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Autore: Moony16    07/04/2018    2 recensioni
Berlino non era ancora una città sporca di sangue quando Caroline vi arrivò contro la sua volontà in quell'estate del 1940, quando nessuno avrebbe potuto immaginare la piega che avrebbe preso la storia. Con sè, solo una nuova identità, un nuovo nome, la stella di Davide finalmente strappata via dai vestiti e una vita intera lasciata alle spalle.
L'accompagna Joseph, un giovane ufficiale delle SS, il perfetto ariano, uno di quei uomini che potrebbe benissimo stare tra le figurine che la ragazze si passano tra i banchi di scuola, in una rivista del partito nazionalsocialista o in un volantino che incita alla guerra, per riprendersi il "Lebensraum", lo spazio vitale tedesco.
Cosa li lega? Nulla in realtà, se non un'infanzia passata insieme e un debito che pende sulla testa del giovane come una condanna.
***
LA STORIA E' INCOMPLETA QUI, MA LA STO REVISIONANDO E RIPUBBLICANDO SU WATTPAD NELL'ACCOUNT Moony_97, DOVE LA COMPLETERO'
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Storico
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 Joseph la guardava ridendo sotto i baffi, mentre lei canticchiava allegra sistemando la cucina. Avevano appena finito di cenare e lei sembrava felice come una pasqua, non aveva smesso un attimo di sorridere e gli aveva mostrato tutti i suoi acquisti senza smettere di parlare un attimo. Lui l’aveva lasciata fare, divertito da quel suo modo di essere così frizzante che gli ricordava quando era una bambina. Sinceramente, non capiva il motivo dell’acquisto di quel vestito così bello, del rossetto e del piegaciglia. Insomma, per cosa voleva usarli, per andare al mercato? Ma lei sembrava felice e soddisfatta e alla fine i soldi erano il suo regalo di compleanno, quindi spettava a lei scegliere come spenderli. 
Osservandola bene, Joseph si accorse che adesso le sue forme erano più tonde, meno spigolose, e che il vestito che indossava, prima largo, adesso le calzava a pennello. I suoi capelli, anche se corti, erano più luminosi, e le guancie più colorite. Non aveva più l’aspetto malaticcio di quando era arrivata lì e sapendo che il merito era suo provava uno strano sentimento, come di soddisfazione. 
Quando lei finì di pulire la cucina si girò a guardare lui, smettendo di canticchiare.
«devo dirti una cosa …» esordì lei con un mezzo sorriso. Lui si stupì non poco. Aveva la faccia di una ragazzina che deve chiedere qualcosa di difficile a suo padre, ma Joseph non aveva proprio idea di cosa avrebbe voluto chiedergli. Che avesse combinato qualche danno? Che qualcuno l’avesse riconosciuta? Subito, si accigliò, mentre la serenità di qualche secondo prima svaniva.
«devo preoccuparmi?» chiese con tono freddo, cercando di non far trasparire il timore che provava. Lei scosse energicamente la testa.
«no, no è una cosa bella, almeno per me» lui si accigliò ancora di più.
«sai oggi, prima di tornare a casa mi sono fermata per mangiare un gelato …»
«e allora?» chiese lui impaziente.
«e allora niente, si è seduto con me un ragazzo e abbiamo incominciato a parlare e …» si fece rossa in viso.
«mi ha riaccompagnata qui a casa e mi a chiesto se potevo fare una passeggiata con lui, sabato» disse esitante, mentre la sua faccia aveva assunto la stessa tonalità dei capelli.
«un ragazzo?» chiese Joseph, ancora stordito.
«devi uscire con un ragazzo?» ripeté, e lei annuì energicamente.
«e io dovrei lasciartelo fare?» lei si indignò.
«è solo una passeggiata, e comunque tornerei prima del copri fuoco» lui ghignò.
«e tu questo tipo lo conosci così bene da poter dire che non stava mentendo?» 
«non mentiva. Perché avrebbe dovuto farlo?» Joseph alzò gli occhi al cielo. Era indispettito che qualcuno si fosse dimostrato così interessato ad Elly. 
«è un uomo. Tu probabilmente neanche sai cosa vogliono gli uomini dalle donne, soprattutto se sono cameriere sole al mondo che nessuno può difendere» disse malevolo.
«io forse non so cosa vogliono i soldati dalle donne. Ma lui era un ragazzo semplice, allegro, che mi ha fatto passare le due ore più belle da molti anni a questa parte, e che mi si è seduto accanto senza sapere nulla su di me»
«e pensi che se sapesse il tuo vero nome, non ti venderebbe allo stato?»
«non lo so, e in questo momento non lo voglio sapere» lui rise.
«la risposta la conosci bene Caroline. Vuoi andare con lui? Và. Ma non ti rischiare a mettere in mezzo me e la mia carriera dicendo chi sei, perché giuro su dio che altrimenti ti mando all’inferno» la minacciò per poi alzarsi e dirigersi nel suo studio. 
Era nervoso da morire. Si diceva che la causa fosse la paura di qualche sciocchezza fatta dalla ragazza, che avrebbe avuto ripercussioni anche su di lui. La verità invece, stava probabilmente in quell’allegria contagiosa di Caroline. Lui aveva ingenuamente pensato di averla provocata, lui credeva di essere stato il motivo dei suoi sorrisi. E anche se si diceva che non gli importava, era una balla che raccontava a se stesso. Si era sentito bene, vedendola sorridere. Ma sapere che quel sorriso non era per lui, perché era chiaro che Caroline stava andando dritta dritta verso una cotta con i fiocchi, gli aveva fatto male. Chissà perché poi, ma gli aveva fatto male. 
Joseph si sedette sulla sua scrivania, il buon umore totalmente scomparso, un senso di impotenza che gli corrodeva l’animo. Con gesti nervosi allentò il nodo della sua cravatta, di quell’uniforme che sentiva ogni giorno più pesante. La gettò di lato e aprì i primi bottoni della camicia rigorosamente bianca, come per prendere aria. Gettò a terra la giacca, con tutte le sue mostrine e medaglie, con la fascia rossa e la svastica nel braccio destro e i teschi nel colletto. Sfibbiò i polsini e li arrotolò lungo le braccia, poi scombinò i capelli fino a quel momento perfettamente pettinati all’indietro.
Quando era solo un ragazzino adorava portarli in quel modo e fare impazzire i suoi odiosi zii. Amava il modo in cui gli cadevano sugli occhi, il colore biondo chiarissimo reso più evidente, il modo in cui gli incorniciavano il viso che lo rendeva decisamente ribelle. Di quel ragazzo era rimasto ben poco, ma chissà perché in quel momento si ritrovò a volergli somigliare un po’ di più.
C’era davvero rimasto male, per quell’appuntamento. Si sentiva tradito, ma razionalmente sapeva che non era tutto un gran controsenso. Avrebbe potuto dire che non poteva andare, accaparrare scuse su quanto conoscere quel tipo per lei sarebbe potuto essere pericoloso, ma ai propri occhi sarebbe significato ammettere di essere preoccupato per lei. E lui non doveva esserlo. O meglio, doveva rimanere convinto di non esserlo.
Stava cercando di calmarsi, quando lei bussò gentilmente alla porta, e lui le grugnì qualcosa in risposta, che neppure lui sapeva bene se fosse un assenso o un diniego. Comunque lei aprì ed entrò guardandolo stranita.
«possiamo parlare?» chiese quasi timidamente. Quasi. 
Lui gli indicò la sedia e lei si trovò di fronte a lui, che in quello stato sembrava un uomo normalissimo. Un uomo normalissimo parecchio attraente.
«stai … bene, così» le uscì spontaneo. Lui sorrise con l’angolo della bocca, ma lei se ne accorse comunque.
«una delle poche ragazze che lo pensa, di solito basta un’uniforme per farvi sognare» disse con un ghigno divertito. Avrebbe voluto metterla a disagio con quella battuta, ma ottenne solo uno sguardo duro da lei.
«già, finché non sono ebree» lui si riscosse e distolse lo sguardo dai suoi occhi.
«giusto, a te non piacciono i soldati. Sei più per … com’è che lo hai chiamato? “un ragazzo semplice e allegro”» lei arrossì ma non si scompose.
«non pensavo che ti avrebbe dato così tanto fastidio. Quale è il problema? Se ti preoccupi che io possa dirgli tutto, vuol dire che non mi conosci: ci tengo alla pelle. E mi risulta difficile credere che tu tema per la mia incolumità fisica» disse con molta ironia. Quei giorni con lui l’avevano inacidita. Era vero che il loro rapporto era migliorato, ma vivevano di parole taglienti come spade e in una solitudine resa più acuta dalla presenza dell’altro.
Joseph sopportò abbastanza stoicamente lo schiaffo morale che gli aveva dato. Mai come in quel preciso istante gli era parsa donna. Una donna, offesa, che gli stava rinfacciando i suoi sbagli.
«non l’ho presa male, Caroline. Credo solo che non sia una buona idea»
«e perché? Se mi violenta e mi getta in un pozzo, a te farà solo un favore. Se non lo fa, farà un favore a me, dandomi un briciolo di umanità, che lo sa dio quanto mi manca» altro schiaffo morale, che questa volta bruciò di più, se possibile.
«io sono un essere umano» disse lui lievemente smarrito. Lei lo guardò per un lungo istante. Poi fissò la sua giacca nera e scosse la testa.
«non sempre» lui annuì a quella risposta, poi alzandosi in piedi le si avvicinò, sovrastandola, mentre lei restava seduta su quella sedia, cercando di non dare a vedere quanto in quel momento la spaventassero i suoi occhi di ghiaccio.
«allora fa quello che vuoi» disse con tono straordinariamente calmo.
«hai tre condizioni, però Caroline. Primo, devi rispettare la legge: niente luoghi proibiti, rientri dopo il coprifuoco o cose del genere: vivi pur sempre in casa mia» fece una pausa per vedere che affetto avrebbero fatto alla ragazza le sue parole. Lei sbuffò e poi annuì, accondiscendente, così Joseph continuò. 
«Secondo, io non devo vedere questo tizio neanche di sfuggita. Terzo, non tornare qui incinta, perché butto fuori te e la cosa che ti dovrebbe crescere dentro» 
Aveva parlato indossando una maschera di pura freddezza e indifferenza. Lei lo guardò con uno sguardo altrettanto distaccato.
«va bene, signore» poi lasciò la stanza con atteggiamento imperioso.
***
Caroline si osservava soddisfatta al piccolo specchio presente in bagno. Aveva il vestito nuovo che sembrava esserle stato cucito addosso, tanto le stava bene. Il verde si abbinava perfettamente con i suoi occhi e i suoi capelli che, lavati qualche ora prima, erano morbidi al tatto e le arrivavano poco sotto le orecchie. Quel rossetto rosso aveva reso le sue labbra decisamente più seducenti. Uscì dal bagno soddisfatta, nonostante quella giornata fosse stata sfiancante. Joseph le aveva lasciato una lista infinita di cose da fare, e lei aveva dovuto correre tutto il giorno senza fermarsi neanche per pranzare. Tutta la settimana erano stati scontrosi, lui non le aveva alzato le mani ma era stato freddo e distante, l’aveva trattata come il peggiore insetto. E non gli erano serviti i calci e i pugni per umiliarla quella volta.
Aveva preteso di aver lustrate le scarpe. Di essere servito a tavola. Di non mangiare più in sua compagnia. Aveva preteso che lo chiamasse signore e gli desse del lei, mentre lui gli urlava i peggiori insulti. L’aveva fatta sentire come una bambina impotente, e lei lo odiava per questo. 
In quel momento era fermo sull’uscio della cucina, stava palesemente aspettando che lei tornasse dal bagno. Caroline pregò che la lasciasse andare, perché aveva davvero bisogno di qualcuno con cui parlare. Magari non avrebbe potuto raccontare niente a quel bellissimo ragazzo con gli occhi blu come la notte, ma avrebbe riso con lui, avrebbe potuto passare qualche momento di pace, avrebbe potuto sentirsi una normale ragazza alle prese con la propria prima cotta. Lui la osservò per un lungo istante, squadrandola da capo a piedi. 
«non direi mai che sei ebrea vedendoti per strada» disse. E quello era la cosa più simile ad un complimento che Caroline avrebbe potuto sentire da lui. Indecisa se sentirsi offesa o lusingata, preferì rimanere in silenzio, aspettando che lui la facesse passare o le dicesse qualcosa. Lui si appoggiò allo stipite.
«e quindi vai?» chiese con voce atona. 
«si, e sono anche in ritardo signore» sputò l’ultima parola con acidità, facendola suonare come un insulto, ma lui non ci fece caso.
«mi raccomando, comportati da puttanella, così lo farai felice» disse velenoso, prima di spostarsi sul corridoio e lasciarla lì, fumante di rabbia. Sbuffando, Caroline prese il suo cardigan, indossò le scarpe, afferrò la borsa e poi uscì di casa, con il cuore che le batteva a mille dentro al petto. Si sentiva lo stomaco in subbuglio, sentiva rimbombare i battiti cardiaci nelle orecchie e non si calmò fino a che non vide Dimitri appoggiato al muro mentre fumava una sigaretta. Allora il cuore le si fermò. Dio, se era bello. Aveva una camicia bianca arrotolata sulle maniche con pantaloni e giacca neri. La cravatta era blu scuro, che s’intonava benissimo con il suo viso. Si vedeva che il vestito non era nuovissimo, ma comunque era in buone condizioni. Caroline si chiese cosa avrebbero indossato la prossima volta che si sarebbero visti, considerando che quelli erano molto probabilmente i loro unici vestiti buoni. 
Quando lui la vide si aprì in un sorriso poi staccandosi dal muro indossò la giacca e le venne incontro.
«sapevo che saresti scappata dalla finestra, pur di passare un paio d’ore con me» disse lui con un sorriso che gli andava da un orecchio ad un altro, quando erano ancora ad un paio di metri di distanza.
«oppure, non avevo niente di meglio da fare»
«solo perché niente è meglio di me» disse lui, mentre le faceva un bacia-mano degno di uno di quei spettacoli che trasmettevano al cinematografo e che andava a vedere quando era più piccola con suo padre. Lei rimase in silenzio, imbarazzata, non sapendo bene cosa dire, così prese lui la parola, offrendole il braccio.
«ti avevo promesso una passeggiata, e una passeggiata avrai» disse con aria buffamente solenne.
«che uomo di parola!» lui rise, poi la prese a braccetto con fare disinvolto, fingendo di non vedere il rossore che cospargeva le guancie della ragazza. 
Passeggiarono così vicini per le vie illuminate della città, il profumo dell’estate in una notte con poche stelle nel cielo che portava pioggia. La luce dei lampioni gettava lunghe ombre sui passanti, l’odore degli alberi era pungente e il venticello leggero la faceva stringere nel suo cardigan senza però smettere mai di sorridere. Era un sogno quello, ne era sicura. Solo qualche mese prima era una ragazza pelle ossa, spaventata come un topolino che si rifugia da un enorme gattone nero. Adesso era libera di passeggiare tranquillamente per le strade senza ricevere occhiate malevole dalla gente, che invece adesso la guardava insieme a Dimitri in modo sognante, presi dall’invidia o dal ricordo per quel loro palese primo amore. Accanto a lei adesso aveva un uomo, che la guardava con quel suo sorriso da buffone come se fosse una cosa preziosissima e la teneva stretta a sé, la faceva ridere con le sue battute sui passanti e con quella sua malizia appena accennata che la faceva puntualmente arrossire. 
Si sedettero ad un tavolino di un bar non molto distante e non molto affollato. Nell’ingresso spiccava la scritta “vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani”. Non che ne fossero rimasti molti, di ebrei, in giro. Lei lo osservò per un lungo istante, poi si affrettò a seguire le spalle ampie del ragazzo. 
«gelato?» chiese lui allegro, mentre lei si costrinse a sorridere.
«certo. Vediamo se ricordi che gusto» disse con aria di sfida.
«mi sottovaluti Elly. Cioccolato. Al latte però» le rispose compiaciuto. Lei ridacchiò.
«tutta fortuna, Dimitri» lui le sorrise.
«non direi, mia cara. Sono una persona attenta io»
«certo, certo. Non lo metterei mai in dubbio» disse lei lievemente ironica. Lui scosse la testa ridendo, quando arrivò la cameriera a cui ordinarono due bei gelati. Mentre lui parlava, lei spostò lo sguardo verso l’ingresso, dove spiccava quel cartello. Con una stretta allo stomaco ripensò a chi era fino a qualche mese prima, ai suoi genitori e a Joseph. Era grazie a lui se adesso stava bene, grazie a lui se era lì in quel momento, con quel vestito e con un viso finalmente in salute. Merito suo e basta. 
Per quanto fosse stato crudele con lei, si chiese come aveva fatto a dimenticarsene …
«Elly?» lei sussultò quando Dimitri la chiamò. 
«ti sei incantata» disse con un sorriso bonario.
«io … si scusami. Che stavi dicendo?» disse un po’ frastornata.
«niente di importante. A che pensavi?»
«niente in particolare … solo, sono felice di essere qui» affermò, prima di rendersi conto di quello che aveva detto e arrossire. Lui si aprì in un sorriso che gli arrivò agli occhi in maniera del tutto palese.
«anche io lo sono, Elly»
«davvero? Cioè non sono troppo acida a volte?» chiese lei. Era una sua reale preoccupazione, quella. Aveva paura che con il suo sarcasmo lo avrebbe fatto scappare via.
«sei divertente, non acida. E poi neanche io sono un santo» disse ridendo. Caroline lo seguì a ruota e non pensò più a niente, tranne che al bel ragazzo che le stava di fronte.
Quando uscirono dal bar era quasi scattato il coprifuoco, e stava piovigginando. Camminarono velocemente verso casa, mentre la pioggerellina si trasformava in un diluvio con i fiocchi. In un impeto lui si levò la giacca, tra le proteste di lei, cercando di coprirla. Corsero sotto la pioggia, il gelo che gli arrivava nelle ossa ma senza riuscire a trattenere le risate per quella corsa così infantile. Lui le aveva preso la mano, e correva trascinandola. Caroline non riusciva a capire come faceva quella mano grande e callosa ad essere calda. La sua camicia bianca era zuppa e gli si appiccicava addosso, lasciando intravedere i muscoli delle spalle e la canottiera che indossava sotto. Lei lo guardava affascinata e incespicava nei propri piedi. Poi si riprometteva di guardare dove metteva i piedi, ma il suo sguardo era puntualmente attratto dalla linee maschili del ragazzo di fronte a lei. Era affascinata da quel corpo in maniera decisamente imbarazzante. Si fermarono solo quando furono quasi sotto casa sua, più o meno riparati da un balcone che sporgeva. Avevano il fiatone e il respiro spezzato dalle troppe risate. Ci misero un po’ a calmarsi. Caroline si accorse che era ancora imbacuccata nella sua giacca e il senso di colpa la invase. Subito si affrettò a toglierla, nonostante il suo calore e il profumo di lui, gli rendessero il gesto un po’ difficile. Non se ne sarebbe liberata mai. Lui la indossò tremando leggermente mentre lei si strofinava le braccia infreddolita. 
«non doveva finire così» disse lui ridendo.
«ah no? io credevo che avessi programmato la pioggia» disse lei ridendo.
«e comunque è stato bello lo stesso. Anzi, non credo sarebbe potuta andare meglio» lui le si avvicinò.
«lo pensi sul serio o lo dici solo per farmi felice?» disse con un mezzo sorriso. Aveva i capelli resi più scuri dalla pioggia appiccicati alle tempie e gli occhi blu che sembravano neri. 
«lo dico perché non mi divertivo così tanto da … beh neanche me lo ricordo più, da quanto» disse lei con un lieve sorriso. Lo guardò con uno strano luccichio negli occhi, poi gli posò un fugace bacio sulla guancia.
«e quindi grazie, Dimitri» fu il suo turno di arrossire, come dimostrazione che, per quanto facesse il buffone, aveva il cuore tenero.
«è stato un piacere, Elly» disse con un filo di voce. Lei gli sorrise per un’ultima volta, poi corse sotto la pioggia e suonò il campanello, inzuppandosi di più di quanto già non fosse. Aspettò impaziente che Joseph si decidesse ad aprire, sicura che la stesse facendo aspettare giù per dispetto, mentre la pioggia la bagnava completamente. Quando finalmente aprì, fece un ultimo cenno con la mano a Dimitri. Lui, da lontano la guardava con sguardo trasognato.
Caroline salì le scale di fretta, infreddolita. Joseph la stava aspettando davanti la porta di casa aperta e sbarrò gli occhi di fronte alla ragazza, bagnata come un pulcino.
«sei caduta nel fiume, per caso?» disse chiudendo la porta dietro di loro.
«non bagnare i tappeti, che valgono più di te» aggiunse dopo con aria tagliente. Lei sbuffò.
«non preoccuparti, non ho nessuna intenzione di sporcare, visto che poi pulisco io» disse mentre si toglieva scarpe e calzette. Lui non riuscì a non guardarle le gambe scoperte, distogliendo subito dopo lo sguardo. È da troppo tempo che non sto con una donna. Pensò contrariato, seguendola lungo il corridoio, fino alla cucina. Non era del tutto vero.
«e il tuo fantastico ragazzo non ha avuto neanche l’accortezza di portarsi dietro un ombrello? O magari di darti la giacca?» disse lui con ironia.
«me l’aveva data la giacca, solo che poi qualcuno mi ha fatto aspettare tre ore sotto casa e mi sono inzuppata tutta» disse con aria di accusa.
«ah quindi adesso la colpa è mia. Giusto. Perché adesso sono io a dover correre per aprire alla mia cameriera. Sai che ero indeciso sul lasciarti fuori?» lei sbuffò
«e come mai non lo hai fatto?» chiese acida. Lui fece spallucce.
«qualcuno avrebbe potuto saperlo, visto che con te c’era il tuo simpatico amichetto. E non volevo che si attirasse l’attenzione su di te»
«molto gentile da parte tua, allora. Grazie infinite» il sarcasmo grondava dalle sue parole come l’acqua dalle finestre fuori di loro. Poi gli diede le spalle, e presi dei vestiti puliti, si chiuse in bagno per asciugarsi e mettere addosso qualcosa di asciutto. I capelli li asciugò alla meno peggio, ma restarono ovviamente bagnati. Poi, incapace di stare ancora a sentire l’ufficiale di malumore che girovagava per casa se ne andò a letto, con un sorriso che non le scivolava via dal viso malgrado tutto. 
  
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