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Autore: Neferikare    19/03/2018    1 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Non aveva un’idea precisa di quanto tempo avessero passato abbracciate in silenzio laggiù, nei meandri bui del tempio di Quetzalli, ma era stato sicuramente meno di quello passato a medicare alla bene e meglio le tremende ferite sul corpo di sua madre.

Scoperto di avere ancora legata in vita la propria saccoccia, e appurato che il contenuto di quest’ultima non era andato perduto durante lo scontro con Madre Natura, Myricae si era subito messa al lavoro a pestare e sminuzzare erbe e foglie e fiori medicinali -lì per insistenza di Naevia, che non le permetteva di lasciare il castello senza al grido di “non sia mai che possano salvarti la vita, un giorno”, mai come ora la ringraziava per tanta insistenza!- per preparare quei misteriosi intrugli amari appresi guardando quella gatta frigida all’opera nel suo laboratorio erboristico.

Se la regina aveva ricevuto tutte le approssimative cure necessarie, lei ne aveva fatto a meno: i suoi tessuti si stavano già rigenerando autonomamente, non aveva più un buco aperto in pancia, e tanto bastava per farla sorvolare sul resto del suo corpo dolorante.

Appena Phentesilea era stata in grado di parlare, Myricae non aveva perso tempo a tempestarla di domande su domande, prima fra tutte chi l’avesse ridotta in quello stato; quando aveva sentito pronunciarle il nome di Phobos -o meglio, di Phoebe- non ci aveva visto più: se prima voleva ammazzarlo e darlo in pasto ai “genitori” di Scarlet per quanto aveva fatto e stava facendo soffrire Harmonia, ora voleva la sua testa sopra il caminetto.

Quando aveva chiesto delucidazioni su come “Phoebe” fosse riuscita a entrare nella blindatissima Quetzalli, però, al generale della Regina di Phantasia erano cascate le braccia.

La vicenda aveva del tragicomico: il rosso era stato catturato da una principessa, trasportato all’harem di sua madre da una regina, lì era stato visto da un numero di schiave -fra le quali c’erano almeno una dozzina di Ophidians- compreso fra almeno duecento e trecento donne e, infine, portato dinanzi a una sovrana esperta, una Airë Tári; era pure stato cambiato di abiti, da quel che aveva visto, e quindi denudato. In tutto ciò, nessuno aveva notato che quello fosse un uomo.

Nessuno.

Nemmeno le sue simili che l’avevano visto sfilare per la città.

Era ridicolo, e anche tremendamente imbarazzante.

Inizialmente, avrebbe solo voluto inveire contro sua madre, chiederle come diavolo fosse stato possibile che una regina del suo calibro -che di concubine ne vedeva e ne esaminava e ne scopava a bizzeffe ogni giorno!- avesse potuto lasciarsi fuggire da sotto il naso non solo la mancanza di seno della nuova arrivata, non solo la sua voce mascolina, ma pure la presenza di un pacco in mezzo alle gambe.

Che magari era talmente piccolo da essere scambiato per un clitoride particolarmente sviluppato, c’era pure caso che le cose fossero messe così eh!

Poi aveva posato lo sguardo sugli occhi di Phentesilea, e allora aveva deciso di lasciar perdere: si sentiva già abbastanza in colpa di suo, infierire sarebbe stato stupido, inutile, crudele.

Aveva creduto che Phoebe fosse una qualche abitante rachitica del pianeta Dragsa, conosciuto per le sue donne che -fra l’essere montagne di muscoli e l’avere tratti particolarmente duri- di femminile avevano ben poco, e allora non si era fatta domande.

Come nemmeno Myricae se n’era fatte, conscia che rimuginare su cosa si sarebbe potuto e dovuto fare non avrebbe cambiato la loro situazione… anche perché, a fare un sincero esame di coscienza, pure da parte sua gli errori non erano certo mancati: avrebbe dovuto tornare al castello, riferire ad Harmonia ciò che aveva scoperto e organizzare una spedizione con lei, altro che fare tutto da sola credendo di potersela cavare senza l’aiuto altrui! Per ottenere cosa, poi? L’essere rinchiusa nelle segrete di un tempio isolato dal mondo con l’ossigeno che andava sempre più scarseggiando, forse? Aveva sbagliato, e quell’errore le sarebbe costato la vita.

Non sarebbe tornata a casa da Harmonia, né quella sera, né mai, causandole tanto e più dolore di quanto gliene avesse procurato Phobos da sette secoli a quella parte.

In fondo, non sarebbe stata poi tanto migliore di lui.

 

Da quando quella consapevolezza si era fatta strada nella sua mente fino a ora, la naga si era messa in un angolino, rivolta verso il muro, la coda tirata al petto e la testa poggiata su di essa, rifiutando qualsiasi contatto con la sua genitrice.

Quest’ultima, tuttavia, non pareva d’accordo.

Nonostante il dolore nello strisciare causato dalle zone sprovviste di squame, le si avvicinò piano, con cautela, attendendo di vapire se i serpenti sul suo capo fossero d’accordo nel lasciarla fare. Appurato che non l’avrebbero morsa, mise maternamente una mano sulla spalla di sua figlia, accarezzandogliela.

«Andrà tutto bene» le sussurrò.

Myricae si girò di scatto.

«Mi pigli per il culo?»

«No di certo, no» si affrettò a rassicurarla «dico solo che le cose vanno sempre bene, alla fine. Iniziano male, proseguono peggio, a volte, ma poi migliorano, devono migliorare. La natura si compensa da sola, da'len».

«Oggi mi chiami affettuosamente “da'len”, l’ultima volta mi chiamavi… mmmh, ce l’ho sulla punta della lingua…» tirò fuori la lingua biforcuta, indicandola mentre si fingeva pensierosa «ah, sì! “Gweriadir”, se non ricordo male! E so bene di ricordare perfettamente, madre, per cui» tornò a rintanarsi fra le proprie braccia, nascondendo il volto fra esse «lasciami in pace e torna a pregare il tuo dio, così magari ci farà dono di due cucchiai per scavarci un tunnel e uscire».

«Parli come se credessi che Quetzalcoatl sia capace di abbandonare due delle sue discendenti al proprio infausto destino».

«Parlo come chi ha pregato, ma non è mai stata esaudita» controbatté acida «per quanto mi riguarda, quel dio che tanto venerate in questa vostra gabbia d’oro mi ha dimenticata settecento anni or sono, e non intendo farmi ritrovare. Magari verrà per te, dato che gli sei così devota, ma non per me».

Phentesilea sospirò, sedendosi al suo fianco.

«Non verrà per nessuna delle due, né per qualsiasi altra Ophidians» asserì atona «Quetzalcoatl non è mai intervenuto di persona nelle questioni terrene, e mai interverrà. Ma agisce, quello sì… per vie misteriose e inesplicabili, forse, ma non abbandona nessuno, né lascia che le preghiere a lui rivolte rimangano inascoltate. Ho passato sette lunghissimi secoli a pregarlo giorno dopo giorno, notte dopo notte, e nemmeno a me ha mai risposto» allungando una mano, prese delicatamente il mento dell’altra, rivolgendolo verso sé «fino ad oggi, almeno» le sorrise.

«Cosa gli chiedevi, ma’? Di farti morire per asfissia insieme a quella traditrice senz’anima di tua figlia, magari?»

«Solo di farmi incontrare di nuovo la mia bambina, i modi e le circostanze non glieli ho mai specificati» rise la regina «mi bastava rivederti e poterti salutare, Myricae, nulla di più. Certo, avrei preferito che accadesse in un contesto diverso da questo, ma va bene lo stesso: se ci sei tu qui con me, allora sono ugualmente contenta».

«Sei contenta con poco» sbuffò.

«“Poco”?» ripeté Phentesilea, rizzandosi incredula «È molto più che “poco”, questo, è la gioia più grande che potessi avere come madre! Rivedere la mia piccola dopo secoli è- è- ah! Al diavolo! Non trovo le parole adatte!»

Le prese le mani fra le proprie, portandosele al cuore con le lacrime agli occhi.

«Temevo che non ti avrei più rivista, da’len, avevo… avevo… paura di non… di non vederti più, di dimenticare la tua voce, il tuo volto...» l’accarezzò «… il tuo profumo… avevo il terrore di… di svegliarmi una mattina e trovarmi Harmonia in casa, con… con…» iniziò a piangere «… con le tue spoglie fra le mani, da’len. Ero… ero terrorizzata, avevo incubi ogni notte su di te che… che… sai, sei il generale, per cui temevo che-»

«Sei stata talmente in pensiero per me che non sei mai venuta a rassicurarti sulle mie condizioni di persona, Amìl».

Con un movimento deciso, sfilò e ritrasse le mani da quelle dell’altra, cogliendola di sorpresa.

«Credi davvero che scappare mi abbia fatto piacere?» le chiese, piantandole addosso uno sguardo accusatorio  freddo come il ghiaccio «Che mi sia divertita, a dover fuggire di fretta e furia dal luogo nel quale ero nata e cresciuta? Che sia stato facile, andarmene e lasciarmi indietro una casa, una famiglia, una vita intera, e ricominciare da zero?»

Si alzò, guardandola dall’alto in basso mentre si alzava faticosamente facendo presa sul muro. Non l’aiutò, limitandosi a osservarla con aria pietosa.

«Rispondo io per te, statua di marmo: no, non c’è stato nulla di facile. Non è stato facile smettere di alzarmi di colpo in piena notte urlando, dopo aver sognato mia madre che calava l’ascia per eseguire la condanna dalla quale ero scappata. Non è stato facile rifarmi una vita, fingendo di non avere un passato. Non è stato facile abituarmi all’assenza di una Ammë tanto affettuosa quanto iperprotettiva, che s’informasse su dove fossi stata e con chi e per quanto, che mi aspettasse alzata con l’arakh in mano se fossi rientrata dieci minuti dopo l’orario pattuito, tremendamente preoccupata».

Le diede le spalle, indifferente, intenzionata a non permetterle -e non permettersi- di mostrare gli occhi gonfi di lacrime per il peso di quel dolore che tanto Harmonia, col suo amore, era riuscita a farle rilegare in un angolo buio della mente.

«Fuggivo dalla morte, fuggivo dalla mia gente, fuggivo dalle persone che avrebbero dovuto amarmi: se volevo vivere, allora non potevo rimanere» uno dei suoi serpenti le si strofinò sugli occhi, asciugandoglieli «Non è stato facile, ma non avevo alternative, voi non me ne avete date, voi-»

 

Il suono delle squame bianche che impattavano contro quelle color smeraldo della sua guancia riempì la stanza. Quando l’eco si disperse, Myricae si trovò con uno stampo di cinque dita di un delicato color rosso pompeiano in volto.

 

Immobile a massaggiarsi il viso, fissò la propria genitrice con aria di sconcerto, non si sapeva se più a causa dell’essere stata schiaffeggiata per la primissima volta nella sua vita, o perché suddetto schiaffo fosse provenuto proprio da lei.

Che non pareva affatto pentita del suo gesto, fra l’altro. Anzi, le afferrò pure due serpenti ai lati del volto e la tirò verso sé, portandola alla propria altezza.

«Smettila di comportarti come se fossi stata l’unica a non aver avuto alternative!» sbottò la naga bianca, fulminandola con lo sguardo «Sono estremamente paziente e gentile e dolce, ma non azzardarti mai più a mancare di rispetto alla donna che ti ha felicemente dato alla luce e ti ha cresciuto con dei principi, signorina, mai più! Sei arrabbiata e frustrata e stressata, lo so, lo so, ma non osare abusare della tua posizione per atteggiarti come l’unica e sola vittima di questa brutta storia perché, notiziona del momento, non lo sei! NON LO SEI!» la mollò.

Restarono entrambe interdette qualche istante, una ancora con gli occhi di fuori e l’altra col petto che si alzava e abbassava ritmicamente per lo sforzo, non abituata com’era a certe sfuriate tipiche invece della propria consorte. Per calmarsi, Phentesilea strisciò fino al tavolo di pietra, sedendosi ai piedi dello stesso.

Myricae la raggiunse poco dopo, appollaiandosi al suo fianco a testa bassa.

«Mi dispiace».

Phentesilea le sorrise, abbracciandola.

«È tutto a posto, da'len, non sono arrabbiata con te» la rassicurò, accarezzandole la schiena e accoccolandosi fra i serpenti che le facevano il solletico con le loro piccole lingue «… ma non ti nascondo che le tue parole mi hanno fatto male, tanto male». Si staccò da quell’abbraccio, tenendole le mani sulle spalle «Credimi, bambina mia, avremmo voluto più di ogni altra cosa evitare tutto ciò che è successo, io e-»

«Non parlare al plurale, ma’, sappiamo entrambe che eri solo tu a volermi viva».

«Sai anche tu che non è così» controbatté «e in cuor tuo sei perfettamente consapevole -tanto quanto lo sono io- che tua madre Hippolyta mai e poi mai ti avrebbe torto un capello, figurati se volesse decapitarti! Sai bene quanto la tua Ammë di amasse, quanto avesse desiderato la tua nascita, quanto tu significassi per lei, non puoi davvero aver creduto per settecento anni che ti volesse uccidere!»

«L’ho creduto perché l’ho sentita con queste stesse orecchie» se le indicò «chiamarmi “gweriadir”, “traditrice”. L’ho creduto perché era la sua mano, quella che ha calato la frusta sulla mia schiena in pubblica piazza una, due, tre, cinque, dieci, volte, finché non sono nemmeno stata in grado di strisciare fin sull’altare sul quale mi avrebbero decapitata, e mi ci hanno dovuto trascinare di peso come un animale. L’ho creduto perché era il freddo metallo del suo arakh, quello che avvertii posarsi sulla mia nuca mentre Valië Axechasti leggeva i miei campi d’imputazione. In tutto questo, tu sei ancora convinta che mamma Hippolyta mi volesse bene in qualche modo, dunque?»

«Lo sono, e dovresti esserlo anche tu, da’len».

Myricae scoppiò a ridere.

«Avanti! Cerca di essere obiettiva! Come puoi dire che-»

«Hanno minacciato di uccidere lei e di schiavizzare me, se la tua Ammë si fosse rifiutata di eseguire la tua condanna» sputò tutto d’un fiato la Airë Tári, secca e atona.

«Se si fosse trattato solo della sua morte, allora non avrebbe avuto bisogno di un minuto in più per mandare tutti quanti al diavolo: il solo concepire l’idea di fare una cosa così abominevole e innaturale come decapitare il sangue del suo sangue la disgustava tanto allora quanto la disgusta ancora oggi, non sarebbe andata contro i propri principi solo per soddisfare la voglia di esecuzioni del Calaciryandë» fece una lunga pausa, abbassando lo sguardo «Solo che…»

«Solo che…?» ripeté la naga verde.

«Solo che c’ero io, e lei… lei non poteva permettere che mi accadesse qualcosa, non voleva che mi… che mi facessero diventare una serva…» sussurrò piano, a bassa voce, come se si vergognasse di ciò che stava dicendo «… dovresti incolpare me, non lei. Se tua madre Hippolyta ha concordato sulla condanna come le altre Airë Tári, se ti ha frustato dinanzi a loro assecondandole, se stava per diventare la tua boia, allora lo stava facendo solo per me, per me e nessun’altra: lei sarebbe morta, ma a me sarebbe toccata la schiavitù, ed era fin troppo consapevole che non sarei sopravvissuta a quella condizione».

Quando gli occhi iniziarono a diventarle rossi per l’imminente pianto, Myricae se la strinse al petto con tanta e più forza di quanto avesse fatto lei prima, dandole piccoli baci sul capo finché non si calmò abbastanza da tornare a raccontare.

«C’erano fior di regine pronte a prendermi nel loro harem, e Antiope era in prima fila. È un mostro, quella donna, una bestia senza cuore né anima che abusa e sevizia le proprie serve in modi indicibili» un brivido la percorse, interrompendola qualche istante «fino a quando quelle poverette non muoiono dissanguate per via delle ferite interne riportate durante le ripetute violenze carnali subite. “Sono solo schiave, possono comprarne di altre”, dice per giustificarsi, e buona parte delle altre Airë -pur non approvando il suo comportamento- concordano, ed ecco perché gira a piede libero senza che nessuno le dica nulla».

«È orribile».

«Lo è» convenne la regina «e sarebbe stato anche il mio destino, se la tua Ammë non si fosse comportata come ha fatto, come ha dovuto fare. Lei sapeva che sarebbe stata Antiope a reclamarmi, e sapeva che non ne sarei uscita viva: avrebbe fatto di me la sua schiava preferita, mi avrebbe sbattuta e montata e ingravidata giorno e notte solo per sfornare figli per lei fino allo sfinimento, sarei stata al centro delle orge organizzate da lei e dalle sue discepole, dove il mio corpo sarebbe stato alla loro completa mercé. Avrei finito per uccidermi, prima o poi, e-»

«E mamma lo immaginava» completò la frase l’altra.

«Già. Mi disse “Se devo scegliere fra l’uccidere mia figlia e il condannare a una sorte ben peggiore della morte mia moglie, allora che Myricae non me ne voglia, ma non posso essere complice del suicidio della donna che ho giurato di proteggere con la vita”. Inizialmente mi opposi, cercai in tutti i modi di farle cambiare idea, di spronarla a trovare insieme una soluzione…»

«Ma una soluzione non c’era».

«Non c’era, e mai ci sarebbe stata, non è certo per ascoltare le ragioni della condannata che a Quetzalli si processa chi esce dalla città… e così noi… noi…» s’interruppe improvvisamente, annegando nei singhiozzi «… noi scegliemmo l’opzione più… più… più comoda, da’len, scegliemmo la strada più semplice da percorrere, quella che ci avrebbe garantita salva la vita, e-»

«L’unica strada, è diverso» la corresse.

Le sollevò delicatamente il mento, guardandola negli occhi con lo stesso fare materno che, di solito, era proprio di Phentesilea.

«Non avevate scelta, mamma, proprio come non ne ebbi io: se aveste deciso diversamente, la mia Ammë sarebbe morta inutilmente e la mia Amìl sarebbe diventata schiava, continuando a vivere con la consapevolezza di essere sopravvissuta alla propria compagna e alla propria figlia; in tutti i casi, io sarei comunque stata uccisa, e non sarebbe cambiato nulla».

«Ho serbato rancore per settecento anni, ma solo adesso capisco quanto voi abbiate fatto per me, quando invece avreste tranquillamente potuto rimpiazzarmi con-»

«Un’altra figlia?» l’anticipò sua madre.

Myricae annuì.

Phentesila scosse la testa.

«Ci pensammo a lungo, non lo nego, ma fu un nulla di fatto: il problema non era darti una sorella, l’idea di rimanere nuovamente incinta sai bene che non mi è mai dispiaciuta, il problema era dartela solo per accontentare il nostro disperato bisogno di riversare su un pargolo quell’amore materno troncato settecento anni fa. Dare alla luce una figlia solo per sopperire la mancanza di un’altra mi sembrava come… irrispettoso, ecco, tanto nei confronti della tua memoria, che viveva ancora qui» si toccò il cuore «quanto per la creaturina che sarebbe nata» poi il ventre «perché sarebbe stata una sostituta, e nulla di più».

Improvvisamente, un’ombra di stanchezza parve calare sugli occhi della regina, che si abbandonò a un sospiro rassegnato

«Non fraintendermi: l’avremmo amata, coccolata, resa felice in ogni modo possibile e immaginabile, proprio come abbiamo fatto con te, ma…» fece una breve pausa «… ma nel profondo, guardandola negli occhi, avremmo visto la nostra primogenita, non una nuova bambina. Era già difficile vivere fingendo di averti dimenticato o dandoti una caccia spietata per non insospettire nessuno, aggiungere anche il fardello di dover dire alla nostra bambina che sua sorella maggiore era morta -sapendola viva- sarebbe stato troppo… troppo… “troppo”, tutto qui».

Sperò che la sua yeldë non notasse il suo improvviso rattristamento o il cambio nel suo tono di voce, ma la naga dalle squame smeraldo lo notò eccome.

Piano, delicatamente, attorcigliò le proprie dite a quelle della sua Amìl in silenzio, senza aggiungere altro: sarebbe bastato il gesto, con lei, un gesto che le diceva “siamo di nuovo insieme, adesso, non devi più preoccuparti del passato”.

Quando la vide sorridere, capì che aveva recepito il messaggio.

«Ma non parliamo oltre di ciò che è successo sette secoli or sono, tesoro mio, ora abbiamo settecento anni di rapporti madre e figlia da recuperare!» le diede una vigorosa pacca sulla spalla, ridacchiando «Una volta uscite da qui, avremo tuuuuuuutto il tempo di fare ciò che non abbiamo fatto, e lo faremo in grande! Ti farò conoscere le nuove arrivate nell’harem e mi racconterai le tue avventure mentre ci godiamo un bel massaggio e poi andremo a fare shopping insieme e organizzeremo un pigiama party solo per noi due e faremo a battaglia di cuscini come due adolescenti mentre ci confessiamo segreti a vicenda e-»

«Come fai?» l’interruppe brusca Myricae.

«Uh?»

«A essere sempre così ottimista, intendo» asserì, stranamente seria.

«Vedi sempre un lato positivo anche nelle situazioni più drammatiche, riesci a trovare del buono in chiunque, confidi che tutto si sistemerà autonomamente nonostante le avversità…» gettò lo sguardo verso la sua Amìl, un misto fra curiosità e smarrimento «… come fai, ma’? Come puoi avere fede in un destino che ti, ci, sta remando contro in tutto e per tutto? Come ci riesci?»

Se sui primi momenti la serpentessa dalle squame bianche era parsa preoccupata da quell’improvviso cambio di atteggiamento da parte di sua figlia, ora appariva del tutto serena.

«Sono la moglie di Airë Tári Hippolyta, da’len, se non fossi stata come sono stai pure sicura che non saresti nemmeno venuta al mondo!» rise.

L’altra la guardò confusa, non capendo a cosa si riferisse.

Di tutta risposta, Phentesilea si tolse la collana che aveva ancora indosso, una rudimentale corda di pelle con -come pendente- una semplice pietrucola tondeggiante con la superficie scura butterata qua e là, non troppo diversa da qualsiasi roccia si sarebbe potuto trovare camminando col naso all’ingiù.

«Un ciottolo?»

«Il primissimo dono che mi fece tua madre Hippolyta, in realtà» precisò la regina. Lo alzò per mostrarglielo meglio «Consegnatomi con le mani tremanti, il volto più rosso dei nostri tramonti e un adorabile balbettio sulle labbra, da quanto era emozionata e imbarazzata nel darmelo di persona. “Quando ho visto come risplendeva, il mio pensiero non ha potuto che andare alla stessa sfumatura che assumono le tue squame opalescenti quando vengono baciate dai delicati raggi dell’alba”, mi disse, e-»

«Vacci piano, per la testa mozzata di Medusa!» si lamentò agitando concitatamente le braccia davanti a sé «Devo ancora rifarci l’abitudine, all’inguaribile romanticismo della mia Ammë verso la sua consorte, dopo tutte le volte che ha tentato di decapitarmi negli ultimi secoli capisci bene che ripensare a lei in quelle vesti mi risulta ancora incredibile!»

Phentesilea scoppiò a ridere.

«Effettivamente non hai tutti i torti, me ne ricorderò così da non scandalizzarti ulteriormente!» le prese una mano, posandoglielo sul palmo «Ti piace?»

«Sinceramente? Mamma ha un pessimo gusto per i regali, ed è pure mezza cecata se pensa che questo coso» lo picchiettò «risplenda in qualche modo».

«Perché non provi a girarlo, prima di giudicarlo dal suo aspetto esteriore?»

Ben poco convinta che le cose potessero migliorare e trattenendo a stento la voglia di riderle in faccia, obbedì.

 

Rimanendoci di sasso, tanto per restare in tema.

Se, di primo impatto, fuori quella pietra grezza e irregolare sembrava tutto tranne che il meraviglioso monile tanto elogiato da Phentesilea, allora adesso -girandola- anche Myricae capì il perché sua madre ne fosse così affascinata: fuori una scorza scura come il più comune dei geodi, dentro un opale bianco lattiginoso dalle mille sfaccettature iridescenti, che assumeva colori e sfumature differenti a seconda di come la luce si rifrangesse sulla sua superficie brillante.

«“Uur’ilweranta erumë”, “fuoco del deserto”, nato quando il nostro ancestrale creatore Quetzalcoatl discese in terra su di un grande arcobaleno che trasformava le rocce che toccava in opali splendenti» disse la regina «Sgraziato a vedersi, d’incredibile bellezza quando lo si guarda meglio: un po’ come tua madre, insomma».

Myricae, ancora impegnata a girarsi e rigirarsi fra le dita il pendente guardandolo incantata, si voltò verso di lei.

«Cosa c’entra mamma con un opale?»

«Sono più simili di quanto credi, sai? Come questa pietra, a prima vista forse Hippolyta può sembrare dura, fredda, insensibile» iniziò a contare sulla punta delle dita «eeeee anche arrogante, bruta, burbera, feroce, impaziente, ineluttabile, irascibile, rozza, rude, selvaggia, sgarbata, spaventosa, rozza, testarda e tremendamente volgare. Ma guardando oltre» le chiuse le dita sul ciondolo «si scopre che è la creatura più dolce e meravigliosa che abbia mai avuto l’onore di conoscere, e l’immenso piacere sposare».

Gli occhi le divennero improvvisamente lucidi, ma questa volta il sorriso sul suo volto non scomparve; se possibile, divenne ancora più luminoso.

«Riconosco che è una donna difficile da prendere, ma riconosco in ugual modo che con me, con noi due, è sempre stata affettuosa, amorevole, gentile, premurosa e, soprattutto, follemente innamorata della sua famiglia. Se fossi stata ad ascoltare le voci che giravano sul suo conto, allora avrei dovuto scappare a gambe levate, “aperte” secondo qualcuno, ma feci nessuna delle due cose: semplicemente, mi limitai ad aspettare che le cose si smuovessero da sole, che il destino facesse il suo corso. Pazientai a lungo prima che lei mi rivelasse i suoi sentimenti con questo» fece tintinnare le dita squamate sul geode contenente l’opale «ma ne valse la pena, attendere ne varrà sempre la pena».

Le accarezzò maternamente la guancia.

«Ed è valsa la pena anche attendere il tuo ritorno, da’len. Torneremo a essere una famiglia felice, Myricae, proprio come ho pregato che accadesse per settecento an-»

«E come pensi di fare, precisamente?»

«Cosa intendi?»

«Intendo che dovresti iniziare ad essere realista, ma’».

Si alzò, strisciando lentamente fino al muro. Quando vi fu vicino, bussò allo stesso.

«Siamo rinchiuse in questa stanza, alla fine del labirinto sotterraneo pieno di trappole del tempio, la cui entrata è stata bloccata da una frana; come se non bastasse, suddetto tempio è isolato dal mondo, trovandosi nel folto del Tauremorna, e dubito fortemente che -a questa profondità- qualcuno possa sentirci urlare o anche solo vvertire la nostra presenza. Nessuno sa che siamo qui, nemmeno Harmonia: siamo sole, sole e abbandonat-»

«Non siamo sole, e non siamo abbandonate» controbatté secca Phentesilea, interrompendola bruscamente «finché c’è speranza, allora non è detta l’ultima parola, non si sventola la bandiera di resa, non ci si getta a terra a lagnarsi attendendo che arrivi la fine. Quetzalcoatl non ignorerà le nostre preghiere, da’len, devi avere fede».

Basta.

Basta.

«AH! AL DIAVOLO LA TUA FEDE NELL’INVISIBILE UNICORNO ROSA! CHE SI FOTTANO QUETZALCOATL E TUTTA LA SUA DIVINA BANDA!»

Si avvicinò a sua madre sbracciandosi furibonda; l’altra, intanto, era immobile.

«Cosa credi? Che gli importi veramente di due povere disgraziate come noi? Che ascolti per davvero le tue dannatissime preghiere? Che gli importi abbastanza della sua gente per smuovere il suo soffice fondoschiena piumato?!! Cresci, dannazione! Se fosse così, allora a quest’ora avrebbe già fatto irruzione per-»

«WE CAME IN LIKE A WREEEEEEEEEEEEECKING BAAAAAAAAAAAAAAAAALL!»

L’esplosione del muro le scaraventò contro la parete opposta.

Lì, Myricae perse i sensi.

 

 

 

«Mamminaaaaaa! Ti avevo detto di essere delicata!»

«Sei stata tu a dire che dovevamo entrare come una palla demolitrice, ho solo seguito il tuo piano».

«Ma era in senso metaforico!»

«Avresti dovuto specificarlo prima».

«Ma era ovvio!»

«Non ho visto un cartello con scritto “è ovvio che io intenda che dobbiamo entrare come una palla demolitrice solo in senso metaforico e non letteralmente, mamma, non devi veramente sfondare il muro col tuo grasso addome” vicino al tuo volto mentre parlavi. E comunque siamo riuscite nel nostro intento, l’importante è questo».

«L’importante è che siano ancora vive, e col colpo che hanno preso non è un’eventualità da dare per scontata! Se sono morte prendendosi un mattone in fronte per colpa nostra, allora andrai tu a dirlo ad Harmonia, eh!»

«Ci andrò io, ci andrò io. Intanto aiutami a controllare, piuttosto che stare lì impalata a rosicchiarti nervosamente i cheliceri: è un brutto vizio, quello».

«Mai quanto quello di sfondare cose!»

«Precisamente la stessa cosa che mi disse tuo padre quando riempii il suo stomaco con centinaia di uova. Pace all’anima sua».

“Harmonia?”

A sentire il nome dell’amata, la naga dalle squame color smeraldo riprese conoscenza.

O almeno ci provò, ancora mezza intontita -e assordata- com’era dal boato di prima che le ronzava nelle orecchie, impedendole di pensare e collegare dei volti a quelle voci.

«Buonsalve a te, bella addormentata nel Tauremorna, riposato bene?»

Si stropicciò gli occhi, strizzandoli nel tentativo di mettere a fuoco i contorni indistinti del viso della persona che gli stava parlando.

«Uh…?»

«Credevo fossi schioppata, sai? Lo scettro di quell’allucinata di Emilia Gianna non è proprio uno stuzzicadenti, e -infilzata come un pezzo di carne allo spiedo com’eri- ero pronto a scommetterci le palle, sulla tua dipartita» commentò una voce maschile, seccata «e su quella di tua madre, soprattutto sulla sua. Ero convintissimo di averla pestata a sufficienza da spaccarle la testa, da annegarla nel suo stesso sangue, da farla implorare di morire dalla vergogna di non avere più quei bei serpentelli bianchi in testa, e invece scopro che è viva e vegeta! Per lo scroto di Quetzalcoatl, giuro che era più morta che viva, quando l’ho lasciata laggiù, era più di là che di qua! A saperlo prima, mi sarei tolto lo sfizio di buttarlo nel culo ad un’Ophidians come Emilia Gianna! E io che temevo di sembrare un necro-»

Gli incisivi di Phobos tintinnarono a terra.

Non si fece domande sul perché lui fosse lì, nell’atrio semi distrutto -da lui stesso, suppose- del tempio di Quetzalli, non se le fece su chi gli avesse legato polsi e caviglie, non se ne fece nemmeno su chi avesse sfondato il muro della stanza sotterranea, liberandola.

Semplicemente, con la coda gli afferrò i lunghi capelli cremisi, sollevandolo per gli stessi fino a portarselo davanti al volto. Lo fissò per minuti interi, disgustata.

«Quello che ti ho appena dato era per esserti preso la libertà di trascinare quel tuo brutto muso schifoso che puzza di birra e patetismo fuori dall’Abisso» ringhiò, gli occhi verde lime iniettati d’odio, rabbia, ribrezzo, resi completamente folli dalla voglia di farlo evaporare dalla realtà a suon di botte.

Ritrasse il braccio.

«Questo è per come hai ridotto Harmonia».

Un montante ben assestato al centro della mandibola, e l’arcata dentaria inferiore si riversò fuori dalla bocca insanguinata del rosso come una cascata.

«Questo è per ciò che hai fatto a mia madre».

Un violento gancio sul naso, e di quest’ultimo rimase solo una grumo informe di carne e sangue e ossa ridotte in frammenti schiacciato sul viso.

«Questo è per me».

Due pugni in contemporanea sulle tempie, e Phobos crollò a terra tramortito, preda di violenti tremori che gli facevano ingoiare lo stesso sangue che colava copioso dal naso maciullato, dalla bocca ridotta a un campo di guerra, dalle orecchie che -da dopo l’impatto- lo stavano facendo impazzire a furia di martellargli la mente con uno straziante e acuto stridio metallico.

A vedere come annaspasse a trovare fiato e avesse la pupilla completamente dilatata, la naga capì presto che -complice la robusta corazza di squame che ricopriva le sue nocche- l’ultimo colpo doveva avergli provocato un brutto trauma cranico. Sorrise.

Lentamente, iniziò ad avvolgersi il corpo con le spire color smeraldo, stringendolo nelle stesse per immobilizzarlo. Gli si avvicinò all’orecchio.

«Segnati la posizione delle ossa, Phobos, perché ora te ne darò talmente tante che ti servirà un GPS per ritrovarle tutte».

 

 

Il pestaggio che seguì quelle parole fu talmente brutale, che menti né mortali o immortali avrebbero potuto trovare nomi e verbi e aggettivi adatti a descrivere anche solo le grida gutturali del rosso, più simili a latrati di un qualche animale agonizzante che a qualcosa di umano.

Resa cieca dalla voglia, dalla necessità, di vendicare il dolore subito tanto dalla propria madre quanto dalla propria compagna, Myricae non saveva smesso nemmeno un secondo di riversare su di lui la propria furia primordiale, ferale, selvaggia, una furia che sapeva di sangue e saliva e liquido cerebrale. Aveva creduto di potersi contenere, di riconoscere quando dirsi “basta”, si era ripetuta e ripetuta e ripetuta “non mi abbasserò al suo livello, gli darò giusto una lezione”, ma -una volta iniziato- non era più stata in grado di a fermarsi: un pugno solo, il primissimo, e subito era stata trascinata in una spirale di follia che odorava di castigo, di giustizia, di morte.

Forse aveva sbagliato, ma al contempo si era sentita viva, vivissima, carica come non mai: sarebbe stata un mostro se avesse fatto del male a un innocente, lo sapeva bene, ma sarebbe stata riconosciuta innocente per averne fatto a un mostro.

Che comunque si rigenerava ogni tre per due, quindi non era nemmeno poi così tanto in svantaggio.

Ancora con l’adrenalina a mille e intenzionata a rimediare definitivamente a quel piccolo dettaglio, lo tirò su da terra di peso, tenendolo saldamente per le spalle.

«Inizialmente, l’intenzione sarebbe stata quella di infilarti un’alabarda nel culo per sventolarti come una bandiera, lanciando in aria le tue unghie e i tuoi denti come se fossero stati coriandoli, ma noto con dispiacere che i tuoi tessuti di rimarginano troppo in fretta per poterlo fare» asserì la naga, fingendosi affranta «ma possiamo rimediare».

«Uh uh! Fono proprio curiofo di fapere cofa ti frulla in quella tua teftolina da rettile!» squittì uno sdentato ma entusiasta Phobos «Intendi fculacciarmi, forfe? OH YEF! FPANK ME MOMMY! FPANK ME HARDER! È il mio fogno erotico quello di effere fculacciato da una ferpenteffa!»

«Posso pure provarci, se proprio ti aggrada l’idea» aprì la bocca, la mandibola -flessibile e totalmente dislocata dal cranio, proprio come quella degli ofidi ai quali la sua razza somigliava- che iniziò lentamente ad allargarsi di più, ancora di più, fino a raggiungere un’ampiezza tale da rendere chiaro il perché le Ophidians potessero ingurgitare una Sylkes intera «sempre che avrai ancora un culo da sculacciare» la pelle dell’esofago tesa a livelli a dir poco grotteschi, talmente tanto da sembrare che -trasparente com’era divenuta- potesse lacerarsi da un momento all’altro «una volta che i miei succhi gastrici ti avranno digerito».

«Sei cannibale?»

«C’è sempre una prima-»

«Tanya, yeldë».

Si bloccò.

Alzò lo sguardo: aveva avuto spettatrici fino a quel momento, allora, spettatrici che comprendevano sua madre, Antares e la genitrice di quest’ultima, la regina Engaruka.

A vederla, Myricae provò un misto fra sorpresa e preoccupazione: per quale motivo aveva lasciato la sicurezza del suo nido per farsi trovare lì, nel cuore di Quetzalli? Considerando che le loro razze erano rivali -essendo le donne ragno lo spuntino preferito dalle naga- per natura, che il suo grosso e tozzo corpo violaceo -che da solo superava i quattro metri d’altezza- era talmente pesante da costringerla a fare lunghissime pause un metro e l’altro e che, soprattutto, l’estinzione delle Ophidians sarebbe stata una notizia per la quale lei e le sue simili avrebbero solo potuto e dovuto gioire, la sua presenza lì non trovava giustificazione né in cielo, né in terra, né in mare.

Ma la trovava nell’atrio semi distrutto del tempio, e quello bastava e avanzava.

 

Seguì qualche istante di imbarazzante silenzio durante il quale ritrasse la mandibola, poi Antares le saltò letteralmente addosso, gettando malamente Phobos da una parte.

«TI SEI FINALMENTE SVEGLIATA! TI SEI SVEGLIATA E STAI BENE!» iniziò a coprirla di baci sulla testa e sul collo e sul naso, si mise persino a baciare uno per uno tutti i serpenti che aveva sul capo, facendoli sibilare contenti «Io ro così in pensiero! Harmonia era così in pensiero! Naevia era- no, beh, lei non è mai in pensiero per nessuno… MA FA NIENTE! Sei viva, e io sono talmente contenta che potrei cambiare esoscheletro per l’emozione!!!»

«Anche io sono felice di vederti, anche io» ricambiò sfregandole la mano sulla schiena con fare fraterno «ma evita di fare la muta proprio ora, o l’odore dei feromoni che rilascerai attirerà fior di Ophidians. E non mi pare proprio il caso, visto dove ci troviamo» rise.

Gettò lo sguardo verso Phobos.

«Perché lui è qui?»

«Lo abbiamo catturato noi» intervenne la regina ragno, indicando se stessa e la figlia «poco prima di scendere a soccorrere te e tua madre. Se non fossimo arrivate prima di lui, allora stai sicura che non saresti qui a parlare: stava venendo a finire il lavoro che aveva iniziato, da quel che ci ha detto».

«“Da quel che vi ha detto”? Vi ha seriamente detto qualcosa di utile?»

«Oh, sicuro! È stato sufficiente minacciare di inseminarlo, per fargli rivelare le sue intenzioni, e da lì ci ha detto dove vi trovavate; allora, siamo subito venute a portarvi via da questa trappola di pietra che sta letteralmente cadendo a pezzi. Si è dimostrato piuttosto collaborativo, comunque».

«Mi avevi fpogliato della gonna e ftavi per ficcarmi delle uova nel culo!» sbraitò Phobos, dimenandosi furiosamente nel tentativo di liberarsi «Ho dovuto efferlo per forza di-»

Una bavaglio di tela da parte di Antares, e tacque.

«Sì, può darsi che sia stato per quello. Comunque sia, l’importante avervi trovate, e averlo fato prima che accadesse il peggio» lanciò un’occhiata alle ancora visibili ferite di Phentesilea «... che è accaduto, in effetti, ma poteva andare molto più male, immagino. Qualche ora di anticipo non sarebbe dispiaciuta a nessuno, ma del resto abbiamo dovuto attendere che tu» si rivolse a Myricae «incendiassi un pezzo di foresta, per notare la tua richiesta di aiuto e rinforzi, motivo per cui abbiamo avuto le mani legate fino a quel momento».

«L’incendio?» ripeté l’interpellata, confusa.

«L’incendio, sì» confermò la Sylkes «quello che hai appiccato ai confini del Tauremorna, vicino a Phantasia. Te lo sei già scordata?»

Dall’altra non provenne alcuna risposta.

Engaruka lasciò passare pazientemente qualche istante, convenendo che forse l’Ophidian dovesse ancora riprendersi e abituarsi all’idea di essere ormai al sicuro; dopo minuti interi di silenzio totale, però, la sovrana la sfiorò con una zampa.

«Tutto bene? Sembri più sorpresa di quanto dovresti essere».

«Sto bene» mentì, decidendo di tenere per sé la consapevolezza di non aver appiccato nessun incendio, né tantomeno di farlo per avvisare chicchessia: la situazione era già tragica, meglio non spargere ulteriore panico inutilmente «sono solo ancora un po’ tramortita, ma sto bene. Piuttosto, vi ho sentito parlare di Harmonia» si affrettò a cambiare argomento «dove si trova? Vorrei raggiungerla».

«Fossi in te non lo farei, Myr-Myr, è un po’… nervosetta, ecco» mormorò timidamente Antares, arrossendo imbarazzata.

E come biasimarla?

Se l’era fuggita senza dirle nulla, si era messa in guai talmente grandi da esserle completamente sfuggiti di mano e, dulcis in fundo, aveva pure rischiato di rimanerci secca: secondo la sua modesta opinione, era già tanto che la sua donna non l’avesse esiliata da Phantasia, dopo averle creato tanti disagi. Coi suoi gesti aveva voluto salvaguardarla da ulteriori preoccupazioni, ma era finita per dargliene tre volte tanto.

Nonostante il senso di colpa e il terrore che uno dei suoi moti d’orgoglio potesse aver rovinato quasi sette secoli di relazione, Myricae riuscì a mostrare una freddezza proverbiale, degna del generale quale era.

«Dove si trova?» insistette.

«Io non-»

Un’occhiata, e l’ostinazione della piccola Sylkes venne meno.

«Era in procinto di guidare le truppe nella marcia sul Tauremorna, quando ci siamo divise dal gruppo per venirvi a cercare e assicurarci che tutto fosse sgombro per la battaglia: se hanno continuato con quel ritmo, allora credo sia ormai a metà strada, forse qualcosa di più».

Non le servì sapere altro per decidere il da farsi.

Uscendo dal tempio, allungò al volo una mano per strappare dalle fauci di un serpente di pietra una grossa zanna di una qualche gemma non meglio definita; raccolse uno spesso bastone da terra, la legò alla bene meglio alle estremità et voilà, una primitiva lancia nuova di zecca.

A vederla, una curiosamente pallida Phentesilea le afferrò un polso, fermandola.

«Dove vai?»

«Da lei» rispose secca, liberandosi piano dalla debole presa di sua madre «sono il generale di Phantasia e sono la sua compagna, le ho procurato troppi problemi per non andarle incontro e, almeno, aiutarla a sistemarli, per quanto possibile».

«Vengo con te».

«No, non questa volta. Resterai qui finché tutto non si sarà sistemato, sei più al sicuro in questo luogo che da altre parti». Le strinse le mani «Non sono riuscita a impedire che ti facessero del male una volta, la seconda non potrei mai perdonarmela, mai: ti prego, ma’, dammi retta e resta qui, lo faccio per te, per noi».

«Ma tu-»

«Io starò attenta, te lo prometto, ma devi esserlo anche tu: se vogliamo tornare ad essere una famiglia come lo eravamo una volta, allora dobbiamo esserci tutte e tre. E venire con me non è l’opzione migliore per assicurarsi la sopravvivenza».

Sapeva, però, che Phentesilea non si sarebbe mai accontentata di starsene con le mani in mano mentre la sua terra veniva devastata.

«Se proprio vuoi fare qualcosa, allora fatti accompagnare in città da una di loro» indicò le due Sylkes «e spiega a tutte cosa sta succedendo; dì loro di prendere le bambine, barricarsi dentro gli harem e chiudere tutte le entrate: attualmente, quelli sono i posti più sicuri dove trovarsi, restare in strada espone a troppi agenti atmosferici che Madre Natura potrebbe facilmente controllare» le spiegò.

Leggendo la preoccupazione nei suoi occhi, le sorrise.

«Quanto a me… ehi, ho nelle vene il sangue di due delle più  grandi Airë Tári che abbia mai conosciuto, cosa mai potrebbe andare storto?»

«Tutto, a dire il vero» rise Phentesilea «ma suppongo che non saprei dirti nulla in grado di convincerti a lasciarmi venire o a restare qui con me, per cui» fece spallucce. Maternamente, le accarezzò la guancia «Quanto ti sento parlare, mi sembra di stare conversando con tua madre Hippolyta, sai? Testarda, cocciuta, ostinata, permalosa e tremendamente orgogliosa, talmente tanto da essere pronte a morire, piuttosto che chiedere aiuto a chicchessia».

«Ma abbiamo anche dei difetti».

Le diede uno scappellotto sulla nuca.

«Dei difetti, e anche lo stesso senso dell’umorismo!»

Con le lacrime agli occhi, l’abbracciò.

«Tiro na nin» le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi «Ennas ad estel, da’len, ennas ad estel im melithon. Rina amin, cormamin niuve tenna’ ta Amìl’elea lle au’».

«Han iston» rispose, stringendosela al petto con tutta la forza che trovò in corpo, piangendo senza vergognarsene: a Phentesilea non aveva detto nulla per non farla preoccupare ulteriormente, ma -per quanto poteva saperne- quella sarebbe potuta essere l’ultima volta in cui si sarebbero viste, dopo essersi perse per sette secoli. Ciò che sarebbe accaduto una volta che la battaglia avesse iniziato a infuriare, nessuno lo sapeva.

Nonostante non volesse staccarsi da quell’abbraccio che sapeva di casa, di amore, di salvezza, fu costretta a farlo, interminabili minuti dopo.

«Tollen i lû nîn si boe bedin» enunciò lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le andò in frantumi «Tenna’ telwan, Amìl» la salutò.

«Tenna’ telwan, da’len» ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente, scompariva fra gli alberi «Mae marth» sussurrò, un “buona fortuna” che Myricae -già lontana- non sentì.

La fortuna era tutto ciò di cui aveva bisogno, adesso.

 

 

---

 

 

Più contemplava il fumo che saliva dalla foresta in fiamme, più l’ipotesi che fosse tutta opera di Phobos iniziava a sembrarle un dato di fatto.

Era riuscita a liberarsi di lui all’ultimo, allontanandolo con la scusa di andare a finire il lavoro iniziato con Myricae dal momento che “è stata sicuramente lei ad appiccare il fuoco, avrà voluto avvisare la sua fidanzatatina”, ma ormai il danno era stato fatto: Harmonia l’aveva certamente già notata, quella nube nera, e -per quanto ne sapesse lei- forse si stava anche già organizzando di conseguenza.

Non temeva uno scontro diretto, anzi, però -ora come ora- avrebbe preferito evitarlo: controllava i propri poteri, sì, ma non come avrebbe voluto.

Forse era solo una sua impressione, forse doveva solamente darsi tempo, forse era la paranoia che l’aveva assalita da quando aveva visto il rosso col suo scettro in mano a pensare al posto suo, stava di fatto che sentiva come se… come se… come se le mancasse qualcosa, ecco. Non trovava parole per descrivere quella sensazione, ma stava come Lord Voldemort alle prese con la bacchetta di sambuco: la controllava, la utilizzava, ne traeva beneficio, ma non poteva sfruttarne appieno le devastanti potenzialità, non essendone il legittimo possessore. Inoltre, come Riddle, nemmeno lei aveva idea di chi dovesse uccidere per risolvere quella spiacevole situazione.

Phobos fu il primo sospettato: era stato lui a rimettere insieme lo scettro, che quello ora obbedisse solo ai suoi comandi? Improbabile, gliel’avrebbe rivolto contro da un pezzo.

Harmonia, forse? L’aveva disarmata, trent’anni fa, e la bacchetta suprema apparteneva a chi l’avesse strappata al proprietario! Nah, con lei lo scettro aveva fatto la fine del secondo dono della morte nelle mani di Potter: spezzato e gettato via.

Myricae? Che il suo sangue avesse creato un qualche strano legame con il bastone e i poteri in esso contenuto? Poco verosimile, probabilmente era già-

 

Zac.

 

Girò il capo: due centimetri più a sinistra, e quella sorta di spada ricurva le si sarebbe conficcata nella coscia, anziché nel tronco sul quale era appollaiata.

Non ebbe nemmeno bisogno di sbirciare con la coda dell’occhio dietro di sé, per sapere a chi appartenesse quell’arma: Ophidians, indubbiamente, le stesse che Myricae aveva detto stare venendo a cercarla.

Sorrise.

Bastone alla mano, si voltò per studiare le proprie nemiche: una dozzina? Tutto lì ciò che Quetzalli aveva da offrirle come riscaldamento? E lei che se ne aspettava chissà quante, ah!

Subito, individuò quelle a capo del gruppo, due soltanto. Ripescò velocemente ciò che aveva appreso dalla sua breve esperienza all’interno dell’harem, mettendo insieme i tasselli per ricostruire le identità di quelle Ophidians.

Pelle azzurrina, squame blu e nere, due vistose cicatrici sotto l’occhio destro, di un arancio acceso, la coda adornata con una moltitudine di ruxal' ambönnar tintinnanti appartenenti alle regine sconfitte: Airë Tári Hippolyta, la consorte di Phentesilea, che stringeva fra le mani la pesante catena alle cui estremità erano agganciati due arakh di un qualche metallo scuro, uno dei quali era lo stesso che le aveva scagliato contro.

Pelle di un profondo color ebano, squame che andavano da un delicato tono crema fino a un metallico color oro e bronzo e rame, gravida: quella squilibrata di Airë Tári Antiope tridente alla mano, senza dubbio.

Non avrebbe proprio potuto chiedere di meglio.

Con uno strattone, la prima serpentessa strappò la spada dal tronco con impeto tale che quest’ultimo, ancorato al suolo, venne letteralmente sradicato e sollevato per aria di qualche metro, prima di ricadere.

Colta alla sprovvista da tanta forza bruta, Emily Jane riuscì a gettarsi giù dal fusto dell’albero solo all’ultimo, ruzzolando per terra; col cuore in gola, si guardò il dito: fortunatamente per lei, l’anello -o meglio, lo scettro- era intatto. Tirò un sospiro di sollievo.

L’arakh tornò nelle mani dell’Ophidians dalla pelle cerulea, che si riavvolse la catena in vita strisciando verso di lei.

«Veniamo per catturare una gweriadir, e ci troviamo davanti nientepopodimeno che Madre Natura: il mondo è davvero piccolo, non trovi?»

«Lo è» convenne la Pitchiner, alzandosi «motivo per cui ho deciso di fare le pulizie di primavera per sgombrare spazio, prima di dominare questo insulso pianeta. Stavo pensando che Quetzalli potrei adibirlo come bagno padronale, con tutte le piscine e le oasi che avete negli harem, ma sono indecisa sul colore delle piastrelle: meglio color pesca, o albicocca? Chartreuse, forse? Magari un bel fucsia bordesto lillato! Oppure-»

Hippolyta incrociò le spade nell’incavo fra il collo e la spalla.

«Che ne dici del colore del tuo sangue? Credo proprio che sarebbe perfetto per tinteggiare le pareti, lascia giusto che ti stacchi la testa per usarla come pennello così-»

«Ucciderla sarebbe uno spreco!» intervenne Antiope, levando con la coda l’arma così pericolosamente vicina al collo di Emily Jane.

Si avvicinò a lei, iniziando a squadrarla da capo a piedi con aria incuriosita.

«Piuttosto, sarebbe un ottimo esemplare per il mio harem: giovane, graziosa, snella, pelle morbida, con un culetto niente male» le diede una forte pacca sul fondoschiena, dopo la quale esibì un’espressione di pura sorpresa «pure abbastanza sodo! Ottimo! L’unica cosuccia che mi lascia perplessa sono questi due affarini» con altrettanta calma, le saggiò il seno con le mani squamate, perplessa «Che dici, Hippolyta, credi che una sega con queste riesca a farmela?»

«Se ti accontenterai di riceverla da un cadavere, allora sì» le rispose irritata. La scansò «Ma ora vediamo di farla finita, perché questo penoso teatrino mi sta facendo esplodere gonadi e ovaie e beh, sai com’è, quelle mi servirebbero ancora per figliare» premette le lame sul suo collo pallido, facendo colare un rivolo di sangue che tinse le foglie dell’abito «ultime parole?»

La figlia dell’Uomo Nero sorrise.

«Solo due: sono intoccabile».

«Addirittura?»

«Addirittura, sì» confermò «perché, vedete, Harmonia è più interessata a me di quanto potreste mai esserlo voi tutte nelle vostre -ancora per poco- immortali esistenze, motivo per cui tenermi qui rischierebbe di degenerare in un brutto incidente burocratico. Non credo che voi-»

«Harmonia può andare a farsi fottere insieme a tutta la sua corte, per quanto m’importa della sua strafottuta opinione: sei finita a Quetzalli, e verrai giudicata secondo le leggi di Quetzalli. Se Harmonia ha qualcosa da controbattere, che parli con questi» con lo sguardo, indicò i propri arakh scintillanti «proprio come farai tu fra qualche istante».

«Ne siete così certa?»

«Non ho motivi per non esserlo» fece spallucce «sarai pure Madre Natura, ma senza i tuoi poteri cosa credi di poter fare a noi dodici, eh? Intrecciare una gabbia di rami di vimini dove intrappolarci? Far crescere delle ciliegie da offrirci, pregando che ci strozziamo con i noccioli? O forse vuoi lanciarci del polline addosso, magari sperando che inizieremo a starnutire fino alla morte!» rise.

«Nah, non voglio i vostri germi sul mio divino corpo» agitò le mani davanti a sé. Si fece pensierosa qualche istante, poi schioccò le dita «Ho trovato!»

Un rapido movimento della mano, e lo scettro le comparve fra le dita.

Lo piantò nel terreno.

Il suolo tremò, radici immani lo sventrarono protendendosi verso il cielo come fiamme in un camino, ruggiti demoniaci si levarono alti dal ventre della terra.

Prima che le Ophidians fossero in grado di contrarre i loro muscoli facciali in un’espressione che era un misto fra incredulità, paura e tanta, troppa, sorpresa, prima che potessero anche solo tentare di fermarla scagliandosi contro di lei ad armi spiegate, prima che potessero realizzare di stare per morire, le immani bocche di una manciata di gigantesche piante carnivore si serrarono intorno ai loro corpi serpenteschi.

Li divorarono, li dilaniarono, li sventrarono, li strapparono, li ridussero in poltiglia.

Quando la Pitchiner diede il segnale di smettere, delle dieci soldatesse Ophidians non erano rimasti che deformi grumi insanguinati di carne e organi e squame. A cinque metri metri da loro, volontariamente risparmiate dalla furia omicida di quelle bestie, Hippolyta e Antiope, ammutolite.

Si scambiarono un’occhiata fugace: erano nei guai fino al collo.

E nessuno lo sapeva.

 

Emily si voltò verso di loro.

«Credevate che mi fossi dimenticata di voi?» sorrise.

Detto fatto, i viticci e le radici di quelle stesse piante si scagliarono contro le due regine, avvolgendosi prima intorno alle loro code, poi ai loro arti per immobilizzarle; da parte di entrambe, però, non venne a mancare un’eroica quanto inutile resistenza.

Dando mostra di un’insospettabile agilità nonostante la già avanzata gravidanza, Antiope mulinò il proprio tridente in aria recidendo ramo su ramo, rizoma su rizoma, testa munita di affilate zanne  color avorio su testa, fino a quando non riuscì a liberarsi dall’inferno verde che l’aveva circondata; in suo aiuto arrivò Hippolyta, che -arakh alle mani- si unì al disboscamento: forse erano rivali e competevano per chi delle due avesse l’harem più grande, ma ora non era il momento per tirare fuori vecchi rancori e farsi la guerra. Avevano una nemica comune, combattevano per la stessa causa, avevano entrambe qualcosa o qualcuno da proteggere: unire le forze erano l’unico modo per uscirne vive.

O almeno provarci.

Il sollievo delle due serpentesse nel vedere che il loro strenuo collaborare stava dando i suoi frutti durò ben poco, il tempo necessario a rendersi conto che -come il leggendario idra- quelle piante carnivore si moltiplicavano esponenzialmente: ne abbattevano una e ne crescevano due, ne abbattevano due e ne crescevano quattro e così via, e via, e via, in un circolo vizioso senza fine che sarebbe terminato solo con la morte di una delle due parti. E loro due proprio non avevano la capacità di farsi ricrescere il capo, se decapitate.

La Pitchiner -appollaiata sul fusto di una delle sue creature e intenta ad accarezzarla- rimase a godersi lo spettacolo per un po’, ma a un certo punto finì per annoiarsi anche di quello.

Sbuffando seccata, portò le mani davanti a sé tenendo il palmo girato verso l’altro: richiuse lentamente le dita su di esso tenendole estremamente tese, dure, quasi pietrificate; osservò attentamente i movimenti delle sovrane, attendendo il momento propizio.

“Ora”.

Chiuse il pugno.

Le urla che provennero dalle gole delle due naga non furono nulla di terreno

Se fino a poco prima le Airë Tári erano entrambe occupate a difendere la propria città, adesso se ne stavano lì, inermi e immobili, le armi abbandonate a terra e i corpi letteralmente impalati in più punti da giganteschi cristalli di lattiginoso quarzo sbucati dal terreno.

Antiope gettò lo sguardo verso il cristallo coperto di sangue che le usciva dal centro del ventre, fissandolo perplessa col sopracciglio alzato.

«Uhm… Ho la vaga sensazione di aver appena abortito, sai?» riferì qualche minuto dopo alla compagna, con tutta la calma del mondo. Uno dei serpenti sui suoi capelli le si accostò all’addome, come a mettersi in ascolto di qualcosa; pochi secondi, e si avvicinò all’orecchio della sua padrona, sibilando «Confermo: niente battito, sono proprio andate tutte quante. E va beh» fece spallucce.

«E lo dici così, come se nulla fosse?!!»

«Quante storie. Come mi sono inseminata questa volta, posso pure farlo di nuovo, sono sempre in tempo per averne altre, di bambine».

«Ne hai perse tre!»

«Vorrà dire che la prossima volta ne farò quattro» minimizzò.

«Ma sono sempre tre in meno!»

«Ma come sei noiooooosaaa! Che due palle! Manco fossi mia madre, poi!» sbuffò evidentemente scocciata «Importa più a te delle mie figlie perdute di quanto possa mai importare a me, che sono -ero- la loro madre! Datti una fottuta calmata e rilassati, Hippolyta! Piuttosto, guarda il lato positivo».

L’Ophidians cerulea strabuzzò gli occhi d’ambra.

«Riesci davvero a trovarci un lato positivo?!!»

«Ora c’è più posto per le nostre, di figlie, così potrai inseminarmi e avremo le nostre personalissime piccole Ophidians!» la guardò sognante «Dì ai tuoi spermatozoi che la camera è tornata sfitta, ho già un ovulo caldo caldo disposto ad affittarla loro mooolto volentieri per i prossimi mesi, ovviamente previa stipulazione di un contratto fra i nostri organi genitali!»

Emily Jane -che inizialmente aveva guardato quella scenetta divertita- s’incupì, trovando che la vicenda stesse assumendo un aspetto a metà fra l’assurdo e l’inquietante.

«Che genere di problemi ha?» chiese a Hippolyta, indicando l’altra.

Lei scosse la testa.

«Elencarli sarebbe impossibile, ma è ossessionata dall’idea che la ingravidi­­ nonostante io abbia già una moglie. Non sarebbe qualcosa di strano, qui a Quetzalli, ma non sono proprio interessata».

«Capisco. In questo caso» schioccò le dita, e l’enorme formazione cristallina inghiottì letteralmente la naga dalla pelle d’ebano, inglobandola «meglio che se li tenga per lei, i suoi problemi, iniziava a darmi sui nervi».

Senza perdere altro tempo, si avvicinò alla consorte di Phentesilea, facendo attenzione a non toccare con la pelle nuda tanto i cristalli a terra quanto quelli che la reggevano in quella scomoda posizione di crocifissione: un solo tocco, e nemmeno lei avrebbe potuto evitare che il attecchissero alla sua divina persona, trasformandola lentamente ma inesorabilmente in minerale a sua volta.

Processo che in Hippolyta stava già avvenendo, nelle zone dove il quarzo era penetrato nelle carni, tanto che buona parte delle teste dei serpenti sul suo capo erano ormai ridotte a semplici pietruzze scintillanti.

Emily Jane fece tintinnare un rametto su uno di essi, ridacchiando: la minima vibrazione, e andò in frantumi. Sorrise.

«Qualche ora, e tu farai la stessa fine» dichiarò soddisfatta «contenta?»

Di tutta risposta, dando mostra di invidiabili doti diplomatiche e di comunicazione, nonché di una particolare attenzione verso la psicologia dei gesti, Hippolyta le sputò in faccia. Del veleno a penetrazione transdermica, fra le altre cose, ma questo la Pitchiner non lo sapeva.

«Curioso» si pulì «è lo stesso identico modo in cui ha reagito Myricae quando-»

«Cosa le hai fatto?» ringhiò la serpentessa alzando la voce, dimenandosi al punto da far ondeggiare persino i cristalli che la tenevano prigioniera, fottendosene altamente se così facendo finiva solo per intrappolarsi di più a sua volte.

«Giuro che se le hai fatto qualcosa io-» si bloccò.

Con la coda dell’occhio, guardò l’altra sovrana: no, non poteva permettersi di tirare giù  la maschera, non senza avere la certezza che Antiope fosse veramente incosciente e non stesse, invece, fingendo.

Decise di cucirsi la bocca.

«Tu “cosa”, uh? Mi ucciderai? Mi torturerai? Mi ingraviderai?» rise la figlia dell’Uomo Nero «Cosa vuoi farmi, se ti confesso che ho trapassato tua figlia con il mio scettro» lo agitò «poi le ho strappato questo» indicò il serpente che utilizzava come cintura «dal capo mentre era incosciente per i colpi subiti, e che poi l’ho fatta gettare insieme alla sua adorata mamma ad aspettare la morte? Che provvedimenti intendi prendere, per punirmi dall’aver scopato, ingannato e fatto torturare Phentesilea, la tua dolce e delicata e zuccherosa mogliettina? Non puoi nemmeno immaginare com’è ridotta, nemmeno nei tuoi incubi riusciresti a capacitartene!» sogghignò.

Le si accostò all’orecchio.

«Ci hai ripensato e vuoi forse consegnarmi ad Harmonia?»

«Con quello che costa la spedizione fra un regno e l’altro, sono venuta a prenderti di persona» la corresse una voce fin troppo familiare alle sue spalle, spingendola a girarsi «e per fortuna che non ho scelto il pagamento in contrassegno, altrimenti mi trovavo pure il sovrapprezzo per lo scettro non previsto!»

«Cos-»

 

 

E Madre Natura cadde come corpo stordito da una zoccolata in pieno volto cade.

Con tanto di uccellini svolazzanti sul capo, giusto perché la Regina di Phantasia era particolarmente in vena di fare la simpatica.

O voleva solo percularla, insomma.

 

 

Nonostante l’imbarazzante silenzio, la centauressa non perse ulteriore tempo a starsene impalata a scambiarsi sguardi indecifrabili con la Airë Tári; immediatamente, si posizionò dietro i grossi cristalli che trattenevano e due sovrane: un colpo secco con gli zoccoli, e andarono in frantumi, dissolvendosi come polvere sciolta dalla pioggia.

Prima che si sciogliessero del tutto, Naevia -in tenuta casalinga, a differenza dell’amica, con nemmeno un filo d’armatura addosso!- si abbassò e ne raccolse qualche briciola, mettendola poi in una provetta che si sfilò dalla vita.

«Ci servirà un antidoto per quelle» indicò le chiazze di minerali ancora sul corpo della naga, che -sebbene non si fossero staccate dalla pelle- almeno avevano arrestato la loro crescita «e per crearlo avrò bisogno di un altro paio di ingredienti: sarà una versione piuttosto rozza della pozione vera e propria, del resto senza i miei preparati che si trovano nel laboratorio e con così poco tempo non posso fare molto, ma funzionerà».

«Molto bene, procedi pure. Airë Tári Hippolyta ti accompagnerà in città, dove sicuramente potrai trovare tutto ciò di cui hai bisogno».

«Io farò cosa?» per la sorpresa, mollò Antiope -che si stava caricando in spalla- per terra.

Harmonia annuì.

«Scorterai Naevia a recuperare il necessario per le cure di cui avete un estremo bisogno tu e l’altra regina, e lì resterai: a farti medicare, a riposarti, ad aiutare a far mantenere la calma, a sostenere le tue simili in questo momento di estremo pericolo, a-»

«Io non prendo ordini da te, tantomeno da una gatta spelacchiata».

«Tale madre, tale figlia» notò la leopardessa.

La regina si lasciò scappare una risatina.

«Considerando che sono entrambe due Ophidians talmente testarde che quando s’impuntano su qualcosa non muovono le radici finché non marciscono da sole, direi proprio che hai ragione! Ma fortunatamente ha preso tante cose buone anche dalla sua Amìl» si voltò verso Hippolyta, guardandola dritta in quelle pozze color ambra «la stessa Amìl che ora, andando in città, potrai trovare ad aspettarti, se è andato tutto per il meglio».

 

A sentire quell’accenno alla sua amata, la serpentessa -sempre così fredda e distaccata e sicura di sé- rimase interdetta qualche istante, immobilizzandosi con la bocca serrata e gli occhi spalancati per lo stupore: Phentesilea stava bene? Era davvero viva?

… Però la Pitchiner le aveva detto che era… che era...

No, Harmonia stava mentendo solo per tenersela buona, doveva essere sicuramente cosi!... ma che interessi avrebbe mai avuto nel mentirle? Le aveva salvato la vita, se avesse voluto liberarsi di lei avrebbe tranquillamente potuto fingere di non vederla e passare oltre… che stesse dicendo la verità, forse?

Gettò lo sguardo verso il sottile bracciale di “perline” -chiamarle così sarebbe stata un’offesa alle perle vere, con la forma tozza e irregolare che avevano!- di legno che aveva al polso, il primissimo regalo che le aveva fatto Phentesilea; dentro di sé, sorrise: lei si era presentata con un opale fra le mani, mentre quella che sarebbe diventata la sua futura consorte con cosa era arrivata al loro appuntamento?

Un bracciale di legno e corda malamente intrecciato, intagliato pure peggio e, ciliegina sulla torta, mezzo mangiucchiato dalle termiti.

Sul momento era stata tentata eccome di rispondere al suo “Ti piace?” con un’espressione di pietà e compassione in volto, ma poi aveva abbassato lo sguardo sulle sue mani bianche sempre così morbide e curate: schegge, tagli e morsi di insetto, tutto per farle un regalo. A lei, che la pietra portatale come presente l’aveva trovata semplicemente per caso, senza scarnificarsi le dita a scavare la terra.

Da allora, quel dono che ai suoi occhi valeva più del suo intero harem e quella minuta naga dalle squame colore dell’alba erano diventati i suoi tesori più inestimabili. Loro, e anche Myricae.

 

Tirò un profondo respiro, inalando più ossigeno di quanto i suoi polmoni potessero contenerne.

«Seguimi».

Non aggiunse altro: si mise gli arakh in vita, prese Antiope sulle spalle e si strinse nelle spalle, attendendo che Naevia -dopo essersi scambiata un’occhiata con la propria regina- le si affiancasse.

Strisciando, si fermò quando passò a lato della centauressa.

«Sia chiaro che lo faccio solo per la mia famiglia» le disse severa, senza distogliere lo sguardo da davanti a sé «Non per te, non per Quetzalli, non per Exodus: solo per mia moglie» fece una breve pausa, mordendosi le labbra «e per la mia bambina. Riportamela a casa intera, Harmonia».

«Conto di poterlo fare con tutta la città» le sorrise. Fece un breve inchino «Grazie, Hippolyta, apprezzo il tuo aiuto».

«Tsk, aspetta a ringraziarmi, che se tu mai dovessi tornare col cadavere di mia moglie o di mia figlia fra le braccia, allora beh» fece tintinnare le spade «stai pure sicura che costituirò un problema ben peggiore di Madre Natura» concluse.

Vedendola strisciare via in compagnia dell’altra, il sorriso della regina lasciò posto ad un’espressione corrucciata: aveva promesso che avrebbe tirato fuori Myricae viva da quella situazione, ma lei nemmeno aveva idea di dove fosse, Myricae.

Come non aveva idea che Emily Jane le si stesse avventando alle spalle a lame di ghiaccio sguainate.

 



 

 

______________________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Autrice che è in leggero ritardo, ma questi sono dettagliH :D

Spero che con tuuuuutte le cose che sono accadute in questo capitolo il tutto nel complesso non risulti confusionario, nel caso in cui sia così me ne scuso profondamente! Per eventuali dubbi, comunque, non esitate a chiedere, risponderò senza problemi cercando eventualmente di spiegarmi meglio :) senza spoilerare la vita, l’universo e tutto quanto, magari :’D

Detto questo, ringrazio come sempre chi legge e chi segue e chi recensisce, vi amo tanto quanto Giannemilia ama il proprio scettro, AWWete <3

Qui sotto vi lascio direttamente le traduzioni di pezzi di dialogo, spero che si capiscano di più che a fare una traduzione singola frase per frase :)

 

- ORIGINALE DAL TESTO -

 

«Tiro na nin» le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi «Ennas ad estel, da’len, ennas ad estel im melithon. Rina amin, qa’cormamin niuve’lla tenna’ ta Amìl’elea lle au’».

«Han iston».

[...].

«Tollen i lû nîn si boe bedin» enunciò lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi  i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le andò in frantumi «Tenna’ telwan, Amìl» la salutò.

«Tenna’ telwan, da’len» ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente, scompariva fra gli alberi «Mae marth» sussurrò, ma Myricae -già lontana- non la sentì.

 

- TRADUZIONE -

 

«Guardami» le afferrò dolcemente il mento, facendo sì che la guardasse negli occhi «C'è ancora speranza, piccola mia, c'è sempre speranza. Ricordati di me, e del mio cuore che dormirà fino al tuo ritorno».

«Lo so».

[...].

«E arrivato il momento che io vada» enunciò lasciandola piano, lentamente, come ad assaporarsi  i loro -forse- ultimi minuti insieme. Quando si girò per andarsene, il cuore le andò in frantumi «A dopo, mamma» la salutò.

«A dopo, piccola mia» ricambiò sua madre, stringendo le mani al petto mentre la figura di sua figlia, lentamente, scompariva fra gli alberi «Buona fortuna» sussurrò, ma Myricae -già lontana- non la sentì.

 

 

Alla prossima!

   
 
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