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Autore: FrancescaPotter    29/03/2018    1 recensioni
Long sugli ipotetici figli delle coppie principali di Shadowhunters (Clace, Jemma e Sizzy), ambientata circa vent'anni dopo gli avvenimenti di TDA e TWP. TWP non è ancora uscito al momento della pubblicazione, e nemmeno l'ultimo libro di TDA; questa storia contiene spoiler da tutti i libri della Clare fino a Lord of Shadows, Cronache dell'Accademia comprese.
Dal quarto capitolo:
"Will abbassò il braccio e distolse lo sguardo, ma lei gli prese delicatamente il polso. «Lo sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero?» gli chiese, morsicandosi inconsapevolmente il labbro inferiore. Era una cosa che faceva spesso e che faceva uscire Will di testa. «So che è George il tuo parabatai» continuò abbassando la voce, nonostante non ce ne fosse bisogno perché George era concentrato sul suo cibo e Cath stava leggendo qualcosa sul cellulare. «Ma puoi sempre contare su di me. Mi puoi dire tutto. Lo sai, vero?»
Will sospirò. «Lo so, posso dirti tutto».
Tranne che sono innamorato di te."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Clarissa, Emma Carstairs, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Julian Blackthorn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Ventiquattro
 
George giaceva steso a terra con gli occhi spalancati e il ventre squarciato. Il suo viso era esangue, bianco come quello di un cadavere.
No, pensò Cath in preda al panico. George no.
Boccheggiò e si appoggiò contro al muro, sperando che questo potesse sorreggerla, invece le sue gambe cedettero e si ritrovò per terra. Si trascinò vicino al corpo inerme di George con quelle poche forze che le erano rimaste e lo toccò con una mano tremante, per assicurarsi che fosse reale. La sua pelle era spaventosamente fredda, e i suoi occhi, Dio, i suoi occhi…
No, ti prego, pensò di nuovo disperata, per poi accasciarsi su di lui tra i singhiozzi. Stavano rischiando di soffocarla, non riusciva a respirare. Non George.
Sentiva che nel giro di poco anche il suo cuore avrebbe smesso di battere. Voleva urlare, ma non ci riusciva. Voleva cercare un’arma, ma non riusciva a muoversi, era paralizzata. Si sforzò di muovere un braccio, di alzarsi da terra, ma non c’era niente da fare: il suo corpo non rispondeva. Continuò a piangere, sentendosi schiacciare a terra da una forza invisibile, e quando finalmente riuscì ad urlare, lo fece con tutta l’aria che aveva nei polmoni.
Spalancò gli occhi e si ritrovò in un letto, in una stanza debolmente illuminata da una lampada a stregaluce. Non riconosceva né l’armadio a due ante, né la scrivania accanto ad esso: quella non era la sua camera a Brooklyn. Qualcuno era seduto accanto a lei e la stava scuotendo delicatamente per un braccio, ma Cath era disorientata, non capiva dove si trovava. George era… George…
«George» riuscì a rantolare con voce roca. Aveva urlato, lo sapeva perché le faceva male la gola, e aveva pianto, perché le sue guance erano incrostate di lacrime.
«Cath». Cath riuscì ad individuare la persona che l’aveva svegliata: era Rose. La prima cosa che riconobbe furono i suoi occhi. «Cath, va tutto bene. Sei a casa».
Casa? Poi capì: si trovava all’Istituto di New York, nella sua nuova camera. Gli Herondale erano stati nient’altro che gentili con lei, eppure Cath non riusciva ancora a vedere quel posto come casa sua. Era normale: dopotutto si era trasferita lì da poco più di una settimana. Anche se, a dir la verità, non vedeva come casa neppure l’appartamento che condivideva con il padre a Brooklyn. La cosa più vicina a una casa che aveva era…
«George… Dov’è George?» fu tutto ciò che riuscì a dire.
Rose si voltò e guardò Will, che se ne stava sulla soglia della porta con sguardo preoccupato e i capelli tutti schiacciati da un lato. Cath si fece prendere dal panico e si tirò a sedere di scatto, iniziando a piangere istericamente. «Sta bene, vero? Vi prego, ditemi che sta bene».
«Sì, Cath» si affrettò a rassicurarla Will. «Lo saprei se gli fosse successo qualcosa».
Cath si portò una mano sul cuore e l’altra sul viso. Inspirò ed espirò con calma più e più volte, concentrandosi sulla mano che Rose le teneva sulla spalla.
«Lo chiamo» decise Will ad un certo punto, vedendo che Cath era sulla soglia di un attacco di panico.
«No!» urlò lei. Poi abbassò la voce, timorosa di svegliare qualcun altro. «No. Deve dormire. È tardi e ho già disturbato voi, non voglio disturbare anche lui».
«Ma…» iniziò Rose.
«Niente ma» la interruppe Cath, accarezzandole piano i capelli, come se fosse Rose quella che avesse bisogno di essere consolata. «Ho solo avuto un incubo». Rose le passò un fazzoletto e Cath si soffiò il naso. «Adesso… adesso mi rimetto a dormire». Ma sapevano tutti e tre che stava mentendo. Non avrebbe chiuso occhio per il resto della notte. Ormai si stava abituando a quella routine: andava a letto e rimaneva sveglia per ore a fissare il soffitto, poi, quando finalmente la sua mente le dava una tregua, si addormentava e arrivavano gli incubi. Incubi in cui riviveva la morte di sua madre, dove suo padre la picchiava e moriva davanti ai suoi occhi, e poi i peggiori, quelli in cui George era morto e a lei non rimaneva più niente per cui rimanere in vita.
Cath non stava guardando né Rose, né Will, ma notò con la coda dell’occhio che lui si era avvicinato. «Cath…» iniziò un po’ titubante. «Ti sto osservando in questi giorni. Lo vedo che non dormi. Lasciami chiamare…»
«No» lo bloccò lei risoluta. «No, per favore. Tornate a dormire».
«Posso rimanere qui con te» propose Rose. Le si avvicinò e la abbracciò, cosa che Rose non faceva mai. Profumava di menta e di mare, e stava indossando una delle magliette di Will. «Davvero, resto qui con te».
Cath tirò su con il naso. «No». Non seppe neppure lei dove trovò la forza per ridacchiare e fare una battuta. «Devi stare con Will».
Rose si mise a ridere, senza però lasciarla andare e continuando a stringerla a sé. «Penso che Will possa sopravvivere per una notte».
Cath appoggiò la testa sulla sua spalla e Rose iniziò ad accarezzarle la schiena. Rimasero così per parecchi minuti, in silenzio, senza dire niente. Poi Cath sentì il cuore tornare a rimbombarle contro la gabbia toracica come un martello che batte contro al muro.
Non riusciva a respirare. Perché la morte di George era un pensiero che la tormentava giorno e notte. Cath aveva perso tutto, aveva perso ogni cosa, il solo pensiero di perdere anche George non era tollerabile.
Riprese a piangere e Rose se ne accorse. «Va tutto bene, Cath» sussurrò. «Era solo un sogno».
Cath lo sapeva, ma sapeva anche che sarebbe potuto diventare realtà. E se lo fosse diventato, lei che cosa avrebbe fatto? Era così stanca. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter essere qualcun altro per un secondo, per poter avere la vita di Rose o quella di Will. Solo per un secondo, così da non doversi sentire in quel modo, così da poter respirare anche solo per un istante. 
Non riusciva a gestire tutto quello che provava e le sembrava di essere in cima a un precipizio, con un piede dall’altra parte del baratro. Non capiva come potesse George voler stare ancora con lei: era un disastro, la sua anima era stata distrutta in modo irreparabile, e George si meritava molto meglio di lei.
Romperà con te, disse impietosa la voce che abitava nei luoghi più oscuri e nascosti della sua mente. Sta solo aspettando che tu sia più stabile per chiudere le cose. Solo un matto vorrebbe stare con te, e George non è un matto.
E poi George era lì. Cath lo vide sulla soglia della porta e lasciò andare Rose, tendendo le braccia verso di lui.
Ti prego, fa’ che questo non sia un sogno.
Rose si alzò dal letto e si affrettò a lasciarli soli, chiudendosi la porta alle spalle con un leggero clic. George raggiunse Cath con due falcate. Indossava solo un paio di pantaloni del pigiama e aveva il viso arrossato per il sonno e segnato dalla preoccupazione. Will doveva averlo tirato giù dal letto, pensò Cath sconsolata.
«Catherine» sussurrò lui, prendendola tra le sue braccia e stringendola forte. «Mi dispiace tanto. Sono qui, non vado più da nessuna parte».
Improvvisamente, faceva tutto un po’ meno schifo: il mondo non era più un posto tanto oscuro, non sentiva più la voce nella sua testa sussurrare meschina e riusciva a vedere la luce. George era lì, era vivo. Cath appoggiò la testa sulla sua spalla e si abbandonò contro di lui. George le accarezzò i capelli e le diede un bacio sulla guancia. Tutti paragonavano Will a una giornata di sole e George a una notte tenebrosa, ma nulla poteva essere più lontano dalla realtà per lei. George era il suo sole, ciò che le dava pace quando tutto dentro di lei urlava.
«Non ho chiesto io a Will di venire a chiamarti» riuscì a mormorare Cath contro al suo collo. Riusciva a sentire il suo cuore battere ritmicamente. Alzò il capo e gli prese il viso tra le mani. «Non volevo che ti svegliasse, ma ho sognato…» le tremava la voce. «Ho sognato che morivi e per un istante quando ho aperto gli occhi ho creduto che fosse successo per davvero».
George fece per dire qualcosa poi si bloccò. I suoi occhi scuri brillavano e Cath realizzò che erano bagnati di lacrime. Odiava, odiava che lui stesse male a causa sua. «Mi dispiace tanto» ripeté, riprendendo a piangere più forte. «Mi dispiace, io…».
«Shhh». George le asciugò le lacrime con la mano e la baciò forte sulle labbra, fermando i suoi singhiozzi. «Non mi devi chiedere scusa. Se qualcuno deve scusarsi, quello sono io. Sono un tale idiota, sarei dovuto rimanere con te. Ti prego, dimmi che è la prima volta che succede».
Cath voleva dire di sì. Voleva dire di sì con ogni fibra del suo essere. Era il minimo che potesse fare per lui: dirgli questa piccola bugia.
Prese un respiro profondo e lo guardò negli occhi. «Sì, per favore non preoccuparti» disse. Stava tremando, sentiva ogni osso del proprio corpo tremare. 
Non abbassare lo sguardo, si intimò. Lo sa quando menti. Pensò a qualcosa da aggiungere, a qualcosa che rendesse quella versione più credibile, ma non trovò nulla. Non riusciva a mentire a George, neppure per il suo bene, perché lui era sempre onesto e sincero e non meritava alcun tipo di bugia.
George infatti emise un gemito a metà tra la frustrazione e la disperazione. «Stai mentendo, Catherine».
Cath lo osservò con la bocca leggermente spalancata, incapace di difendersi da quell’accusa, poi abbassò il capo sconfitta.
«Stai mentendo, vero?» le chiese lui con gentilezza, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mettendole due dita sotto al mento per farle alzare lo sguardo.
Cath strinse le labbra e annuì. «Succede quasi tutte le notti. Quando sono da sola è peggio. Se sono con te riesco a riaddormentarmi».
George le rivolse un sorriso triste. «Okay» disse. «Grazie per avermelo detto. Non lascerò più il tuo fianco».
Cath fece per protestare ma non ne ebbe la forza. Si sdraiarono sotto alle coperte e Cath si accovacciò contro di lui, sentendosi finalmente al caldo. Quando si era svegliata, aveva provato un freddo così pungente che le aveva toccato l’anima, ma ora quel freddo era stato spazzato via da George e dal calore del suo corpo. George le diede un bacio tra i capelli e iniziò ad accarezzarle la schiena per farla addormentare. «Voglio che tu sappia» sussurrò a un certo punto. «Che se io morissi, non saresti sola. Ci sarebbero Will e Rose, Lizzie, i miei genitori e un sacco di altre persone a volerti bene».
Cath lo sapeva, lo sapeva e li amava anche lei, ma amava George così tanto che il pensiero che non ci fosse più la faceva sentire come se avesse una lastra di ghiaccio piantata nel cuore. «Lo so» disse. «Ma non voglio vivere in un mondo senza di te, perché quando pensavo che non ci fosse niente di buono nell’universo, sei arrivato tu e mi hai ridato speranza».
Cath lo sentì annuire e seppe che aveva capito. Non doveva dire niente, non voleva che dicesse alcunché, perché Cath già sapeva che lui la amava e che, nonostante tutto quello che le era capitato, era una persona fortunata, perché era amata da un ragazzo buono e gentile come George.
«Ora prova a dormire, Cath».
Cath chiuse gli occhi e trovò quel secondo di pace che aveva tanto desiderato prima che lui arrivasse.
 
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George rimase sveglio tutta la notte, accarezzando Cath sulla schiena per farla dormire. A volte lei si svegliava e lui le dava un bacio sul capo per tranquillizzarla. Verso mattina, però, il sonno ebbe la meglio su di lui e George si addormentò senza rendersene conto. Gli parve di aver chiuso gli occhi solo per qualche secondo, ma quando li riaprì la stanza era meno buia e alcuni raggi di luce si intrufolavano da sotto le tende, segno che il sole era già alto nel cielo.
Cath era sdraiata su un lato e lo stava osservando in silenzio; i suoi grandi occhi erano chiari, trasparenti, anche nella semioscurità.
George fece per dire qualcosa, ma lei gli mise una mano sulla spalla, poi sulla guancia. «Shh, dovresti dormire ancora un po’».
Ma George non aveva bisogno di dormire. Si sentiva stanco, come se le sue ossa fossero fatte di piombo, ma non era quel tipo di stanchezza curabile con il sonno. Le prese la mano e le posò un bacio sul polso. «Non preoccuparti. Sto bene» disse, parlando contro alla sua pelle. «Tu come ti senti oggi?»
Cath lo guardò fisso negli occhi e gli sorrise debolmente. «Meglio. Sul serio. Grazie per essere venuto qui».
Non sembrava che stesse mentendo, e George le credeva. Fece per dirle che la amava con ogni cellula del suo corpo e che non avrebbe permesso a niente e a nessuno di farle del male finché fosse stato in vita, ma un fiotto di luce si riversò nella stanza, come se qualcuno avesse acceso la luce.
Sia George che Cath proruppero in un’esclamazione sorpresa e si coprirono gli occhi con la mano per proteggerli dalla luce. George, che stava dal lato del letto più vicino alla porta, voltò il capo per capire chi diavolo avesse fatto irruzione senza bussare, e la risposta stava proprio lì in piedi davanti a lui: Elizabeth Herondale in carne ed ossa, con i capelli sciolti ai lati del viso come due cascate dorate.
«Ma che cavolo…» iniziò George.
«Oh Cath!» esclamò Lizzie con un’espressione triste in volto. Poi salì sul letto, scavalcò George come se non esistesse, e si inginocchiò vicino a Cath, che nel frattempo si era messa a sedere; la abbracciò forte, sull’orlo delle lacrime. «Will mi ha detto quello che è successo».
Cath le diede qualche pacca sulla schiena, come se stesse cercando di consolarla, come se fosse Elizabeth quella che aveva bisogno di conforto. George scosse il capo perché Cath era fatta così, era nella sua natura prendersi cura degli altri, anche quando questi stavano cercando di prendersi cura di lei.
«Sto bene, Liz» sussurrò Cath contro la sua spalla.
«Potevi almeno bussare…» borbottò George.
«No. Non è vero» replicò Lizzie seria, ignorando George e allontanandosi quel poco che bastava per guardare Cath dritto negli occhi. «La prossima volta chiama me! Puoi dormire con me, non svegliare Will e Rose».
«Non ho svegliato…»
«Fa niente! Non ce ne sarà più bisogno. Stanotte sto qua io con te». Lizzie lanciò un’occhiata a George e al suo petto nudo e alzò un sopracciglio. «Certo, se preferisci George…»
Cath le sorrise. «Chiamerò entrambi la prossima volta».
George e Lizzie fecero una smorfia disgustata. «Ew!»
Cath li guardò e sbatté le palpebre, non capendo il motivo della loro reazione.
«Sì, certo» disse George, alzandosi sui gomiti e guardandola con un ghigno divertito. «Così poi Will ci uccide. Uccide sia me, che te, per aver violato la virtù di sua sorella».
Lizzie stava facendo finta di vomitare e Cath parve capire. «Oh» si mise a ridere. George provò un’ondata di sollievo nel sentirla ridere con tale spontaneità. «Non intendevo quello, intendevo che potete fare un po’ per uno, separatamente. Prometto che se starò male di nuovo lo dirò ad entrambi, questo intendevo».
«Non metto in dubbio che lo dirai a George» disse Lizzie. «Però prometti che lo dirai anche a me».
Cath le prese le mani e le strinse forte tra sue. «Lo giuro sull’Angelo, ma chère».
«Bene». Elizabeth la abbracciò di nuovo e le diede un bacio sulla guancia. «Allora vai a prepararti, è mezzogiorno ed è pronto da mangiare». La lasciò andare e iniziò ad avviarsi verso la porta. «Anche tu sei invitato, George. Will e Rose sono a Los Angeles, però…» Lizzie sospirò. «Sono così innamorati da dare quasi fastidio. Se dovessi diventare come mio fratello, tiratemi qualcosa in testa».
«Diceva così anche Rose». George le sorrise. «E guarda che fine ha fatto».
«Dicevi così anche tu, probabilmente» fece invece Cath, picchiettandogli piano con il dito sul braccio.
«Sono ai livelli di Will?» chiese lui, sinceramente preoccupato. Non lo era. Almeno non in pubblico, ne era sicuro.
Cath alzò le spalle, e George si rivolse a Elizabeth speranzoso.
«Be’...» iniziò lei. Poi sembrò pensarci e cambiò idea. «No. Nessuno è peggio di Will con Rose».
«George è tanto dolce invece». Cath gli si avvicinò e lo abbracciò, posando la testa sulla sua spalla.
«George?» chiese Lizzie scettica, incrociando le braccia al petto. «Davvero. George?»
George la guardò male. «Cosa intendi, scusa?»
«Be’, non mi sembri il tipico ragazzo dolce e romantico».
George sentì il sangue confluire alle guance. «Non lo sono, infatti. Decisamente, non lo sono».
«Lo sei invece» ripeté Cath. «Tanto».
«Okay, basta così! Ho sentito abbastanza e mi sta venendo la carie» decretò Elizabeth, mettendo la mano sulla maniglia della porta. «Muovetevi o si raffredda il pranzo, e io non vi aspetto». Elizabeth uscì dalla porta e se la sbatté alle spalle. «Perché sto morendo di fame!»
 
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Rose attraversò il portale e si ritrovò nel corridoio dell’Istituto di Los Angeles, di fronte alla propria camera. Dalle finestre entrava la luce del sole, che splendeva alto nel cielo. Rose chiuse gli occhi e si beò del suo calore: ogni volta che passava qualche giorno nella cupa New York sentiva la mancanza del clima mite di Los Angeles, del sole, della sua amata spiaggia, ma soprattutto del mare. Non ce la faceva più a rimanere chiusa in casa; avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tornare a correre sulla spiaggia come era sua abitudine fare ogni mattina. Si sentiva un topo in trappola.
Will si materializzò al suo fianco, dopo essere passato attraverso il portale, che si chiuse alle sue spalle. Rose amava molte cose di Will, se non tutto, ma adorava la sua capacità di creare portali. Era un dono che lo rendeva ancora più speciale.
Quella mattina Will era strano, distante quasi, perso tra i suoi pensieri. Rose lo aveva notato. Non era molto brava a leggere le persone, ma era molto brava a leggere Will. Per lei lui era come un libro aperto, ed era evidente che quanto successo la notte appena passata lo avesse scosso.
Quando si era svegliata, Rose lo aveva trovato sdraiato a pancia in giù addosso a sé, con le braccia attorno alla propria vita e il capo premuto contro al collo. Solitamente era lei che si addormentava addosso a lui. Sorpresa, aveva iniziato ad accarezzargli gentilmente i capelli, cercando di non svegliarlo. E Will aveva continuato a dormire tranquillo, abbandonato contro di lei. Rose sperava che stesse sognando qualcosa di bello. I suoi capelli erano morbidi, dello stesso colore del sole, e Rose avrebbe passato il resto della sua vita in quel modo ad accarezzarglieli mentre lui dormiva. Perché c’era qualcosa di meraviglioso nel vedere qualcuno dormire tra le tue braccia in modo così pacifico, pieno di fiducia, come se si sentisse completamente al sicuro.
«Cerchiamo i miei genitori» disse. Dopo aver visto Cath in quelle condizioni solo qualche ora addietro, Rose sentiva il bisogno di vedere i suoi genitori. Aveva sempre dato per scontato l’amore che loro le avevano dato, ma solo in quel momento si era resa conto che non lo era. Era un privilegio.
Will non la stava ascoltando. Stava fissando il pavimento, i capelli che gli ricadevano sulla fronte in ciocche dorate. Catturavano i raggi del sole e sembravano risplendere di luce propria, creando un brillante contrasto con i vestiti scuri che stava indossando quel giorno.
«Will». Rose gli tirò la manica della maglietta per attirare la sua attenzione. «Stai bene? Quello che è successo con Cath stanotte… ha scosso anche me».
Will sbatté le palpebre e riportò lo sguardo su di lei. Era come se la stesse guardando senza riuscire a metterla a fuoco. «Sapevo che la situazione non era delle migliori. Ma non pensavo fosse così grave. Non pensavo che Cath stesse tanto male. Non lo sapevo. Non sapevo che George stesse affrontando qualcosa di così grande. Io…»
«Vorresti poter fare qualcosa» concluse la frase per lui Rose. Will annuì e Rose sorrise triste. «Lo so. Anche io».
Will si rabbuiò nuovamente e deglutì. Rose aggrottò le sopracciglia. «Will…»
«Voglio che tu sappia» disse lui, con urgenza, prendendole le mani tra le sue. «Che io farei lo stesso per te. Quando ho visto in che condizioni era Cath mi sono chiesto come mi comporterei se fossi nei panni di George. Avrei la sua stessa forza? E la risposta è sì, Rose. Certo che è sì. Voglio solo che tu sia felice perché ti amo così tanto. E non sopporto neppure l’idea che tu possa stare così male».
«Will, io sto bene».
«Lo so» si affrettò a rispondere lui. «Dio, lo so. E ciò che sto dicendo è stupido, ma mi sono reso conto che non lo sopporterei, se tu stessi così. Ricordo quando stavi male per Logan e ti giuro che se lo avessi tra le mani lo farei a pezzi. Perché meriti il meglio e io voglio dartelo».
Rose gli si avvicinò e lo baciò, spingendolo piano contro al muro, così che avesse la schiena premuta contro di esso. Will la strinse a sé e la baciò più intensamente. Rose glielo lasciò fare, passandogli una mano tra i capelli e baciandolo come se da ciò ne dipendesse la propria vita. Spesso pensava di non meritare Will, che nessuno lo meritasse. «Tu sei così…» iniziò, senza riuscire a concludere la frase. Non riusciva a trovare le parole per esprimere il profondo bene che gli voleva. Era il suo migliore amico e il suo amore più grande.
«Oh, eccovi qui!»
Rose e Will si separarono, controvoglia, e trovarono Emma che si avvicinava con un sorrisone stampato sul viso. Aveva i capelli raccolti in una lunga treccia e portava un paio di jeans e una camicia azzurro chiaro. «Mi dispiace interrompervi. Però sono contenta di vedervi. Will, ti fermi a pranzo, vero?»
Rose la guardò per qualche istante, sbattendo le palpebre e rendendosi conto che aveva gli occhi pieni di lacrime. Spinta da un istinto irrazionale, mosse un passo verso di lei e la abbracciò.
Emma trattenne il respiro, chiaramente non si era aspettata una tale reazione da parte di Rose, che cercava sempre di evitare il contatto fisico. Quando si riprese, ricambiò l’abbraccio, dandole delle leggere pacche sulla schiena. Rose appoggiò la testa sulla sua spalle e sussurrò: «Ti voglio bene, mamma».
«Oh» fece lei, dandole un bacio sulla guancia. «Anche io, bambina mia». Poi si allontanò e le prese il viso tra le mani, chiaramente preoccupata. «Va tutto bene? È successo qualcosa?»
Rose fece per rispondere, ma vide suo padre uscire dal suo studio e dirigersi verso di loro. Rose si liberò dalla presa di sua madre e gli corse incontro. Julian la vide arrivare e aggrottò la fronte. «Rose, stai bene?»
Rose ignorò la domanda e gli gettò le braccia al collo. Julian la prese al volo e la strinse forte. «Rose…»
«Sto bene» disse lei, il viso premuto contro al suo collo. Non capiva cosa le stesse succedendo: la sua voce tremava e le veniva da piangere. «Ti voglio bene, papà».
«Lo so, tesoro» le rispose lui, accarezzandole piano i capelli. A Rose venne ancora più da piangere. «Anche io ti voglio bene». Non la lasciò andare e il suo tocco gentile e familiare riuscì pian piano a tranquillizzarla. Il suo cuore tornò a battere regolarmente e le sue labbra smisero di tremare.
Quando Rose sentì di essere tornata padrona delle proprie emozioni si allontanò da suo padre e si asciugò le guance bagnate di lacrime.
I suoi genitori si scambiarono uno sguardo preoccupato e poi guardarono Will, come se lui avesse le risposte a tutte le loro domande.
«È per caso un tentativo per farmi dimenticare che sei stata a New York per due giorni senza avvisarci?» chiese suo padre inclinando il capo di lato.
Rose si mise a ridere piano. «No». Poi sospirò. «E lo sai che se non sono qui, sono a New York».
«La prossima volta almeno mandaci un messaggio» disse sua madre. «Ma sembri scossa. Si può sapere che succede. Will…»
«È Cath» rispose Will piano. «Non sta bene. Le sono successe troppe cose in troppo poco tempo».
Raccontarono brevemente quanto accaduto quella notte. Julian ed Emma sapevano che Jace era stato ferito, ma chiaramente non potevano sapere di Cath. 
«Povera Cath» disse Julian, abbassando il capo.
«Per fortuna c’è George» disse Emma. «La ama tanto. E essere amati in quel modo fa tutta la differenza. Fa la differenza tra la pazzia e la guarigione».
Rose sperava che sua madre avesse ragione. Will era taciturno e Rose gli prese la mano.
In quel momento arrivò Holly. Non degnò né Rose, né Will, di uno sguardo e continuò a camminare impettita lungo il corridoio, chiaramente diretta verso le scale che portavano all’ingresso. Aveva il suo orsetto sottobraccio e un cappello rosa con i brillantini sul capo. Indossava dei pantaloni elasticizzati con gli unicorni e un giubbetto di jeans blu scuro.
«Holly» disse Julian, voltandosi per guardarla mentre si allontanava. La sua voce era diventata fredda come una lastra di ghiaccio mentre parlava lentamente, scandendo ogni parola. «Dove credi di andare?»
Holly si bloccò, la schiena dritta e la testa alta, poi si voltò e li fissò tutti con aria di sfida.
«Fuori» rispose.
Emma emise un verso strano e si portò una mano all’anello dei Blackthorn che portava al collo.
Rose sentì Will irrigidirsi al suo fianco.
«Tu non vai da nessuna parte» disse Julian, ricambiando il suo sguardo con altrettanta convinzione. «Se non nella tua camera».
«Ma io sono stanca!» esclamò lei, le lacrime agli occhi. «Mi annoio! Non ce la faccio più. E Adrian e il suo amico mi hanno detto che hanno visto un unicorno in spiaggia. Un unicorno, capite? Non posso lasciarmelo scappare, non posso!»
Emma le si avvicinò, aveva un’espressione angosciata in viso. Le si inginocchiò di fronte così che i loro occhi fossero alla stessa altezza. «Senti, Holly. Te l’ho detto, gli unicorni non vivono qui. Stanno nascosti. È davvero molto improbabile che Adrian ne abbia visto uno. Probabilmente non stava dicendo la verità».
A Holly iniziò a tremare il labbro inferiore. «Perché?»
«Perché lo sai come sono i ragazzi…» Emma alzò le spalle. «Sono stupidi. E si divertono così».
«Okay. Ma io voglio uscire comunque».
«Perché non vieni con me e Will a giocare, invece?» propose Rose con un sorriso. Ma sua sorella le fece una linguaccia. «No! Sei andata via senza dirmelo. Io ti ho fatto un disegno e tu non c’eri e non sapevo quando saresti tornata. Avevo paura che non tornassi più».
«Holly… tornerò sempre, lo sai. Non ti lascio sola con mamma e papà». Rose le fece un occhiolino e Holly le sorrise. «Allora esci con me! Magari con te mi fanno uscire».
Julian emise un verso esasperato e si passò una mano sul viso. «Non è sicuro, Holly. Ne abbiamo già parlato. Per favore».
Holly diventò tutta rossa come se stesse trattenendo il respiro, poi sbatté un piede per terra. «Ti odio! Vi odio!» urlò, per poi scappare via nella sua camera, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
Emma si alzò e guardò il punto in cui era scomparsa con occhi grandi. Julian le si avvicinò e le prese la mano.
«Andrà tutto bene, Em» sussurrò piano.
Emma annuì e poi guardò Rose e Will. «Vi fermate qui per un po', quindi?»
Rose scambiò uno sguardo con Will e lui annuì.
«Certo, mamma».
Sua madre parve sollevata. «Allora andiamo di là, abbiamo ancora molte cose di cui parlare».
 
«Il Console Gladstone ha detto che stanno lavorando a una strategia per attirare i Riders allo scoperto e coglierli di sorpresa».
Emma fece una smorfia. «Certo, come se i Riders di Mannan fossero tanto stupidi».
Si erano sistemati nella stanza della televisione, Rose e Will sul divano, Emma sulla poltrona e Julian seduto accanto a lei sul bracciolo.
«È assurdo» decise Rose. «Dovrebbero permetterci di uscire. Se io e papà uscissimo, arriverebbero subito. E poi Will potrebbe aprire un portale e far arrivare i rinforzi. È logico».
«No, non lo permetterei» disse sua madre con convinzione scuotendo il capo.
«E non lo permetterebbe neppure il Concilio. Gli Shadowhunters non usano altri Shadowhunters come esca. Ho mosso anche io questa proposta, ovviamente lasciando te fuori, Rose, ma è stata rifiutata».
Rose rivolse a suo padre un’espressione oltremodo offesa. «Ho diciotto anni! Sono un’adulta!»
Rose guardò Will come in cerca di supporto e lui alzò le spalle. Sembrava rassegnato. «Benvenuta nel club degli adulti non così adulti».
«In ogni caso, presto sarà tutto finito. E tu e Holly non dovrete più restare chiuse in casa». Emma si passò le mani sui jeans. Era evidente che anche lei stesse soffrendo per quella reclusione forzata; adorava la spiaggia e il sole, stare troppo in casa non le faceva bene.
«Avete fatto colazione?» chiese Julian guardando l’orologio e cambiando discorso. «È ormai ora di pranzo a New York».
«Sì, abbiamo mangiato qualcosa prima di venire qui» disse Rose. «Will non si voleva alzare».
Sentì Will trattenere il fiato e squittire al suo fianco. Rose lo guardò e lui le rivolse un’occhiataccia, i suoi occhi verdi sprizzavano scintille. Emma si mise a ridacchiare, mentre Julian aggrottò la fronte.
Rose non capiva che cosa avesse detto di strano. «Che c’è?» sbottò, spostando lo sguardo da Will a suo padre. Julian alzò le spalle, Will arrossì. «Niente» disse, fissando il tappeto imbarazzato.
Rose capì e alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma dai! Lo sanno che dormiamo insieme. Papà!»
«Io?» fece Julian spalancando gli occhi. «Ha fatto tutto Will. Io approvo la relazione».
«Mamma!» esclamò allora Rose.
«Come se fosse una tua decisione» disse Emma, guardando male Julian. Poi tornò a rivolgersi a Rose: «Lasciali fare».
«Io non ho fatto niente» ripeté Julian con convinzione.
Will rimase in silenzio e Rose gli tirò una leggera spinta. Aveva reso tutto imbarazzante quando altrimenti non lo sarebbe stato.
«Ti preoccupi troppo, Will» decise Emma, senza rendersi conto che così facendo lo stava mettendo ancora più a disagio. «Non ti preoccupare. Io e Julian…»
«No!» urlarono sia Rose che suo padre.
«Non lo vogliamo sapere» disse Rose, tappandosi le orecchie.
«No, non vogliono» concordò lui. Rose notò che era arrossito, non lo aveva mai visto arrossire. Ora era curiosa di sapere quale fosse la storia che sua madre voleva così tanto raccontare, ma non osò chiedere. Sapeva, in realtà, di non volerlo sapere.
Sua madre fece una smorfia. «Non era niente di scandaloso!»
Rose guardò Will. «Non ti lamentare mai più dei tuoi genitori, o di tuo padre. Hai visto come sono i miei? Sono tutti uguali, tutti ugualmente imbarazzanti».
Will si mise a ridere.
In quel momento George e Cath comparvero sulla soglia della porta. George, con il suo metro e novantacinque e i suoi vestiti neri, torreggiava su Cath, che stava al suo fianco i capelli biondi che le incorniciavano il viso. Sembravano il giorno e la notte.
«State parlando di genitori imbarazzanti?» chiese George. «Mi dispiace, ma i miei vincono il primo premio. Io e Cath facciamo un gioco la mattina che si chiama: indovina quale tra i genitori di George entrerà senza bussare». Si chinò a dare un bacio a Emma sulla guancia e poi strinse la mano a Julian, in quel modo strano che usavano i ragazzi per salutarsi. «Ci ha aperto un portale Clary, se ve lo steste chiedendo».
«I tuoi genitori sono fantastici» disse Rose.
Emma sembrava offesa. «L’hai sentita, Jules?»
Julian la guardò come se l’avesse colpito alle spalle. «Et tu, Brute?»
Rose rivolse loro un sorriso angelico. Lo sapevano che stava scherzando.
Dopo che anche Cath ebbe salutato i genitori di Rose, Will le fece cenno di avvicinarsi e lei si sedette vicino a lui sul divano. Senza dire niente, Will la abbracciò. Cath sembrava stare bene quel giorno, e nessuno la trattò in modo diverso dal normale, perché lei non avrebbe voluto, ma Rose non avrebbe mai dimenticato la sua espressione quella notte, e neppure le sue parole disperate.
George si lasciò cadere di fianco a Rose e le diede una piccola spinta con la spalla. Rose ricambiò la spinta.
«Tutto bene, Blackthorn?» sussurrò lui.
«Sì, tu?»
George si limitò ad annuire e a distogliere lo sguardo. Rose percepiva il suo stato d’animo: era turbato per quanto accaduto con Cath, preoccupato per Will e anche per lei. George voleva sempre prendersi cura di tutti.
«Vado a fare pace con Holly» decise Julian, alzandosi dal bracciolo della poltrona.
Emma gli rivolse uno sguardo preoccupato. «Vengo anche io?»
«Se andiamo in due si sentirà in minoranza. Meglio approcciarla uno per volta».
Emma annuì e Julian se ne andò.
«Che succede con la piccola peste?» chiese George.
Rose lo guardò male, mentre Emma non si scompose di una virgola davanti a quel nomignolo. «Vuole uscire, è stanca di restare chiusa in casa. Le abbiamo detto che è pericoloso, ma non ci crede. È convinta che siamo dei mostri senza cuore».
Rose si aspettava che George rispondesse che avrebbero dovuto dirle tutta la verità sin dall’inizio -George era quel tipo di adolescente che non si faceva problemi a fare la morale a persone con il doppio dei suoi anni- invece lui sorrise triste. «Classico. Basta distrarla un po’. Può allenarsi con noi pomeriggio».
«È arrabbiata anche con me e Rose» disse Will.
«Già, perché sono stata a New York qualche giorno senza dirglielo».
«Può tirare di spada con me, spada di legno ovviamente» si affrettò ad aggiungere George. «Ouch, me le darà di santa ragione se è arrabbiata, ma posso immolarmi per la causa».
«Emma». La voce di Julian arrivò dal corridoio, tesa. «Emma!»
Lo sguardo di Rose andò in automatico su sua madre. Ma Emma si era già alzata dalla poltrona, diretta verso il corridoio. Rose la seguì di corsa, gli altri dietro di lei.
Julian stava sulla soglia della stanza di Holly, la mano stretta attorno alla maniglia della porta così forte che le sue nocche erano diventate bianche.
Emma gli si avvicinò piano e gli mise una mano sulla spalla. Poi guardò nella cameretta e sbiancò.
«Cosa?» fece Rose, preoccupata. Sentiva il sangue rimbombarle nelle orecchie. «Cosa c’è?»
Sbirciò nella camera da dietro i suoi genitori e si sentì mancare. Era vuota, la finestra era aperta, e Holly non c’era.

Nei ricordi di Rose, suo padre era sempre calmo e aveva sempre tutto sotto controllo. Sua madre le aveva raccontato che quando aveva soli dodici anni aveva non solo cresciuto i suoi fratelli più piccoli, ma aveva anche gestito l’Istituto di Los Angeles. Da solo, quando era solo un ragazzino. Julian Blackthorn non si faceva toccare da niente e da nessuno, perché per lui non c’erano problemi, c’erano solo soluzioni. Rose non si era mai fermata a riflettere su quello che dovesse nascondersi sotto la superficie. Ora lo sapeva: suo padre sembrava distrutto, come se fosse sul punto di vomitare sangue. E Rose non poteva biasimarlo, perché si sentiva esattamente allo stesso modo.
«Andrà tutto bene» la voce di sua madre la riportò alla realtà. «Julian, mi hai sentito? La vado a prendere».
Suo padre sbatté le palpebre e parve riprendersi leggermente. Non disse niente, non guardò in faccia nessuno, si limitò a seguirla lungo il corridoio. Anche Rose e gli altri fecero lo stesso. Rose sentiva Will parlare al suo fianco mentre scendevano le scale che portavano all’ingresso.
«Come ha fatto a scappare?» stava chiedendo. «Siamo sicuri che non si sia solo nascosta nell’Istituto?»
«Possiamo cercarla io e Cath qui» propose George. «Mentre voi controllate fuori».
Will aveva ragione: magari Holly si era solo nascosta. Nell’attico, nella palestra, o nello studio di loro padre, in giardino… da qualche parte. Non poteva essere uscita. Il cervello di Rose non riusciva a processare quell’informazione; si sentiva come se stesse osservando la scena dall’esterno, come se non fosse più nel suo corpo. Non stava succedendo davvero.
Emma scosse il capo. «Sapete com’è Holly. Quando si mette in mente qualcosa…»
Si era fermata davanti alle grandi porte di legno dell’ingresso e si stava rigirando tra le mani l’orsetto di Holly. Prese lo stilo e si disegnò una runa sulla mano, poi strinse forte il peluche.
«Non è qui, sembra che sia sulla spiaggia. Vedo il mare. Devo solo capire dove si trova».
Rose emise un verso strozzato e Will le prese la mano e gliela strinse così forte da farle quasi male.
Rose aveva sperato che Holly si fosse nascosta, che fosse ancora in casa. Stupido da parte sua, conosceva sua sorella troppo bene.
Rose aveva pregato i suoi genitori per anni di darle un fratellino o una sorellina e, quando finalmente le avevano detto che stava arrivando, Rose, che anche da bambina faceva fatica ad esprimere le proprie emozioni, si era messa a urlare per la gioia. Ricordava ancora quando Holly era nata e suo padre gliel’aveva messa in braccio per la prima volta; era così piccola che Rose aveva avuto paura di farle male. Le aveva dato un bacino sul naso e lei aveva continuato a dormire tranquilla tra le sue braccia, come se già la conoscesse e si fidasse di lei.
La sua sorellina Holly, che nascondeva sempre il cioccolato sotto al letto, che quando aveva gli incubi andava a dormire con lei, che amava il rosa e che era ossessionata dagli unicorni.
Rose sentì un’ondata di rabbia attraversarla dalla testa ai piedi, come se fosse appena stata colpita da un fulmine. Non avrebbero fatto del male a sua sorella, non lo avrebbe permesso; sarebbero dovuti passare sopra al suo cadavere prima.
Julian si era appoggiato al muro, come se non riuscisse a rimanere in piedi.
«Em» disse, la voce ridotta a un sussurro. «Non ce la faccio, non un’altra volta, non dopo Tavvy, non dopo Livvy…»
Emma afferrò la cintura delle armi che veniva lasciata sempre accanto alla porta e se la allacciò in vita, poi lo raggiunse con due falcate e lo prese per le spalle. «Andrà tutto bene, Holly sta bene, non le succederà niente». Poi si rivolse a Rose. «Andate ad armarvi. Tenuta da combattimento e quante più armi riuscite a racimolare. Poi usate questo per rintracciare me». Si tolse l’anello dei Blackthorn dal collo e lo mise in mano a Julian. «Holly è in spiaggia, non molto lontano da qui. Will, puoi aprirmi un portale?»
Will annuì. Prese il suo stilo e iniziò a disegnare contro al muro.
«Non indossi nemmeno la tenuta da combattimento» disse Julian.
Emma si infilò una giacca nera e la allacciò. «Non c’è tempo».
«Mamma…» iniziò Rose, senza sapere come continuare. Non voleva lasciarla andare, voleva andare con lei, senza armi o tenuta, solo con Cortana con sé.
Sua madre fece un passo verso di lei. «Va’ a prendere le tue armi, Rose». La guardò fisso negli occhi e per la prima volta in vita sua Rose si sentì l’adulta che sosteneva sempre di essere. «E preparati a spargere del sangue perché ti giuro, ti giuro sull’Angelo, che nessuno dei Riders di Mannan sopravvivrà abbastanza da veder sorgere il sole domani mattina».
Rose resse il suo sguardo e annuì: era una promessa.
 
NOTE DELL'AUTRICE
Buonasera a tutti! 
Ecco qua il nuovo capitolo. Ho una bella notizia e una brutta (forse?) notizia. Quella bella è che domani posto un altro capitolo, mentre quella brutta è che manca solo un capitolo più l'epilogo. :(
Mi sembra incredibile essere arrivata fin qui, ma rimandiamo le lacrime per la fine ufficiale. 
Grazie mille se state leggendo ancora, spero che vi piaccia!
A domani!

Francesca 
 
  
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