Non aveva un’idea precisa
di quanto tempo avessero
passato abbracciate in silenzio laggiù, nei meandri bui del
tempio di Quetzalli,
ma era stato sicuramente meno di quello passato a medicare alla bene e
meglio
le tremende ferite sul corpo di sua madre.
Scoperto di avere ancora legata in
vita la propria saccoccia,
e appurato che il contenuto di quest’ultima non era andato
perduto durante lo
scontro con Madre Natura, Myricae si era subito messa al lavoro a
pestare e
sminuzzare erbe e foglie e fiori medicinali -lì per
insistenza di Naevia, che
non le permetteva di lasciare il castello senza al grido di
“non sia mai che
possano salvarti la vita, un giorno”, mai come ora la
ringraziava per tanta
insistenza!- per preparare quei misteriosi intrugli amari appresi
guardando
quella gatta frigida all’opera nel suo laboratorio
erboristico.
Se la regina aveva ricevuto tutte
le approssimative
cure necessarie, lei ne aveva fatto a meno: i suoi tessuti si stavano
già
rigenerando autonomamente, non aveva più un buco aperto in
pancia, e tanto bastava
per farla sorvolare sul resto del suo corpo dolorante.
Appena Phentesilea era stata in
grado di parlare,
Myricae non aveva perso tempo a tempestarla di domande su domande,
prima fra
tutte chi l’avesse ridotta in quello stato; quando aveva
sentito pronunciarle
il nome di Phobos -o meglio, di Phoebe- non ci aveva visto
più: se prima voleva
ammazzarlo e darlo in pasto ai “genitori” di
Scarlet per quanto aveva fatto e
stava facendo soffrire Harmonia, ora voleva la
sua testa sopra il caminetto.
Quando aveva chiesto delucidazioni
su come “Phoebe”
fosse riuscita a entrare nella blindatissima Quetzalli,
però, al generale della
Regina di Phantasia erano cascate le braccia.
La vicenda aveva del tragicomico:
il rosso era stato
catturato da una principessa,
trasportato all’harem di sua madre da
una
regina, lì era stato visto da un numero di schiave
-fra le quali c’erano
almeno una dozzina di Ophidians- compreso fra almeno duecento e
trecento donne
e, infine, portato dinanzi a una sovrana esperta, una
Airë Tári; era pure stato cambiato di abiti,
da quel che aveva
visto, e quindi denudato. In tutto ciò, nessuno aveva notato
che quello fosse
un uomo.
Nessuno.
Nemmeno le sue simili che
l’avevano visto sfilare per
la città.
Era ridicolo, e anche tremendamente
imbarazzante.
Inizialmente, avrebbe solo voluto
inveire contro sua
madre, chiederle come diavolo fosse stato possibile che una regina del
suo
calibro -che di concubine ne vedeva e ne esaminava e ne scopava a
bizzeffe ogni
giorno!- avesse potuto lasciarsi fuggire da sotto il naso non solo la
mancanza
di seno della nuova arrivata, non solo la sua voce mascolina, ma pure
la
presenza di un pacco in mezzo alle gambe.
Che magari era talmente piccolo da
essere scambiato
per un clitoride particolarmente sviluppato, c’era pure caso
che le cose
fossero messe così eh!
Poi aveva posato lo sguardo sugli
occhi di
Phentesilea, e allora aveva deciso di lasciar perdere: si sentiva
già abbastanza
in colpa di suo, infierire sarebbe stato stupido, inutile, crudele.
Aveva creduto che Phoebe fosse una
qualche abitante
rachitica del pianeta Dragsa, conosciuto per le sue donne che -fra
l’essere
montagne di muscoli e l’avere tratti particolarmente duri- di
femminile avevano
ben poco, e allora non si era fatta domande.
Come nemmeno Myricae se
n’era fatte, conscia che rimuginare
su cosa si sarebbe potuto e dovuto fare non avrebbe cambiato la loro
situazione…
anche perché, a fare un sincero esame di coscienza, pure da
parte sua gli
errori non erano certo mancati: avrebbe dovuto tornare al castello,
riferire ad
Harmonia ciò che aveva scoperto e organizzare una spedizione
con lei, altro che
fare tutto da sola credendo di potersela cavare senza l’aiuto
altrui! Per
ottenere cosa, poi? L’essere rinchiusa nelle segrete di un
tempio isolato dal
mondo con l’ossigeno che andava sempre più
scarseggiando, forse? Aveva
sbagliato, e quell’errore le sarebbe costato la vita.
Non sarebbe tornata a casa da
Harmonia, né quella
sera, né mai, causandole tanto e più dolore di
quanto gliene avesse procurato
Phobos da sette secoli a quella parte.
In fondo, non sarebbe stata poi
tanto migliore di lui.
Da quando quella consapevolezza si
era fatta strada
nella sua mente fino a ora, la naga si era messa in un angolino,
rivolta verso
il muro, la coda tirata al petto e la testa poggiata su di essa,
rifiutando
qualsiasi contatto con la sua genitrice.
Quest’ultima, tuttavia,
non pareva d’accordo.
Nonostante il dolore nello
strisciare causato dalle
zone sprovviste di squame, le si avvicinò piano, con
cautela, attendendo di vapire
se i serpenti sul suo capo fossero d’accordo nel lasciarla
fare. Appurato che
non l’avrebbero morsa, mise maternamente una mano sulla
spalla di sua figlia, accarezzandogliela.
«Andrà tutto
bene» le sussurrò.
Myricae si girò di
scatto.
«Mi pigli per il
culo?»
«No di certo,
no» si affrettò a rassicurarla «dico
solo che le cose vanno sempre bene, alla fine. Iniziano male,
proseguono
peggio, a volte, ma poi migliorano, devono
migliorare. La natura si compensa da sola, da'len».
«Oggi mi chiami
affettuosamente “da'len”, l’ultima
volta mi chiamavi… mmmh, ce l’ho sulla punta della
lingua…» tirò fuori la
lingua biforcuta, indicandola mentre si fingeva pensierosa
«ah, sì!
“Gweriadir”, se non ricordo male! E so bene di
ricordare perfettamente, madre, per
cui» tornò a rintanarsi fra le proprie braccia,
nascondendo il volto fra esse
«lasciami in pace e torna a pregare il tuo dio,
così magari ci farà dono di due
cucchiai per scavarci un tunnel e uscire».
«Parli come se credessi
che Quetzalcoatl sia capace di
abbandonare due delle sue discendenti al proprio infausto
destino».
«Parlo come chi ha
pregato, ma non è mai stata
esaudita» controbatté acida «per quanto
mi riguarda, quel dio che tanto
venerate in questa vostra gabbia d’oro mi ha dimenticata
settecento anni or
sono, e non intendo farmi ritrovare. Magari verrà per te,
dato che gli sei così
devota, ma non per me».
Phentesilea sospirò,
sedendosi al suo fianco.
«Non verrà per
nessuna delle due, né per qualsiasi
altra Ophidians» asserì atona
«Quetzalcoatl non è mai intervenuto di persona
nelle
questioni terrene, e mai interverrà. Ma agisce, quello
sì… per vie misteriose e
inesplicabili, forse, ma non abbandona nessuno, né lascia
che le preghiere a
lui rivolte rimangano inascoltate. Ho passato sette lunghissimi secoli
a
pregarlo giorno dopo giorno, notte dopo notte, e nemmeno a me ha mai
risposto» allungando
una mano, prese delicatamente il mento dell’altra,
rivolgendolo verso sé «fino
ad oggi, almeno» le sorrise.
«Cosa gli chiedevi,
ma’? Di farti morire per asfissia insieme
a quella traditrice senz’anima di tua figlia,
magari?»
«Solo di farmi incontrare
di nuovo la mia bambina, i
modi e le circostanze non glieli ho mai specificati» rise la
regina «mi bastava
rivederti e poterti salutare, Myricae, nulla di più. Certo,
avrei preferito che
accadesse in un contesto diverso da questo, ma va bene lo stesso: se ci
sei tu
qui con me, allora sono ugualmente contenta».
«Sei contenta con
poco» sbuffò.
«“Poco”?»
ripeté Phentesilea, rizzandosi incredula
«È
molto più che “poco”, questo,
è la gioia più grande che potessi avere come
madre! Rivedere la mia piccola dopo secoli è- è-
ah! Al diavolo! Non trovo le
parole adatte!»
Le prese le mani fra le proprie,
portandosele al cuore
con le lacrime agli occhi.
«Temevo che non ti avrei
più rivista, da’len, avevo…
avevo… paura di non… di non vederti
più, di dimenticare la tua voce, il tuo
volto...» l’accarezzò
«… il tuo profumo… avevo il terrore
di… di svegliarmi una
mattina e trovarmi Harmonia in casa, con…
con…» iniziò a piangere
«… con le tue
spoglie fra le mani, da’len. Ero… ero
terrorizzata, avevo incubi ogni notte su
di te che… che… sai, sei il generale, per cui
temevo che-»
«Sei stata talmente in
pensiero per me che non sei mai
venuta a rassicurarti sulle mie condizioni di persona,
Amìl».
Con un movimento deciso,
sfilò e ritrasse le mani da
quelle dell’altra, cogliendola di sorpresa.
«Credi davvero che
scappare mi abbia fatto piacere?»
le chiese, piantandole addosso uno sguardo accusatorio freddo come il ghiaccio
«Che mi sia divertita,
a dover fuggire di fretta e furia dal luogo nel quale ero nata e
cresciuta? Che
sia stato facile, andarmene e lasciarmi indietro una casa, una
famiglia, una
vita intera, e ricominciare da zero?»
Si alzò, guardandola
dall’alto in basso mentre si alzava
faticosamente facendo presa sul muro. Non l’aiutò,
limitandosi a osservarla con
aria pietosa.
«Rispondo io per te,
statua di marmo: no, non c’è
stato nulla di facile. Non è stato facile smettere di
alzarmi di colpo in piena
notte urlando, dopo aver sognato mia madre che calava l’ascia
per eseguire la
condanna dalla quale ero scappata. Non è stato facile
rifarmi una vita, fingendo
di non avere un passato. Non è stato facile abituarmi
all’assenza di una Ammë
tanto affettuosa quanto iperprotettiva, che s’informasse su
dove fossi stata e
con chi e per quanto, che mi aspettasse alzata con l’arakh in
mano se fossi
rientrata dieci minuti dopo l’orario pattuito, tremendamente
preoccupata».
Le diede le spalle, indifferente,
intenzionata a non permetterle
-e non permettersi- di mostrare gli occhi gonfi di lacrime per il peso
di quel
dolore che tanto Harmonia, col suo amore, era riuscita a farle rilegare
in un
angolo buio della mente.
«Fuggivo dalla morte,
fuggivo dalla mia gente, fuggivo
dalle persone che avrebbero dovuto amarmi: se volevo vivere, allora non
potevo
rimanere» uno dei suoi serpenti le si strofinò
sugli occhi, asciugandoglieli «Non
è stato facile, ma non avevo alternative, voi
non me ne avete date, voi-»
Il suono delle squame bianche che
impattavano contro
quelle color smeraldo della sua guancia riempì la stanza.
Quando l’eco si
disperse, Myricae si trovò con uno stampo di cinque dita di
un delicato color
rosso pompeiano in volto.
Immobile a massaggiarsi il viso,
fissò la propria
genitrice con aria di sconcerto, non si sapeva se più a
causa dell’essere stata
schiaffeggiata per la primissima volta nella sua vita, o
perché suddetto
schiaffo fosse provenuto proprio da lei.
Che non pareva affatto pentita del
suo gesto, fra
l’altro. Anzi, le afferrò pure due serpenti ai
lati del volto e la tirò verso
sé, portandola alla propria altezza.
«Smettila di comportarti
come se fossi stata l’unica a
non aver avuto alternative!» sbottò la naga
bianca, fulminandola con lo sguardo
«Sono estremamente paziente e gentile e dolce, ma non
azzardarti mai più a
mancare di rispetto alla donna che ti ha felicemente dato alla luce e
ti ha
cresciuto con dei principi, signorina, mai più! Sei
arrabbiata e frustrata e
stressata, lo so, lo so, ma non
osare
abusare della tua posizione per atteggiarti come l’unica e
sola vittima di
questa brutta storia perché, notiziona del momento, non lo
sei! NON LO SEI!» la
mollò.
Restarono entrambe interdette
qualche istante, una ancora
con gli occhi di fuori e l’altra col petto che si alzava e
abbassava
ritmicamente per lo sforzo, non abituata com’era a certe
sfuriate tipiche
invece della propria consorte. Per calmarsi, Phentesilea
strisciò fino al
tavolo di pietra, sedendosi ai piedi dello stesso.
Myricae la raggiunse poco dopo,
appollaiandosi al suo
fianco a testa bassa.
«Mi dispiace».
Phentesilea le sorrise,
abbracciandola.
«È tutto a
posto, da'len, non sono arrabbiata con te»
la rassicurò, accarezzandole la schiena e accoccolandosi fra
i serpenti che le
facevano il solletico con le loro piccole lingue
«… ma non ti nascondo che le
tue parole mi hanno fatto male, tanto male». Si
staccò da quell’abbraccio,
tenendole le mani sulle spalle «Credimi, bambina mia, avremmo
voluto più di
ogni altra cosa evitare tutto ciò che è successo,
io e-»
«Non parlare al plurale,
ma’, sappiamo entrambe che
eri solo tu a volermi viva».
«Sai anche tu che non
è così» controbatté
«e in cuor
tuo sei perfettamente consapevole -tanto quanto lo sono io- che tua
madre
Hippolyta mai e poi mai ti avrebbe torto un capello, figurati se
volesse
decapitarti! Sai bene quanto la tua Ammë di amasse, quanto
avesse desiderato la
tua nascita, quanto tu significassi per lei, non puoi davvero aver
creduto per
settecento anni che ti volesse uccidere!»
«L’ho creduto
perché l’ho sentita con queste stesse
orecchie» se le indicò «chiamarmi
“gweriadir”, “traditrice”.
L’ho creduto
perché era la sua mano, quella che ha calato la frusta sulla
mia schiena in
pubblica piazza una, due, tre, cinque, dieci, volte, finché
non sono nemmeno
stata in grado di strisciare fin sull’altare sul quale mi
avrebbero decapitata,
e mi ci hanno dovuto trascinare di peso come un animale. L’ho
creduto perché era
il freddo metallo del suo arakh, quello che avvertii posarsi sulla mia
nuca mentre
Valië Axechasti leggeva i miei campi d’imputazione.
In tutto questo, tu sei
ancora convinta che mamma Hippolyta mi volesse bene in qualche modo,
dunque?»
«Lo sono, e dovresti
esserlo anche tu, da’len».
Myricae scoppiò a ridere.
«Avanti! Cerca di essere
obiettiva! Come puoi dire
che-»
«Hanno minacciato di
uccidere lei e di schiavizzare
me, se la tua Ammë si fosse rifiutata di eseguire la tua
condanna» sputò tutto
d’un fiato la Airë Tári, secca e atona.
«Se si fosse trattato
solo della sua morte, allora non
avrebbe avuto bisogno di un minuto in più per mandare tutti
quanti al diavolo:
il solo concepire l’idea di fare una cosa così
abominevole e innaturale come
decapitare il sangue del suo sangue la disgustava tanto allora quanto
la disgusta
ancora oggi, non sarebbe andata contro i propri principi solo per
soddisfare la
voglia di esecuzioni del Calaciryandë» fece una
lunga pausa, abbassando lo
sguardo «Solo che…»
«Solo
che…?» ripeté la naga verde.
«Solo che c’ero
io, e lei… lei non poteva permettere
che mi accadesse qualcosa, non voleva che mi… che mi
facessero diventare una serva…»
sussurrò piano, a bassa voce, come se si vergognasse di
ciò che stava dicendo
«… dovresti incolpare me, non lei. Se tua madre
Hippolyta ha concordato sulla
condanna come le altre Airë Tári, se ti ha frustato
dinanzi a loro
assecondandole, se stava per diventare la tua boia, allora lo stava
facendo
solo per me, per me e nessun’altra: lei sarebbe morta, ma a
me sarebbe toccata
la schiavitù, ed era fin troppo consapevole che non sarei
sopravvissuta a
quella condizione».
Quando gli occhi iniziarono a
diventarle rossi per
l’imminente pianto, Myricae se la strinse al petto con tanta
e più forza di
quanto avesse fatto lei prima, dandole piccoli baci sul capo
finché non si
calmò abbastanza da tornare a raccontare.
«C’erano fior
di regine pronte a prendermi nel loro
harem, e Antiope era in prima fila. È un mostro, quella
donna, una bestia senza
cuore né anima che abusa e sevizia le proprie serve in modi
indicibili» un
brivido la percorse, interrompendola qualche istante «fino a
quando quelle
poverette non muoiono dissanguate per via delle ferite interne
riportate
durante le ripetute violenze carnali subite. “Sono solo
schiave, possono
comprarne di altre”, dice per giustificarsi, e buona parte
delle altre Airë -pur
non approvando il suo comportamento- concordano, ed ecco
perché gira a piede
libero senza che nessuno le dica nulla».
«È
orribile».
«Lo
è» convenne la regina «e sarebbe stato
anche il
mio destino, se la tua Ammë non si fosse comportata come ha
fatto, come ha dovuto fare. Lei
sapeva che sarebbe
stata Antiope a reclamarmi, e sapeva che non ne sarei uscita viva:
avrebbe
fatto di me la sua schiava preferita, mi avrebbe sbattuta e montata e
ingravidata giorno e notte solo per sfornare figli per lei fino allo
sfinimento, sarei stata al centro delle orge organizzate da lei e dalle
sue
discepole, dove il mio corpo sarebbe stato alla loro completa
mercé. Avrei
finito per uccidermi, prima o poi, e-»
«E mamma lo
immaginava» completò la frase l’altra.
«Già. Mi disse
“Se devo scegliere fra l’uccidere mia
figlia e il condannare a una sorte ben peggiore della morte mia moglie,
allora
che Myricae non me ne voglia, ma non posso essere complice del suicidio
della
donna che ho giurato di proteggere con la vita”. Inizialmente
mi opposi, cercai
in tutti i modi di farle cambiare idea, di spronarla a trovare insieme
una
soluzione…»
«Ma una soluzione non
c’era».
«Non c’era, e
mai ci sarebbe stata, non è certo per
ascoltare le ragioni della condannata che a Quetzalli si processa chi
esce
dalla città… e così noi…
noi…» s’interruppe improvvisamente,
annegando nei
singhiozzi «… noi scegliemmo l’opzione
più… più… più
comoda, da’len, scegliemmo
la strada più semplice da percorrere, quella che ci avrebbe
garantita salva la
vita, e-»
«L’unica
strada,
è diverso» la corresse.
Le sollevò delicatamente
il mento, guardandola negli
occhi con lo stesso fare materno che, di solito, era proprio di
Phentesilea.
«Non avevate scelta,
mamma, proprio come non ne ebbi
io: se aveste deciso diversamente, la mia Ammë sarebbe morta
inutilmente e la
mia Amìl sarebbe diventata schiava, continuando a vivere con
la consapevolezza
di essere sopravvissuta alla propria compagna e alla propria figlia; in
tutti i
casi, io sarei comunque stata uccisa, e non sarebbe cambiato
nulla».
«Ho serbato rancore per
settecento anni, ma solo adesso
capisco quanto voi abbiate fatto per me, quando invece avreste
tranquillamente
potuto rimpiazzarmi con-»
«Un’altra
figlia?» l’anticipò sua madre.
Myricae annuì.
Phentesila scosse la testa.
«Ci pensammo a lungo, non
lo nego, ma fu un nulla di
fatto: il problema non era darti una sorella, l’idea di
rimanere nuovamente
incinta sai bene che non mi è mai dispiaciuta, il problema
era dartela solo per
accontentare il nostro disperato bisogno di riversare su un pargolo
quell’amore
materno troncato settecento anni fa. Dare alla luce una figlia solo per
sopperire la mancanza di un’altra mi sembrava
come… irrispettoso, ecco, tanto
nei confronti della tua memoria, che viveva ancora qui» si
toccò il cuore
«quanto per la creaturina che sarebbe nata» poi il
ventre «perché sarebbe stata
una sostituta, e nulla di più».
Improvvisamente, un’ombra
di stanchezza parve calare
sugli occhi della regina, che si abbandonò a un sospiro
rassegnato
«Non fraintendermi:
l’avremmo amata, coccolata, resa
felice in ogni modo possibile e immaginabile, proprio come abbiamo
fatto con
te, ma…» fece una breve pausa
«… ma nel profondo, guardandola negli occhi,
avremmo visto la nostra primogenita, non una nuova bambina. Era
già difficile
vivere fingendo di averti dimenticato o dandoti una caccia spietata per
non
insospettire nessuno, aggiungere anche il fardello di dover dire alla
nostra
bambina che sua sorella maggiore era morta -sapendola viva- sarebbe
stato
troppo… troppo… “troppo”,
tutto qui».
Sperò che la sua
yeldë non notasse il suo improvviso
rattristamento o il cambio nel suo tono di voce, ma la naga dalle
squame
smeraldo lo notò eccome.
Piano, delicatamente,
attorcigliò le proprie dite a
quelle della sua Amìl in silenzio, senza aggiungere altro:
sarebbe bastato il
gesto, con lei, un gesto che le diceva “siamo di nuovo
insieme, adesso, non devi
più preoccuparti del passato”.
Quando la vide sorridere,
capì che aveva recepito il
messaggio.
«Ma non parliamo oltre di
ciò che è successo sette
secoli or sono, tesoro mio, ora abbiamo settecento anni di rapporti
madre e
figlia da recuperare!» le diede una vigorosa pacca sulla
spalla, ridacchiando «Una
volta uscite da qui, avremo tuuuuuuutto il tempo di fare ciò
che non abbiamo
fatto, e lo faremo in grande! Ti farò conoscere le nuove
arrivate nell’harem e
mi racconterai le tue avventure mentre ci godiamo un bel massaggio e
poi andremo
a fare shopping insieme e organizzeremo un pigiama party solo per noi
due e
faremo a battaglia di cuscini come due adolescenti mentre ci
confessiamo
segreti a vicenda e-»
«Come fai?»
l’interruppe brusca Myricae.
«Uh?»
«A essere sempre
così ottimista, intendo» asserì,
stranamente seria.
«Vedi sempre un lato
positivo anche nelle situazioni più
drammatiche, riesci a trovare del buono in chiunque, confidi che tutto
si
sistemerà autonomamente nonostante le
avversità…» gettò lo sguardo
verso la sua
Amìl, un misto fra curiosità e smarrimento
«… come fai, ma’? Come puoi avere
fede in un destino che ti, ci, sta
remando contro in tutto e per tutto? Come ci riesci?»
Se sui primi momenti la serpentessa
dalle squame
bianche era parsa preoccupata da quell’improvviso cambio di
atteggiamento da
parte di sua figlia, ora appariva del tutto serena.
«Sono la moglie di
Airë Tári Hippolyta, da’len, se non
fossi stata come sono stai pure sicura che non saresti nemmeno venuta
al
mondo!» rise.
L’altra la
guardò confusa, non capendo a cosa si
riferisse.
Di tutta risposta, Phentesilea si
tolse la collana che
aveva ancora indosso, una rudimentale corda di pelle con -come
pendente- una semplice
pietrucola tondeggiante con la superficie scura butterata qua e
là, non troppo
diversa da qualsiasi roccia si sarebbe potuto trovare camminando col
naso all’ingiù.
«Un ciottolo?»
«Il primissimo dono che
mi fece tua madre Hippolyta,
in realtà» precisò la regina. Lo
alzò per mostrarglielo meglio «Consegnatomi con
le mani tremanti, il volto più rosso dei nostri tramonti e
un adorabile
balbettio sulle labbra, da quanto era emozionata e imbarazzata nel
darmelo di
persona. “Quando ho visto come risplendeva, il mio pensiero
non ha potuto che
andare alla stessa sfumatura che assumono le tue squame opalescenti
quando
vengono baciate dai delicati raggi dell’alba”, mi
disse, e-»
«Vacci piano, per la
testa mozzata di Medusa!» si lamentò
agitando concitatamente le braccia davanti a sé
«Devo ancora rifarci
l’abitudine, all’inguaribile romanticismo della mia
Ammë verso la sua consorte,
dopo tutte le volte che ha tentato di decapitarmi negli ultimi secoli
capisci
bene che ripensare a lei in quelle
vesti mi risulta ancora incredibile!»
Phentesilea scoppiò a
ridere.
«Effettivamente non hai
tutti i torti, me ne ricorderò
così da non scandalizzarti ulteriormente!» le
prese una mano, posandoglielo sul
palmo «Ti piace?»
«Sinceramente? Mamma ha
un pessimo gusto per i regali,
ed è pure mezza cecata se pensa che questo coso»
lo picchiettò «risplenda in
qualche modo».
«Perché non
provi a girarlo, prima di giudicarlo dal
suo aspetto esteriore?»
Ben poco convinta che le cose
potessero migliorare e trattenendo
a stento la voglia di riderle in faccia, obbedì.
Rimanendoci di sasso, tanto per
restare in tema.
Se, di primo impatto, fuori quella
pietra grezza e
irregolare sembrava tutto tranne che il meraviglioso monile tanto
elogiato da
Phentesilea, allora adesso -girandola- anche Myricae capì il
perché sua madre
ne fosse così affascinata: fuori una scorza scura come il
più comune dei geodi,
dentro un opale bianco lattiginoso dalle mille sfaccettature
iridescenti, che
assumeva colori e sfumature differenti a seconda di come la luce si
rifrangesse
sulla sua superficie brillante.
«“Uur’ilweranta
erumë”, “fuoco del deserto”,
nato
quando il nostro ancestrale creatore Quetzalcoatl discese in terra su
di un
grande arcobaleno che trasformava le rocce che toccava in opali
splendenti» disse
la regina «Sgraziato a vedersi, d’incredibile
bellezza quando lo si guarda
meglio: un po’ come tua madre, insomma».
Myricae, ancora impegnata a girarsi
e rigirarsi fra le
dita il pendente guardandolo incantata, si voltò verso di
lei.
«Cosa c’entra
mamma con un opale?»
«Sono più
simili di quanto credi, sai? Come questa
pietra, a prima vista forse Hippolyta può sembrare dura,
fredda, insensibile» iniziò
a contare sulla punta delle dita «eeeee anche arrogante,
bruta, burbera,
feroce, impaziente, ineluttabile, irascibile, rozza, rude, selvaggia,
sgarbata,
spaventosa, rozza, testarda e tremendamente volgare. Ma guardando
oltre» le
chiuse le dita sul ciondolo «si scopre che è la
creatura più dolce e
meravigliosa che abbia mai avuto l’onore di conoscere, e
l’immenso piacere
sposare».
Gli occhi le divennero
improvvisamente lucidi, ma
questa volta il sorriso sul suo volto non scomparve; se possibile,
divenne
ancora più luminoso.
«Riconosco che
è una donna difficile da prendere, ma riconosco
in ugual modo che con me, con noi due,
è sempre stata affettuosa, amorevole, gentile, premurosa e,
soprattutto,
follemente innamorata della sua famiglia. Se fossi stata ad ascoltare
le voci
che giravano sul suo conto, allora avrei dovuto scappare a gambe
levate,
“aperte” secondo qualcuno, ma feci nessuna delle
due cose: semplicemente, mi
limitai ad aspettare che le cose si smuovessero da sole, che il destino
facesse
il suo corso. Pazientai a lungo prima che lei mi rivelasse i suoi
sentimenti
con questo» fece tintinnare le dita squamate sul geode
contenente l’opale «ma
ne valse la pena, attendere ne varrà sempre la
pena».
Le accarezzò
maternamente la guancia.
«Ed è valsa la
pena anche attendere il tuo ritorno,
da’len. Torneremo a essere una famiglia felice, Myricae,
proprio come ho
pregato che accadesse per settecento an-»
«E come pensi di fare,
precisamente?»
«Cosa intendi?»
«Intendo che dovresti
iniziare ad essere realista,
ma’».
Si alzò, strisciando
lentamente fino al muro. Quando
vi fu vicino, bussò allo stesso.
«Siamo rinchiuse in
questa stanza, alla fine del
labirinto sotterraneo pieno di trappole del tempio, la cui entrata
è stata
bloccata da una frana; come se non bastasse, suddetto tempio
è isolato dal
mondo, trovandosi nel folto del Tauremorna, e dubito fortemente che -a
questa
profondità- qualcuno possa sentirci urlare o anche solo
vvertire la nostra
presenza. Nessuno sa che siamo qui, nemmeno Harmonia: siamo sole, sole
e
abbandonat-»
«Non siamo sole, e non
siamo abbandonate» controbatté
secca Phentesilea, interrompendola bruscamente
«finché c’è speranza, allora
non
è detta l’ultima parola, non si sventola la
bandiera di resa, non ci si getta a
terra a lagnarsi attendendo che arrivi la fine. Quetzalcoatl non
ignorerà le
nostre preghiere, da’len, devi avere fede».
Basta.
Basta.
«AH! AL DIAVOLO LA TUA
FEDE NELL’INVISIBILE UNICORNO
ROSA! CHE SI FOTTANO QUETZALCOATL E TUTTA LA SUA DIVINA
BANDA!»
Si avvicinò a sua madre
sbracciandosi furibonda;
l’altra, intanto, era immobile.
«Cosa credi? Che gli
importi veramente di due povere
disgraziate come noi? Che ascolti per
davvero le tue dannatissime preghiere? Che gli importi
abbastanza della sua
gente per smuovere il suo soffice fondoschiena piumato?!! Cresci,
dannazione!
Se fosse così, allora a quest’ora avrebbe
già fatto irruzione per-»
«WE
CAME IN LIKE
A WREEEEEEEEEEEEECKING BAAAAAAAAAAAAAAAAALL!»
L’esplosione del muro le
scaraventò contro la parete
opposta.
Lì, Myricae perse i
sensi.
«Mamminaaaaaa! Ti avevo
detto di essere delicata!»
«Sei stata tu a dire che
dovevamo entrare come una
palla demolitrice, ho solo seguito il tuo piano».
«Ma era in senso
metaforico!»
«Avresti dovuto
specificarlo prima».
«Ma era ovvio!»
«Non ho visto un cartello
con scritto “è ovvio che io
intenda che dobbiamo entrare come una palla demolitrice solo in senso
metaforico e non letteralmente, mamma, non devi veramente sfondare il
muro col
tuo grasso addome” vicino al tuo volto mentre parlavi. E
comunque siamo
riuscite nel nostro intento, l’importante è
questo».
«L’importante
è che siano ancora vive, e col colpo che
hanno preso non è un’eventualità da
dare per scontata! Se sono morte
prendendosi un mattone in fronte per colpa nostra, allora andrai tu a
dirlo ad
Harmonia, eh!»
«Ci andrò io,
ci andrò io. Intanto aiutami a
controllare, piuttosto che stare lì impalata a rosicchiarti
nervosamente i
cheliceri: è un brutto vizio, quello».
«Mai quanto quello di
sfondare cose!»
«Precisamente la stessa
cosa che mi disse tuo padre
quando riempii il suo stomaco con centinaia di uova. Pace
all’anima sua».
“Harmonia?”
A sentire il nome
dell’amata, la naga dalle squame color smeraldo riprese
conoscenza.
O almeno ci provò,
ancora
mezza intontita -e assordata- com’era dal boato di prima che
le ronzava nelle
orecchie, impedendole di pensare e collegare dei volti a quelle voci.
«Buonsalve a te, bella
addormentata nel Tauremorna, riposato bene?»
Si stropicciò gli occhi,
strizzandoli nel tentativo di mettere a fuoco i contorni indistinti del
viso
della persona che gli stava parlando.
«Uh…?»
«Credevo fossi
schioppata,
sai? Lo scettro di quell’allucinata di Emilia Gianna non
è proprio uno
stuzzicadenti, e -infilzata come un pezzo di carne allo spiedo
com’eri- ero
pronto a scommetterci le palle, sulla tua dipartita»
commentò una voce maschile,
seccata «e su quella di tua madre, soprattutto sulla sua. Ero
convintissimo di
averla pestata a sufficienza da spaccarle la testa, da annegarla nel
suo stesso
sangue, da farla implorare di morire dalla vergogna di non avere
più quei bei
serpentelli bianchi in testa, e invece scopro che è viva e
vegeta! Per lo
scroto di Quetzalcoatl, giuro che era più morta che viva,
quando l’ho lasciata
laggiù, era più di là che di qua! A
saperlo prima, mi sarei tolto lo sfizio di
buttarlo nel culo ad un’Ophidians come Emilia Gianna! E io
che temevo di
sembrare un necro-»
Gli incisivi di Phobos tintinnarono
a terra.
Non si fece domande sul
perché lui fosse lì, nell’atrio semi
distrutto -da lui stesso, suppose- del
tempio di Quetzalli, non se le fece su chi gli avesse legato polsi e
caviglie,
non se ne fece nemmeno su chi avesse sfondato il muro della stanza
sotterranea,
liberandola.
Semplicemente, con la
coda gli afferrò i lunghi capelli cremisi, sollevandolo per
gli stessi fino a
portarselo davanti al volto. Lo fissò per minuti interi,
disgustata.
«Quello che ti ho appena
dato era per esserti preso la libertà di trascinare quel tuo
brutto muso
schifoso che puzza di birra e patetismo fuori
dall’Abisso» ringhiò, gli occhi
verde lime iniettati d’odio, rabbia, ribrezzo, resi
completamente folli dalla
voglia di farlo evaporare dalla realtà a suon di botte.
Ritrasse il braccio.
«Questo è per
come hai
ridotto Harmonia».
Un montante ben assestato
al centro della mandibola, e l’arcata dentaria inferiore si
riversò fuori dalla
bocca insanguinata del rosso come una cascata.
«Questo è per
ciò che hai
fatto a mia madre».
Un violento gancio sul
naso, e di quest’ultimo rimase solo una grumo informe di
carne e sangue e ossa
ridotte in frammenti schiacciato sul viso.
«Questo è per
me».
Due pugni in
contemporanea sulle tempie, e Phobos crollò a terra
tramortito, preda di
violenti tremori che gli facevano ingoiare lo stesso sangue che colava
copioso
dal naso maciullato, dalla bocca ridotta a un campo di guerra, dalle
orecchie
che -da dopo l’impatto- lo stavano facendo impazzire a furia
di martellargli la
mente con uno straziante e acuto stridio metallico.
A vedere come annaspasse a
trovare fiato e avesse la pupilla completamente dilatata, la naga
capì presto che
-complice la robusta corazza di squame che ricopriva le sue nocche-
l’ultimo
colpo doveva avergli provocato un brutto trauma cranico. Sorrise.
Lentamente, iniziò ad
avvolgersi il corpo con le spire color smeraldo, stringendolo nelle
stesse per immobilizzarlo.
Gli si avvicinò all’orecchio.
«Segnati la posizione
delle ossa, Phobos, perché ora te ne darò
talmente tante che ti servirà un GPS
per ritrovarle tutte».
Il pestaggio che seguì
quelle parole fu talmente brutale, che menti né mortali o
immortali avrebbero
potuto trovare nomi e verbi e aggettivi adatti a descrivere anche solo
le grida
gutturali del rosso, più simili a latrati di un qualche
animale agonizzante che
a qualcosa di umano.
Resa cieca dalla voglia, dalla necessità, di vendicare
il dolore
subito tanto dalla propria madre quanto dalla propria compagna, Myricae
non saveva
smesso nemmeno un secondo di riversare su di lui la propria furia
primordiale,
ferale, selvaggia, una furia che sapeva di sangue e saliva e liquido
cerebrale.
Aveva creduto di potersi contenere, di riconoscere quando dirsi
“basta”, si era
ripetuta e ripetuta e ripetuta “non mi abbasserò
al suo livello, gli darò
giusto una lezione”, ma -una volta iniziato- non era
più stata in grado di a
fermarsi: un pugno solo, il primissimo, e subito era stata trascinata
in una
spirale di follia che odorava di castigo, di giustizia, di morte.
Forse aveva sbagliato, ma
al contempo si era sentita viva, vivissima, carica come non mai:
sarebbe stata
un mostro se avesse fatto del male a un innocente, lo sapeva bene, ma
sarebbe
stata riconosciuta innocente per averne fatto a un mostro.
Che comunque si
rigenerava ogni tre per due, quindi non era nemmeno poi così
tanto in
svantaggio.
Ancora con l’adrenalina a
mille e intenzionata a rimediare definitivamente a quel piccolo
dettaglio, lo
tirò su da terra di peso, tenendolo saldamente per le spalle.
«Inizialmente,
l’intenzione
sarebbe stata quella di infilarti un’alabarda nel culo per
sventolarti come una
bandiera, lanciando in aria le tue unghie e i tuoi denti come se
fossero stati
coriandoli, ma noto con dispiacere che i tuoi tessuti di rimarginano
troppo in
fretta per poterlo fare» asserì la naga,
fingendosi affranta «ma possiamo rimediare».
«Uh uh! Fono proprio
curiofo di fapere cofa ti frulla in quella tua teftolina da
rettile!» squittì
uno sdentato ma entusiasta Phobos «Intendi fculacciarmi,
forfe? OH YEF! FPANK
ME MOMMY! FPANK ME HARDER! È il mio fogno erotico quello di
effere fculacciato
da una ferpenteffa!»
«Posso pure provarci, se
proprio ti aggrada l’idea» aprì la
bocca, la mandibola -flessibile e totalmente
dislocata dal cranio, proprio come quella degli ofidi ai quali la sua
razza
somigliava- che iniziò lentamente ad allargarsi di
più, ancora di più, fino a
raggiungere un’ampiezza tale da rendere chiaro il
perché le Ophidians potessero
ingurgitare una Sylkes intera «sempre che avrai ancora un
culo da sculacciare» la
pelle dell’esofago tesa a livelli a dir poco grotteschi,
talmente tanto da
sembrare che -trasparente com’era divenuta- potesse lacerarsi
da un momento
all’altro «una volta che i miei succhi gastrici ti
avranno digerito».
«Sei cannibale?»
«C’è
sempre una prima-»
«Tanya,
yeldë».
Si bloccò.
Alzò lo sguardo: aveva
avuto spettatrici fino a quel momento, allora, spettatrici che
comprendevano
sua madre, Antares e la genitrice di quest’ultima, la regina
Engaruka.
A vederla, Myricae provò
un misto fra sorpresa e preoccupazione: per quale motivo aveva lasciato
la
sicurezza del suo nido per farsi trovare lì, nel cuore di
Quetzalli?
Considerando che le loro razze erano rivali -essendo le donne ragno lo
spuntino
preferito dalle naga- per natura, che il suo grosso e tozzo corpo
violaceo -che
da solo superava i quattro metri d’altezza- era talmente
pesante da
costringerla a fare lunghissime pause un metro e l’altro e
che, soprattutto,
l’estinzione delle Ophidians sarebbe stata una notizia per la
quale lei e le
sue simili avrebbero solo potuto e dovuto gioire, la sua presenza
lì non
trovava giustificazione né in cielo, né in terra,
né in mare.
Ma la trovava nell’atrio
semi distrutto del tempio, e quello bastava e avanzava.
Seguì qualche istante di
imbarazzante silenzio durante il quale ritrasse la mandibola, poi
Antares le saltò
letteralmente addosso, gettando malamente Phobos da una parte.
«TI SEI FINALMENTE
SVEGLIATA! TI SEI SVEGLIATA E STAI BENE!» iniziò a
coprirla di baci sulla testa
e sul collo e sul naso, si mise persino a baciare uno per uno tutti i
serpenti
che aveva sul capo, facendoli sibilare contenti «Io ro
così in pensiero!
Harmonia era così in pensiero! Naevia era- no, beh, lei non
è mai in pensiero
per nessuno… MA FA NIENTE! Sei viva, e io sono talmente
contenta che potrei
cambiare esoscheletro per l’emozione!!!»
«Anche io sono felice di
vederti, anche io» ricambiò sfregandole la mano
sulla schiena con fare fraterno
«ma evita di fare la muta proprio ora, o l’odore
dei feromoni che rilascerai attirerà
fior di Ophidians. E non mi pare proprio il caso, visto dove ci
troviamo» rise.
Gettò lo sguardo verso
Phobos.
«Perché lui
è qui?»
«Lo abbiamo catturato
noi»
intervenne la regina ragno, indicando se stessa e la figlia
«poco prima di
scendere a soccorrere te e tua madre. Se non fossimo arrivate prima di
lui,
allora stai sicura che non saresti qui a parlare: stava venendo a
finire il
lavoro che aveva iniziato, da quel che ci ha detto».
«“Da quel che
vi ha
detto”? Vi ha seriamente detto qualcosa di utile?»
«Oh, sicuro! È
stato
sufficiente minacciare di inseminarlo, per fargli rivelare le sue
intenzioni, e
da lì ci ha detto dove vi trovavate; allora, siamo subito
venute a portarvi via
da questa trappola di pietra che sta letteralmente cadendo a pezzi. Si
è
dimostrato piuttosto collaborativo, comunque».
«Mi avevi fpogliato della
gonna e ftavi per ficcarmi delle uova nel culo!»
sbraitò Phobos, dimenandosi
furiosamente nel tentativo di liberarsi «Ho dovuto efferlo
per forza di-»
Una bavaglio di tela da
parte di Antares, e tacque.
«Sì,
può darsi che sia
stato per quello. Comunque sia, l’importante avervi trovate,
e averlo fato
prima che accadesse il peggio» lanciò
un’occhiata alle ancora visibili ferite
di Phentesilea «... che è accaduto, in effetti, ma
poteva andare molto più
male, immagino. Qualche ora di
anticipo non sarebbe dispiaciuta a nessuno, ma del resto abbiamo dovuto
attendere che tu» si rivolse a Myricae «incendiassi
un pezzo di foresta, per
notare la tua richiesta di aiuto e rinforzi, motivo per cui abbiamo
avuto le
mani legate fino a quel momento».
«L’incendio?»
ripeté l’interpellata,
confusa.
«L’incendio,
sì» confermò
la Sylkes «quello che hai appiccato ai confini del
Tauremorna, vicino a
Phantasia. Te lo sei già scordata?»
Dall’altra non provenne
alcuna risposta.
Engaruka lasciò passare
pazientemente
qualche istante, convenendo che forse l’Ophidian dovesse
ancora riprendersi e
abituarsi all’idea di essere ormai al sicuro; dopo minuti
interi di silenzio
totale, però, la sovrana la sfiorò con una zampa.
«Tutto bene? Sembri
più
sorpresa di quanto dovresti essere».
«Sto bene»
mentì, decidendo
di tenere per sé la consapevolezza di non aver appiccato
nessun incendio, né
tantomeno di farlo per avvisare chicchessia: la situazione era
già tragica,
meglio non spargere ulteriore panico inutilmente «sono solo
ancora un po’
tramortita, ma sto bene. Piuttosto, vi ho sentito parlare di
Harmonia» si
affrettò a cambiare argomento «dove si trova?
Vorrei raggiungerla».
«Fossi in te non lo
farei, Myr-Myr, è un po’… nervosetta,
ecco» mormorò timidamente Antares, arrossendo
imbarazzata.
E come biasimarla?
Se l’era fuggita senza
dirle nulla, si era messa in guai talmente grandi da esserle
completamente
sfuggiti di mano e, dulcis in fundo, aveva pure rischiato di rimanerci
secca:
secondo la sua modesta opinione, era già tanto che la sua
donna non l’avesse
esiliata da Phantasia, dopo averle creato tanti disagi. Coi suoi gesti
aveva
voluto salvaguardarla da ulteriori preoccupazioni, ma era finita per
dargliene
tre volte tanto.
Nonostante il senso di
colpa e il terrore che uno dei suoi moti d’orgoglio potesse
aver rovinato quasi
sette secoli di relazione, Myricae riuscì a mostrare una
freddezza proverbiale,
degna del generale quale era.
«Dove si
trova?»
insistette.
«Io non-»
Un’occhiata, e
l’ostinazione
della piccola Sylkes venne meno.
«Era in procinto di
guidare le truppe nella marcia sul Tauremorna, quando ci siamo divise
dal
gruppo per venirvi a cercare e assicurarci che tutto fosse sgombro per
la
battaglia: se hanno continuato con quel ritmo, allora credo sia ormai a
metà
strada, forse qualcosa di più».
Non le servì sapere
altro
per decidere il da farsi.
Uscendo dal tempio,
allungò al volo una mano per strappare dalle fauci di un
serpente di pietra una
grossa zanna di una qualche gemma non meglio definita; raccolse uno
spesso
bastone da terra, la legò alla bene meglio alle
estremità et voilà, una
primitiva lancia nuova di zecca.
A vederla, una
curiosamente pallida Phentesilea le afferrò un polso,
fermandola.
«Dove vai?»
«Da lei»
rispose secca,
liberandosi piano dalla debole presa di sua madre «sono il
generale di
Phantasia e sono la sua compagna, le ho procurato troppi problemi per
non
andarle incontro e, almeno, aiutarla a sistemarli, per quanto
possibile».
«Vengo con te».
«No, non questa volta.
Resterai qui finché tutto non si sarà sistemato,
sei più al sicuro in questo
luogo che da altre parti». Le strinse le mani «Non
sono riuscita a impedire che
ti facessero del male una volta, la seconda non potrei mai
perdonarmela, mai: ti prego,
ma’, dammi retta e resta
qui, lo faccio per te, per noi».
«Ma tu-»
«Io starò
attenta, te lo
prometto, ma devi esserlo anche tu: se vogliamo tornare ad essere una
famiglia
come lo eravamo una volta, allora dobbiamo esserci tutte e tre. E
venire con me
non è l’opzione migliore per assicurarsi la
sopravvivenza».
Sapeva, però, che
Phentesilea non si sarebbe mai accontentata di starsene con le mani in
mano
mentre la sua terra veniva devastata.
«Se proprio vuoi fare
qualcosa, allora fatti accompagnare in città da una di
loro» indicò le due Sylkes
«e spiega a tutte cosa sta succedendo; dì loro di
prendere le bambine,
barricarsi dentro gli harem e chiudere tutte le entrate: attualmente,
quelli
sono i posti più sicuri dove trovarsi, restare in strada
espone a troppi agenti
atmosferici che Madre Natura potrebbe facilmente controllare»
le spiegò.
Leggendo la
preoccupazione nei suoi occhi, le sorrise.
«Quanto a me…
ehi, ho
nelle vene il sangue di due delle più
grandi Airë Tári che abbia mai
conosciuto, cosa mai potrebbe andare
storto?»
«Tutto, a dire il
vero»
rise Phentesilea «ma suppongo che non saprei dirti nulla in
grado di
convincerti a lasciarmi venire o a restare qui con me, per
cui» fece spallucce.
Maternamente, le accarezzò la guancia «Quanto ti
sento parlare, mi sembra di
stare conversando con tua madre Hippolyta, sai? Testarda, cocciuta,
ostinata, permalosa
e tremendamente orgogliosa, talmente tanto da essere pronte a morire,
piuttosto
che chiedere aiuto a chicchessia».
«Ma abbiamo anche dei
difetti».
Le diede uno scappellotto
sulla nuca.
«Dei difetti, e anche lo
stesso senso dell’umorismo!»
Con le lacrime agli
occhi, l’abbracciò.
«Tiro na nin»
le afferrò
dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi
«Ennas ad estel,
da’len, ennas ad estel im melithon. Rina amin, cormamin niuve
tenna’ ta Amìl’elea
lle au’».
«Han iston»
rispose,
stringendosela al petto con tutta la forza che trovò in
corpo, piangendo senza
vergognarsene: a Phentesilea non aveva detto nulla per non farla
preoccupare
ulteriormente, ma -per quanto poteva saperne- quella sarebbe potuta
essere
l’ultima volta in cui si sarebbero viste, dopo essersi perse
per sette secoli.
Ciò che sarebbe accaduto una volta che la battaglia avesse
iniziato a infuriare,
nessuno lo sapeva.
Nonostante non volesse
staccarsi da quell’abbraccio che sapeva di casa, di amore, di
salvezza, fu
costretta a farlo, interminabili minuti dopo.
«Tollen i lû
nîn si boe
bedin» enunciò lasciandola piano, lentamente, come
ad assaporarsi i loro
-forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene,
il cuore le andò
in frantumi «Tenna’ telwan,
Amìl» la salutò.
«Tenna’ telwan,
da’len»
ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la
figura di sua figlia,
lentamente, scompariva fra gli alberi «Mae marth»
sussurrò, un “buona fortuna”
che Myricae -già lontana- non sentì.
La fortuna era tutto ciò
di cui aveva bisogno, adesso.
---
Più contemplava il fumo
che saliva dalla foresta in fiamme, più l’ipotesi
che fosse tutta opera di
Phobos iniziava a sembrarle un dato di fatto.
Era riuscita a liberarsi
di lui all’ultimo, allontanandolo con la scusa di andare a
finire il lavoro
iniziato con Myricae dal momento che “è stata
sicuramente lei ad appiccare il
fuoco, avrà voluto avvisare la sua fidanzatatina”,
ma ormai il danno era stato
fatto: Harmonia l’aveva certamente già notata,
quella nube nera, e -per quanto
ne sapesse lei- forse si stava anche già organizzando di
conseguenza.
Non temeva uno scontro
diretto, anzi, però -ora come ora- avrebbe preferito
evitarlo: controllava i propri
poteri, sì, ma non come avrebbe voluto.
Forse era solo una sua
impressione, forse doveva solamente darsi tempo, forse era la paranoia
che
l’aveva assalita da quando aveva visto il rosso col suo
scettro in mano a
pensare al posto suo, stava di fatto che sentiva come se…
come se… come se le
mancasse qualcosa, ecco. Non trovava parole per descrivere quella
sensazione,
ma stava come Lord Voldemort alle prese con la bacchetta di sambuco: la
controllava, la utilizzava, ne traeva beneficio, ma non poteva
sfruttarne
appieno le devastanti potenzialità, non essendone il
legittimo possessore. Inoltre,
come Riddle, nemmeno lei aveva idea di chi dovesse uccidere per
risolvere
quella spiacevole situazione.
Phobos fu il primo
sospettato: era stato lui a rimettere insieme lo scettro, che quello
ora
obbedisse solo ai suoi comandi? Improbabile, gliel’avrebbe
rivolto contro da un
pezzo.
Harmonia, forse? L’aveva
disarmata, trent’anni fa, e la bacchetta suprema apparteneva
a chi l’avesse
strappata al proprietario! Nah, con lei lo scettro aveva fatto la fine
del
secondo dono della morte nelle mani di Potter: spezzato e gettato via.
Myricae? Che il suo
sangue avesse creato un qualche strano legame con il bastone e i poteri
in esso
contenuto? Poco verosimile, probabilmente era già-
Zac.
Girò il capo: due
centimetri più a sinistra, e quella sorta di spada ricurva
le si sarebbe
conficcata nella coscia, anziché nel tronco sul quale era
appollaiata.
Non ebbe nemmeno bisogno
di sbirciare con la coda dell’occhio dietro di sé,
per sapere a chi
appartenesse quell’arma: Ophidians, indubbiamente, le stesse
che Myricae aveva
detto stare venendo a cercarla.
Sorrise.
Bastone alla mano, si
voltò per studiare le proprie nemiche: una dozzina? Tutto
lì ciò che Quetzalli
aveva da offrirle come riscaldamento? E lei che se ne aspettava
chissà quante,
ah!
Subito, individuò quelle
a capo del gruppo, due soltanto. Ripescò velocemente
ciò che aveva appreso
dalla sua breve esperienza all’interno dell’harem,
mettendo insieme i tasselli
per ricostruire le identità di quelle Ophidians.
Pelle azzurrina, squame
blu e nere, due vistose cicatrici sotto l’occhio destro, di
un arancio acceso,
la coda adornata con una moltitudine di ruxal'
ambönnar
tintinnanti appartenenti alle regine sconfitte: Airë
Tári Hippolyta, la
consorte di Phentesilea, che stringeva fra le mani la pesante catena
alle cui
estremità erano agganciati due arakh di un qualche metallo
scuro, uno dei quali
era lo stesso che le aveva scagliato contro.
Pelle di un profondo
color ebano, squame che andavano da un delicato tono crema fino a un
metallico
color oro e bronzo e rame, gravida: quella squilibrata di Airë
Tári Antiope
tridente alla mano, senza dubbio.
Non avrebbe proprio
potuto chiedere di meglio.
Con uno strattone, la
prima serpentessa strappò la spada dal tronco con impeto
tale che quest’ultimo,
ancorato al suolo, venne letteralmente sradicato e sollevato per aria
di
qualche metro, prima di ricadere.
Colta alla sprovvista da
tanta forza bruta, Emily Jane riuscì a gettarsi
giù dal fusto dell’albero solo
all’ultimo, ruzzolando per terra; col cuore in gola, si
guardò il dito: fortunatamente
per lei, l’anello -o meglio, lo scettro- era intatto.
Tirò un sospiro di
sollievo.
L’arakh tornò
nelle mani
dell’Ophidians dalla pelle cerulea, che si riavvolse la
catena in vita
strisciando verso di lei.
«Veniamo per catturare
una gweriadir, e ci troviamo davanti nientepopodimeno che Madre Natura:
il
mondo è davvero piccolo, non trovi?»
«Lo
è» convenne la
Pitchiner, alzandosi «motivo per cui ho deciso di fare le
pulizie di primavera
per sgombrare spazio, prima di dominare questo insulso pianeta. Stavo
pensando
che Quetzalli potrei adibirlo come bagno padronale, con tutte le
piscine e le
oasi che avete negli harem, ma sono indecisa sul colore delle
piastrelle:
meglio color pesca, o albicocca? Chartreuse, forse? Magari un bel
fucsia
bordesto lillato! Oppure-»
Hippolyta incrociò le
spade nell’incavo fra il collo e la spalla.
«Che ne dici del colore
del tuo sangue? Credo proprio che sarebbe perfetto per tinteggiare le
pareti,
lascia giusto che ti stacchi la testa per usarla come pennello
così-»
«Ucciderla sarebbe uno
spreco!» intervenne Antiope, levando con la coda
l’arma così pericolosamente vicina
al collo di Emily Jane.
Si avvicinò a lei,
iniziando a squadrarla da capo a piedi con aria incuriosita.
«Piuttosto, sarebbe un
ottimo esemplare per il mio harem: giovane, graziosa, snella, pelle
morbida, con
un culetto niente male» le diede una forte pacca sul
fondoschiena, dopo la
quale esibì un’espressione di pura sorpresa
«pure abbastanza sodo! Ottimo!
L’unica cosuccia che mi lascia perplessa sono questi due
affarini» con altrettanta
calma, le saggiò il seno con le mani squamate, perplessa
«Che dici, Hippolyta, credi
che una sega con queste riesca a farmela?»
«Se ti accontenterai di
riceverla da un cadavere, allora sì» le rispose
irritata. La scansò «Ma ora
vediamo di farla finita, perché questo penoso teatrino mi
sta facendo esplodere
gonadi e ovaie e beh, sai com’è, quelle mi
servirebbero ancora per figliare»
premette le lame sul suo collo pallido, facendo colare un rivolo di
sangue che
tinse le foglie dell’abito «ultime
parole?»
La figlia dell’Uomo Nero
sorrise.
«Solo due: sono
intoccabile».
«Addirittura?»
«Addirittura,
sì»
confermò «perché, vedete, Harmonia
è più interessata a me di quanto potreste
mai esserlo voi tutte nelle vostre -ancora per poco- immortali
esistenze, motivo
per cui tenermi qui rischierebbe di degenerare in un brutto incidente
burocratico. Non credo che voi-»
«Harmonia può
andare a
farsi fottere insieme a tutta la sua corte, per quanto
m’importa della sua
strafottuta opinione: sei finita a Quetzalli, e verrai giudicata
secondo le
leggi di Quetzalli. Se Harmonia ha qualcosa da controbattere, che parli
con
questi» con lo sguardo, indicò i propri arakh
scintillanti «proprio come farai
tu fra qualche istante».
«Ne siete così
certa?»
«Non ho motivi per non
esserlo» fece spallucce «sarai pure Madre Natura,
ma senza i tuoi poteri cosa
credi di poter fare a noi dodici, eh? Intrecciare una gabbia di rami di
vimini
dove intrappolarci? Far crescere delle ciliegie da offrirci, pregando
che ci
strozziamo con i noccioli? O forse vuoi lanciarci del polline addosso,
magari sperando
che inizieremo a starnutire fino alla morte!» rise.
«Nah, non voglio i vostri
germi sul mio divino corpo» agitò le mani davanti
a sé. Si fece pensierosa
qualche istante, poi schioccò le dita «Ho
trovato!»
Un rapido movimento della
mano, e lo scettro le comparve fra le dita.
Lo piantò nel terreno.
Il suolo tremò, radici
immani lo sventrarono protendendosi verso il cielo come fiamme in un
camino, ruggiti
demoniaci si levarono alti dal ventre della terra.
Prima che le Ophidians
fossero in grado di contrarre i loro muscoli facciali in
un’espressione che era
un misto fra incredulità, paura e tanta, troppa,
sorpresa, prima che potessero anche solo tentare di fermarla
scagliandosi
contro di lei ad armi spiegate, prima che potessero realizzare di stare
per
morire, le immani bocche di una manciata di gigantesche piante
carnivore si
serrarono intorno ai loro corpi serpenteschi.
Li divorarono, li
dilaniarono, li sventrarono, li strapparono, li ridussero in poltiglia.
Quando la Pitchiner diede
il segnale di smettere, delle dieci soldatesse Ophidians non erano
rimasti che
deformi grumi insanguinati di carne e organi e squame. A cinque metri
metri da
loro, volontariamente risparmiate dalla furia omicida di quelle bestie,
Hippolyta
e Antiope, ammutolite.
Si scambiarono
un’occhiata fugace: erano nei guai fino al collo.
E nessuno lo sapeva.
Emily si voltò verso di
loro.
«Credevate che mi fossi
dimenticata di voi?» sorrise.
Detto fatto, i viticci e
le radici di quelle stesse piante si scagliarono contro le due regine,
avvolgendosi prima intorno alle loro code, poi ai loro arti per
immobilizzarle;
da parte di entrambe, però, non venne a mancare
un’eroica quanto inutile resistenza.
Dando mostra di
un’insospettabile agilità nonostante la
già avanzata gravidanza, Antiope mulinò
il proprio tridente in aria recidendo ramo su ramo, rizoma su rizoma,
testa munita
di affilate zanne color
avorio su testa,
fino a quando non riuscì a liberarsi dall’inferno
verde che l’aveva circondata;
in suo aiuto arrivò Hippolyta, che -arakh alle mani- si
unì al disboscamento:
forse erano rivali e competevano per chi delle due avesse
l’harem più grande,
ma ora non era il momento per tirare fuori vecchi rancori e farsi la
guerra.
Avevano una nemica comune, combattevano per la stessa causa, avevano
entrambe
qualcosa o qualcuno da proteggere: unire le forze erano
l’unico modo per
uscirne vive.
O almeno provarci.
Il sollievo delle due
serpentesse nel vedere che il loro strenuo collaborare stava dando i
suoi
frutti durò ben poco, il tempo necessario a rendersi conto
che -come il
leggendario idra- quelle piante carnivore si moltiplicavano
esponenzialmente:
ne abbattevano una e ne crescevano due, ne abbattevano due e ne
crescevano
quattro e così via, e via, e via, in un circolo vizioso
senza fine che sarebbe
terminato solo con la morte di una delle due parti. E loro due proprio
non
avevano la capacità di farsi ricrescere il capo, se
decapitate.
La Pitchiner -appollaiata
sul fusto di una delle sue creature e intenta ad accarezzarla- rimase a
godersi
lo spettacolo per un po’, ma a un certo punto finì
per annoiarsi anche di
quello.
Sbuffando seccata, portò
le mani davanti a sé tenendo il palmo girato verso
l’altro: richiuse lentamente
le dita su di esso tenendole estremamente tese, dure, quasi
pietrificate; osservò
attentamente i movimenti delle sovrane, attendendo il momento propizio.
“Ora”.
Chiuse il pugno.
Le urla che provennero
dalle gole delle due naga non furono nulla di terreno
Se fino a poco prima
le Airë Tári erano entrambe occupate a
difendere la propria città, adesso se ne stavano
lì, inermi e immobili, le armi
abbandonate a terra e i corpi letteralmente impalati in più
punti da
giganteschi cristalli di lattiginoso quarzo sbucati dal terreno.
Antiope gettò lo sguardo
verso il cristallo coperto di sangue che le usciva dal centro del
ventre, fissandolo
perplessa col sopracciglio alzato.
«Uhm… Ho la
vaga
sensazione di aver appena abortito, sai?» riferì
qualche minuto dopo alla
compagna, con tutta la calma del mondo. Uno dei serpenti sui suoi
capelli le si
accostò all’addome, come a mettersi in ascolto di
qualcosa; pochi secondi, e si
avvicinò all’orecchio della sua padrona, sibilando
«Confermo: niente battito, sono
proprio andate tutte quante. E va beh» fece spallucce.
«E lo dici
così, come se
nulla fosse?!!»
«Quante storie. Come mi
sono inseminata questa volta, posso pure farlo di nuovo, sono sempre in
tempo
per averne altre, di bambine».
«Ne hai perse
tre!»
«Vorrà dire
che la
prossima volta ne farò quattro»
minimizzò.
«Ma sono sempre tre in
meno!»
«Ma come sei
noiooooosaaa! Che due palle! Manco fossi mia madre, poi!»
sbuffò evidentemente scocciata
«Importa più a te delle mie figlie perdute di
quanto possa mai importare a me,
che sono -ero- la loro madre! Datti una fottuta calmata e rilassati,
Hippolyta!
Piuttosto, guarda il lato positivo».
L’Ophidians cerulea
strabuzzò gli occhi d’ambra.
«Riesci davvero
a trovarci un lato positivo?!!»
«Ora
c’è più posto per le
nostre, di figlie, così potrai inseminarmi e avremo le
nostre personalissime piccole
Ophidians!» la guardò sognante
«Dì ai tuoi spermatozoi che la camera è
tornata
sfitta, ho già un ovulo caldo caldo disposto ad affittarla
loro mooolto volentieri
per i prossimi mesi, ovviamente previa stipulazione di un contratto fra
i
nostri organi genitali!»
Emily Jane -che
inizialmente aveva guardato quella scenetta divertita-
s’incupì, trovando che
la vicenda stesse assumendo un aspetto a metà fra
l’assurdo e l’inquietante.
«Che genere di problemi
ha?» chiese a Hippolyta, indicando l’altra.
Lei scosse la testa.
«Elencarli sarebbe
impossibile,
ma è ossessionata dall’idea che la
ingravidi nonostante io abbia già una
moglie. Non sarebbe qualcosa di strano, qui a Quetzalli, ma non sono
proprio interessata».
«Capisco. In questo
caso»
schioccò le dita, e l’enorme formazione
cristallina inghiottì letteralmente la
naga dalla pelle d’ebano, inglobandola «meglio che
se li tenga per lei, i suoi
problemi, iniziava a darmi sui nervi».
Senza perdere altro
tempo, si avvicinò alla consorte di Phentesilea, facendo
attenzione a non toccare
con la pelle nuda tanto i cristalli a terra quanto quelli che la
reggevano in
quella scomoda posizione di crocifissione: un solo tocco, e nemmeno lei
avrebbe
potuto evitare che il attecchissero alla sua divina persona,
trasformandola
lentamente ma inesorabilmente in minerale a sua volta.
Processo che in Hippolyta
stava già avvenendo, nelle zone dove il quarzo era penetrato
nelle carni, tanto
che buona parte delle teste dei serpenti sul suo capo erano ormai
ridotte a
semplici pietruzze scintillanti.
Emily Jane fece
tintinnare un rametto su uno di essi, ridacchiando: la minima
vibrazione, e
andò in frantumi. Sorrise.
«Qualche ora, e tu farai
la stessa fine» dichiarò soddisfatta
«contenta?»
Di tutta risposta, dando
mostra di invidiabili doti diplomatiche e di comunicazione,
nonché di una
particolare attenzione verso la psicologia dei gesti, Hippolyta le
sputò in
faccia. Del veleno a penetrazione transdermica, fra le altre cose, ma
questo la
Pitchiner non lo sapeva.
«Curioso» si
pulì «è lo
stesso identico modo in cui ha reagito Myricae quando-»
«Cosa
le hai fatto?» ringhiò la serpentessa
alzando la voce,
dimenandosi al punto da far ondeggiare persino i cristalli che la
tenevano
prigioniera, fottendosene altamente se così facendo finiva
solo per intrappolarsi
di più a sua volte.
«Giuro che se le hai
fatto qualcosa io-» si bloccò.
Con la coda dell’occhio,
guardò l’altra sovrana: no, non poteva permettersi
di tirare giù la
maschera, non senza avere la certezza che
Antiope fosse veramente incosciente
e
non stesse, invece, fingendo.
Decise di cucirsi la
bocca.
«Tu
“cosa”, uh? Mi
ucciderai? Mi torturerai? Mi ingraviderai?» rise la figlia
dell’Uomo Nero «Cosa
vuoi farmi, se ti confesso che ho trapassato tua figlia con il mio
scettro» lo
agitò «poi le ho strappato questo»
indicò il serpente che utilizzava come
cintura «dal capo mentre era incosciente per i colpi subiti,
e che poi l’ho
fatta gettare insieme alla sua adorata mamma ad aspettare la morte? Che
provvedimenti intendi prendere, per punirmi dall’aver
scopato, ingannato e
fatto torturare Phentesilea, la tua dolce e delicata e zuccherosa
mogliettina?
Non puoi nemmeno immaginare com’è ridotta, nemmeno
nei tuoi incubi riusciresti
a capacitartene!» sogghignò.
Le si accostò
all’orecchio.
«Ci hai ripensato e vuoi
forse consegnarmi ad Harmonia?»
«Con quello che costa la
spedizione fra un regno e l’altro, sono venuta a prenderti di
persona» la
corresse una voce fin troppo familiare alle sue spalle, spingendola a
girarsi «e
per fortuna che non ho scelto il pagamento in contrassegno, altrimenti
mi
trovavo pure il sovrapprezzo per lo scettro non previsto!»
«Cos-»
E Madre Natura cadde come
corpo stordito da una zoccolata in pieno volto cade.
Con tanto di uccellini
svolazzanti sul capo, giusto perché la Regina di Phantasia
era particolarmente in
vena di fare la simpatica.
O voleva solo percularla,
insomma.
Nonostante l’imbarazzante
silenzio, la centauressa non perse ulteriore tempo a starsene impalata
a
scambiarsi sguardi indecifrabili con la Airë Tári;
immediatamente, si posizionò
dietro i grossi cristalli che trattenevano e due sovrane: un colpo
secco con
gli zoccoli, e andarono in frantumi, dissolvendosi come polvere sciolta
dalla
pioggia.
Prima che si sciogliessero
del tutto, Naevia -in tenuta casalinga, a differenza
dell’amica, con nemmeno un
filo d’armatura addosso!- si abbassò e ne raccolse
qualche briciola, mettendola
poi in una provetta che si sfilò dalla vita.
«Ci servirà un
antidoto
per quelle» indicò le chiazze di minerali ancora
sul corpo della naga, che
-sebbene non si fossero staccate dalla pelle- almeno avevano arrestato
la loro
crescita «e per crearlo avrò bisogno di un altro
paio di ingredienti: sarà una
versione piuttosto rozza della pozione vera e propria, del resto senza
i miei
preparati che si trovano nel laboratorio e con così poco
tempo non posso fare
molto, ma funzionerà».
«Molto bene, procedi
pure.
Airë Tári Hippolyta ti accompagnerà in
città, dove sicuramente potrai trovare
tutto ciò di cui hai bisogno».
«Io farò cosa?» per la sorpresa,
mollò Antiope -che
si stava caricando in spalla- per terra.
Harmonia annuì.
«Scorterai Naevia a
recuperare il necessario per le cure di cui avete un estremo bisogno tu
e l’altra
regina, e lì resterai: a farti medicare, a riposarti, ad
aiutare a far
mantenere la calma, a sostenere le tue simili in questo momento di
estremo
pericolo, a-»
«Io non prendo ordini da
te, tantomeno da una gatta spelacchiata».
«Tale madre, tale
figlia»
notò la leopardessa.
La regina si lasciò
scappare una risatina.
«Considerando che sono
entrambe due Ophidians talmente testarde che quando
s’impuntano su qualcosa non
muovono le radici finché non marciscono da sole, direi
proprio che hai ragione!
Ma fortunatamente ha preso tante cose buone anche dalla sua
Amìl» si voltò
verso Hippolyta, guardandola dritta in quelle pozze color ambra
«la stessa Amìl
che ora, andando in città, potrai trovare ad aspettarti, se è andato tutto per il meglio».
A sentire quell’accenno
alla sua amata, la serpentessa -sempre così fredda e
distaccata e sicura di sé-
rimase interdetta qualche istante, immobilizzandosi con la bocca
serrata e gli
occhi spalancati per lo stupore: Phentesilea stava bene? Era davvero viva?
… Però la
Pitchiner le
aveva detto che era… che era...
No, Harmonia stava
mentendo solo per tenersela buona, doveva essere sicuramente cosi!...
ma che
interessi avrebbe mai avuto nel mentirle? Le aveva salvato la vita, se
avesse
voluto liberarsi di lei avrebbe tranquillamente potuto fingere di non
vederla e
passare oltre… che stesse dicendo la verità,
forse?
Gettò lo sguardo verso
il
sottile bracciale di “perline” -chiamarle
così sarebbe stata un’offesa alle
perle vere, con la forma tozza e irregolare che avevano!- di legno che
aveva al
polso, il primissimo regalo che le aveva fatto Phentesilea; dentro di
sé,
sorrise: lei si era presentata con un opale fra le mani, mentre quella
che
sarebbe diventata la sua futura consorte con cosa era arrivata al loro
appuntamento?
Un bracciale di legno e
corda malamente intrecciato, intagliato pure peggio e, ciliegina sulla
torta, mezzo
mangiucchiato dalle termiti.
Sul momento era stata
tentata eccome di rispondere al suo “Ti piace?” con
un’espressione di pietà e
compassione in volto, ma poi aveva abbassato lo sguardo sulle sue mani
bianche
sempre così morbide e curate: schegge, tagli e morsi di
insetto, tutto per
farle un regalo. A lei, che la pietra portatale come presente
l’aveva trovata
semplicemente per caso, senza scarnificarsi le dita a scavare la terra.
Da allora, quel dono che
ai suoi occhi valeva più del suo intero harem e quella
minuta naga dalle squame
colore dell’alba erano diventati i suoi tesori più
inestimabili. Loro, e anche
Myricae.
Tirò un profondo
respiro,
inalando più ossigeno di quanto i suoi polmoni potessero
contenerne.
«Seguimi».
Non aggiunse altro: si mise
gli arakh in vita, prese Antiope sulle spalle e si strinse nelle
spalle,
attendendo che Naevia -dopo essersi scambiata un’occhiata con
la propria
regina- le si affiancasse.
Strisciando, si fermò
quando passò a lato della centauressa.
«Sia chiaro che lo faccio
solo per la mia famiglia» le disse severa, senza distogliere
lo sguardo da
davanti a sé «Non per te, non per Quetzalli, non
per Exodus: solo per mia
moglie» fece una breve pausa, mordendosi le labbra
«e per la mia bambina.
Riportamela a casa intera, Harmonia».
«Conto di poterlo fare
con tutta la città» le sorrise. Fece un breve
inchino «Grazie, Hippolyta,
apprezzo il tuo aiuto».
«Tsk, aspetta a
ringraziarmi, che se tu mai dovessi tornare col cadavere di mia moglie
o di mia
figlia fra le braccia, allora beh» fece tintinnare le spade
«stai pure sicura
che costituirò un problema ben peggiore di Madre
Natura» concluse.
Vedendola strisciare via
in compagnia dell’altra, il sorriso della regina
lasciò posto ad un’espressione
corrucciata: aveva promesso che avrebbe tirato fuori Myricae viva da
quella
situazione, ma lei nemmeno aveva idea di dove fosse, Myricae.
Come non aveva idea che
Emily Jane le si stesse avventando alle spalle a lame di ghiaccio
sguainate.
______________________________________________________
Angolino dell’autrice
Autrice che è in leggero
ritardo, ma questi sono dettagliH :D
Spero che con tuuuuutte
le cose che sono accadute in questo capitolo il tutto nel complesso non
risulti
confusionario, nel caso in cui sia così me ne scuso
profondamente! Per eventuali
dubbi, comunque, non esitate a chiedere, risponderò senza
problemi cercando eventualmente
di spiegarmi meglio :) senza spoilerare la vita, l’universo e
tutto quanto,
magari :’D
Detto questo, ringrazio
come sempre chi legge e chi segue e chi recensisce, vi amo tanto quanto
Giannemilia ama il proprio scettro, AWWete <3
Qui sotto
vi lascio direttamente le traduzioni di pezzi di dialogo, spero che si
capiscano di più che a fare una traduzione singola frase per
frase :)
- ORIGINALE
DAL TESTO -
«Tiro
na nin» le afferrò dolcemente il
mento, facendo sì che la guardasse negli occhi
«Ennas ad estel, da’len, ennas
ad estel im melithon. Rina amin, qa’cormamin
niuve’lla tenna’ ta Amìl’elea
lle
au’».
«Han
iston».
[...].
«Tollen
i lû nîn si boe bedin» enunciò
lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi
i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando
si girò per andarsene, il cuore le andò in
frantumi «Tenna’ telwan, Amìl»
la
salutò.
«Tenna’
telwan, da’len» ricambiò sua
madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia,
lentamente,
scompariva fra gli alberi «Mae marth»
sussurrò, ma Myricae -già lontana- non la
sentì.
-
TRADUZIONE -
«Guardami»
le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la
guardasse negli occhi «C'è
ancora speranza, piccola mia, c'è sempre speranza. Ricordati
di me, e del mio
cuore che dormirà fino al tuo ritorno».
«Lo so».
[...].
«E arrivato
il momento che io vada» enunciò lasciandola piano,
lentamente, come ad
assaporarsi i loro
-forse- ultimi minuti
insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le
andò in frantumi «A dopo,
mamma» la salutò.
«A dopo, piccola
mia» ricambiò sua madre,
stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente,
scompariva fra gli alberi «Buona fortuna»
sussurrò, ma Myricae -già lontana-
non la sentì.
Alla prossima!