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Autore: Avareil    28/03/2018    5 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Vino?

Si era svegliata con un sorriso radioso dipinto in volto.
Era felice, veramente felice, e nessuno avrebbe mai potuto sottrarle quel prezioso ricordo che serbava gelosamente nel cuore.
Nel buio della notte più nera, presso gli altari del signore della morte eterna, aveva osservato incantata il suo dio indossare le vesti, sistemare le fibbie sulle spalle, recuperare la kunée abbandonata ai piedi dell’altare, il tutto in un silenzio quasi surreale fatto di respiri veloci e occhiate incuriosite rivolte dal sovrano degli inferi alla sua dolce promessa.
Con un’espressione interrogativa in volto, l’aveva nuovamente stretta contro il suo corpo, ora rilassato e appagato, e con un bacio a fior di labbra le aveva domandato una spiegazione per quei dolci sguardi.

“Forse sentirete la mia mancanza?”, il dio aveva allargato il sorriso in un ghigno furbo.

“Non più di quanto voi sentirete la mia”, Persefone aveva risposto a tono, lo sguardo celato da lunghe ciglia nere.

Un gorgheggio gutturale aveva scosso il petto dell’avernale prima che due labbra devote cercassero quelle audaci di lei.
 
“Andate ora, mio signora. A breve il sole farà capolino da dietro le nubi e, con lui, due occhi curiosi e malevoli”, Ade alludeva al dio Apollo di cui serbava nel cuore uno spiacevole ricordo.

Con la fronte poggiata sul suo petto, Persefone aveva stretto le braccia intorno alla vita del dio: vano tentativo di allungare quel momento il più possibile.
Una bambina che faceva i capricci.
Il dio oscuro aveva sorriso lasciandole un altro bacio sulla fronte e quando ella, ancora desiderosa di carezze, aveva sollevato il volto verso il suo, lui le aveva morso con delicatezza le labbra.

“Andate kore, e fate attenzione”, la voce del dio leggermente incupita e preoccupata,

“e… una volta lontana, non volgete lo sguardo indietro, verso questi luoghi”.

Non capendo il motivo di quel monito, la dea aveva arcuato un sopracciglio,

“Fate come vi dico”.

“State tranquillo, dio serio e sibillino -”

“-spero con tutto il cuore di rivedervi presto, mio amato”. Persefone lo aveva osservato addolcire l’espressione in un sorriso e poi, dategli le spalle, aveva mosso i primi passi fuori dal fitto della boscaglia.

Prima che il piede fosse posato sull’erba verdeggiante, al di là della la coltre oscura, limite oltre il quale l’ordine di Ade doveva essere rispettato, si era nuovamente voltata alla ricerca di quel volto ma, stupita, i suoi occhi non ne avevano scorto nemmeno l’ombra.
 
Aveva dovuto lottare contro la parte più istintiva e animalesca di sé per non voltarsi nuovamente verso gli altari neri e, solo quando aveva sentito le membra illuminate dagli ultimi raggi della luna stanca nel cielo, aveva velocizzato il passo, rendendolo prima andatura lesta, poi corsa e, infine, diventando ella stessa vento leggero. Come brezza aveva raggiunto la casa materna e, ben lontana dall’infantile goffaggine, era sgattaiolata silenziosa nelle sue camere.
Un sorriso, amaro e dolce al contempo, le aveva increspato le labbra mentre le membra, stanche e rilassate, trovavano conforto sul comodo letto.
Sono la sua divina esistenza le aveva permesso di rispettare il sacro monito del divo nero.
Solo la sua perentoria forza di volontà l’aveva spinta alla corsa, lontana da quei luoghi, lontana da lui.
Solo la sua ragione, divina e sorda alle urla del cuore, le aveva impedito di venir meno alla parola vincolante del dio.

Un semplice mortale non sarebbe mai stato capace di una simile prodezza.
 
 
°°°


“…E perché saremmo state convocate sull’Olimpo? Non ditemi che Zeus vuole presentare un altro dei suoi figli?”.

Aveva parlato di getto, il volto era ancora impastato di sonno e gli occhi, semi chiusi, celavano il ricordo dei sogni segreti.

Era stata l’espressione sconcertata della madre a farla ridestare, regalandole un po' di lucidità.

“Madre, io…”

“Il motivo della convocazione non è specificato con chiarezza nella missiva di Hermes, mia dolce bambina, ma suppongo sia come dici, sebbene io non apprezzi tale tracotanza. È tuo padre quello che sbeffeggi”.

Demetra, stupita dalle parole pungenti della figlia, l’aveva folgorata con un cipiglio silenzioso di rimprovero sebbene, in cuor suo, nutrisse ella stessa dello sdegno per quel poco di buono del fratello.

Ciò che era peggio? Sapere, in cuor suo, della veridicità di quelle parole.

Una nuova divinità sarebbe stata presentata agli altri luminosi, ma non era questo il motivo del suo turbamento, palesato in un’espressione spenta e corrucciata. La mente, toccata dal lugubre ricordo della sorella, vedeva nell’incoronazione di Dioniso, il concretizzarsi della terribile sorte di Estia, una sorte, tra l’altro, sconosciuta ai più.
In aggiunta a ciò il cervello si rifiutava di richiamare la risposta a dei nuovi dubbi logoranti che le esacerbavano l’animo:

Sarebbe stato presente anche Ade?

Avrebbe nuovamente allungato le sue sudice mani fatte di morte sulla sua Kore?

Avrebbe nuovamente dovuto patire l’abbandono e la solitudine?

Tormentata da quegli interrogativi, la cui risposte risuonavano nel suo petto una più tragica dell’altra, aveva allungato una mano verso Persefone che, nel mentre, si era seduta compostamente sullo sgabello vicino al suo.

 “Madre mia, non vi lascerò sola, andremo insieme, come sempre. Non temete”.

Ma ella temeva, temeva eccome.

Facendo un leggero cenno affermativo col capo, Demetra aveva afferrato il calice di mielosa ambrosia al suo cospetto e, lentamente, lo aveva avvicinato alla bocca invitando la figlia a fare altrettanto.
Il divino giovane dai natali oscuri, Dioniso, sarebbe stato riconosciuto, gli si sarebbe concesso il nome e, per di più, per un qualche sconosciuto merito, avrebbe ricevuto il trono della sorella Estia senza che nessuno osasse levar voce contro lo strano comportamento del signore dei cieli, senza che nessuno avesse contezza di quanto avveniva sotto terra, proprio dirimpetto il tempio del fuoco domestico.

Lei, poi, con che coraggio ruggiva verso il fratello?

Non aveva nemmeno avuto il coraggio di recarsi presso quei luoghi.
Non aveva avuto il coraggio di calpestare, impotente, la tomba precoce della sorella.
Un singhiozzo: ecco il primo segno, il primo avvertimento del cedimento del cuore che, se fosse stata sola, si sarebbe sciolto in un pianto disperato.

“Madre, state bene?”, Persefone, impensierita da quello strano comportamento, aveva allungato il collo verso quella al suo fianco e, preoccupata, ne aveva ricercato lo sguardo ma Demetra, ricompostasi immediatamente, aveva portato repentinamente il calice alla bocca affinché la figlia non notasse lo strano e umido luccichio nel suo sguardo vuoto.

“Va a prepararti bambina mia, ti aspetterò nelle mie camere”.

Con quelle parole, la dea madre si era alzata dal tavolo imbandito e, con un gesto della mano a mo’ di saluto, l’aveva lasciata sola.
Cupa in volto, Persefone aveva seguito con gli occhi la madre allontanarsi e solo quando fu certa della sua assenza, si permise di allontanare il calice dalla bocca asciutta.

Sentiva freddo,
 e quell’ambrosia non le profumava più di buono.

°°°




Ipnos camminava freneticamente avanti ed indietro.
Di fianco a lui giaceva il povero Radamanto, beato e assolutamente inconsapevole dell’angoscia del genio alato che, tormentato, guardava prima lui e poi l’orizzonte spettrale e, di nuovo, vice versa.

Quante volte aveva interferito nella vita dei divini?

Sempre.

Quante volte i suoi sogni avevano giustamente rianimato le speranze?

Sempre.

Un piccolo singulto lo aveva strozzato in gola dimostrando la falsità di quel pensiero.
Non sempre le sue intromissioni avevano giovato, non sempre i suoi sogni avevano condotto all’azione logica.
Non sempre era riuscito a instillare pace nei cuori addormentati, anzi, molto spesso, l’effetto era stato esattamente l’opposto.

Dannato Thanatos e dannate le sue parole fuorvianti.

Il genio gemello, quello lugubre e mortifero dei due, aveva suggerito con sarcasmo una visione: Estia che, chiara e limpida nella sua dolorosa prigionia, avrebbe, a sua volta, gettato nel tormento l’animo del giudice avernale.
Quel suggerimento, balordo e spregevole, era stato partorito dalla mente vendicativa della Morte che, turbata nel vedere un essere divino sprofondato in una condizione di dolore e impotenza, esigeva che anche colui che avesse causato quell’ infausta situazione pagasse con la propria serenità.
Ipnos, però, aveva distorto, contorto e ripiegato quel suggerimento facendogli assumere connotati completamente differenti: se la visione fosse stata accompagnata dalla speranza di un ricongiungimento allora entrambi gli infelici avrebbero alleggerito i reciproci tormenti.
Un sorriso a trentadue denti aveva illuminato il viso del genio ma, schiacciato dal peso delle possibili conseguenze, quello stesso era durato poco, pochissimo, gelato dalle successive riflessioni.
Ipnos, infatti, oltre alla grande audacia, serbava cautela: non era uno sciocco.
Egli sapeva dalla punta delle ali sul capo fino agli alluci dei piedi sospesi per aria che, a volte, anche la sola speranza può essere pericolosa.
Uno sguardo al povero giudice sotto di lui, un altro sospiro sfuggito dalle labbra arricciate,

Se solo …

Gli sfortunati amanti giacevano in un sonno che poco aveva a che vedere sia con la morte sia con le funzioni biologiche.
Entrambi dormivano perché sotto malia del Fato e, se solo egli avesse avuto il coraggio, avrebbe unito quei destini giusto per pochi minuti, il tempo di uno sguardo o di una parola.
Del resto anche Thanatos aveva suggerito quella possibilità- maligno stronzo.

E sia.

Posta una mano sugli occhi del dormiente, Ipnos aveva recitato la sua nenia.
Pochi secondi e Radamanto non era più al suo cospetto, almeno non a livello mentale.
Un solo pensiero aveva rincuorato il genio:

se dovesse andar male…colpa di Thanatos.
 
 
°°°


“Vino?”

Il profumo selvatico della bevanda rosso cremisi impregnava l’aria dell’intera sala rendendola densa, inebriante e avvolgente come un velo.
Tutti gli dei erano riuniti tra le colonne imponenti dell’anticamera della cella di Zeus e nessuno, nessuno a parte lei e sua madre, sembravano conservare un briciolo di lucidità.

Un proposito, quello della sobrietà, che sarebbe durato ben poco, almeno per lei.

“Ragazza, vuoi del vino?”,
Persefone aveva osservato incuriosita il giovane sconosciuto che, con un bel sorriso stampato in faccia e due gote rosso acceso, le aveva offerto un calice traboccante con fare amichevole e fin troppo intimo.
Il voi, gli ossequi, i saluti, gli inchini erano qualcosa di totalmente distante da quell’indole rustica e travolta dai fumi dell’alcool.

Che fosse quello, Dioniso?

“Grazie, siete molto gentil-“

“Siamo una famiglia, ci si deve conoscere, fare amicizia, voler bene e chissà…magari…siete molto bella…il vostro nome? Io sono Dioniso, figlio di Zeus anche se, sapete, non è molto bello essere stati partoriti da una coscia”.

Dioniso l’aveva interrotta e, per di più, aveva iniziato a parlare rapidamente, troppo eccitato -sicuramente colpa del vino tracannato prima e durante la festa- ed emozionato dalla possibilità di poter finalmente conoscere quella famiglia che da tempo gli veniva negata per colpa delle gelosie di Era.
Persefone, letteralmente travolta da quel fiume di parole, aveva afferrato il calice al limite del tramortimento, non era avvezza a tutte quelle parole e a quei ragionamenti contorti dal vino.
Lei aveva sempre preferito il silenzio della natura, dei campi floridi abitati da creature pacifiche e aveva poi amato anche un altro tipo di silenzio, quello della notte senza ritorno, della giusta sentenza, della giusta morte. Il silenzio di chi sa ponderare le parole da usare, che dà il giusto peso ad ogni lemma… non a caso… Ade...

Ade?

Dov’era Ade?

Cercando di sopravvivere a quel dio che, brandendo in entrambe le mani due calici già vuoti per metà, ancora la braccava con modi un po' sconclusionati e al limite dell’indecenza, la dea aveva cercato con sguardo disperato il signore delle ombre, nella vana speranza che egli, nascosto magari dalla sacra kunée, potesse trarla in salvo da quel nuovo parente molesto.

Aiuto.

Con in volto un sorriso formale e una falsa espressione di interesse, Persefone aveva scandagliato l’intera sala alla ricerca di quel dannato avernale che sapeva essere lì e che sentiva visceralmente divertito.

Eccoti, disgraziato.

Lo aveva intravisto di sfuggita, un’ombra nera mescolata tra gli altri radiosi e brillanti.
Ade, appoggiato- celato- da una colonna, la osservava da lontano con due occhi divertiti e un volto stranamente ammorbidito da una barba ricciuta e incolta: rideva di lei e della sua spiacevolissima compagnia.
Eppure, dopo il primo sguardo, Persefone non era stata capace di fulminarlo con un cipiglio esasperato o furioso, troppo presa da quelle strane e familiari sembianze che, subito, già dal primo sguardo, l’avevano fatta sentire meno sola, meno fuori luogo, meno sbagliata tra quegli esseri chiacchieroni e superficiali dediti al vino e alle donne.
Quella barba, di cui ricordava il ruvido accenno contro la pelle del collo, sembrava vaporosa e morbida, assolutamente distante dallo stile rigido e severo del sovrano dei morti. Che fosse uno sfregio? Un segno di irriverenza nei riguardi di quelle divinità impomatate e tirate a lucido? Che fosse solo indice di distrazione e mancanza di tempo?
 
Forse, più semplicemente, il ricordo dei sospiri e dei gemiti strozzati generati dal leggero sfregamento di quella stessa peluria sul suo collo tenero, era stato un motivo più che sufficiente per lasciarla lì, al suo posto, nera, folta e ricciuta.
Persefone aveva sorriso tra sé e sé a quella riflessione, il brivido che le era corso dalla nuca fino al centro del suo essere era un chiaro testimone dei ricordi che le addolcivano la mente annebbiandole il cuore.
Non vista dalla madre- Dioniso e la sua logorrea erano un’ottima copertura-  aveva assaporato di sottecchi quei tratti, cercando in essi la ragione della sua sopravvivenza.

Aiuto, ti prego.

 “E dunque, basta parlare di me. Voi siete Persefone, la figlia di Demetra? Siete bellissima, incantevole, veramente. Ho sentito raccontare di voi e del vostro rapimento, brutta storia. So che nell’Ade non hanno del vino, sarà stato terribile”.

Lo aveva osservato per qualche secondo non riuscendo a elaborare una risposta coerente all’osservazione appena sentita: in vero non sapeva se ridere o piangere dinnanzi a quella mente sconvolta dal vino.

“Fratello, vi ringrazio per la premura ma devo smentirvi, il signore dell’Averno possiede innumerevoli cantine di vino dell’Erebo”.

“Un peccato non poterlo assaggiare, dunque! Per colmare questo terribile vuoto, ti prego, bevi questo che ti offro in segno di nuova amicizia. È un nettare dolcissimo e- a quel punto le aveva strizzato l’occhio- e non ti dico nemmeno la gradazione alcolica. Li stendo tutti questa sera”.
Dioniso aveva riso ebbro mentre con la mano la invitava a portare il calice alle labbra.
Ottimo. Era veramente ottimo.
E letale per una come lei che mai aveva osato bere vino fino a quel momento.
Aveva sentito subito che la bevanda, densa sulla lingua e dal sapore dolciastro, aveva iniziato a scorrerle dentro, riscaldandole prima la gola, poi lo stomaco e, infine, irradiando un piacevole tepore in ogni nervo del corpo.
Solo allora aveva sorriso e, stranamente rilassata in ogni terminazione di sé, aveva bevuto un’altra lunga sorsata divertita dal sorriso sorniose e ubriaco di Dioniso e confortata dalla presenza del dio dell’Averno che, poco distante da lei, la sorvegliava come un falco, stranamente più cupo in volto e rigido nel corpo.

Ben ti sta, farabutto.
 
Gli altri dei, invece, sembravano assolutamente inconsapevoli della presenza del dio nero: forse erano così abituati a evitarlo, a schermare gli occhi in sua presenza che, alla fine, non riuscivano nemmeno più a scorgerlo.

Per la fortuna di Ade.

“Mia dolce sorella, sto monopolizzando il tuo tempo. Sono sicuro che anche altri dei non vedono l’ora di parlarvi e avvicinarvi anche se, onestamente- non prendetevela- si sente ancora un leggero tanfo di morte intorno a voi. Prendete-“ a quel punto, barcollando, le aveva avvicinato al volto altro vino,

“Prendete, il profumo del vino sistema ogni cosa, fidatevi”.

Poi le aveva dato le spalle e, così come era arrivato, se ne era andato alla ricerca di un qualche altro parente da conoscere.
Persefone, non badando a quella strana puntualizzazione, stordita da quel primo calice di vino vuotato per disperazione e con in mano un secondo ancor pieno fino all’orlo, aveva assistito, più o meno lucidamente, al declino del dio che, sorsata dopo sorsata, parola insensata dopo parola insensata, si apprestava a ricevere il sacro nome da Zeus padre, ancora nascosto presso i suoi altari.
Infastidita e pizzicata da uno strato sdegno verso quell’essere che avrebbe dovuto considerar padre e che invece stimava al pari di uno sconosciuto, ella aveva vuotato anche il secondo calice offertole dal fratellastro e, ritrovandosi sola, lontano dallo sguardo attento della madre, e ben osservata dall’altro dio, quello oscuro e celato ai molti, aveva tentato la via della fuga invano; barcollante era stata braccata e presa sotto braccio dal corteo di ninfe della madre, incaricate di non lasciarla sola nemmeno per un istante.

Lì aveva perso le sue tracce.


°°°


A distanza, celato alla vista da una fumosa aria mortifera, il dio nero aveva osservato la sua dolce preda con sguardo adorante e addolorato: lui, il dio al quale niente sfugge e a cui tutto, prima o poi, ritorna, non poteva avvicinarsi a lei, non poteva offrirle la mano né, tanto meno, rivolgerle un saluto.
Era all’angolo, e lì, da lontano, unico sollievo per l’animo era poterla guardare, assaporare con gli occhi quello che, presso i suoi altari, aveva potuto saggiare con le labbra e con le mani.
Eccola, sola e brilla, tentare di scappare, dileguarsi da quei luoghi sapendo di averlo al suo seguito: ombra nera e fedele compagna di fuga.

Ma no. Perché illudersi di aver dalla propria parte un Fato benevolo?

Quelle maledette ninfe, cani da guardia al comando di Demetra, la vincolavano al centro della grande sala affinché gli risultasse impossibile raggiungerla.

Illuse.

Prima che Persefone venisse completamente circondata da danzanti creature, le aveva rivolto un sorriso disarmante, la seria linea delle labbra si era stesa in un ghigno malizioso e furbo.

No, non l’avrebbe lasciata sfuggire.

 Il disgraziato e bellissimo Ade sapeva che ciò che pulsava nel suo cuore era lo specchio di quello che, celato eppure alimentato dal vino dolce, batteva in quello della giovane dea: desiderio, desiderio nutrito dalla privazione.
Persefone era al centro delle danze, esposta ma al contempo protetta da un velo che mai nessuno avrebbe potuto attraversare: questa la speranza di Demetra.
Ma Ade non era stato mai un incauto: l’arte del temporeggiare lo avrebbe guidato al premio.
Persefone ben conosceva quello sguardo magnetico e esigente e, sperando di non venir sorpresa da nessuno, aveva risposto al sorriso con un muto bisbiglio che solo lui avrebbe potuto leggere sulle sue labbra.

Ti aspetto.
 
 
 
Che avesse osato troppo?
Ritrovandosi sola nel bel mezzo della sala, bloccata nell’osservare un angolo di quella, apparentemente vuoto, aveva distolto lo sguardo imbarazzata e preoccupata.
Un’espressione cupa le aveva intorbidito lo sguardo, fino a pochi istanti prima vibrante e luminoso.
Era stato questo cambiamento a gelare il sovrano degli inferi che, sempre a distanza e celato ai più, aveva sentito montare dentro di sé una rabbia cieca.
Aveva dovuto lottare contro l’istinto selvaggio di andar da lei, dinnanzi all’intera platea divina e baciarla, afferrarla, semplicemente stringerla e trascinarla con sé nel ventre della sua dimora, com’era giusto.
Per un solo istante quel sentimento gli aveva offuscato la mente: se fosse stato necessario si sarebbe reso ombra pur di avere la possibilità di rimanere al suo fianco, e come un’ombra si sarebbe fatto mutevole, cambiando al cambiare della sua posizione pur di poter godere della sua essenza.

Ma così, averla a pochi metri e doverle stare lontano era veramente terribile.







L’angoscia che aveva letto nello sguardo della dea lo aveva sospinto via, lontano e, trasmutato altrove saltando da un’ombra all’altra, era andato alla ricerca del fratello minore, stranamente assente dalla sala dei banchetti.

“Zeus?”
“Dove ti celi? Lo so che sai che sono qui. Ho bisogno di parlarti”.

Lo aveva trovato al riparo presso il suo altare immenso. Zeus stava stancamente poggiato sul bordo, rosso in volto e in compagnia del figlio Dioniso, fin lì precedentemente sorretto e sospinto in quei luoghi dai satiri del suo seguito.

“Fratello!”.

Zeus, palesemente già alticcio, lo aveva accolto con un sorriso a trentadue denti stampato in volto e, a seguire, anche il giovane dio aveva salutato lo zio di cui raramente aveva sentito parlare e di cui, ancor meno, aveva colto la presenza.
Del resto anche lui era nuovo di quella realtà fatta di luce e nuvole soffici.

“Zio!”, Dioniso, ovviamente ubriaco da un bel pezzo, aveva accompagnato il padre in quel saluto di benvenuto reso caloroso dall’ebrezza dell’alcool.

Ade, sconcertato dalla superficialità di quegli esseri, aveva tentato di mantenere la calma,

“Dioniso”, Ade lo aveva immediatamente liquidato 
con un cipiglio incredulo e un cenno del capo.

“Zeus dobbiamo parlare”. Il tono perentorio del dio nero aveva trovato eco in un’espressione inebetita sul volto del minore che, per metà inconsapevole, aveva inclinato il capo alla ricerca di risposte,

“E di cosa desideri parlare? Persefone te l’ho già concessa e Demetra non ne è stata molto felice. Le femmine, e tra queste in primo luogo le madri, diventano belve fameliche quando i piccoli sono minacciati”.

Se solo Demetra avesse avuto modo di udire quelle parole sarebbe rimasta sconvolta dalla leggerezza impressa nelle parole del padre di sua figlia, parole che vedevano Persefone trattata come un pacco o un sacco di granaglie ceduto al miglio offerente.
Ma non solo Demetra avrebbe reagito male.
Ade, cupo in volto, aveva iniziato a sentir formicolare le mani mentre l’odore dell’alcool si faceva insopportabile alle sue narici.

“Estia, tua sorella, mia sorella, giace sotto terra vincolata da un voto che tu, magistralmente, hai saputo ordire alle spalle di tutti. Sono qui con una proposta non pacifica: intervieni, sciogli e muta il tuo vincolo con lo Stige, libera nostra sorella o il tuo regno verrà scosso da un nuovo scempio fatto di sangue e sofferenza”.

L’aria intorno ai due fratelli si era fatta elettrica come elettrica era divenuta l’essenza oscura del dio dell’Averno.

“Estia? È di Estia il trono che mi viene concesso?” Dioniso, intromettendosi, aveva rivolto uno sguardo dubbioso al padre che, improvvisamente serio in volto, aveva distolto lo sguardo.

“Si, è il suo. Ella non era più degna”.
Infuocato, Ade, aveva afferrato Zeus per il bavero della lunga tunica

“Tieni il potere, tieni tuo figlio, concedi lui quel che ritieni più opportuno ma non strappare anche a tua sorella l’onore della preghiera”.

Sciolta la presa, il dio nero aveva ritrovato la solita compostezza.

“Agisci presto, sovrano. La mia pazienza non è infinita”.
Al centro tra Zeus e Ade, uno palesemente abbattuto e l’altro pronto alla guerra, Dioniso si era fatto avanti e, sempre consapevole nella sua ubriacatura, aveva sollevato il bicchiere proprio dinnanzi allo zio.

“Vino?”

Dinnanzi all’espressione ebete di Dioniso, seguita dal silenzio del fratello, il dio aveva preferito allontanarsi, attendendo pazientemente che la sostanza alcolica perdesse ogni effetto distorcente. Almeno lo sperava.




Perché non avrebbe sopportato oltre.



°°°



Ma dov’è?

Persefone, cercando di mascherare al meglio il turbamento del cuore, mostrava di tanto in tanto alla madre e alle ninfe del suo corteo dei sorrisi timidi e impacciati: non era mistero per nessuno che quel tipo di occasioni non le fossero congeniali.
In vita sua aveva avuto modo di partecipare a un solo grande concilio.

E non era un segreto come fosse andata a finire la serata.

Al solo ricordare il dolore di quelle parole, prima abbaiate dalla madre e poi ruggite dal signore oscuro, al solo ricordo della fuga e del tradimento della zia materna- conseguenza dell’originario tradimento compiuto a sua volta dalla madre-  brividi avevano iniziato a tormentarle la spina dorsale lasciando dietro di loro una spiacevole pelle d’oca.

Gli effetti del vino erano oramai svaniti, per sua sfortuna.
 
“Avete freddo, signora?”.

Un tremito, forse ancora più profondo dei precedenti, l’aveva turbata a tal punto da farle incassare il collo tra le spalle; una frase che sapeva di minaccia, malizia e lascivia.

Quel signora non aveva la dolcezza che solo lui sapeva trasmetterle.

Voltandosi lentamente verso la voce roca che aveva richiamato la sua attenzione, per poco aveva rischiato di palesare il proprio stupore lì, sul volto onesto e schietto, al cospetto di un Febo che, con occhio brillante e cattivo, lo squadrava impunemente dalla testa ai piedi.

“No, vi ringrazio divino Apollo”, con un leggero cenno del capo aveva cercato di ricollezionare i frantumi della sua regalità ma quando, al suo retrocedere verso la folla, aveva percepito la mano calda e forte del dio poggiarsi sul suo polso con l’intento di trattenerla, la paura le aveva attorcigliato lo stomaco in una matassa indistricabile.

Inebetita, aveva fissato prima la mano e poi il volto del dio che, assolutamente a suo agio, aveva continuato:

“Vostra madre, povera ingenua, mi ha invitato- in maniera sibillina, è ovvio- a prendere l’iniziativa con voi, magari per un ballo, o semplicemente per uno scambio amichevole di convenevoli. Non vi nascondo che la parte più divertente è stata udire dalle sue labbra: “la mia Kore è ancora troppo pura e innocente per arrischiare a chiedere una danza”.

Apollo aveva leggermente alterato la voce facendola sembrare simile a quella di Demetra: chiaro tentativo di sbeffeggiare sia lei che la madre divina.

“Povera, povera Demetra- lì il sole aveva allargato il sorriso malizioso in un ghigno malevolo- peccato che la povera madre non sappia che razza di scempio volgare e corrotto ha al seno, vero, Persefone βωμῶν ἀνηλιῶν?”

Persefone degli altari oscuri.

Quella frase, pronunciata in lingua sacra e carica di disprezzo, l’aveva scossa come una folgore in pieno petto. Pallida in volto e con il respiro praticamente mozzato in gola, aveva sgranato gli occhi

“Come… come fate, voi…?”.

“Selene, la luna, mia sorella, è tenuta prima di tutto alla fedeltà nei riguardi del fratello. Ella non può negarmi nulla del cielo notturno, soprattutto se questo diviene spettatore di simili comportamenti”.
Le si era avvicinato, lentamente e tanto da poter percepire il profumo di fiori corrotti, di erbetta appassita, di campi spogli: arricciato il naso con un impercettibile disgusto l’aveva squadrata da capo a piedi,

“Vi ha già presa, macchiata e legata a sé. Se vostra madre non vede è solo perché non vuol vedere”, a pochi centimetri da lei, resa statua di sale, Apollo la derideva a mezza voce.

“E dire che ho sempre nutrito nei vostri riguardi una certa stima e, sicuramente, è stato palese il mio interesse nei vostri riguardi fin dal primo momento in cui vi ho vista. Peccato-”, Febo le aveva sistemato un ciuffo scomposto dietro l’orecchio,

“Magari adesso, che avete saggiato i piaceri della carne con il peggiore dei reietti, potreste concedere i vostri favori a me che sono il sole che nutre le vostre fronte e i vostri prati fioriti…”, maligno e impregnato di gelosia aveva continuato,

 “…farò finta di non notare questo gelo mortale che vi avvelena da dentro senza rimedio”.

Via. Via. Via.

“Non osate toccarmi”, immobile, Persefone aveva sibilato quell’avvertimento.

“Se non ti concedessi di tua sponte potrei sempre farmi sfuggire accidentalmente qualcosa con qualcuno…vediamo…qualcuno a caso: tua madre”.

Viscido come il fauno che in fanciullezza aveva osato ricattarla allo stesso modo, viscido come un serpente e torbido come l’acqua di uno stagno, Apollo tentava in ogni modo di ottenere i suoi favori.

Povero illuso.

Stava parlando con una dea consacrata all’invisibile.

Riscossa dentro da un calore sconosciuto fatto di bile nera e rabbia cieca, aveva preso la mano del dio ancora saldamente poggiata sul suo polso e con le unghie aveva fatto pressione affinché la lasciasse libera.

“La verità, povero Febo, è che non mi avrete nemmeno così. Né con l’inganno né con la violenza. Non prendetevi disturbo. È tempo che mia madre sappia, sappia da me”.
Con determinazione aveva dato le spalle a quel dio di luce e, a passo celere, aveva abbandonato la sala dei bagordi alla ricerca di Ade.


Gli avrebbe comunicato le sue intenzioni prima di…

Prima di far scoppiare il finimondo.
 



°°°



“Ade…?”

Persefone, cercando di non farsi notare, aveva oltrepassato i soggetti alati, caprini e divini che, alticci e rubizzi, baccagliavano dispersi sull’Olimpo, alla ricerca del dio oscuro, avvelenata nel cuore dalle parole di Apollo.

Come poteva un dio di luce operare in quel modo losco e lascivo?

Ade, Ade il traditore, Ade il malevolo e l’impenetrabile, Ade l’oscuro, Ade il reietto… Ade, il suo amato, non aveva mai osato avanzare una proposta di quel genere, sempre consapevole del limite oltre il quale era impossibile addentrarsi.

E poco importava che fosse iniziata nella peggiore delle maniere.

Il Fato era stato benevolo con lei e lei era una stupida a voler ancora temporeggiare.
Avrebbe sacrificato altre cento e altre mille volte la sua essenza per lui che mai l’aveva forzata e che, anzi, l’aveva protetta e salvata dallo Stige vincolante, promettendola a sé e a sé e basta.

Con il cuore traboccante di orgoglio e consapevolezza, la dea aveva seguito il silenzio, unica traccia del dio nero e, sempre più distante dalle camere adibite alla celebrazione, aveva percorso il lungo corridoio, consapevole del suo dirigersi verso le camere solenni del padre.
Lì, nascosta nell’ombra, aveva sentito ogni cosa.

Ade che chiedeva udienza a Zeus.

Zeus che accampava risposte sconclusionate, accompagnato dal lucidissimo- e ubriaco- Dioniso.

Estia.

Cosa diamine era successo alla cara ed infelice Estia?

Quatta quatta contro la parete aveva atteso in silenzio che Ade, di cui sentiva nel cuore la rabbia e l’angoscia, abbandonasse quei due poveri ubriachi e, sperando di non essere scorta da altri all’infuori di lui, ne aveva agguantato il polso tirandolo dietro le colonne laterali.
Lì, con il cuore martellante e avvolta da una nuba nera che sapeva maledettamente di casa, aveva cercato la risposta negli occhi tetri e furiosi del dio.

“Estia…”

“Non preoccupatevi. Risolverò questa situazione, in un modo o nell’altro”.

Spaventata e intimorita dal tono perentorio e cupo con il quale egli aveva parlato, ne aveva cercato la mano, affinché, stringendola, potesse trarre da lui la forza di affrontare problemi che, come margherite, sbucavano uno dopo l’altro come in primavera.
Ma eccolo fissarla più intensamente, scrutarle l’anima attraverso le iridi.

“Cosa è successo?”.

Aiuto. Mantieni la calma, Persefone.

 “Pensavo… è ingiusto dovervi stare lontano, dover mascherare lo sguardo, far finta di non notarvi. A dire il vero, ogni volta che varco la soglia di questi luoghi qualcosa di perverso mi turba, instillando nel cuore il sano desiderio della fuga”, con le labbra tremanti, la dea aveva parlato sommessamente, le parole attutite dall’armatura di lui contro la quale si era stretta alla ricerca del suo corpo.

“Persefone- il tono non ammetteva altre perdite di tempo- cosa è accaduto mentre ero via dalla sala?”

Il dio dell’Averno aveva cercato di scandagliare il cuore della vergine ma quella, strettasi ancora più contro il suo petto, aveva miagolato a bassa voce

“Altri hanno visto…”

“cosa…?”

Inghiottendo rumorosamente, cercando di guadagnare tempo, la dea, impaurita da quello che il cuore voleva rivelare e le labbra, invece, tacere, aveva provato a distogliere lo sguardo, a rivolgere altrove i pensieri affinché Ade, già provato da grandi tormenti, non si adirasse ancor di più per colpa della minaccia di Apollo.

“Selene…Apollo… hanno visto e…”

Ma non aveva avuto bisogno di continuare.

Il ruggito fuoriuscito con ira dal petto del dio era il chiaro segno di come egli avesse avuto modo di capire e sentire il turbamento della dea, da poco scappata a quella proposta malsana e alle parole malevole e lussuriose.

“Io lo distruggo”. Ben lontano dal pacato essere fatto di espressioni serie e compite, Ade mostrava i denti in una smorfia feroce mentre le mani, strette in pugni lunghi i fianchi, tremavano per la rabbia.

“Ade, mio signore, vi prego… Badate al mio animo: vi desidero con tutto l’ardore di cui ha conoscenza un dio ma la mia felicità sarebbe macchiata se osaste levare la mano contro Febo o, ancor peggio, se la povera Estia non fosse tratta dalla sua terribile condizione il prima possibile. Quanto ha proferito Apollo non ha alcun valore. Sono pronta a dir anche ora stesso alla povera madre la decisione presa. Voi, però, riguadagnate la calma. Non è di questo tipo di dio, violento e irragionevole, che ho bisogno”.

Ade aveva scrutato il volto stranamente pallido della dea e, vedendola tremolante, l’aveva stretta ancora più contro di sé nella vana speranza che anche un corpo gelido come il suo potesse fare calore.

“Perdonatemi”. L’avernale aveva chinato il capo su quello della dea poggiando la fronte contro quella di lei, gli occhi stretti palesavano il tentativo di calmarsi.

“ Ricordate le mie parole: il vostro animo non è  oscuro come vi hanno a lungo fatto credere. Siete il miglior essere che potessi incontrare”.
Il sorriso dolce di Persefone, quasi materna mentre la mano si poggiava sulla testa corvina, illuminava le ombre nelle quali erano nascosti.

“Lasciatemi ora, fate ciò che dovete per la povera Estia. Io parlerò con la madre e…e vedrete: tutto volgerà per il meglio”.

“No… vi prego. Concedetemi ancora del tempo”, tenendola stretta contro il suo petto, Ade aveva mormorato quella preghiera contro le sue labbra, il bisogno di dover saggiare quella bocca che sapeva di miele e radici era oramai impossibile da ignorare.

“Ade, mio signore, chiunque potrebbe scorgerci”,

“La mia kunée offre sicuro riparo, mia dolce signora, ve ne siete dimenticata?”, suadente e roco, come non era stato fino ad allora, aveva baciato quelle labbra lentamente col chiaro obiettivo di farla perdere, ma quella, rianimata da buoni propositi, aveva opposto una leggerissima resistenza.

“Allora potrebbero notare la nostra assenza”, aveva bisbigliato a qualche centimetro da quella bocca tentatrice.

“Allora direte che eravate persa in qualche giardino pensile lussureggiante, intenta a rifuggire moleste proposte…”, le labbra sottili, tirate in un guizzo di focosa gelosia, sfioravano quelle rosee di lei, morbide e pure.

“E voi? Voi che direte?”.

“Nessuno oserà chiedermi nulla. Sono il signore dell’Averno, e voi, mia signora, ben presto saggerete la dolcezza di questa unione”, malizioso, amabile, passionale e dolce.

Non avrebbe saputo quale termine lo impersonasse meglio: Ade era tutto, ed era nulla. Era tormento e calma, pacatezza e passione, gelo e fiamma.

La verità era solo una: per quanto gelo e il fuoco possano sembrare opposti, in realtà, producono lo stesso effetto.

Bruciano e consumano.

Le aveva afferrato il capo e, con delicata forza, l’aveva sospinta contro di sé, contro le labbra esigenti e oramai al limite dell’astinenza e, sempre con quella bocca, aveva soffocato i gemiti della dea che, sedotta dalla voce del dio, si era lasciata sospingere contro la colonna, certa di essere tutelata e protetta dal velo dell’invisibile.



***
 

Era rientrata dopo qualche tempo. Il viso palesemente arrossato sembrava essere la conseguenza del vino e non dei baci sfrenati scambiati col dio ombra.

Le vesti erano in ordine così come i capelli, solo il cuore batteva all’impazzata tanto da poter essere sentito, qualora fosse stata posta in una camera silenziosa.

Il primo sguardo che aveva sentito su di sé era stato quello della madre che, sebbene impegnata in una discussione con altre divinità, aveva notato la sua assenza.

“Madre, cercavo un po' di refrigerio…sapete, il vino di Dioniso ha avuto un effetto stordente su di me. E poi…”

Ma Demetra, pacificato l’animo dai dubbi, l’aveva abbracciata con trasporto, presentandola, immediatamente dopo, alle altre divinità.

“Madre, avrei bisogno di parlare con voi. Il prima possibile”, forte della propria decisione, la nuova kore aveva afferrato la mano della madre che, stupita, aveva arcuato un sopracciglio,

“dimmi tutto bambina mia, sai che sono qui per te sempre…” ella aveva sorriso amabile accomiatandosi dalla compagnia alla ricerca di un luogo dove poter parlare in serenità.

“Madre mia, vedete…” distanti dalla ressa, Persefone l’aveva questa volta afferrata per le mani saldamente,

“mia amata mamma…io…ci sono delle cose che non vi ho detto”.

Demetra, in posizione d’ascolto, aveva incrociato le braccia al petto visibilmente agitata.

Ma…
 

“Ma dov’è Estia?”

Una voce, nel bel mezzo della festa, nel bel mezzo della sala, aveva posto il quesito proibito mentre il giovane Dioniso, con il capo oramai cinto di edera e viti, serviva ancora del vino.

“E’ vero, dov’è Estia? Che ne è stato di lei, Zeus?”, un brusio sommesso aveva accompagnato le parole di Ade che, rivelando la sua presenza, aveva puntato gli occhi di brace verso il minore dei fratelli, ora seduto sul trono della sala di marmo.
Anche Demetra aveva sentito un brivido gelido correrle lungo la nuca e, terrorizzata, si era fatta più vicina alla figlia.

“Dillo, Zeus, rivela alla folla il destino di Estia che tu hai mirabilmente tessuto-”.

“ e bada di dire tutta la verità ai tuoi sudditi, signore dei cieli. ”

Ade, sempre più furioso, aveva fatto correre la mano sull’elsa, mentre l’altra, stretta in pugno, serviva come sfogo per evitare l’esplosione.

“Rivela a tutti il destino dell’infelice sorella: Estia è vincolata dallo Stige sotto terra per un voto che non ha mai infranto ma che, furbescamente, giova a te, signore delle nubi”.
"Voi..."

Quella voce maledetta

“Voi che parlate tanto di verità, signore dei morti, perché non ci dite con chi vi intrattenevate le sere passate presso i vostri altari? Magari una giovinetta dei boschi?
…Avete già dimenticato la tenera Persefone…oppure…”

Apollo si era fatto avanti, sfoderando un sorriso acuminato da serpente velenoso.

“Oppure la giovane dea vista correre come brezza verso casa sul far del giorno, era proprio lei, la cara kore, la nostra pura ed innocente Persefone?-”
“-Demetra, rallegratevi. Vostra figlia ama il vostro nemico e da lui verrà portata via”.

Pallida come un cencio, Persefone aveva voltato lentamente il capo verso la madre che, ridotta in statua di sale, palesava il proprio dolore solo per mezzo delle copiose lacrime che, silenziose, le solcavano il viso.

“Zeus: o Estia o guerra” Ade, aveva rivolto quell’ultimo monito al minore con solennità e freddezza,

“e tu…nipote…” con occhi di fuoco e aria mefitica intorno, l’avernale aveva camminato spedito verso Apollo che, tronfio e certo, aveva atteso lo zio a testa alta

“Ditemi, zio”,

ma Ade non aveva detto nulla.

Si era limitato ad osservarlo in silenzio, avvolto dalla morte di cui era signore e padrone e la cui essenza penetrava fin sotto la pelle correndo fino alle ossa.

Il sorriso di Apollo, a poco a poco, si era incrinato e, infine, si era spento del tutto.

“La mia dimora attenderà te e la tua progenie, non dubitare del tempo, egli scorre e conduce tutti alle mie porte”.

Con quelle parole, pronunciate come sentenza inderogabile, Ade si era spostato oltre, al cospetto della sorella.

“ E voi, sorella, che mi odiate senza motivo, sappiate che non vi è inganno nelle mie intenzioni. Vostra figlia sarà presto la mia sposa. Ella lo vuole”.

Ella lo vuole.
 
A quel punto Ade aveva allungato una mano verso la giovane Persefone che, lanciato un ultimo sguardo carico di pena alla madre addolorata, aveva poi afferrato la mano del dio.

Non c’era stato bisogno di dir altro.
Dinnanzi allo sbigottimento generale solo una era stata la voce ad avere il coraggio di parlare:


“Vino?”









L'angolo di Avareil
Alla fine eccomi qui. E' stato veramente difficile scrivere questo capitolo, così complicato e ricco di coincidenze temporali. Spero di essere riuscita a carpire la vostra attenzione ancora una volta e, veramente, perdonate l'attesa: è stato un periodo super pieno e di certo la complessità della trama non ha facilitato le cose. ehehe.
Rallegratevi: il capitolo successivo è già ben delineato e spero di pubblicare molto più celermente di questa volta.
Se vi fa piacere sarei lietissima di sapere cosa ne pensate, se vi piace o meno, se vi annoio o meno.
Io sono qui e poter scambiare qualche parola mi farebbe tantissimo piacere.
Un caloroso abbraccio.
Avareil


 
  
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