Capitolo 3
A Present for you
Il mattino seguente la dottoressa si
svegliò con la schiena terribilmente indolenzita e la testa poggiata sulla
scrivania.
Evidentemente doveva essersi addormentata
durante il turno di vigilanza notturna, pensò ancora frastornata.
Ripensando a quello che era accaduto la
sera prima, Harleen alzaò lo sguardo sulle scartoffie ancora da compilare, dove
un oggetto in particolare attirò la sua attenzione.
Un bocciolo di rosa se ne stava in bella
mostra sul grosso plico di fogli che invadeva il sio ufficio. Sotto di esso una
carta da poker contenente un messaggio per lei:
Scendi a trovarmi, qualche volta.
-J
Il mittente del biglietto era abbastanza
evidente.
La ragazza prese, istintivamente il fiore
tra le dita, inspirandone l’odore che aveva un vago sentore di tabacco, ed
immediatamente sentì le gote arrossarsi per l’imbarazzo.
Certi pensieri non sarebbero nemmeno
dovuti balenarle per la testa.
Qualcuno bussò improvvisamente alla porta
del suo ufficio, facendola sobbalzare, tanto da pungersi, accidentalmente, con
una spina, osservando, nel frattempo, il suo impeccabile camice bianco,
irrorarsi di quel fluido scarlatto comunemente chiamato sangue.
Una guardia la avvisava che il prigioniero zero era pronto a ricevere
visite.
Harleen ficcò, con stizza, il bigliettino
nella tasca del camice, avviandosi, poi, a grandi falcate verso la cella al
centro della sua attenzione.
«Ti
spiacerebbe spiegarmi come è arrivato nel mio studio?» chiese spavalda lei,
una volta rimasti soli, al clown, mostrandogli il pezzo di carta che stringeva
nervosamente tra le dite.
Provava un immane senso di collera ne
confronti di quell’uomo che si stava bellamente facendo beffa di lei.
«Ce
l’ho messo personalmente…» constatò, ovvio, lui, ridendo sornione, sdraiato
sulla sua brandina.
«Non credo che alle guardie farà piacere
sapere che sei uscito dalla tua cella!» lo rimbeccò la dottoressa incrociando
le braccia sotto al seno, in segno di rimprovero.
Il senso di
fastidio che provava in quel momento cresceva ogni attimo di più nel suo corpo.
«Beh, ma se avessi veramente voluto
informarle lo avresti già fatto» la sfidò Joker, alzandosi dal letto per venirle
incontro, afferrandole la mano con uno scatto veloce e portandosene l’indice
tra le labbra, succhiando via un rivolo di sangue.
«Mi piace il tuo nome, Harleen… -sussurrò,
poi, a un soffio dal naso della dottoressa, sistemandole dietro l’orecchio una
ciocca ribelle, sfuggita al suo controllo maniacale- Sento che sei una persona
con la quale potrei confidarmi, una persona che saprebbe ascoltare i miei più
oscuri segreti.»
Quelle parole fecero scattare un perverso
meccanismo di cause ed effetti nella mente della dottoressa.
Niente sarebbe stato più allettante dei
racconti del Joker per lei, in quel momento. Si sentiva come una falena rapita
dalla luce.
Aveva tra le mani un tesoro inestimabile
per la stesura del suo libro. Il che le avrebbe permesso di completare il suo
dottorato di ricerca col massimo dei voti.
L’offerta proposta dal detenuto era tanto
invitante, quanto pericolosa, ma Harleen, in quell’istante, non se ne rendeva
minimamente conto.
Tutto ciò che percepiva in quel momento
era fiducia nei confronti di quello sconosciuto.
Il suo orario di lavoro era ormai giunto
al termine, così, si vide costretta a rimandare la seduta al giorno successivo.
Una volta nel suo appartamento la
dottoressa Quinzel si precipitò all’interno della doccia. Aveva bisogna di
lavare via ogni traccia di spossatezza dal suo corpo martoriato.
Niente era più piacevole della sensazione
purificante dell’acqua che scorreva su di lei.
Ripensò alle ultime ventiquattrore ed,
immediatamente, un viso diafano, si fece spazio nella sua testa.
Harleen lasciò vagare la mente, cercando
di immaginare quello che si nascondeva sotto l’austera camicia di forza del suo
detenuto prediletto.
Quei pensieri poco casti si impossessarono
prepotentemente di lei. Era da tanto che non frequentava un uomo e non poteva
di certo negare quanto quel criminale fosse attraente.
Da sempre la donna nutriva un interesse
per le personalità estreme, trovandole decisamente più impegnative e
stimolanti.
All’inizio lei stessa si era diagnosticata
la Sindrome di Stoccolma, capendo, solo in seguito, che ciò che più la attirava,
in quei delinquenti, era l’assoluta oscurità del loro animo. Ogni avanzo di
galera stuzzicava la sua mente, mostrandole fino a dove si poteva spingere un
essere umano.
Joker però era diverso da tutti gli altri.
Il suo paziente aveva la rara capacità
di piegare gli altri al suo volere. Era una personalità totalmente carismatica
ed Harleen lo vedeva come una sfida continua. Il detenuto aveva conquistato il
suo cuore e la sua mente, dopo solo pochi incontri e la bella bionda,
inevitabilmente, si era ritrovata ad immaginarlo nella veste di amante. Con
quell’aria da dominatore, mr. Napier emanava una carica erotica capace di farle
tremare le gambe al solo pensiero, facendola bagnare lì, dove nessuno entrava
da tanto tempo.
Harleen, iniziò, senza rendersene conto, a
stuzzicare la propria intimità, pensando a quel gangster dai capelli tinti,
fino a quando non venne travolta da un violento orgasmo che la costrinse ad
accasciarsi sulle fredde mattonelle del bagno.
Cercare di interrogare il pezzo da novanta dell’Arkham Asylum si rivelò
un grosso buco nell’acqua.
Non sarebbe mai riuscita a cavargli una
sola parola di bocca, lo sapeva bene, ma il piacere di sentirlo farneticare,
trascinandola in quel valzer di pura follia, era impagabile.
Ben presto, nella dottoressa, sempre più
assoggettata a quell’uomo, maturò l’idea che il Joker, descritto spesso come un
pazzo furioso o come un pericoloso criminale, fosse in realtà una persona
dall’animo sensibile e tormentato; un bambino afflitto e ferito che desiderava far
sorridere il mondo alle sue buffonate, ma che veniva sempre ostacolato dal
virtuoso e moralista Batman, determinato a rendere un inferno la vita del suo
angelo.
Lo ammetteva: per quanto potesse sembrare
poco professionale la dottoressa in poco tempo si era innamorata del suo
paziente.
Sapeva che metà delle sue storie erano
inventate, ma non le importava affatto.
Lei era stata educata a cogliere la verità
tra le righe.
Jack Napier non aveva subito alcun trauma
infantile, non era stato vittima di nessun abuso; lui era pazzo per scelta. Si
divertiva a manipolare le menti fragili, per questo lui e la dottoressa erano
due anime affini.
Quell’uomo era uno squilibrato, narcisista
manipolatore pieno di sé, con un ego smisurato, ma era anche l’uomo più sexy e
brillante che avesse mai conosciuto ed Harleen non riusciva a non amarlo per
queste sue qualità.
Lui la stava plagiando e lei non stava
facendo nulla per opporsi.
Era totalmente assoggettata a lui.
Stava lentamente diventando schiava di
quel gioco perverso che l’avrebbe portata sempre più vicina al baratro.
Continuava a soddisfare, sottobanco, ogni
vizio del detenuto, cercando di farselo amico. Non avrebbe sopportato una
chiusura da parte sua.
Sei lui gliel’avesse chiesto, lei sarebbe
stata capace di donargli la luna, o persino la testa del pipistrello su un piatto d’argento.
Una mattina d’autunno, come tante altre a
Gotham, la dottoressa arrivò più tardi del solito al lavoro, trovando il prigioniero zero pronto ad attenderla in
ufficio.
Il gangster la accolse immediatamente con
un ampio sorriso, una volta valicata la soglia del penitenziario, notando che,
quel giorno, la bionda era più truccata del solito.
«A cosa devo questo cambiamento dottoressa
Quinzel?» domandò il carcerato, estasiato dal colore scarlatto che esaltava le
labbra carnose della dottoressa.
«Mi dispiace Mr. J, ma questa domanda va
oltre il nostro rapporto professionale» lo rimproverò lei, in realtà lusingata
dalle attenzioni del suo paziente.
«Andiamo dottoressa, sono giorni che sono
rinchiuso in isolamento. Mi lasci godere della sua visione» sussurrò,
rilassandosi, a pochi centimetri dal collo sottile della donna che, a quelle
parole, arrossì violentemente, destando l’ilarità del criminale.
«Perché non mi scioglie questa camicia di
forza? -ammiccò poi nella sua direzione- sono sicuro che la seduta assumerebbe
un aspetto più… divertente!»
Il cuore perse, per un momento, un
battito, prendendo poi a martellare come un pazzo nel petto della povera
Harleen che, senza farselo ripetere due volte, liberò il suo angelo da quel
vincolo.
L’uomo con un gesto repentino assalì la
donna, puntandole un machete alla carotide.
La psichiatra deglutì, violentemente,
senza perdere la calma.
Non aveva affatto paura di quell’essere
che, piuttosto, la faceva sentire… eccitata.
Lo sfidò, puntandogli contro i suoi grandi
occhioni chiari.
Era una dottoressa; sapeva bene come
utilizzare il linguaggio del corpo.
«Non hai paura, bambolina?» rise compiaciuto il clown, alla vista della spavalderia
della ragazzina.
«Io credo semplicemente che quello che non
ti uccide, ti rende più… strano! Me
lo hai insegnato tu, no? -rispose lei afferrando la lama del coltello tra le
esili dita- Se avessi voluto uccidermi lo avresti già fatto da un pezzo…»
concluse poi, con un sorriso deviato stampato sul viso innocente, strappando
definitivamente l’arma dalle mani del pazzo, squartandosi la pelle per riuscire
nell’intento.
In un gesto disperato, la dottoressa strinse
poi i capelli verdi del gangster, con la mano grondante di sangue, attirandolo
a sé in un irrefrenabile bacio che avrebbe condannato, per sempre, la sua vita
da quel momento in poi, fino alla fine dei suoi giorni.
ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti, mi scuso dal profondo per la mia lunghissima
assenza.
Purtroppo gli impegni universitari hanno avuto la meglio sulla mia
voglia di scrivere.
Stanotte mi sono mentalmente imposta di dover dare un seguito a
questa storia,
così dopo un’infinità di tempo vi propongo un nuovo capitolo.
Spero di non aver tradito le vostre aspettative.
Un bacio,
Nina