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Autore: ___Page    02/04/2018    3 recensioni
"Abbassò gli occhi sui foglietti che lo guardavano di rimando, minacciosi e giudicanti.
Si era infilato in un bel casino, non aveva la più pallida idea di come Perona avesse deciso di disporre i posti su quel tavolo. Inspirò profondamente per farsi coraggio.
«Ma sì, Ace. Così andrà sicuramente bene.»"
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*Fan Fiction partecipante al Crakc&Sfigaship's Day indetto dal Forum Fairy Piece*
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Liberamente ispirato al film "Se sposti un posto a tavola"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Lamy, Trafalgar Law
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Attraversò il corridoio, continuando a respirare a fondo, a ogni passo. Doveva calmarsi prima di arrivare da lei. Doveva calmarsi o si sarebbe accorta che era sconvolto per qualcosa, avrebbe insistito per scoprire cosa e lui non poteva certo raccontarle che l’aveva appena vista morire.
Il solo avvicinarsi con il pensiero a quella scena atroce gli provocò un’altra ondata di nausea. Se avesse potuto in quel preciso momento vendersi l’anima al demonio in cambio della promessa che mai nulla del genere sarebbe successo a Perona, che avrebbe vissuto una vita lunga e felice e se ne sarebbe andata serena e grinzosa, circondata da uno stuolo di nipoti, lo avrebbe fatto senza pensarci due volte.
Dubitava che mai sarebbe riuscito a cancellare del tutto l’immagine del corpo sfatto e senza vita della donna che amava dalla sua mente ma proprio per quello aveva più bisogno che mai di vederla viva e perfetta nel suo abito da sposa.
Imponendosi un’ultima volta il controllo, Ace bussò piano alla porta della stanza che la villa metteva a disposizione delle spose per prepararsi prima della cerimonia.
«Avanti!» trillò Perona dall’altra parte, certa che non potesse essere Robb e quindi per niente preoccupata.
A Ace bastò sentire la sua voce per sentirsi rinascere e ritrovare il sorriso. E quando aprì la porta Perona scoprì di avere avuto ragione. Non era Robb. Era molto, molto peggio.
Trattenne il fiato, quasi che fosse spaventata ma un guizzo nei suoi occhi tradiva la sua gioia di vederlo. Perché Ace non se n’era mai accorto prima? Perché si rendeva conto solo in quel momento che quello sguardo Perona aveva continuato a riservarlo a lui e a lui soltanto anche dopo la rottura, anche mentre frequentava Robb, persino ora che stava per sposarlo?
Perché era così idiota?
«Che fai qui?» si allertò Perona, indietreggiando di un passo e sollevando l’indice. «Non ti sarai fatto venire altre strane idee, eh! È quasi ora e mi sono appena risistemata!»
Era quello il problema. Era quasi ora e non avrebbe avuto tempo di risistemarsi. Non era fare un’altra volta l’amore con lui prima di sposare un altro, non era cadergli tra le braccia due volte nel giro di un’ora.
E come sarebbe potuto essere un problema, abbandonarsi al posto che non aveva mai davvero lasciato?
Ace lo capì in quel momento, che Perona era ancora sua. Capì in quel momento che sarebbe bastata una parola per riaverla indietro, perché lasciasse Robb. Eppure Ace non aveva fatto nulla, nemmeno mezzo mossa, prima di quella mattina, la mattina del matrimonio.
Poteva essere tanto meschino?
Bastò uno sguardo ai suoi immensi occhi di ossidiana, che volevano rimproverarlo ma in realtà riverberavano di aspettativa e forse anche un po’ di speranza, fallendo così miseramente nel loro intento, per sapere che sì, per lei era pronto a venir etichettato persino come il peggiore degli essere umani.
Era pronto, pronto ad avere tutti contro, persino Koala, se poteva riavere Perona e Perona sembrava quasi lo stesse implorando silenziosamente di farlo, di riprendersela. Ace era pronto. Pronto a dirle ogni cosa, a dirle che stava sbagliando, che avrebbe dovuto sposare lui, che Robb forse era su carta quello giusto ma che non sarebbe mai stato come con lui, che avrebbe lottato per lei, per meritarla ogni singolo giorno.
Che la amava e non avrebbe mai smesso.
Era pronto. Ma qualcosa gli impediva di parlare.
Un pensiero nel retro del suo cervello, una conclusione logica a cui non sapeva come e quando era arrivato, la voce di una coscienza che a volte aveva dubitato di possedere.
«Infatti sei perfetta» le disse, indicandola a due mani e il suo sorriso non sarebbe potuto essere più sincero.
Anche Perona sorrise del complimento ma sembrava che le sue espressioni facciali e i suoi occhi avessero deciso di non coordinarsi quel giorno. Un lampo di delusione li attraversò. Non era quello che voleva sentirsi dire, non da Ace.
Ma non poteva, Ace.
«Io sono passato per…»
Non poteva. Non poteva reclamarla, non poteva dichiararsi, non più ormai. Non era la cosa giusta, non lo sarebbe stata in ogni caso perché lui era stato un coglione e forse non l’aveva mai meritata ma ora di certo non meritava un’ultima possibilità dopo aver avuto così tante occasioni e averle sprecate tutte.
Doveva lasciarla andare. Era quella la conclusione a cui l’universo voleva portarlo, facendogli rivivere all’infinito quelle settimane.
Doveva lasciarla andare.
Era pura logica.
Tutte le volte che Perona aveva scelto razionalmente, aveva scelto Robb. Persino nel bel mezzo della crisi, la prima volta, Perona non era stata affatto certa di volerlo lasciare.
E quando alla fine aveva scelto lui…
Era fin troppo chiaro il messaggio che qualunque cosa fosse, l’universo, il destino, il karma, stava cercando di lanciargli. Era finita. Aveva esaurito il proprio tempo e perso la propria occasione. Perona non poteva più essere sua.
«…farti l’in bocca al lupo. Solo per questo. Sarà una giornata perfetta, vedrai. La prima della tua perfetta vita» continuò e non c’era traccia di sarcasmo o menzogna nei suoi occhi. Solo malinconia, la malinconia di un uomo che osserva qualcosa di troppo bello per riuscire a credere che sia vero.
Come un tramonto o, nel caso di Ace, la felicità della donna amata. Anche se con un altro.
«Vai a prenderti il resto della tua vita, Voodoo»
Se le gambe non le cedettero, fu solo perché Perona si pietrificò incredula di fronte al soprannome che non sentiva da troppo tempo per ricordare esattamente quanto. Quel soprannome che nessun’altro mai aveva potuto usare. Il soprannome che apparteneva a Ace.
Ace che ora se ne stava andando, lasciando la stanza senza colpo ferire, senza un ultimo disperato tentativo di riprendersela, senza apparentemente un solo rimpianto.
«Ace!»
La voce troppo agitata, il passo in avanti troppo brusco. La luce nei suoi occhi, troppo eloquente.
Resta, resta idiota, resta con lei.
Ma non poteva. Ed era certo che fosse solo questione di tempo, per Perona. Lo avrebbe dimenticato e sarebbe stata felice se lui fosse sparito per sempre. E lo avrebbe fatto. Sarebbe sparito. Non immediatamente, certo.
Al momento giusto della cerimonia sarebbe sgattaiolato via e sarebbe partito quella sera stessa e per il suo ritorno, Perona avrebbe già iniziato la sua perfetta vita con il suo perfetto marito e non lo avrebbe cercato. E se lo avesse cercato non avrebbe risposto.
«Ace, ti prego…»
Resta, idiota.
Con un tremolante respiro e il petto lacerato, Ace tornò indietro, le prese il mento tra due dita e si piegò per darle un dolce e casto bacio sullo zigomo.
«Questa mattina è stato un errore» la sentì trattenere il fiato con orrore e una parte di lui morì. «Non preoccuparti. Andrà tutto bene, Voodoo» mormorò al suo orecchio per poi andarsene senza più tentennamenti e senza più voltarsi indietro.

 
§

 
Il sole era sorto alto e caldo su Raftel quella mattina. Sembrava sapesse che la sua assenza avrebbe reso inconsolabile una giovane sposa che sognava una giornata di sole per il giorno più importante della propria vita e, come tutti, perché Perona lo meritava, aveva fatto la propria parte, presentandosi puntuale, chiedendo aiuto a una lieve brezza per spazzare via ogni nuvola, riscaldando il prato, il baldacchino, le sedie e gli invitati. Tutti meno uno.
Esposto in piena luce, tra Pen che si allargava il colletto della camicia in continuazione e Koala che si faceva discretamente aria con i libretto della funzione, Ace non sembrava minimamente affetto dai raggi solari che lo inondavano.
Ace sentiva freddo. Un freddo che lo faceva tremare nelle viscere, un freddo che gli aveva congelato persino il cuore al punto che nessuno, neppure la sua migliore amica – che tuttavia sapeva pur senza avere alcuna prova che le cose stessero così –, avrebbe potuto notare quanto stesse male mentre, impassibile e composto osservava l’amore della propria vita raggiungere Robb all’altare, consegnare il proprio bouquet a Lamy e intrecciare le mani con lui.
Era così impegnato a non lasciarsi assiderare da dentro che non si accorse nemmeno della fugace ma palese occhiata che Perona gli lanciò, prima di puntare gli occhi sul proprio futuro marito e farsi violenza per non distoglierli più.
«Fratelli e sorelle…»
Ace si sedette quasi a peso morto, le dita intrecciate tra loro per tenere a bada un prurito che rischiava facilmente di prendere il sopravvento, nonostante i suoi migliori propositi. Se non voleva rovinare tutto doveva restare concentrato, doveva andarsene al momento giusto, quando Padre Gan Forr avrebbe chiesto se ci fosse qualcuno che avesse qualcosa da dire riguardo quel matrimonio.
Se fosse rimasto, non avrebbe resistito, lo sapeva. Se fosse rimasto avrebbe urlato che sì, lui aveva molto da dire, una caterva di cose da dire ma le avrebbe riassunte in un unico semplice concetto. L’avrebbe guardata negli occhi, le avrebbe detto “Ti amo, Voodoo” e Perona sarebbe corsa tra le sue braccia.
Ma non era così che sarebbe andata. Pen aveva fatto sparire i segnaposto come lui gli aveva chiesto, ergo tutto si sarebbe sistemato per tutti e tutti sarebbero stati felice, compresa Perona. Non sarebbe stata esclusa da quella giostra, non quella volta, non per causa sua.
«Se qualcuno ha qualcosa da dire…»
Ace staccò gli occhi dalle proprie mani e guardò di sottecchi verso l’altare. Era arrivato il momento e con lui anche la nausea, il terrore, la voglia di chiedere a Koala di accompagnarlo per non dover rimanere da solo con se stesso a odiarsi ma no. Anche Koala doveva essere felice e per esserlo doveva restare.
«…per opporsi a questo matrimonio…»
Raggiunse veloce il lato esterno della fila a cui era seduto, scusandosi sottovoce che neanche al cinema e ignorando le occhiate interrogative di chi, seduto nella stessa fila, lo conosceva.
«…parli ora…»
Le mani in tasca, prese ad allontanarsi con un’andatura che simulava la più falsa delle serenità, come se alle sue spalle non si stesse consumando la sua condanna a morte ma un evento di cui non gliene sarebbe potuto importare meno.
«…o taccia per sempre»
Per sempre, sì. Ecco la sua risoluzione fin dove arrivava. Ecco per quanto avrebbe continuato ad amare Perona.
Per sempre. Per sempre nei suoi pensieri, per sempre nei suoi rimpianti. Per sempre senza di lei. Per sempre tra le braccia di un altro. Per sempre, per sempre, per semp…
«Io non posso!»
Il cuore di Ace si fermò, le sue gambe si fermarono, il tempo si fermò. A occhi sgranati, il cuore in gola e le mani ancora in tasca scivolose di sudore, Ace si girò lentamente verso l’altare.
Perona guardava ai suoi piedi, gli occhi lucidi, le labbra tirate in una smorfia colpevole. Deglutì a fatica prima di risollevare lo sguardo e, con un sorriso isterico e bagnato di lacrime, scosse il capo come se cercasse di scacciare qualcosa che la stava chiaramente dilaniando dentro. Qualcosa che, dopotutto, aveva soltanto bisogno di venire tirato fuori.
«Non posso farlo Robb» soffiò, mordendosi il labbro carnoso e lucido di gloss. «Non posso sposare te»
Molti trattennero il fiato, qualcuno imprecò a mezza voce, qualcuno – sicuramente la figlia della prozia di Robb – svenne. Ace pensò seriamente di essere morto o stare sognando quando Perona, nel pronunciare quell’ultima frase, si girò a cercarlo con gli occhi.
Occhi vuoti e senza più alcuna speranza, occhi rassegnati da un bacio troppo casto e trattenuto su uno zigomo.
Che cos’aveva fatto? Il tempo di rendersi conto di aver dissimulato anche troppo bene, il tempo di rendersi conto di cos’era appena successo e il caos esplose.
Gente che urlava, gente che si alzava in piedi, qualcuno che faceva aria alla figlia della prozia, la prozia che domandava cosa stesse succedendo, Law che trascinava via Koala prima che la sedia del tizio seduto davanti a lei e alzatosi con troppa foga la colpisse, Nami che già recuperava i propri effetti personali e chiedeva le chiavi della macchina a Zoro che seguiva le sue direttive con fiducia.  
E poi Perona che sollevava la gonna e si lanciava a tutta velocità in mezzo alla folla, per scappare.
«Perona!!!»
Ace partì a razzo, saltò sulle sedie, scartò tra le persone, cercò di non perderla di vista ma gli ostacoli erano tanti, il caos anche di più, lui lontano, Perona veloce. Robb non provò nemmeno a fermarlo quando gli passò accanto e fu meglio per lui perché, nonostante si rendesse conto di non averne alcun diritto, un cazzotto da parte sua non glielo avrebbe levato nessuno. Lui doveva raggiungere Perona.
Accolse con sollievo il clima fresco e riparato dell’interno della villa. Il sole aveva ricominciato a riscaldare anche lui ma, soprattutto, lì non c’era traccia di invitati urlanti e isterici, che si comportavano come se avessero appena assistito a un omicidio anziché a un matrimonio saltato.
Che era mai successo?! Non avevano mai visto una sposa che cambiava idea all’ultimo?! D’accordo, per Robb era stato un po’ umiliante ma se Perona era arrivata a tanto aveva avuto le sue buone ragioni no?! Se lo aveva fatto era perché non era abbastanza felice con Robb. O perché voleva esserlo con qualcun altro.
Ace realizzò pienamente cosa fosse appena accaduto e un moto di pura euforia lo colpì in pieno, come una tegola in testa. Un sorriso, così bello che avrebbe potuto illuminare Raftel al posto del sole di quella mattina, si fece strada a forza sulle sue labbra.
Si sentiva scoppiare di improvvisa eccitazione e gioia.
Perona voleva essere felice con qualcun altro. Perona voleva essere felice con lui. Aveva scelto lui! E non perché glielo aveva chiesto! Lo aveva scelto pur credendo che da parte sua non ci fosse più niente! Lei… lei lo…
«Perona!» chiamò, aggrappandosi allo stipite della porta a cui aveva bussato nemmeno un’ora prima, per farle gli auguri e dirle addio, convinto di trovarla lì.
Ma la stanza era vuota, Perona non c’era. Ace strinse più forte lo stipite e si costrinse a immettere un po’ più di ossigeno nei polmoni.
Calmo, doveva stare calmo. Estrasse veloce il cellulare e inoltrò la chiamata che però suonò a vuoto fino all’ingresso della segreteria. Ace tolse il cellulare dall’orecchio e stava ancora riflettendo che, probabilmente, in effetti, Perona non aveva il cellulare con sé, che uno scalpiccio di passi riecheggiò nel corridoio.
Lamy, Sugar e Koala svoltarono l’angolo, appena trafelate per la corsa.
«È qui?!» domandò senza preamboli Lamy, mentre lei e Sugar frenavano e Koala proseguiva per raggiungerlo.
Ace scosse il capo. «Dov’è andata?»
«Anche Zoro e Nami sono scomparsi e avevano il suo cellulare e tutti i suoi effetti personali. Credo sia con loro»
«Ma ho appena provato a chiamarla sul cellulare e non mi ha risposto» protestò Ace, il panico che cominciava a farsi strada di testa nella sua euforia. 
«Era acceso?» indagò Lamy, ricevendo un cenno d’assenso in risposta. Ace si rese subito conto che il suo sospiro non era affatto un buon segno, almeno non quel modo di sospirare. Tutto sommato, aveva imparato qualcosina su di lei nell’arco della loro seppur breve passata – e in quella linea temporale mai esistita – relazione.
«Che c’è?» si agitò. «Perché quel sospiro?!»
«Lo aveva spento prima della cerimonia» spiegò Lamy, portandosi il proprio cellulare all’orecchio. «Se è acceso vuol dire che ce l’ha con sé e se non risponde…» attese qualche attimo per poi arrendersi a sua volta quando di nuovo la voce della segreteria riprese con la sua fastidiosa cantilena. «…è perché non vuole rispondere»
Ace inalò rumorosamente. «Che significa che non vuole rispondere?! Dove… dove sta andando?! Dobbiamo fermarla! Dobbiamo...»
«Ace, Ace, Ace!» Koala lo chiamò deciso, prendendo il suo viso tra le proprie mani e obbligandolo a guardarla. «Calmati. Sarà molto scossa per quello che è successo ma non è niente di irreparabile, okay? Calmati. Vedrai, la troveremo»
 

 
§

 
Ma non era andata così. Non l’avevano trovata.
Perona non aveva risposto a nessuno di loro, così come nemmeno Zoro né Nami. A Drag e Boa avevano avuto la decenza di non chiedere.
Ma non l’avevano trovata e da otto giorni, due ore e tredici minuti nessuno sapeva che fine avesse fatto Perona. Da otto giorni, due ore e tredici minuti Ace era l’ombra di se stesso.
Mangiava solo cibo take-away, tranne quando Koala andava da lui a cucinargli qualcosa di sano – e questo lo faceva sentire ancora più in colpa ma non si poteva resistere alla cucina di Koala – e dormiva solo grazie ai suoi attacchi narcolettici. Mai avrebbe immaginato che sarebbe venuto il giorno in cui sarebbe stato grato per il proprio problema.
Al quinto giorno attaccato al telefono come un tossico nella speranza di mettersi in contatto con lei, Ace aveva chiesto ad Usopp di bloccargli in qualche modo il cellulare, visto che il numero di Perona lo sapeva a memoria e cancellare il suo contatto sarebbe servito quanto cercare di levare una macchia indelebile dal muro con uno straccio asciutto. E Usopp era stato eccezionale, aveva sfoderato un programmino pazzesco – e forse non del tutto legale – a prova di security hacker e così, da due giorni, sette ore e qualche minuto, Ace non aveva contatti con il mondo esterno se non quando andava al lavoro o quando il mondo si presentava a casa sua.
E dal momento che in genere il mondo si presentava sotto forma di Pen o al massimo Koala, il gioco al massacro del suo animo sembrava destinato a non avere fine. Perché, ovviamente, anche se lo aveva realizzato solo nel cuore della notte del fatidico giorno che tanto lo aveva sfinito, niente matrimonio aveva voluto dire niente ricevimento.
E niente ricevimento era niente cose sistemate e niente felicità per nessuno. Anche se, certo, Pen si era solo trovato al centro di un fuoco incrociato di eventi, non era come se Lamy fosse necessariamente la donna della sua vita. Con Koala, come anche con Killer e Bonney, il discorso era ben diverso anche se si rendeva conto che, che i propri amici volessero risolvere o non risolvere i propri problemi, dipendeva da lui in modo relativo e nemmeno era suo dovere, a dirla tutta.
Non si mosse dalla posizione sdraiata in cui giaceva sul divano, quando un rumore dall’ingresso lo avvisò che o Pen stava rientrando o Koala era passata per una capatina. Si limitò ad accartocciare la confezione di plastica delle cipster e fare centro nel bidone a forma di canestro che ormai quasi strabordava di incarti di cibo spazzatura. La chiave girò nella toppa, la porta si aprì protestando un lieve cigolio e Pen scivolò in casa.
«Cia’» salutò con un tono sufficientemente piatto da attirare l’attenzione di Ace.
Il moro girò il capo e studiò il proprio amico che si liberava di Reflex e effetti personali vari, svuotando le tasche sul mobiletto d’entrata. Era così abbacchiato che sembrava senza ossa. Accigliato, subodorando già il problema, Ace si tirò su a sedere.
«Ehi? Pen?» chiamò.
Difficile dire se fosse il tono preoccupato e allertato o il miracolo di vederlo in posizione quasi eretta, Pen decise di approfittare del momentaneo ritorno alla vita dell’amico e cogliere la palla al balzo.
«Sì, ho chiuso con lei» lamentò con un mugugno che grondava vergogna.
A passi strascicati, Pen si trascinò fino al divano e ci si lasciò cadere, sconsolato come non mai. Ace lo fissò incredulo, sbattendo rapido le palpebre. Okay, non c’era molto da stupirsi per l’ennesima rottura di Pen, sempre che di rottura si potesse parlare visto che erano solo al terzo appuntamento. Ma proprio perché era solo il terzo appuntamento, proprio perché una volta tanto Pen non si era buttato testa avanti solo per strappare qualche scatto alla ragazza di turno, proprio perché ci era andato con i piedi di piombo e perché aveva conosciuto Rebecca la sera del matrimonio saltato, in un bar, con parecchio alcool in corpo, tutta quella delusione era piuttosto incomprensibile.
Ace lo conosceva bene, Pen non era il tipo da farsi abbattere per un errore di calcolo o a quell’ora si sarebbe già buttato di sotto con tutti quelli che aveva fatto, né era il genere di persona che si innamorava al primo sguardo. Lungi dall’essere freddo e calcolatore, era capace di provarci anche con cinque ragazze una dietro l’altra, affermando di ognuna che fosse la più bella del locale, senza pudore alcuno, con quel modo di fare un po’ coglione che alla fine gli aveva fruttato più di una relazione.
Tutte finite male, era vero, eppure non per poco impegno da parte sua. Se Ace ci rifletteva bene, stendendo un velo pietoso su Sugar – che per fortuna non era nemmeno una sua ex in quella linea temporale – e Valentina, che di talento per posare nuda ne aveva davvero, Pen ce l’aveva sempre messa tutta per provare a far funzionare le storie che aveva avuto ma, puntualmente, aveva sempre fallito.  
E oltre a non capire perché mai continuasse a succedere a un bravo ragazzo come lui, Ace si stupiva anche di più che Pen se la fosse presa tanto per una tizia di cui non aveva ancora nemmeno scoperto se preferisse la vaniglia o il cioccolato.
«Se ti piaceva così tanto, perché hai chiuso con lei?»
Pen gli lanciò un’occhiata di striscio. «Se ho chiuso con lei è perché non mi piaceva poi così tanto» gli fece notare.
Ace si accigliò ancora di più. «E quindi perché sei così deluso?»
«Perché… perché…» Pen immerse il viso nei palmi delle mani e mugugnò frustrato, buttandosi con la schiena contro il divano. «Perché nessuna mi piace mai abbastanza! E io sono stufo marcio!» esclamò, ficcando le dita tra le ciocche fulve e disordinate, in un moto di esasperazione. «Non funziona, non funzionerà mai con nessuna e sono arrivato al punto che non ho più nemmeno voglia di provarci, Ace! A trent’anni ho già gettato la spugna!»
«Ehi!» ripeté Ace, sgranando gli occhi. «Amico, calma. Ma che ti prende?» ma tutto ciò che ottenne in risposta fu un mugugno inarticolato mentre Pen si sfregava il viso con i palmi. Ace lo studiò anche un istante, prima di riprendere la parola. «Senti, capisco che possa essere frustrante e, lo ammetto, non so di cosa parlo ma non devi vederli tutti come tentativi falliti. Molte di quelle ragazze le hai conosciute perché cercavi una modella. Non dico che non devi essere deluso ma ha senso solo per quelle che ti interessavano davvero. E sicuramente Rebecca era una di loro ed è frustrante lo stesso ma non c’è ragione di essere così negativo. Te l’ho già detto no? Non è quella giusta finché non la trovi, quella giusta»
Pen corrugò le sopracciglia, la testa ancora leggermente reclinata sulla testata del divano. «Non mi hai mai detto niente del genere» commentò, facendo sobbalzare Ace.
Giusto. Non era stata quella linea temporale.
«Beh… beh te lo dico ora!» recuperò al volo ma non ottenne la reazione sperata. Più sconsolato di prima, Pen puntò gli occhi al soffitto, le mani abbandonate altezza inguine, e sospirò. «E se quella giusta è già stata trovata e persa?» domandò.
Un campanello di allarme risuonò nel cranio di Ace. Aveva già assistito a quella conversazione eppure, stavolta, aveva un che di diverso.
«Se… se l’avessi già incontrata, se avessi già avuto la mia occasione e lei non ricordasse nemmeno… nemmeno di essere stata con me perché eravamo troppo ubriachi quella sera… ma era tutto quello che avevo sempre voluto. E non riesco a togliermela dalla testa, non riesco a non fare il confronto e nessuna, nessuna lo regge. Nessuna è bella, intelligente, divertente, scaltra e dolce come lei. Nessuna»
Ace sbatté le palpebre interdetto, per ben più di una ragione. Perché gli aggettivi che Pen aveva appena usato suonavano stranamente famigliari, perché si sentiva coglione a non essersi mai accorto che l’amico con cui condivideva la stessa casa era innamorato – e chissà da quanto –, perché aveva appena capito che non si parlava di una ragazza ipotetica ma di una vera.
«Pen di chi parli?» chiese piano, quasi sottovoce, come se temesse di spaventarlo a usare un tono più alto.
E forse Pen non si spaventò ma, da come si voltò a guardarlo, si rese conto solo in quel momento di aver detto troppo e ad alta voce. Fissò Ace in silenzio alcuni istanti, senza lasciar trasparire nessuna particolare emozione al di là dello sconforto ormai perenne sul suo volto, prima di sospirare di nuovo, alzarsi e dirigersi al bagno.
«Vado a fare una doccia»
Ace non rispose, rimase dov’era, immobile come una statua. Si concentrò, provò a ricordare. Doveva esserci qualche indizio, doveva! Insomma vivevano sotto lo stesso tetto, come poteva non aver mai notato, non avere nemmeno idea di chi…
Ace si era sempre chiesto da dove venisse la similitudine “come un fulmine a ciel sereno” ma mai come quel pomeriggio lo aveva compreso così chiaramente. Si sentì ancor più pessimo nel realizzare quanto fosse stato disattento nei confronti del suo amico. Aveva capito chi fosse la ragazza in questione ma se aveva racimolato abbastanza indizi per arrivarci era solo perché aveva vissuto lo stesso periodo per tre volte.
Ma ora era tutto chiaro. Perché Koala aveva detto di aver rovinato ogni cosa per Pen, perché gli avesse chiesto se davvero non si fosse accorto di niente, perché Pen lo aveva dissuaso ben due volte dal far sedere Lamy tra due soggetti che avrebbero assorbito le sue energie e la sua attenzione per la durata del ricevimento, perché quando alla fine Lamy si era seduta accanto a lui Pen non era più stato in grado di vedere e sentire nessun altro.
E lui…
Un brivido freddo gli corse lungo la schiena.
Lui se l’era portata a letto e ci aveva convissuto per tre settimane sotto gli occhi di Pen, dannazione! Come faceva a essere così coglione?!
E, come se non bastasse, questo significava che con il matrimonio era sfumata anche l’unica occasione di Pen in chissà quanto tempo per riavvicinarsi a lei, da sobri questa volta.
La tentazione di fracassarsi il cranio contro lo spigolo del tavolo fu fortissima. Se lo sarebbe meritato ma sarebbe stato troppo semplice, decisamente troppo per un uomo che, ormai, non aveva più nulla da perdere. Non era quella la soluzione.
E una soluzione c’era. Eccome se c’era.
Con un’energia e una determinazione che aveva creduto perdute per sempre, Ace si alzò a suo volta dal divano e, a passo sicuro, si diresse verso la porta, staccò il giubbotto leggero dall’appendiabiti, recuperò le chiavi della macchina e quelle di casa, il portafoglio e il cellulare e afferrò la maniglia.
«Io esco Pen!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
L’acqua ancora scrosciava quando Ace aprì la porta e l’aveva già richiusa quando per un attimo la doccia si spense.
«Hai detto qualcosa?!» chiese Pen dal bagno. Silenzio. «Ace?!»
Sempre silenzio.
Con un’alzata di spalle, Pen riaprì il getto caldo e rigenerante. Ace stava già mettendo in moto, direzione casa Vinsmoke/Sharpshooter.
 

 
§

 
«Per fortuna Usopp si è fatto convincere. Non avrei saputo come altro sistemarla, questa situazione» 
 
Killer adorava avere Bonney in giro per casa, adorava sentirla affaccendarsi nella stanza accanto con tele e pennelli, adorava insomma quando, per un motivo o per l’altro, riusciva a uscire prima da lavoro e lui, coincidenzialmente, era già a casa per aver terminato più in fretta le consegne.
Killer amava vivere con Bonney e amava Bonney. Ed era felice che lei potesse portare avanti la propria passione come lui stava facendo con il proprio progetto. Ancora qualche settimana di duro lavoro e sarebbe stato pronto per superare il test come security hacker. La sua vita sarebbe cambiata radicalmente, anzi la loro vita, se Bonney avesse voluto.
Se Bonney avesse voluto avrebbe potuto lasciare il lavoro e dedicarsi full time alla pittura, anche se Killer sapeva che Bonney non lo avrebbe voluto. Era orgoglioso, amava essere indipendente e amava il proprio lavoro. Ma il pensiero che, se lei avesse voluto, lui avrebbe potuto darle la vita perfetta aveva dato a Killer ancora più spinta nell’impegnarsi a fondo per ottenere quel tanto ambito impiego.
Sapeva che ce l’avrebbe fatta, sentiva che ce l’avrebbe fatta. Più di ogni altra cosa era il sostegno della sua donna a dargli quella certezza.
Non un solo giorno Bonney gli aveva fatto pesare tutto il tempo che trascorreva al cellulare. Sì, certe volte, quando era particolarmente stanca e nervosa, si era concessa una battuta acida o due ma nulla che lo preoccupasse perché, dopotutto, era la natura della sua donna quella e Killer non l’avrebbe voluta diversa.
Si sentiva così fortunato, per la pazienza che Bonney dimostrava e perché era certo che lei avesse notato il suo impegno – e non era detto che un’altra donna lo avrebbe fatto – nell’essere sempre presente per quanto poteva, pur focalizzato su ciò che stava facendo, quando la seguiva in cucina o in salotto, per stare con lei pur continuando a smanettare sul proprio cellulare. In fondo era un piccolo prezzo da pagare, poche ore al giorno in vista di un futuro migliore per entrambi.
Anche se Bonney avrebbe continuato certamente a lavorare e di certo per Killer non era un problema, purché continuasse anche ad avere tempo per dipingere. Sapeva quanto fosse importante per lei ed ecco perché, diversamente dal solito, era rimasto in salotto anziché seguirla nel suo “studio”, per lasciarle i suoi spazi e la concentrazione di cui anche lei aveva bisogno per creare.
Per un attimo lasciò vagare lo sguardo sul piccolo schermo a cristalli liquidi, cercando di riprendere il filo di quel che stava facendo e si accigliò quando la tendina si abbassò da sola, per avvisarlo di una mail appena giunta nella casella d’entrata. A perplimerlo non era tanto l’email in sé, quanto il mittente.
Era stata una sorpresa incrociarlo al matrimonio di Perona ma, a parte il corso di aggiornamento a cui si erano incrociati una volta, Killer non aveva mai avuto nulla a che fare con Usopp Sharpshooter. E oltre a non ricordare di essersi mai scambiato l’e-mail con lui, si domandava soprattutto cos’avesse mai da inviargli. Era strano, tuttavia erano pur sempre, in senso lato, colleghi e pertanto Killer non si fece troppi problemi ad aprire il messaggio.
 

«Voleva usare la sua mail fake ma ti pare?! Se a Killer arrivava un messaggio da un indirizzo sconosciuto a nome di un certo Sogeking non l’apriva nemmeno sotto tortura!»
 

Per un momento non accadde nulla e poi un pioggia di pixel in scala di grigi riempì il monitor del telefonino fino a ridurre lo schermo a un rettangolo nero privo di vita. Killer fissò il cellulare interdetto. Non certo di aver capito cosa fosse successo, si mise più dritto sul divano, lentamente pervaso da un sentimento di autentico orrore.
Tastò il sensore di riconoscimento dell’impronta digitale ma niente. Provò il pulsante laterale e ancora nulla. Tentò di riaccenderlo ma il cellulare non rispondeva a nessuno stimolo.
Era andato, morto, kaput.
La notizia ci mise qualche istante a raggiungere il suo cervello.
«Cazzo…» mormorò sottovoce, allibito. Com’era potuto succedere?! Si era fatto fregare da quello?!?! E dire che non gli avrebbe dato due berry e invece lo aveva fregato con una semplice e-mail, lui che ambiva a diventare security hacker! Si era fatto fregare così e da quel nasone?! Che poi, che motivo aveva mai Usopp per volerlo sputtanare così?! «Oh cazzo! Bonney!» chiamò, alzandosi di gran carriera dal divano, diretto al suo studio.
Doveva raccontarla la faccenda, non riusciva a capacitarsene oltre al fatto che si sentiva un coglione. Non che fosse preoccupato per i propri dati, le cose importanti le aveva tutte salvate nel cloud, ma porca miseria!
«Bonney, è successa una cosa assurda!» annunciò, aprendo la porta senza bussare. «Hai presente quell’amico di Perona, quello con il nas…» le parole gli morirono in gola.
Piedi scalzi, solo un paio di calzoncini addosso, la camicia leggermente troppo grande con le maniche arrotolate ai gomiti, i bottoni chiusi solo fino all’incavo del seno, la tavolozza e un pennello in mano, un po’ di vernice sulla guancia, Bonney era, semplicemente, da mozzare il fiato. Ma a colpire tanto Killer non fu quella che ormai reputava una verità oggettiva e universale, un teorema praticamente, quanto l’effetto che gli fece.
Come se la vedesse per la prima volta. Ora che ci pensava, da quanto non la guardava per davvero?!
«L’amico di Perona quale?» lo incitò a proseguire ma Killer non ricordava più cosa voleva dirle – e forse nemmeno il proprio nome – ed era per di più concentrato a captare un dettaglio che risultava strano, un qualcosa di fuori posto, che non gli tornava e lo fece accigliare.
«Tu… t-ti sei tagliata i capelli?» domandò, ormai praticamente certo di avere risolto il mistero.
Era piuttosto sicuro che Bonney non portasse un caschetto e che i capelli le arrivassero ben oltre le spalle. Almeno, l’ultima volta che l’aveva guardata.
«Quando sei andata a tagliarti i capelli?»
Bonney sospirò e mandò gli occhi al cielo. «Tre settimane fa, Killer. Grazie per esserti finalmente degnato di notarlo» grugnì per poi tornare a studiare la tela.
Killer la fissò sorpreso per un lungo istante. Tre settimane?! Era mai possibile? Non se ne sarebbe dovuto accorgere prima?! Il dubbio che, dopotutto, le battute di Bonney non fossero solo sarcastiche, che non avesse notato poi così tanto che lui cercava di stare sempre insieme a lei, che forse non erano proprio poche ore al giorno quelle che passava al cellulare si impossessò di Killer.
Abbassò gli occhi sul cellulare ancora stretto nel palmo della mano e poi li rialzò su Bonney che ora picchiettava la tela con il pennello, l’espressione concentrata e i capelli, dal lato dove si trovava lui, tirati dietro l’orecchio.  
Senza metterci troppa cautela, lanciò il telefonino su uno dei cuscini sparpagliati sul pavimento in parquet. Più tardi – o forse l’indomani – avrebbe provato a sbloccarlo e aggirare quel piccolo virus bastardo che ancora non gli era chiaro perché mai Usopp avesse sentito il bisogno di inviargli. Ad ogni modo sarebbe stato il perfetto test finale per valutare il livello a cui era giunto.
Ora, però, c’erano più impellenti questioni da sbrigare.
Bonney si irrigidì, decisa a lasciar trasparire solo ed esclusivamente fastidio da tutta la propria persona, quando Killer la circondò da dietro con entrambe le braccia, ma tutta la sua determinazione andò a farsi benedire non appena sentì le sue labbra sfiorarle il collo scoperto. Rabbrividì suo malgrado e vagliò per una frazione di secondo la possibilità di abbandonarsi tra le sue braccia.
«Killer sto dipingendo» si lamentò, riuscendo con sollievo a suonare acida esattamente quanto voleva.
Ma Killer non era tipo da demordere facilmente e Bonney si accorse fin troppo bene che stava ghignando contro la sua pelle. Cosa ci trovava mai di divertente?! Cosa si credeva?! Dopo settimane di totale e assoluta indifferenza si aspettava che lei mollasse colori e ispirazione per soddisfare le sue improvvise voglie?! Certo era una sollievo sapere che aveva ancora delle riserve di libido da qualche parte, ma se pensava funzionasse così aveva capito proprio male.
Sollevò il braccio, pronta a colpire.
«Non ti ho guardato molto ultimamente, vero?»
Il tono sussurrato e colpevole colsero Bonney alla sprovvista. Sorpresa, si voltò verso di lui che le stava sorridendo con un sorriso di scuse e si accorse troppo tardi di essersi effettivamente lasciata andare contro il suo torace. La bocca di Killer era già a un soffio dalla sua e i suoi neuroni già pronti alla collisione.
«Ti stanno davvero bene»
Sollevò la mano per scostarle i capelli anche dall’altro lato del viso.
«Sei bellissima»
 

***
 

«Pronto?»
«Ehi L-Lamy!»
Silenzio. Prolungato silenzio.
«Pen?!»
Ace si trattenne a stento dall’esultare ad alta voce e lanciò un braccio verso il soffitto, soddisfatto. Sapeva di essere un maestro a imitare Pen.
«Beccato!» esclamò, sforzandosi inutilmente di risultare simpatico, proprio come Pen quando era nervoso. «A-ehm, io spero… spero di non disturbarti»
«No, per niente! Come stai?» rispose Lamy, con un chiaro sorriso nella voce e un entusiasmo che colse Ace alla sprovvista. Sembrava davvero contenta di sentirlo.
Pen, non lui.
«Non c’è male, davvero. Tu? Finito al lavoro?»
«Sì, sto giusto tornando a casa ora. Tu invece? Nessuna sessione fotografica in programma oggi?»
Ace prese un profondo respiro, in parte per restare fedele alla propria recita, in parte perché sinceramente in tensione. Non si era aspettato che Lamy gli offrisse l’argomento su un piatto d’argento ma questo significava anche che era già arrivato al momento decisivo della conversazione.
«Eh magari» si passò istintivamente una mano tra i capelli, come faceva Pen e poi si guardò la mano tra il perplesso e lo spaventato. Okay l’immedesimazione ma che diavolo! «Il, il fatto è che mi manca la… materia prima, ecco»
«In che senso?»
«Sto lavorando a dei nudi. Nudi artistici!» mise subito in chiaro, alzando appena il tono. «Però… però non trovo una modella che… sai non è facile, se non c’è alchimia e io… io mi sono ricordato che una volta tu hai detto che ti sarebbe piaciuto provare a posare nuda» concluse in un’unica tirata e trattenne il fiato.
Silenzio. Prolungato silenzio.
Ace chiuse gli occhi. Ti prego, ti prego, fa che non mangi la foglia. Fa che non si accorga che in realtà in questa linea temporale non ha mai detto nulla del genere.
«Davvero?»
Ace mandò giù a vuoto. Se Lamy si fosse offesa, offesa con Pen, non se lo sarebbe mai perdonato.
Poi, con suo sommo sollievo, un suono che aveva imparato a riconoscere davvero molto in fretta riempì la cornetta. E per la prima volta in vita sua, solo per un brevissimo attimo, la risata di Lamy risuonò più bella id quella di Perona alle sue orecchie, terrorizzate di avere appena rovinato la vita sentimentale del proprio migliore amico.
 «Pazzesco che te lo ricordi! Io nemmeno riesco a farmi venire in mente quando ne abbiamo parlato!» rise ancora, prima di aggiungere: «E come mai mi contatti allora? Vorresti chiedermi di posare per te?»
«B-beh se… se non ti scoccia, io, io… n-non voglio sembrarti inopportuno o insolente o…»
«Pen! Pen» lo fermò Lamy, prima decisa poi più dolce nel chiamare il suo – beh non suo – nome. «Mi farebbe molto piacere. Devi dirmi quando però»
«Io oggi non ho niente da fare!» colse la palla al balzo Ace.
Si rese conto che stavolta il silenzio dipendeva solo dal fatto che Lamy era rimasta interdetta. «O-okay» ridacchiò Lamy, dopo un istante. «Anche io non ho nulla da fare. Il tempo di andare a casa a farmi una doccia e ci sono. A casa vostra?» chiese conferma. Sapeva che Pen aveva improntato un piccolo studio lì ma era da un sacco che non parlavano, magari adesso aveva un locale dedicato.
Che poi, perché era così tanto che non parlavano? A lei piaceva un sacco parlare con Pen.
«Sì, è perfetto»
«Magnifico! Allora ci vediamo tra un po’»
«Okay. Ah, Lamy!» la richiamò e si interruppe immediatamente.
«Sì?»
Non poteva, si sarebbe insospettita, avrebbe capito che non era Pen. Non poteva, non poteva cedere e chiedere se avesse qualche informazione su Perona. La tentazione era così forte…
Ma no, non poteva. Era un rischio troppo alto, soprattutto viste le scarse probabilità di ottenere una risposta diversa da quella che gli aveva dato Sugar.
«Ti aspetto»
«A dopo» riaffermò Lamy, prima di chiudere la telefonata.
Ace si lasciò andare contro la spalliera del divano ed esalò un lungo respiro dal naso. «Un gioco da ragazzi» asserì, gli occhi ancora chiusi.
«Sì, ti vedo profondamente rilassato e per niente in tensione infatti» mormorò la sua anfitrione, il tono piatto e scettico.
Ace le lanciò un’occhiata di striscio. «Ehi, è stato fin troppo semplice!» s’intestardì, offeso per il mancato riconoscimento delle sue doti attoriali. Ma l’attimo di indignazione passò quando l’urgenza di sistemare tutto entro quella sera gli ricordò che aveva ancora una telefonata da fare. La mascella indurita dalla determinazione, nonostante lo sconforto di ciò che si apprestava a fare, lanciò un’occhiata quasi infastidita al proprio cellulare.
«La parte difficile arriva adesso» sospirò.
Non c’era modo di prevedere a cosa la telefonata successiva avrebbe portato. Ma comunque fosse andata a finire, la sola cosa che contava era che Koala uscisse dal limbo in cui viveva ormai da mesi. E anche se si sentiva un boia, sapeva di essere lui a doverle dare la giusta spinta.
Si fece coraggio mentre con la combinazione veloce inoltrava la chiamata al numero della propria migliore amica.
 

 
§

 
Il trillo del campanello rimbombò minaccioso nello stomaco di Koala. Con passo leggero e cuore pesante, uscì dalla cucina per andare ad aprire la porta, lanciando un’occhiata in tralice alla busta color cartone che giaceva sul mobile d’ingresso, contenente un plico di fogli che aveva tentato con tutta se stessa di dimenticare che fossero mai entrati da quella stessa soglia che ora si apprestava ad aprire.
 

«Ehi straniero! Sei ancora vivo allora!»
«Ciao Koala, come va?»
«Ah io bene. Tu piuttosto? Sto preparando la bouillabaisse, domani te ne porto un po’ se vuoi»
 

Con un unico, fluido gesto, aprì l’uscio come se avesse dovuto staccarsi un cerotto. Il suo stomaco decise di dare il meglio di sé in acrobazie quando se lo ritrovò davanti, a occupare l’intero perimetro della porta, la sciarpa solo appoggiata intorno al collo del cappotto, la t-shirt a maniche lunghe che aveva tenuto sotto al camice ancora addosso, il pizzetto impeccabile ma i capelli spettinati, le occhiaie più marcate del solito, forse, o forse era solo uno scherzo della sua mente. Un’immagine che non vedeva da mesi e che, ciò nonostante, aveva appena iniziato a sbiadire nei suoi ricordi.
«Ciao…»
«Ciao. Posso entrare?»
«Certo» Koala abbassò lo sguardo mentre si scostava di lato. Difficile esprimere quanto le fosse costato non aggiungere “È ancora casa tua”. Era chiaro che fosse così nella sua visione ma non in quella di Law.
 

«Come se potessi dire di no a un’offerta del genere»
«Vuoi parlare un po’?»
«In realtà avevo una cosa da chiederti»
«Dimmi tutto!»
«Le hai firmate le carte del divorzio?»
 

«Non mi aspettavo la tua chiamata» mormorò Law, guardando ovunque nella stanza tranne che lei.
«Spero di non averti disturbato o rovinato i piani, io…» fece per scusarsi la giovane chef, conscia del fatto che, se Law avesse avuto altro da fare non avrebbe mai accettato di passare da lei quella sera stessa, ma troppo obnubilata dal dolore per rendersi conto che era assurdo, quasi un’eresia, pensare, come invece lei stava facendo, che Law avesse così tanta fretta di mettere le mani sulle carte del divorzio finalmente firmate da rimandare qualsiasi possibile impegno pregresso.
 

«Ace, cosa…»
«Koala è arrivato il momento. Non puoi continuare a rimandare l’inevitabile»
«Ma io… io… lui non me le ha mai chieste, Ace»
«E pensi che questo significhi che non vuole che le firmi?»
 

Con uno sforzo immane, Koala allungò il braccio verso la busta, senza nemmeno girarsi a guardarla.
No, non voleva vederla! Dio, l’avrebbe bruciata se solo avesse potuto! Non voleva vederla e nemmeno toccarla ma la seconda era inevitabile.
Un moto di nausea la colse quando i polpastrelli sfiorarono la carta spessa ed economica di cui era fatta.
 

«È arrivato il momento»
 

«C’è un buon profumo. Stai preparando la bouillabaisse
Koala riabbassò il braccio di scatto e di scatto sollevò la testa. Law guardava verso la cucina, il cappotto ancora addosso ma per niente l’aria di avere fretta di andarsene o – che il cielo l’aiutasse – di mettere le mani sulle carte del divorzio.
Forse… Forse anche se il momento era arrivato si poteva rimandare ancora. Solo un altro po’.
«Sì. Vuoi fermarti a cena?»
Fu il turno di Law di voltarsi di scatto, abbandonando ogni velleità di evitare il contatto visivo con lei a qualunque costo. Non si rese conto subito di stare trattenendo il fiato, per quale motivo poi, non lo sapeva nemmeno lui.
Non era come se fosse una domanda difficile. Certo che voleva fermarsi a cena. Adorava la bouillabaissedi Koala e in generale qualunque cosa cucinata da lei. A dirla tutta, non era l’unica cosa che adorava di Koala.
A dirla tutta tutta, adorava l’idea di restare a cena, ci fosse stato in programma anche del ramen scadente preso al take-away giù all’angolo.
«Beh…» fu tutto quello che riuscì a rispondere , insieme a un’alzata di spalle, e la voce interiore di Law sarebbe già stata pronta a dargli dell’idiota se solo Koala non si fosse illuminata di uno dei più bei sorrisi che le avesse mai visto in volto. Le altre volte che l’aveva vista sorridere così le poteva contare sulle dita di una sola mano e un brivido gli corse lungo la schiena.
La prima volta che avevano fatto l’amore.
La prima volta che le aveva detto “ti amo”.
Quando le aveva chiesto di sposarlo.
Mentre percorreva la navata verso di lui.
Un rumore di stoviglie che sbatteva lo riscosse dai propri pensieri.
«Koala?!» scattò, la voce tesa.
«Solito sportello» lo avvisò, continuando ad affaccendarsi in cucina per apparecchiare. «Togli il cappotto, tanto lo sai dove va, no?!»
Law si sentì morire, non era chiaro di cosa, quando recepì senza fatica l’euforia e la gioia nel tono di sua moglie. Tentennò ancora un istante, chiedendosi se stava facendo la cosa giusta o non stava, piuttosto, rischiando di darle false speranze. D’altro canto, non vedeva come le cose si sarebbero potute aggiustare con una singola cena improvvisata.
Si avvicinò all’appendiabiti in ingresso e ci sistemò il cappotto, con una cura che usava solo per i capispalla, e la sciarpa e non fece in tempo a fare due passi per tornare verso la cucina che le gambe smisero da sole di rispondere quando gli occhi gli caddero sulla busta marrone, che tanto aveva evitato da quando era entrato in casa.
Fuori dal cassetto, sul mobile, nel punto esatto dove Koala appoggiava le cose che doveva assolutamente ricordarsi di non dimenticare a casa quando usciva. Ferma ad aspettare lui.
Lo stomaco gli si chiuse appena ma si impose di riprendere il controllo sulle proprie funzioni motorie e raggiungerla. No, nulla si poteva aggiustare con una cena improvvisata, lo sapeva.
E faceva ancora più male, saperlo. Faceva più male vederla preparare i due piatti, azzeccando senza fatica la porzione giusta per lui – che non dipendeva solo dalla sua stazza ma anche dal fatto che aveva lavorato –. Faceva male ghignare un ringraziamento mentre afferrava il proprio piatto, faceva male sfiorare accidentalmente la sua mano.
«Allora? Com’è andata al lavoro oggi?» domandò Koala, sedendoglisi di fianco.
Faceva male la luce ansiosa nei suoi occhi viola, in fervida attesa, imploranti di speranza e aspettativa.
Law afferrò la forchetta e abbassò lo sguardo sul proprio piatto.
«Il solito»
No, non si poteva aggiustare un bel niente ormai.
«Capisco…»
«Però due settimane fa è successo un casino con gli esami di due pazienti…»
Law osservò di sottecchi Koala sgranare gli occhi, incredula, e non riuscì a trattenere un sorriso.
Forse non si poteva aggiustare ma nulla gli vietava di creare un ultimo bel ricordo insieme, da portare con sé.
 

 
§

 
Pen aggrottò la fronte, perplesso dal lieve bussare alla porta, non perché ci fosse qualcosa di strano nel bussare alla loro porta, dato che il campanello era ancora rotto, ma perché non riusciva a immaginare chi fosse a quella stramba ora.
Ace di sicuro aveva con sé le proprie chiavi visto che, oltre a uscire all’improvviso senza nemmeno una spiegazione di dove fosse diretto, era rimasto irreperibile per il resto del pomeriggio, il cellulare sempre occupato. Sperava non fosse di nuovo Narvalo e la sua doccia otturata, perché di dover anche schivare i suoi tentativi di seduzione non aveva veramente voglia.
Non aveva voglia di fare nulla, a essere onesti. Niente di niente ma, purtroppo per lui, almeno la voglia di alzarsi, aprire la porta e scoprire chi lo disturbava nel bel mezzo della sua macerante depressione, doveva trovarla.
Con passo strascicato si diresse alla porta, non si preoccupò nemmeno di controllare dallo spioncino – fossero anche stati dei ladri, li avrebbe invitati a entrare e avrebbe preparato loro il caffè, mentre si impegnavano a svuotargli casa. Non che avrebbero trovato molto da portarsi via, sempre che non fossero interessati a una Reflex ormai di seconda mano –, e con un gesto quasi stanco aprì. 
Il suo cuore smise per un attimo di battere.
«Ehi!»
«L-Lamy?!»
«Scusa, l’autobus era in ritardo, avrei fatto molto prima se no» si spiegò, entrando in casa con la forza di un uragano. 
Pen sbatté le palpebre, interdetto. Prima?! Prima per cosa?! Aprì la bocca per chiederglielo ma si dimenticò cosa dovesse chiederle quando Lamy gli sorrise.
Era bellissima, con un filo di trucco e i capelli morbidi e profumati. Era. Bellissima.
«Pen stai bene?» si accigliò, preoccupata.
«Io, io… Tu… C-che fai qui?» riprese un po’ a fatica ad articolare, Pen. Si sarebbe volentieri morso la lingua, nell’esatto momento in cui la frase lasciò la sua bocca, perché se c’era una grande verità in quell’universo era che Lamy non aveva nel modo più assoluto alcun bisogno di nessun motivo per andare da lui.
Eppure doveva sapere. Perché Lamy era casa sua. Non in un locale, a una festa, a un matrimonio, a casa altrui, in zona franca. A casa sua. Aveva bisogno di capire anche se non sapeva a quanto gli sarebbe valso dato che stava chiaramente per rimanerci secco.  
Lamy fece una buffa smorfia, tra il perplesso e il divertito. «Beh per le foto!»
Le foto?!
«Le foto?! Quali… quali foto?»
Una voce, nel retro del suo cranio, gli stava suggerendo la risposta ma Pen non riusciva a crederci. Era troppo bello per poter essere ciò che pensava.
«I nudi» ribatté Lamy, come se fosse ovvio.
Le sinapsi di Pen smisero tutte, contemporaneamente, di funzionare. Okay sì, ci era rimasto secco. Era l’unica spiegazione logica.
«Mi hai chiamato tu un paio d’ore fa. Mi hai chiesto di posare per te, ti ricordi?»
Sì, certo che se lo ricordava. Con tutte le volte che nelle sue fantasie lo aveva fatto, se lo ricordava eccome. Solo che tutta la situazione non poteva avere senso a meno che non fosse una fantasia anche quella perché quando mai avrebbe avuto il coraggio di chiamarla e chiederle una cosa del genere, in modo tanto diretto poi.
«Hai detto che era comodo oggi pomeriggio per te. Se… se hai cambiato idea…»
«No!»
 Pen si rese conto troppo tardi di aver alzato la voce, palesemente agitato.
«Scusa io… mi sono addormentato e credevo di essermi sognato tutto»
Comunque non riusciva a dare una spiegazione a quanto stesse accadendo. Non capiva davvero di cosa Lamy stesse parlando.
«Invece a quanto pare ti ho chiamato davvero»
Ma non era come se non avesse intenzione di approfittarne per volgere la situazione a proprio favore e sfruttare, una volta per tutte, tutte le frecce al proprio arco. Si passò una mano tra i capelli, in imbarazzo.
«Avrai pensato che sono un insolente o inopportuno o…»
Lamy sollevò la mano, in un gesto quasi solenne. «Te l’ho già detto al telefono prima. Mi fa piacere che hai pensato proprio a me»
Pen la squadrò per un attimo da capo a piedi, splendida e spontanea. Così vera e così perfetta. Infilò le mani in tasca e si avvicinò a lei di qualche passo, con l’andatura tipica della sua “mossa del giaguaro” ma con un’espressione così sincera da mozzarle il fiato quando, senza pensare, le disse: «Sapessi quante volte ci ho pensato…»
Lamy mandò giù a vuoto, senza parole. La temperatura doveva essersi alzata di colpo e forse era l’improvvisa escursione termica ad averle accelerato i battiti a quella maniera o forse il sorriso famelico di Pen ma non era granché in grado di dare spiegazioni logiche in quel momento.
«Allora, vogliamo cominciare?»
Lamy sorrise di nuovo, un sorriso identico a quello di poco prima eppure, in qualche modo, diverso. Impaziente, un po’ euforico, rapito quasi. Prese un profondo respiro.
«Sono nelle tue mani»
 

 
§

 
«Aspetta, aspetta! Fammi indovinare!» Koala lo fermò, il bicchiere a mezz’aria. «Gli ha detto “Ci si vede”?!»
«E anche “Si riguardi”» aggiunse Law, a metà tra il divertito e lo sconfortato per poi pendere decisamente verso il divertito quando Koala scoppiò a ridere di cuore.
«Oh santo cielo! Non ci posso credere!»
«Io invece sì» affermò Law, sollevando le sopracciglia e prendendo un sorso d’acqua. «Anzi, trattandosi di Shanks non mi stupirei se lo avesse fatto apposta» scosse piano il capo.
La risata di Koala andò lentamente scemando, lasciandosi dietro solo un sorriso che si spense piano piano e quasi del tutto quando Law riappoggiò il bicchiere e Koala si accorse che aveva spazzolato anche la fetta di dolce, segnando la fine della cena.
Avevano mangiato la bouillabaisse, gli spinaci al formaggio con gli involtini, la frutta e Law era riuscito a trovare posto anche per la torta.
«Vuoi il caffè?» chiese Koala, pur conoscendo già la risposta.
Law non beveva il caffè alla sera, ma la tentazione di provare a prolungare la serata un alto po’ era forte. Così come per Law la tentazione di rispondere di sì. Ma aveva turno anche il giorno dopo e doveva dire di no se voleva farsi una dormita decente.
Doveva dire di no. Ma si limitò a scuotere il capo.
Il sorriso improvvisamente finto e tirato, Koala si alzò afferrando il piattino da dolce, e si diresse al lavello. Ci appoggiò dentro il pezzo di ceramica e poi, senza una parola, uscì dalla cucina per rientrarvi poco dopo con la busta tra le mani, il cui tremito solo un occhio attento come quello di Law avrebbe potuto cogliere.
«Ecco. Ho firmato tutto. Resta solo da riportare i fogli all’avvocato e poi non dovremo più… pensarci. Finalmente» Koala continuò a sorridere imperterrita mentre alzava gli occhi a guardarlo, esalando un respiro affaticato.
Inchiodato alla sedia, Law spostò gli occhi dalla busta al viso di Koala di nuovo alla busta. Si chiese se Koala fosse riuscita a leggergli in volto il terrore che provava. Lei, solo lei sapeva leggerlo come un libro aperto ma, forse, in quel momento era troppo impegnata a non sgretolarsi al suolo per riuscirci o anche solo per accorgersi che Law aveva fatto un blando tentativo di allungare il braccio ma lo aveva lasciato subito ricadere lungo il fianco.
«Ripensandoci, un caffè stasera lo berrei»
Più che mai confusa, Koala lo fissò cinque secondi buoni. Non era certa di aver sentito bene ma la busta era ancora stretta in mano sua quindi, sì, c’era più di un ragionevole indizio per sospettare che Law le avesse davvero chiesto un caffè. Un po’ agitata, mollò la busta sul tavolo della cucina, picchiò l’anca contro una sedia e si diresse ai fornelli per riempire la caffetteria. Percepì la mole di Law ergersi alle sue spalle e non osò lanciargli nemmeno un’occhiata di striscio, concentrata su quel che doveva fare e sul mantenere quel briciolo di autocontrollo che ancora le restava.
«Le tazzine sono sempre al solito posto?»
«A-ah»
«E le pentole?»
«S-sì. Tutto al solito posto» continuò imperterrita a trafficare con la moca, Koala.
Era stato un errore. Invitarlo a cena, cullarsi nella finzione di quella serata. Era stato un errore, così com’era un errore rimandare ancora con la scusa del caffè.
Era una stupida.
Lo sentì spostarsi per la stanza ma non volle indagare e non si accorse di niente. Non si accorse di Law che estraeva la pentola degli spaghetti, quella con i bordi più alti di tutte, non si accorse che apriva il terzo cassetto e tirava fuori i fiammiferi, non si accorse con quanta decisione tornava verso il tavolo.
Non si accorse di niente finché non si rese conto, a scoppio ritardato, che Law le aveva chiesto delle pentole. Perché voleva sapere delle pentole?!
«Perché mi hai ch…» fece per domandare, voltandosi proprio nel momento in cui il fiammifero cadeva a peso morto nella pentola e la fiammata si alzava verso il soffitto, non così alta da costituire un pericolo ma abbastanza inaspettata da spaventarla e farle mollare la caffettiera, che scivolò con un fragoroso tonfo nel lavandino. «Law! Ma cosa stai fa…» il cuore le perse un battito. «…cendo?»
La busta era scomparsa.
Koala si guardò intorno ma la busta era scomparsa, non la vedeva da nessuna parte, ne era certa. La busta era scomparsa, Law aveva dato fuoco a qualcosa e quel qualcosa bruciava decisamente molto bene. Come fosse stata carta.
A bocca aperta, Koala lo fissò puntellato al tavolo della cucina con le braccia, il capo chino, gli occhi serrati, schiacciato da un peso invisibile che si portava dietro da mesi. Koala non osava credere all’evidenza eppure tutto sembrava portare a quella conclusione.
«Law?» chiamò così piano che non fu per niente certa che l’avesse sentita. Ma che l’avesse sentita o meno, Law scelse proprio quel momento per cambiare posizione, voltarsi e appoggiarsi con le reni al tavolo, due dita a stringersi il ponte del naso.
«Io…»
Koala trattenne il fiato, gli occhi pieni di lacrime. Law sollevò la testa. 
«Koala, ci voglio riprovare»
Le lacrime cominciarono a scorrere e Koala si immobilizzò per un attimo sopraffatta dal sollievo. Ma non c’era difficoltà motoria che potesse tenere di fronte allo sguardo implorante di Law, in attesa di una risposta, in attesa del suo perdono.
Koala resistette con tutta se stessa all’impulso di scoppiare a piangere per il sollievo e si asciugò le lacrime che vennero presto sostituite da altre, mentre camminava verso di lui. Pochi passi li separavano ma a lei parve di aver camminato un’eternità quando finalmente si fermò davanti a lui.
I denti stretti, per impedire al pianto di avere la meglio, Koala mandò giù pesante un paio di volte prima di sentirsi abbastanza sicura da azzardarsi a parlare con voce roca e sussurrata.
«Sei un cretino»
Law sbuffò una mezza risata, provando a ignorare il pizzicore agli angoli degli occhi, incapace di staccarli da lei, le braccia al petto. «Lo so»
«Sei il re dei cretini»
«Hai ragione» Law annuì.
«Ti amo»
Il cuore di Law si fermò per un attimo. Le sue iridi sbiancarono. Dopo tutto quello che le aveva fatto passare, non aveva altro da dirgli?! “Sei un cretino” e “Ti amo”?! Nient’altro?!
Non la meritava, santo Roger, quanto non se la meritava!
Eppure… eppure non aveva importanza, perché anche se non la meritava lei lo voleva, aveva bisogno di lui per essere felice e le due cose che più desiderava collimavano alla perfezione e il mondo era improvvisamente di nuovo un bel posto dove vivere.
Lei lo amava. Anche se era un cretino. E lui…
«Anch’io» mormorò allungando le braccia per trascinarsela contro. Se la strinse addosso, baciandola tra i capelli e lasciando che la sua maglietta assorbisse fino all’ultima delle sue lacrime. Non l’avrebbe lasciata andare mai più. Mai più. «Anch’io ti amo»
 

 
§

 
Con un sospiro Ace si rigirò il cellulare tra le mani dopo aver chiuso la telefonata con Koala.
 «È stata dura, ma era necessario. Ora possiamo solo aspettare e vedere cosa succederà»
Attese una manciata di secondi prima di azzardare un’occhiata verso sinistra. Immobile come una statua e con espressione impassibile, Sugar lo fissava con pacata indifferenza e una punta di noia.
«Grazie dell’ospitalità, comunque. Non sapeva da chi altro andare»
Sugar arcuò entrambe le sopracciglia. «Di solito si ringrazia quando si va via» gli fece presente.
«Beh io sto per andarmene» aggrottò le sopracciglia Ace.
«E dove?»
«A casa!»
«Dopo aver mandato Lamy a posare nuda per Pen?»
Ace aprì bocca pronto a ribattere. La richiuse. La riaprì. La richiuse.
Merda! Non ci aveva pensato! E non poteva andare nemmeno da Koala. Insomma non era affatto certo che lei e Law avrebbero sistemato alcunché ma, nel dubbio, non sarebbe stato certo lui a metterle i bastoni tra le ruote.
Forse poteva andare da sua mamma ma sarebbe stata dura evitare un terzo grado.
«Puoi stare qui se vuoi, ho il divano letto» offrì Sugar, alzandosi da suddetto divano. «Ma non farti venire strane idee, niente sesso»
Ace la fissò incredulo per un momento prima di commentare: «Oh. Che disdetta» con un sarcasmo che per fortuna Sugar non aveva interesse – o non era in grado – di cogliere.
Si ributtò indietro sul divano che, quella notte, gli avrebbe fatto da giaciglio e si passò una mano sul viso. Era esausto.
«Ace»
Sobbalzò appena, preso in contropiede, quando Sugar si sporse di nuovo oltre lo stipite della porta del salotto. «Non ti ho mentito su Perona prima. Davvero non abbiamo idea di dove sia» mise in chiaro.
«Sugar, io non…» cominciò il moro, dispiaciuto di aver lasciato anche solo accidentalmente intendere a Sugar che non si fidava di lei.
«Te lo dico perché vorrei ti fosse chiaro che, se sapessimo dove trovarla, te lo diremmo senza pensarci due volte. Perché è nostra amica e vogliamo solo il meglio per lei. Vado a fare la doccia» sparì di nuovo, lasciando Ace ancora più interdetto.
Un qualcosa di caldo e confortevole si espanse nel suo petto, fino all’addome. Per quanto lui stesso faticasse a crederci, era bello sapere che per le amiche di Perona lui appariva come il meglio per Perona.
Lei era il suo prossimo obbiettivo. Per tutto il pomeriggio, mentre macchinava per aiutare i propri amici a riordinare le proprie vite, non aveva pensato ad altro che a lei, a come trovarla, a come convincerla a tornare, a come ridarle la felicità che meritava.
L’avrebbe cercata, ovunque, senza sosta. Avrebbe continuato fino ad arrivare in capo al mondo per lei.
Ma questo dopo. Ora aveva bisogno di dormire. Ma dopo, dopo l’avrebbe cercata ovunque.
«Ti troverò, Voodoo» mugugnò mentre l’attacco narcolettico lo colpiva come una martellata. «Te lo prometto»
 

 
§

 
Aprì la porta con cautela, preoccupato di arrivare nel bel mezzo di un momento poco opportuno per arrivare e di cui non teneva assolutamente ad essere testimone. Una lieve risata lo raggiunse insieme a una poco convinta protesta.
«Pen! Dai!»
Ecco appunto.
«Sono a casa!» si annunciò, azzardando un paio di passi e richiudendo l’uscio con quanto più rumore potesse.
«Stai benissimo! E non puoi cambiarti di nuovo, se arriviamo tardi Bonney ti fa una testa così!»
Ace aggrottò le sopracciglia. Bonney?! Tardi?! Tardi per dove?!
«Ace vieni qui un momento!» lo chiamò Lamy, confermandogli che, sì, lo aveva effettivamente e fortunatamente sentito. Incuriosito da quella strana conversazione, si avvicinò rapido all’uscio di quella che era, ormai, la stanza di Pen e Lamy.
Il suo amico si fissava allo specchio con aria poco convinta, un paio di jeans scuri, una giacca elegante ma non troppo, camicia e cravatta, i capelli spettinati a regola d’arte e la nuova montatura degli occhiali. «Secondo te non va benissimo così per l’esposizione?»
Ace riuscì per miracolo a contenere un’espressione sorpresa e colpevole. Merda! L’esposizione! Se n’era completamente dimenticato!
«Secondo me è perfetto» si schierò prontamente con il solo fronte che aveva ragionevolmente la possibilità di vincere, annuendo deciso, la posa sbragata contro lo stipite, fingendo di essere al cento per cento sul pezzo mentre metteva a tacere la voce della propria coscienza.
Sì, okay, si era dimenticato della prima esposizione fotografica del proprio migliore amico e coinquilino, nonostante fossero giorni che Pen sclerava male una sera sì e l’altra pure per l’agitazione, ma aveva le sue valide argomentazioni.
Cercare invano e senza mai giungere a un dunque, per settimane, l’amore della propria vita, con nessuna idea di dove fosse, se stesse bene, se le fosse successo qualcosa, si stava rivelando estenuante. Al punto che Ace si stupiva di non aver ancora dato fuoco al ristorante ma, d’altra parte e per fortuna, cucinare, lo sapeva fare ad occhi chiusi sin dalla tenera età di otto anni.
«Ne sei proprio sicuro?» domandò Pen con una smorfia che, a un occhio che poco lo conosceva avrebbe denotato disgusto per il proprio abbigliamento, ma che Ace non faticò a interpretare come patologica insicurezza.
Tanto per levarsi ogni dubbio, Ace lanciò un’occhiata di striscio a Lamy, che, da parte sua, lo guardava con il solito evidente rapimento di sempre, che Pen fosse in pigiama o in mezzo tait. «Sicuro al cento per cento, amico»
Pen sospirò. «Okay…» soffiò, la mano a cercare di riavviare inutilmente le ciocche fulve. «Allora sarà meglio cominciare ad andare» allungò la mano verso Lamy, abbozzando un sorriso.
«Ah io ho fatto tardi al lavoro. Vi raggiungo dopo, ho bisogno di una doccia»
 «Va bene» mormorò Pen, piegandosi a dare un bacio a Lamy. Si voltò per dargli una pacca sulla spalla. «Allora ci vediamo dopo amico»
«A dopo, Pen. In culo alla balena!»
«Speriamo che non caghi!» gli rispose il rosso già sulla porta.
Ace mantenne il sorriso giusto un altro istante quando la soglia si richiuse, prima di tornare serio e sospirare. Ogni giorno si sentiva sempre più vicino al limite. Con un gesto stanco si passò una mano sul volto mentre si staccava dallo stipite e, già diretto verso il bagno, sfilava la t-shirt.
Si bloccò di colpo dopo altri due passi, l’indumento in mano, e si voltò stranito verso la porta. Qualcuno lo aveva chiamato o cominciava anche ad avere le allucinazioni?
Forse Pen aveva dimenticato le chiavi, non sarebbe stata la prima volta che se ne accorgeva raggiunto il fondo del corridoio. Dovevano veramente decidersi a far sistemare il campanello. Senza preoccuparsi di rivestirsi, Ace raggiunse la porta e la aprì.
Il cuore gli si fermò. O almeno questo doveva essere successo, doveva essere morto senza accorgersene o forse era caduto vittima di un altro attacco narcolettico e stava sognando perché non riusciva a credere che ciò che aveva di fronte agli occhi potesse essere vero.
Immobile, la mano a metà strada verso il campanello, ancora incerta sul da farsi, l’espressione scioccata, provocata dal fatto di vederselo comparire sulla soglia prima ancora di aver suonato.
«Si è rotto l’anno scorso» la avvisò senza una logica, sconvolto quanto lei, la voce ridotta a un sussurro.
Era chiaro che non l’avesse chiamato. Eppure lui l’aveva come sentita. Possibile?! Possibile che fosse tutto vero?!
«Io… io…» balbettò, in preda al panico. «Non sarei dovuta venire! È stato un errore, scusa io…»
«No! Perona!» partì come un fulmine quando Perona si mise a correre verso le scale e, raggiungendola in appena due falcate, la prese per il polso, saldo ma delicato al tempo stesso.
Rassegnata, le lacrime agli occhi per la troppa colpa che provava, Perona si girò verso di lui e Ace cominciò finalmente a metabolizzare.
Era lì. Perona era lì. Era tornata ed era andata da lui. E non era solo un sogno, non poteva esserlo, la sensazione della sua pelle liscia sotto i polpastrelli era troppo vera per essere solo frutto della sua immaginazione.
Era tornata davvero. Era tornata da lui?
«Quando… quando sei tornata?» deglutì piano il ragazzo. Doveva lottare per tenere a bada la tentazione di trascinarla di forza in casa, per far fronte alla paura che scappasse di nuovo, che gli scivolasse, ancora una volta, tra le mani.
«Ah io…» balbettò Perona, confusa, portando una mano alla testa e voltandosi spaesata verso le scale. «È… È stato un errore. Te l’ho detto non sarei mai…»
«No, no! Ehi!» Ace la strattonò quando cercò di scendere un gradino e le afferrò poi anche l’altro polso per buona misura. «Non penso proprio che sia stato un errore» sussurrò sottovoce, con un sorriso rassicurante e accarezzandole piano i polsi con i pollici.
Suo malgrado, Perona si rilassò un po’ sotto al suo tocco così esperto e delicato. Ma più rilassata significava anche più lucida e più lucida significava più consapevole delle proprie colpe. Cominciò a respirare grosso quando i singhiozzi si fecero troppo pressanti ma Ace non si lasciò distrarre o sopraffare dalla preoccupazione. Doveva tenerla lì, doveva farla parlare. Doveva se non voleva perderla di nuovo e il cielo solo sapeva quanto non voleva perderla di nuovo.
«I-io… mi dispiace così tanto… vi ho f-fatto preoccupare, sono… sono s-sparita, io…»
«Non importa. Non ha alcuna importanza. Ciò che conta è che stai bene, conta solo questo» Ace si azzardò a lasciarle un polso per asciugarle una guancia.
«Non sarei dovuta venire» singhiozzò Perona, indugiando per un attimo nel calore della sua mano.
Ace corrugò le sopracciglia. Non sopportava di vederla così. «Perché no?»
«Perché tu ormai sei andato oltre» ammise la ragazza, mordendosi poi il labbro inferiore per cercare invano di ricacciare il pianto in gola. Mio dio quanto era patetica! Tutto il lavoro fatto su stessa in quelle settimane a Jaya, dissolto così, in un soffio, solo perché lo aveva rivisto!
Quello che Ace provò di fronte a quell’affermazione, fu un miscuglio di sensazioni molto confuse e decisamente contrastanti. Provò l’impulso di sorridere e si sentì scoppiare dalla gioia per l’implicazione evidente che Perona stava male all’idea di averlo perso e, al tempo stesso, si sarebbe volentieri picchiato da solo e si odiò con tutto se stesso per averla fatta stare così male, perché la stava ancora facendo stare così male, in quel preciso momento.
Ma, alla fine della lotta, Ace non riuscì a trattenere un sorriso, sebbene appena abbozzato, sebbene condito da un’espressione mortificata. Si avvicinò di un altro passo a lei.
«Accidenti» sussurrò, cercando i suoi occhi con i propri. «Non pensavo di essere così convincente da imbrogliarti per ben due volte»
Perona scosse il capo, un po’ per scacciare le lacrime, un po’ per snebbiare la mente. «Di che stai parlando?» stargli così vicino non le faceva per niente bene.
«Di quando ti ho detto che quello che è successo la mattina del matrimonio era stato un errore» passò di nuovo il pollice sulla sua guancia. «L’ho detto solo per lasciarti andare. Tornando indietro lo rifarei altre mille volte»
«Cos… Che stai… Che vuoi dire?»
Ace prese un profondo respiro. Era giunto il momento. Stava succedendo tutto così in fretta ma non era come se lui volesse aspettare ancora. Semmai, aveva aspettato già fin troppo.
«Ti amo, Voodoo»
Perona trattene il fiato, scioccata.
«Non ho mai smesso»
«M-ma… ma tu… Sei stato tu che…»
Ace sollevò piano il polso che teneva ancora stretto nella propria mano e se lo portò alle labbra per baciarlo. «Lo so» disse, obbligandola ad agganciare la mano sul retro del suo collo. «Ho avuto paura» lentamente riafferrò anche l’altro polso di Perona e gli riservò lo stesso identico trattamento del primo. «Pensavo di non essere all’altezza» le posò le mani sui fianchi quando sentì che si era aggrappata a lui, meno spaventato che potesse scappare, e posò la propria fronte sulla sua. «Ma non mi importa più. Sei tornata da me. E io sono pronto a qualsiasi cosa per essere l’uomo che meriti, Voodoo. Se… se mi vuoi ancora»
Perona emise un suono a metà tra un singhiozzo e una risata. «Ace...»
«Perché sei tornata da me?» chiese Ace, circondandole la vita con un braccio. «Dillo» Perona aumentò la presa su di lui e Ace riportò la mano libera sulla sua guancia. «Perona, dillo… ti prego…»
Perona sgranò gli occhi, per un attimo sopraffatta da quello che provava per riuscire a parlare. Ma per un attimo soltanto.
«Io ti amo, Ace» soffiò e il nodo gola scomparve per sollievo e per magia. «Io ti amo»
Con uno slancio disperato, Ace la baciò perché non c’era nient’altro da dire o da fare e nient’altro che nessuno dei due volesse di più. E mai prima, in vita sua, si era sentito così sollevato, così grato e così vivo. Come se avesse appena ricominciato a respirare. La strinse più forte, la sollevò da terra, senza interrompere un solo istante il contatto, e tornò verso casa. Il cuore riprese a battergli a pieno regime nel petto quando Perona si strinse a lui, sicura tra le sue braccia, cercando un contatto vecchio e sempre nuovo, pronta a lasciarsi portare ovunque.
Era tutto a posto. Era a casa.
 

 
§

 
Ace non era mai stato in una galleria d’arte prima. Aveva visto altre mostre fotografiche, sempre presente a sostegno di Pen, aveva visitato molti musei con Perona ma la galleria d’arte gli mancava. Ora, non fosse stato lì per evitare che Pen cedesse all’impulso di darsela a gambe al momento dell’intervista, compito che gli stava parecchio a cuore, Ace sapeva esattamente dove sarebbe stato. Ovvero ancora a casa a fare l’amore con Perona. Per la terza volta.
A ben guardare era un miracolo che non fossero arrivati poi così tardi alla mostra, anche se certo non poteva stupirsi che fossero gli ultimi del loro gruppo. Ma non temeva il rancore di Pen – che, impegnato a parlare con quelli che erano chiaramente dei giornalisti, Lamy al suo fianco, non sembrava certamente alla sua prima esposizione di livello, tanta sicurezza emanava – né i rimproveri di Bonney. No, non poteva temere nulla con Perona così saldamente ancorata alla sua mano.  
Si girò verso di lei, in parte per controllare per la millesima volta che fosse davvero lei e che fosse davvero lì, in parte per sorriderle, quando un suono alquanto orrendo raggiunse le sue orecchie, in uno splendido esempio pratico di effetto doppler.
Il suono di una macchina, lanciata ben oltre il limite di velocità consentito, che sfrecciò nella strada antistante la galleria, così in fretta che, anche se Ace non l’avesse vista solo con la coda dell’occhio e solo ai margini del proprio campo visivo, non sarebbe comunque riuscito nemmeno a capire di che colore fosse.
Eppure Ace sapeva perfettamente di che colore fosse e quale modello e sapeva che il deficiente che la guidava meritava di schiantarsi contro un idrante e perdere la patente e si augurò anche che succedesse prima che potesse fare seriamente male a qualcuno, come in effetti era già capitato, anche se non in quella linea temporale.
«Ace?» Sorpreso dal suo tono interrogativo, Ace abbassò lo sguardo su di lei solo per rendersi conto che se l’era stretta addosso per proteggerla. «È tutto okay?» chiese, perplessa, districando a fatica un braccio per posare una mano sulla sua guancia.
«Ah sì… io…» Ace tartagliò confuso e non accennò a lasciarla andare. «Quella… quella macchina è passata troppo veloce»
Perona sgranò gli occhi, si girò verso la porta aperta, alle loro spalle, e poi di nuovo verso di lui. «Sì ma noi siamo dentro» gli fece presente, con un sorriso che Ace non poté non ricambiare.
«Hai ragione» mormorò piano, gli occhi socchiusi, stringendola ancora di più tra le braccia. Anche Perona socchiuse gli occhi e si alzò sulle punte per andare incontro alle sue labbra, già schiuse e pronte.
«Perona?»
Ancora stretti, si voltarono verso la voce sollevata e incredula e Ace temette di nuovo che fosse tutto solo un sogno quando assistette al fenomeno fisico che aveva creduto impossibile, ovvero Bonney che si staccava da Killer, per correre verso sua cugina.
Un po’ a malincuore ma in fondo felice, Ace la lasciò andare perché potesse abbracciare Bonney e poi Killer, poi Sugar e tutti gli altri che si stavano precipitando verso di loro, compresi Pen e Lamy che avevano mollato l’intervista a metà.
Lamy stava ancora alternando rimproveri e abbracci, sotto gli sguardi attenti di Law e Pen, quando Koala si avvicinò a lui, con un sorriso luminoso, così luminoso che chiaramente non poteva dipendere solo dal ritorno dell’amica.
«Ciao mogliettina» la prese in giro, come se non lo facesse già abbastanza al lavoro. Ma sapevano tutti e due che era diverso, visto che Law si era ritrasferito ufficialmente a casa quella mattina.
Koala scosse piano il capo e gli diede una leggera gomitata, accostandosi al suo fianco. «Che è successo?» domandò, gli occhi puntati sulla riconciliazione che stava avendo luogo davanti a loro.
«Lei…» Ace si strinse nelle spalle. «È tornata»
E non c’era bisogno di specificare che non intendeva semplicemente “tornata a Raftel”, che ciò che voleva dire era che era tornata da lui, che era andata a cercarlo. Non c’era bisogno di specificarlo con Koala, lei sapeva. Sapeva sempre tutto.
«Che cosa pazzesca» scosse ancora il capo la piccola chef. «Guardaci, tutti qui e tutti di nuovo felici. E tutti accoppiati!» indicò senza troppe cerimonie Pen e Lamy che ora cercavano di trascinare Perona verso la giornalista, per spiegare insieme a lei il motivo della loro improvvisa fuga dall’intervista.
«Incredibili le coincidenze della vita eh?»
«Già. Oppure il destino» aggiunse Koala.
Ace si girò a guardarla, la fronte aggrottata e Koala gli lanciò un’occhiata in tralice. «Il destino dici?»
«Sì, perché? Non ti convince?»
Ace rifletté un istante, tornando a concentrarsi su Perona, che alzò lo sguardo verso di lui mentre si lasciava trascinare via, divertita e innamorata. Ace si sentì riscaldare dentro. «No, anzi» sogghignò soddisfatto. «”Destino” mi piace parecchio»
 
 
 
 
 
  
   
 
 
Angolo dell'autrice: 
E abbiamo finito anche questa! 
E non poteva ovviamente resistere a chiudere con una battuta c******* alla Portuguese D. Ace che in fondo amo tanto soprattutto per questo. 
Vorrei ringraziare infinitamente Zomi, Sara e Crazyunicorn per il sostegno in questa breve ma lunga long, mi scuso per le secchiate di OOC e vi auguro una buona Pasquetta! 
Grazie mille a tutti quanti e un bacione! *lancia ovetti di cioccolato* 
Hope you've enjoyed it, 
Page.  
    
 
 
 
     
 
 
 
 
  
 
 
 
  
 
 
 
 
    
 
  
  
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