiare la stretta, per quanto le fosse fisicamente possibile.
E mentre anche lei si alzava per unirsi all’abbraccio di gruppo, Perona per un attimo si riuscì a convincere che, sì, da quel giorno in poi sarebbe andato tutto bene.
 

 
§

 
«Amico, non so che dire» mormorò Ace, facendo un’ennesima panoramica del salotto. «Insomma sei proprio sicuro di volermi lasciare tutti i mobili?»
Law si strinse nelle spalle. «In realtà sei tu che mi fai un favore. Dovrei affittare un deposito o venderli, altrimenti»
«Lo so ma il prezzo che mi hai proposto per una casa così sarebbe giusto se non fosse arredata»
«Beh allora meglio non farsela scappare, no?» lo incitò Law con un ghigno, lasciando spenzolare le chiavi a mezz’aria. Ace sospirò, ancora incerto, e dopo un altro attimo di tentennamento si decise ad afferrarle. «Io… non  so proprio cosa dir…»
«E allora non dire niente» Law lo zittì con una pacca sulla spalla, prima di lasciarsi cadere sul suo ex divano/nuovo divano di Ace e invitarlo a fare altrettanto, invito che Ace non i fece ripetere. Si sentiva esausto. «Dopotutto se stai cercando casa è perché hai praticamente regalato la tua a mia sorella»
«Guarda che l’affitto me lo pagano» gli fece presente Ace.
Law sollevò scettico un sopracciglio. «Il prezzo che gli hai chiesto per quella casa è persino più ridicolo di quello che io ho chiesto a te»
Ace aprì la bocca per ribattere ma la richiuse subito. Non c’era molto da dire, in fondo. Si lasciò andare contro la testiera e prese un profondo respiro, imitato da Law, e per un po’ rimasero in silenzio, non tanto perché non avessero nulla da dirsi quanto perché entrambi si sentivano come se avessero esaurito anche la riserva, sebbene per ragioni diametralmente opposte.
Fu Ace, dopo un paio di furtive occhiate e ripensamenti, a riprendere la parola per primo. «Allora…» cominciò, cauto, strofinando le mani sulle cosce. «Convinto e deciso?»
Law si girò a guardarlo per una manciata di secondi, impassibile, le dita intrecciate sopra il capo. «Sei preoccupato per lei» constatò poi. Non era una domanda e Ace sobbalzò appena. «Non ti biasimo» mise subito in chiaro Law, perdendo lo sguardo nel vuoto con un mezzo sorriso malinconico. «Sono stato un coglione, è un miracolo che mi abbia dato una seconda possibilità»
Ace continuò a fissarlo, conscio che erano appena entrati in un territorio molto pericoloso ma che al tempo stesso, in quel frangente e in quel momento, era anche spazio abbastanza sicuro da potersi azzardare a porre una domanda che gli girava nella testa da parecchio tempo ormai.
«Law, perché l’hai fatto?»
L’espressione di Law tornò a farsi seria e lontana, quasi vacua. Si passò una mano sul volto e trattenne per un attimo il ponte del naso tra pollice e indice, le palpebre serrate. Per un attimo a Ace ricordò una belva ferita e si pentì di averglielo chiesto ma quando Law cominciò a parlare, il suo tono aveva un che di sollevato, come se parlarne lo stesse finalmente liberando da tutto il peso che ancora sentiva per il suo comportamento.
«Mi sono spaventato o una cosa del genere. Io… non è facile da spiegare. Non è che credessi di non essere all’altezza o che pensassi di non essere abbastanza. È stato più come... la sensazione di non poter stare al passo. Tu la conosci, conosci quella sensazione che qualunque cosa stia facendo ti da l’impressione che sarebbe capace di renderla indimenticabile con la battuta giusta o il gesto giusto. Persino la pasta di mandorle diventa eccezionale se te ne parla lei. Santo Roger, persino tu che metti il cren al posto della cayenna nell’hollandaise! E io non dovrei nemmeno sapere cosa sono l’hollandaise, il cren o la cayenna ma lo so, perché quando lei ti racconta qualcosa non può non restarti impresso! E quando fa qualcosa la sensazione è ancora più forte e a un certo punto mi sono accorto che tornavo a casa, la guardavo cucinare o anche solo sorridermi e non potevo fare altro che chiedermi cosa ci facesse con me» Law si fermò per un momento, piegando il busto in avanti e appoggiandosi sulle cosce con gli avambracci. «Era un periodo di merda al lavoro, ero stressato. E lei riusciva a essere giusta persino in mezzo a quel casino e io invece… no. E il periodo di merda è passato ma la sensazione no e ho cominciato ad allontanarmi. Avevo paura che a un certo punto si sarebbe stancata, avrebbe smesso di cercare di essere così giusta e comprensiva e pronta a sostenermi e sapevo che avrebbe fatto un male cane e mi sono allontanato perché non si può dipendere così tanto da un’altra persona, non si può chiedere così tanto a un altro essere umano perché prima o poi quello scappa dalla parte opposta e tu lo perdi. E per non perderla mi sono allontanato così tanto che non sapevo più come tornare indietro. E quando me ne sono accorto mi sono spaventato così tanto che ho fatto la cosa più idiota che mi potesse venire in mente. Sono scappato e ho cercato di ripartire da zero. Ma non ci sono riuscito. Non puoi ripartire da zero quando il tuo intero mondo è un’altra persona e questo ti rende l’uomo più felice sulla faccia del pianeta»
Ace si accorse di avere la bocca spalancata e si impose di chiuderla prima che Law se ne accorgesse e tornasse il solito taciturno, laconico e sentimentalmente stitico Law. Era rarissimo sentirgli infilare due sintagmi complessi uno dietro l’altro, di solito, a meno che l’argomento non fosse qualcosa di medico o l’interlocutore non fosse Koala.
Quando la sua migliore amica gli aveva detto che con lei Law parlava e anche tanto certe volte, Ace aveva fatto fatica a crederci ma non ne aveva mai dubitato, perché sapeva che la crisi tra loro era iniziata quando Law aveva cominciato a parlarle sempre meno fino a ridurre le loro interazioni al minimo sindacale. Tuttavia, era sconvolgente sentirlo con le proprie orecchie, senza contare che provava una forte empatia verso di lui. A un certo punto, nel bel mezzo del suo discorso, Ace aveva iniziato a sentire una strana stretta al cuore e il sangue sobbollire nelle vene, come se ciò che l’amico stava dicendo suonasse più famigliare di quel che avrebbe dovuto.
«E sei sicuro che non ricapiterà?»
Forse stava tirando troppo la corda, lo sapeva, ma era così lusingato che Law si stesse sfogando proprio con lui da volerne egoisticamente ancora un po’. Percepiva chiaramente quanto Law si sentisse più leggero man mano che gli confidava tutto quello che si era tenuto dentro in quei mesi. E ultimo, ma non meno importante, voleva essere sicuro che Koala non dovesse più soffrire in quel modo infernale. Non lo avrebbe tollerato. 
Law gli lanciò un’occhiata in tralice. «Sai qual è stato il mio primo pensiero, ogni singola mattina quando aprivo gli occhi, negli ultimi sette mesi?» Ace scosse piano il capo, in trepidante attesa. «Che dovevo trovare un modo per riprendermi le carte del divorzio e eliminarle, farle a pezzi. Sono stato ossessionato da quel pensiero a partire dal giorno dopo che gliele avevo portate. Non ero in me, non ero io. È come se a compiere quel gesto fosse stato qualcun altro ma sono stato proprio io e mi odio per quanto l’ho fatta soffrire, mi odio così tanto che mi sono convinto di non meritarla. E quando settimana scorsa Koala ha preso le carte e le ha bruciate davanti a me è stato come tornare a respirare. E ho capito una cosa. Ho capito che non importa se a volte penso di non meritarla, non importa se non sarò sempre capace di stare al passo. Se lei mi vuole qualcosa di giusto lo avrò pur fatto e se ha bisogno di me per essere felice allora le due cose che voglio di più al mondo coincidono e un uomo intelligente può solo ringraziare per questo e fare del proprio meglio»
Ace rimase ancora un attimo immobile, poi si chinò in avanti a sua volta, imitando la postura di Law ed espirò profondamente, quasi che fosse stato lui a confessare quella valanga di sentimenti ed emozioni. «Wow, amico. È davvero… davvero…» ma non c’erano parole per definire quello che Ace aveva appena sentito e così Ace allungò una mano e gli strinse la spalla. «Te la meriti» affermò convinto. «Amarla così è… è abbastanza. Davvero» annuì con decisione, anche se si rendeva conto di non avere il dovere e nemmeno il diritto di dirgli una cosa del genere. Ma forse, dopotutto, non la stava dicendo solo a lui e la sensazione provata poco prima, tornò ad aggredirlo più violenta che mai. Intrecciò le dita e strinse, strinse fino a farsi male, sperando in qualche modo di poter spremere fuori il dolore. «O a-almeno dovrebbe esserlo. Dovrebbe essere abbastanza» soffiò, premendo i due pollici contro l’angolo degli occhi e l’apertura dei suoi condotti lacrimali.
Non doveva pensarci, non voleva pensarci, non poteva pensarci. Ma era impossibile, impossibile togliersela dalla testa, impossibile trovare un senso nel suo sorriso felice rivolto a Robb, impossibile trovare una quadra nella propria vita. Non sarebbe bastato lasciare il vecchio appartamento pieno di ricordi, non sarebbe bastato dare fuoco a ogni singolo oggetto legato a lei, non sarebbe bastata una vita e quella mattina ci si era messo anche quello stupido anello.
Se l’era trovato così per le mani, mentre impacchettava la sua roba, senza quasi rendersene conto, pur avendo sempre saputo perfettamente dove lo conversava. Quel piccolo cerchio in oro bianco, con incastonata una manciata di “economici zirconi” raggruppati a formare un teschietto, visibile solo a un occhio molto attento.
Lo aveva comprato con i risparmi per la moto, che era rimasta solo un sogno. Lo aveva comprato per lei. Lo aveva comprato prima della loro vacanza a Thriller Bark, il posto perfetto per chiederglielo. Ma non lo aveva fatto. Ci aveva riprovato quella sera che era riuscito a portarla a cena all’All Blue, in riva al mare, poi a Dressrosa e di nuovo durante il giro in mongolfiera sopra il parco naturale di Sabaody, poco fuori città. Si era ripromesso e giurato che Wano sarebbe stato il luogo prescelto. Ma a Wano, alla fine, non ci erano andati né ci sarebbero mai andati, non insieme.
Lo aveva comprato da più di due anni ormai e il coraggio di buttarlo via non lo aveva ancora trovato, così come non aveva trovato il coraggio di darlo a chi avrebbe dovuto, e il sacchetto di velluto viola dentro cui lo aveva conservato pe tutto quel tempo ora rotolava nella tasca interna della sua giacca. E non sapeva perché se lo fosse portato dietro, era ridicolo perché ormai era tardi, troppo tardi per…
«Lei lo sa?»
Ace sollevò il capo di scatto, incurante del fatto di avere gli occhi lucidi e l’espressione devastata.
«Lo sa che la ami così?»
Ace trattenne il fiato, pregando con ogni fibra del proprio corpo di sentire quello che aveva bisogno di sentire.
«Perché se non lo sa, forse dovresti dirglielo»
«Io non… non…» Ace scosse piano il capo. «Non lo so se lo sa»
No, Ace non lo sapeva, non sapeva se Perona si fosse mai accorta… avesse mai capito…
«Non lo sa» affermò, più convinto. E come poteva pretenderlo dopotutto? «Lei non lo sa ma non credo che farebbe qualche differenza, io…» la voce gli si ruppe di nuovo.
«E se la facesse?» gli occhi di Law riverberavano di una serietà quasi insostenibile. «Vuoi vivere davvero tutta la vita con il dubbio che sarebbe potuto essere abbastanza?» 
 

 
§

 
Per Ace il quartiere residenziale di Enies Lobby era come Narnia. Non ci poteva andare a vivere e non gliene importava niente.  Quelle villette a schiera, tutte uguali e tutte ordinate, non facevano per lui ed era legittimo pensare che quella fosse solo un motivo in più per ringraziare che alla fine Perona avesse convolato a nozze con Robb.
Perché quel genere di quartiere e quel genere di perfetta abitazione da acquerello erano proprio ciò che faceva per lei e Robb poteva permettersi un affitto in quella zona. O almeno così poteva sembrare.
Perché sì, Perona cercava incessantemente la perfezione nella propria vita, voleva che tutto fosse come lei diceva, voleva il Nirvana applicato alla vita di una perfetta occidentale. Ma Ace ne sapeva più degli altri e la conosceva meglio di così.
Perona era felice anche con le posate in mano e una risata più discreta. Perona era felice con Robb. Ma poteva essere più felice. Sarebbe potuta essere più felice, con le dita sporche, mezzo autobus a guardarla strana per quel suo singolare modo di ridere, un appartamento nel quartiere di Foosha, il pane del supermercato e le braccia di qualcun altro a stringerla di notte, sotto la doccia in due contro il termostato, sul divano a fare l’amore o a provare per l’ennesima volta a finire la maratona di Star Wars. Tutti e sei gli episodi.
Però, Perona aveva fatto la propria scelta e questo Ace non poteva più ignorarlo.
Il suono trillante del campanello gli riecheggiò nella testa. Si rese conto che non sapeva nemmeno cosa dirle, anzi che non era nemmeno certo che Robb non fosse a casa. Avrebbe anche potuto aprirgli lui e sarebbe stato difficile spiegare cosa ci facesse lì.
Ma a Ace non importava, non più. Ace ormai non aveva più niente da perdere che non avesse già perso. Neppure quel cuore che minacciò di saltargli in gola quando la porta si aprì di fronte a una sorridente e subito dopo sorpresa Perona. Con i capelli rosa sciolti sulle spalle e la tuta. Bella come non mai.
«Ace! Ehi, c-che ci fai qui?»
«Robb è in casa?» domandò, così diretto da stranirla ancora di più.
«No ma... Ace! Che cosa…» protestò quando Ace si fece strada in casa e la prese per un polso, per trascinarla in salotto. L’ultima cosa che voleva era che qualche vecchietta ficcanaso del vicinato li vedesse e pensasse bene di spiattellare tutto a Robb. «Ace! Lasciami!» si divincolò Perona, lo sguardo severo. «Si può sapere che ti prende?!»
«Io non posso competere con lui» asserì Ace, così diretto e calmo che Perona si sentì come se una tegola le fosse caduta in testa. Stava dicendo sul serio? «Non posso competere con Robb» ripeté per amor di chiarezza e stavolta Perona si sentì come se le avessero sfilato il pavimento da sotto i piedi.
No, non poteva dire sul serio.
«Tu saresti potuta essere molto più felice di così ma hai scelto lo stesso lui, quindi…» rise con amarezza Ace. «Perciò sappi che non sono qui per cercare di portarti via ma perché devo dirtelo»
«C-che cosa?»
«Io non sarei mai potuto stare al tuo passo. Non sarei mai potuto essere sempre all’altezza per te come lo è Robb. A un certo punto tu avresti preso la rincorsa e io sarei rimasto indietro»
«Ace! Non…»
«Però» la interruppe deciso lui, il groppo in gola, che condivideva con Perona, così come il riverbero delle lacrime nei loro occhi. «Però avrei fatto l’impossibile per raggiungerti, avrei corso fino a sfinirmi, persino volato se fosse stato necessario. Avrei fatto qualsiasi cosa per meritarti, avrei continuato a provare senza mai fermarmi, per essere ogni singolo giorno la persona giusta per te, accanto a cui svegliarti ogni mattina e addormentarti ogni sera. Fino alla fine dei miei giorni» con un respiro profondo e appena un po’ instabile, Ace infilò la mano in tasca e ne estrasse un piccolo sacchetto di velluto viola. Ipnotizzata, Perona seguì attenta i suoi movimenti, fino a sentire il fiato mozzarsi in gola e le ginocchia minacciare di cedere quando capì cosa Ace aveva estratto dal piccolo sacchetto. «L’ho comprato prima di Thriller Bark»
Incredula, Perona staccò gli occhi dall’anello per spostarli sul suo volto. «Mi prendi in giro?» Ace scosse piano il capo. «Ma tu… Sei stato tu che mi hai…»
«Lo so» la interruppe in un soffio addolorato. Lei non voleva dirlo, lui non voleva sentirlo. «Credevo che soltanto tentare di essere all’altezza non fosse abbastanza. E quando ho capito che non potevo perderti per una paura che mi ero inventato da solo era già troppo tardi» Si rigirò l’anello tra le dita. «Volevo dartelo a Wano» concluse Ace con un sorriso tirato. Perona faticò a trattenere le lacrime quando sentì nominare la meta del suo viaggio di nozze, programmato per quella primavera. Il viaggio che aveva sempre voluto fare con lui. Non con Robb. «Sono un idiota. Abbastanza pelo sullo stomaco per abbordare la ragazza sul treno e niente palle per tenermela a quanto pare» continuò a sorridere, le lacrime agli occhi. Era finita, finita davvero. Perona non lo avrebbe mai perdonato ed era giusto così. Allungò il braccio verso di lei che era troppo sotto shock per fare qualsiasi cosa che non fosse la più meccanicamente ovvia da fare. In quel caso tendere il braccio e accogliere il piccolo monile sul palmo. Andò completamente in tilt quando la mano di Ace, ora libera dall’anello, si posò per un breve attimo sulla sua guancia. «Sii felice, amore mio»   
Perona credette di stare per morire quando Ace tolse la mano dal suo volto. Sentì il cuore inaridirsi, atrofizzarsi, farsi troppo piccolo e troppo stanco per continuare a pompare sangue in lei e tenerla in vita. Avrebbe voluto chiamarlo, avrebbe voluto fermarlo ma lo guardò impotente raggiungere la porta ed andarsene. Rimase immobile mentre lui lasciava andare la sua guancia, lasciava andare lei, come aveva lasciato andare la casa, l’anello e tutti i loro ricordi.
Rimase immobile a guardare un’intera vita che avrebbe potuto avere uscire per sempre dalla porta, lasciando in ricordo solo uno stupido cerchietto in oro bianco sul palmo della sua mano.

 
§

 
Ace non era mai stato in una galleria d’arte prima. Aveva visto altre mostre fotografiche, sempre presente a sostegno di Pen, aveva visitato molti musei con Perona ma la galleria d’arte gli mancava. Ora, non fosse stato lì per evitare che Pen cedesse all’impulso di darsela a gambe al momento dell’intervista, attività che aveva il pregio di tenerlo molto impegnato, sapeva che si sarebbe annoiato a morte e, nonostante fosse molto felice del successo dell’amico, si domandava perché tutta quella gente avesse bisogno di quattro ore per visionare dodici foto su tela.
Certo, erano stupende. Il modo in cui la luce si rifletteva sul corpo della modella attirava lo sguardo come una calamita ma non si poteva contemplarle per più di qualche minuto senza sfociare nel perverso. Nel suo caso poi, riusciva a durare al massimo qualche secondo, il tempo necessario al suo cervello per ricordargli che non stava guardando un corpo qualsiasi ma Lamy. E anche se non era niente che non avesse già visto, addirittura toccato, quella situazione lo faceva sentire molto più… a nudo.
Dannazione, Pen aveva fatto davvero un ottimo lavoro!
Ironia a parte, Ace aveva sempre trovato Lamy bella ma quelle foto erano ad un livello superiore. Pen era riuscito a tirare fuori qualcosa di magico in lei e Ace dubitava fosse solo merito del suo innato talento.
Si riscosse dalle proprie riflessioni, quando lo vide andargli incontro, i capelli spettinati come sempre, la giacca elegante abbinata alla camicia bianca e i pantaloni più casual, niente cravatta, accompagnato da Bonney e Killer che ultimamente davano l’impressione che qualcuno gli avesse versato addosso un barile di supercolla a presa rapida mentre erano abbracciati. Veniva addirittura da chiedersi come facessero a non inciampare l’uno nei piedi dell’altro.
«Ehi!» Ace sorrise, andando loro in contro. Si fermò a pochi passi da Pen e posò entrambe le mani sulle spalle dell’amico. «Ciao Superstar! Come andiamo?»
«Aaah beh…» Pen si accarezzò la nuca con un sorriso nervoso. «B-bene, va bene! Bene, davvero, va molto bene, insomma va tutto… tutto…»
«Bene?» suggerì Killer.
«Ehilà!» una voce a sovrastò il già abbastanza silenzioso ridacchiare di Bonney e Ace, quando Lamy spuntò da dietro la schiena del moro, bella come non mai. «Quanta gente» sgranò gli occhi, senza perdere il sorriso, per poi allungare un braccio e intrecciare le proprie dita a quelle di Pen. «E sono tutti qua per te» sussurrò, guardandolo con devozione.
Ace si concesse un attimo di romantica contemplazione dei propri amici, ormai in viaggio sull’autostrada per innamorarsi perdutamente, da cui si risvegliò quando la cristallina risata della sua migliore amica lo raggiunse, inondandolo di sollievo e affetto. Sbirciò da sopra la propria spalla, Koala che rideva con e mani intorno al gomito di Law, che la guardava di rimando ghignando, gli occhi solo per lei.
«È un sacco rilassato per essere alla mostra di nudo di sua sorella» considerò Bonney, sinceramente colpita.
«Credo sia troppo felice per preoccuparsene. Koala ha avuto un tempismo perfetto a proporgli di tornare a casa» valutò Lamy, sporgendosi appena per poter vedere Law, dietro alla figura di Ace.
Pen si accigliò. «Ma quando è successo, Koala non sapeva ancora della mostra»
«Oh non ti illudere» lo ammonì Ace. «Lei sa. Sa sempre tutto»
«Pen credo sia ora dell’intervista» lo avvisò Bonney, gli occhi già sul buffet a cui stava cercando solo una scusa valida per potersi avvicinare. Pen sbiancò appena ma sorrise quando la presa di Lamy sulla sua mano aumentò incoraggiante.
«Pronto?» gli domandò, accarezzandogli il dorso con il pollice.
«Sì, andiamo» annuì piano lui, prima di allontanarsi insieme a Killer e Bonney, lasciando Ace da solo.
Le mani in tasca, Ace li guardò allontanarsi e poi fece una panoramica intorno a sé, riflettendo sul da farsi. Non era lì da tanto ma nemmeno da poco e, ciò nonostante, quelle erano le prime parole che aveva scambiato con Pen nell’arco della serata. Tuttavia, non aveva dubbi di lasciarlo in ottime mani e restare avrebbe fatto poca differenza a Pen e una differenza enorme per lui.
Perona sarebbe arrivata prima o dopo e, anche se ormai l’aveva lasciata andare e con convinzione, questo non significava certo che potesse smettere di amarla dalla sera alla mattina. Vederla avrebbe fatto male. Se poteva evitare, preferiva farlo.
Poteva bere ancora un calice, intrattenersi qualche minuto con Law e Koala e poi andare, senza dare nell’occhio o risultare poco supportivo. La sua parte, ormai, l’aveva fatta. Fece per andare incontro a un cameriere che si trovava a pochi passi da lui, con ancora metà vassoio pieno, quando il cellulare prese a vibrare nella sua tasca.
«Pronto?!»
«Ho lasciato Robb»
Il tempo si fermò un momento, insieme al cuore di Ace. Le reazioni che avrebbe potuto avere, sarebbero state migliaia. Agitazione, batticuore, momentaneo smarrimento. Ma Ace chiuse gli occhi e inspirò a fondo, mentre tutto il dolore lo abbandonava in una frazione di secondo per lasciare posto al sollievo. Perché non era difficile crederci, perché era così che sarebbe da sempre dovuto andare. Perché era destino.
«Perona…» soffiò piano nel ricevitore, assaporando ogni sillaba, il cuore che batteva all’impazzata, traboccante di gioia e aspettativa. «Dillo»
«Voglio dirtelo guardandoti negli occhi» rispose lei prontamente, il sorriso perfettamente udibile nella sua voce.
Ace non riuscì a non farsi contagiare. «Dove sei?» chiese, già su di giri. Trattenne il fiato per il brevissimo istante di silenzio che seguì.
«Voltati» bisbigliò alla fine Perona e Ace non se lo fece ripetere due volte. Dritto davanti a lui, la porta aperta della galleria, nessuno a ostruirgli la visuale sulla strada esterna e soprattutto sul marciapiede dirimpetto, su cui Perona lo fissava, ferma e con il cellulare ancora all’orecchio.
Con uno scatto fulmineo, Ace chiuse la chiamata e si precipitò alla porta, frenando una volta all’esterno. Rimasero fermi così a guardarsi e sorridersi per un lasso di tempo indefinito, troppo felici per riuscire a pensare, figuriamoci fare alcunché, finché anche quei pochi metri che la strada deserta in mezzo a loro misurava in larghezza non divennero troppi per essere tollerabili.
Perona scattò in avanti, giù dal marciapiede, dritta verso di lui, lanciata sull’asfalto.
Non la videro arrivare.
Tutto quello che sentirono fu lo stridere delle gomme sul cemento e poi il tonfo micidiale, prima del nulla. Un nulla assoluto che per un attimo riempì la testa e il campo visivo di Ace. Non riusciva a dare un senso a ciò che stava guardando finché l’ammasso di ferraglia che fumava non prese la forma di una macchina di fronte a cui giaceva una figura inerme, immersa in una nuvola di capelli rosa.
«P-Perona… Perona!!!»  
Ace si gettò in avanti, sordo ai richiami e ai rumori che riempirono la strada nel tempo in cui lui la raggiunse per prenderla tra le braccia e delicato scostarle i capelli dal volto, che fissava con occhi vacui il cielo. «Perona, rispondimi. Perona! No, no, no! Ti prego, amore mio, dimmi qualcosa, ti prego!»
Law si accovacciò davanti a lui e lo spasmo allo stomaco rischiò di farlo rimettere, lui che non si impressionava di fronte a nulla. Non serviva controllare, non ci voleva un medico per rendersi conto che era inutile chiamare l’ambulanza.
Tutti i presenti alla mostra si stavano riversando in strada, la voce di Lamy si unì per un attimo a quella di Ace, che ancora cercava di svegliarla.
«Ace» chiamò piano ma deciso, togliendogliela dalle mani con delicatezza. In un attimo Pen era al suo fianco e lo stava trascinando via dal corpo di Perona, mentre Lamy si aggrappava a Koala, singhiozzando disperata.
«Cosa fate?!» domandò il moro, spostando smarrito lo sguardo da Pen a Law. «No, devo restare con lei, devo… No! Non ci provare!» perse del tutto la testa quando si accorse che Law le stava chiudendo gli occhi. «Non t’azzardare, Law!!! Devi salvarla, devi riportarla qui!!!»
«Ace!» Pen cercò di sovrastarlo con la propria voce, trascinandolo a fatica verso il marciapiede e il muro esterno della galleria. «Ace, smettila!»
«No! No!!!»
Non poteva essere vero, non poteva essere finita. Era lì, a un soffio da lui. L’aveva quasi stretta tra le braccia e ora non c’era più?! Non poteva essere vero!
«Law devi fare qualcosa!!!»
«Ace!»
«Devi riportarla da me!!!» Pen dovette sbatterlo contro il muro per riuscire a trattenerlo. «Perona!!!»
«Ace!»
«PERONA!!!»
«Ace!!!»
Ace sbatté le palpebre, stranito e perso. Qualcuno gli stava dando dei leggeri e rapidi schiaffi sulla guancia come per risvegliarlo. Non ricordava dove fosse e come ci fosse arrivato ma era fin troppo vivido nella sua mente quanto appena successo e il pensiero gli diede un capogiro così forte da farlo vacillare.
Strinse le mani sulla prima cosa che trovò di fronte a sé, per non cadere e qualcosa a sua volta si strinse intorno alle sue braccia per sostenerlo.
«Ace amico, che succede?»
Sempre più smarrito, gli occhi praticamente fuori dalle orbite, Ace cercò di mettere a fuoco il proprio interlocutore. Pen lo fissava, il volto a pochi centimetri, l’espressione preoccupata. Ma c’era qualcosa di strano, di diverso. Perché era chiaro che Pen non riuscisse a capire cosa gli prendesse quando invece doveva per forza essergli chiaro. Era quasi come se Pen non avesse capito che Perona era… Perona era…
Le ginocchia gli cedettero di nuovo, Ace fece un passo indietro e girò di quarantacinque gradi, afferrando con la mano destra la testata di una sedia lì vicino, e gli occhi gli caddero su un tavolo rotondo, impeccabilmente apparecchiato, coperto da una tovaglia immacolata e forse appena un po’ sgualcita da un lato, su cui mancavano solo i cartigli in carta di riso scritti con elegante grafia.
Ace si guardò intorno, al picco dell’agitazione che cominciò a scemare un attimo dopo, man mano che riconosceva la sala del ricevimento del matrimonio di Perona e Robb, Pen vestito non in spezzato come alla sua mostra ma con un completo scuro, la cravatta e niente Reflex al collo, otto segnaposto sparpagliati ai piedi di entrambi. Dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per non vomitare e riuscire a calmare il respiro.
Era tornato. Era tornato di nuovo.
«Pen…» chiamò con il fiato ancora grosso, mandando giù per inumidire la gola, arida a differenza della sua pelle zuppa di sudore freddo. «Hai visto… hai visto Perona?»
«S-sì certo» rispose, tra lo stranito per quella domanda e il preoccupato per le condizioni in cui versava. «L’ho appena incrociata che andava a finire di prepararsi per la cerimonia…»
Ace chiuse gli occhi e il sollievo che provò sarebbe stato abbastanza intenso da mandarlo al creatore.
Era viva. Perona era viva. Aveva un’altra possibilità e sapeva esattamente cosa doveva fare.
«Ace sei sicuro di sentirti bene?» ruppe ogni indugio Pen, deciso a riportarlo a casa se necessario.
Ace si rimise dritto sulle proprie gambe e lo afferrò saldamente per le spalle. «Pen» lo guardò serissimo in volto. Aveva bisogno della sua collaborazione e aveva bisogno che lo facesse senza domande. «Fai sparire quei segnaposto. Io devo fare una cosa»
 
 
  
  
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