CAPITOLO TRE
Giunsi al lavoro con ancora un mezzo sorriso sulle labbra. Il
mio ritrovato e rinnovato rapporto con mia madre era riuscito a scacciare
momentaneamente quel senso di vuoto e di vertigine che mi procurava la
lontananza da Marco. Ma il suo silenzio, dentro di me, cominciava a irritarmi.
Quando varcai la soglia del bar-ristorante in cui lavoravo,
mi lasciai alle spalle tutto il fardello di sentimenti e di situazioni
differenti che mi ero portata dietro fin lì, decisa a non voler lasciare
trapelare nulla alla mia datrice di lavoro.
La signora Virginia mi stava già guardando, piazzata dietro
al bancone del locale, lanciandomi un’occhiata che ormai conoscevo bene, e che
aveva lo scopo di sondare come mi presentavo a lei e alla gentile clientela,
fin da subito.
Avrei tanto voluto sospirare, oppure abbassare lo sguardo, ma
non potevo; conoscevo la singolare settantenne che mi stava davanti, e non
dovevo far nulla, neppur una minima scelta, che avrebbe potuto ferirla. Per me
quel lavoro era ancor più importante della mia dignità, e forse in quel
frangente aveva ragione il mio ragazzo, quando mi diceva che esageravo sempre
quando si trattava del mio impiego.
Io ci credevo fino in fondo, per me era davvero tutto; lo
stipendio che ne traevo era l’unico aspetto della realtà che mi rendeva
effettivamente indipendente, e inoltre trovare lavoro in un periodo di crisi
era così difficile, anche per una ragazza piuttosto giovane come me, che non
potevo sprecare quella chance che il destino mi aveva concesso.
Inoltre, mi sentivo molto fortunata ad avere un impiego, e
questo continuava a far accrescere la mia smisurata fede verso quello che
facevo.
Sorrisi quindi falsamente alla signora Virginia, una donnina
di statura nella media, come pure il suo fisico, e vestita sempre in modo
austero, ricoprendo i suoi abiti con la lunga divisa nera su cui era stata
impressa, a caratteri quasi cubitali, il nome della sua attività; L’angolo della bontà.
Il nome del locale era più che appropriato, siccome lo chef che
da tempo lavorava lì era uno dei migliori della nostra città, e sapeva
preparare delizie sfiziose anche con pochissime materie prime a disposizione.
Un vero genio della cucina.
“Buongiorno, signora Virginia”, le dissi, con il massimo
della cortesia e del rispetto, e con un tono davvero amorevole. Il massimo
della finzione che potevo permettermi.
“Buongiorno, Isabella cara”, replicò lei, con un tono
altrettanto vizioso. Mi veniva quasi da ridere, quando in realtà stavo per
entrare a piedi pari nel mio dramma quotidiano.
“Ah, vai a prendere uno straccio! Poco fa ad una cliente è
caduta qualche goccia di caffè, proprio lì…”.
E così dicendo, donandomi subito i primi cortesi ordini, la
padrona si sbracciava dalla sua postazione seduta, proprio dietro la cassa,
indicandomi il punto in cui era avvenuto il piccolo pasticcio.
Mi detti subito una smossa per recuperare uno straccio umido,
e mettermi i guantini bianchi di plastica con prontezza. Sapevo alla
perfezione, dopo un anno e nove mesi di collaborazione, che la signora non
amava chi non si gettava immediatamente sul compito designato.
Dopo la rapidissima capatina nello sgabuzzino che condividevo
con le mie colleghe, ed aver appoggiato la borsa dopo essermi messa il
portafogli e il cellulare in tasca, acceso ma rigorosamente in modalità
silenziosa, letteralmente mi gettai addosso la lunga divisa nera del locale e
me ne tornai al cospetto della signora, guantata ed armata di straccio.
Dilungai dei buongiorno a tutti i clienti che mi capitarono a
tiro, come sempre, e pulii prontamente il pavimento, controllata dagli occhi
dell’arpia.
“C’è da servire il tavolo tre. Hanno richiesto due caffè e
tre brioches”, mi tornò a dire Virginia, non appena vide che avevo completato
il mio lavoro.
“Certo, lo faccio subito. Porto via lo straccio, mi tolgo i
guanti e sono qui”, la rassicurai, ricevendo un’occhiatina di sbieco, che voleva
dire che dovevo fare molto in fretta.
Entrai nello sgabuzzino sospirando, e gettando via guanti e
straccio, centrando anche il secchio nell’angolo più distante da me.
“Buongiorno, Isa”.
Sobbalzai, non appena udii la voce proveniente dalle mie
spalle, ma poi mi volsi e sorrisi a Ilenia, l’altra mia collega.
“Ciao, Ile”.
“Questa mattina la strega ci ha dato sotto. Pensa che è dalle
cinque e mezzo che sgobbo senza un domani! Ah, non ne posso più… tralasciando
pure la maleducazione di alcuni clienti, mi sono beccata anche un qualche
insulto dai ragazzini della scuola di fronte, che sono venuti a prendere un
paio di bomboloni ed hanno tentato di rifilarmi cinque euro falsi. Una
banconota falsa, ti giuro! L’avevano stampata loro, tra l’altro con una
semplice stampante.
“Avranno creduto che fossi scema! Mi sono arrabbiata come una
belva, ma poi è intervenuta la capa a sistemare la questione. Dovevi vedere
come si erano calmati, hanno elargito i soldini, lasciando anche una mancia, e
se ne sono andati con la coda tra le gambe…”.
Sorridevo, mentre Ilenia, la riccioluta e prestante trentenne
che mi stava di fronte, mi narrava le sue avventure della mattinata. Ben presto
lei avrebbe concluso il suo lungo ed interminabile turno, ed avrebbe potuto
tornare a casa. A me invece mancava ancora l’intera giornata lavorativa, tra
l’altro frammentata per via del fatto che ero stata assunta, tempo addietro,
come tappabuchi e come sostegno al personale durante le ore più impegnative
della giornata, e a tale ruolo ero rimasta vincolata, nonostante tutto.
Durante il turno di Ilenia sembrava accadessero sempre cose
d’altro mondo; aveva un modo enfatico di parlare e di raccontare gli eventi, e
quando si lanciava in quel modo era in grado di parlare per interi minuti e in
fretta senza mai concedersi una pausa. Il risultato era che, a fine discorso,
ci arrivava a volte col singhiozzo.
“Non vi pago per chiacchierare!”.
La voce nervosa di Virginia, che ci giunse senza problemi
alle orecchie, interruppe il nostro breve contatto. Io e la mia collega ci
scambiammo un’occhiata mogia e sconsolata, prima di tornare alle nostre
mansioni.
Giunsi di nuovo nel cuore del locale ed andai prontamente a
preparare i caffè e a sistemare le brioches ordinate sugli appositi cabarè, poi
servii al tavolo, ricevendo un paio di grazie. Almeno quello! I clienti erano
sempre più maleducati, e a volte non degnavano neanche di uno sguardo i
poveretti che trotterellavano come pazzi per servirgli. Ma, d’altronde, quello
era il nostro mestiere. Il mio, che per l’appunto avevo scelto, siccome era
l’unico disponibile.
Passò un’ora senza che io avessi avuto modo di riprendere per
un attimo il fiato; e servi lì, e pulisci là, e fai questo e fai quest’altro.
La proprietaria era una furia, una vera macchina da sfornare lavori e impieghi
per i dipendenti, ma almeno Ilenia aveva finito il suo turno, e se ne andò
tranquillamente.
Proprio nel momento in cui cominciava ad essersi più bisogno
di manodopera.
Dopo le undici del mattino, si cominciava a fermare il via
vai continuo della clientela del caffè e della colazione, e iniziava quello dei
pasti, siccome ci trovavamo quasi in centro, e molti operai della zona
preferivano fermarsi lì a pranzare, invece di andare a casa.
Anche in quel frangente la signora Virginia era stata molto
oculata, creando sapientemente i due volti del suo locale pubblico, adibito sia
al servizio bar sia alla piccola ristorazione. Ciò aveva garantito qualche
guadagno extra, che in tempo di crisi nera non faceva affatto male. Per questo,
proprio mentre il turno di Ilenia si concludeva, e lei se ne andava, Massimo
varcava la soglia e entrava.
Massimo era il buon chef alle rigide dipendenze della nostra
datrice di lavoro, e anche se si lamentava sempre per il fatto che il suo
salario era da fame, non si era mai licenziato, e continuava a offrire le sue
ottime qualità a L’angolo della bontà.
Io non potevo lamentarmi di ciò; la signora mi pagava bene,
anzi benissimo, siccome il mio stipendio era quasi doppio rispetto a quello che
elargivano in altri bar o ristorantini della zona. Era perché lei i dipendenti
li sceglieva in modo metodico, e chiunque era lì dentro era stato assunto solo
dopo una durissima selezione, quindi si trattava di personale, ai suoi occhi,
piuttosto qualificato, ed era giusto ricompensarlo in maniera idonea.
L’altra faccia della medaglia era che, naturalmente, una
volta lì dentro si finiva anche per essere ripresi e sgridati più e più volte,
seppur sempre in modo abbastanza gentile, e non c’era altro da fare che
mortificarsi ed abbassare la testa.
Non mi scocciava fare ciò, lo sapevo. Era il giusto prezzo da
pagare per un posto di lavoro fisso e sicuro, e un buon stipendio, oltre ad un
orario che non era poi malaccio, seppur ci fosse da darsi da fare pressoché in
continuazione, senza un attimo di tregua. Ma il lavoro era il lavoro, e non
volevo rubare lo stipendio, quindi, non mi pesava frullare come una trottola
per ore e ore e sudare nonostante l’aria condizionata che regnava sovrana nel
locale, in quelle giornate di piena estate.
Quando giunse mezzogiorno, ero sfinita; servii un piatto di
pasta, il primo della giornata, a un avventore che pareva molto affamato, e mi
preparai a staccare per un paio d’ore. La mamma mi aspettava a casa.
Mi mossi verso il bancone, dietro al quale la signora
Virginia era ancora barricata, sempre guardandomi con attenzione, senza
perdersi un mio minimo movimento, ed ero già pronta a congedarmi, mentre un
sorriso sincero mi sbocciava sulle labbra, ma quella gioia era così tanto bella
da provare che era destinata ad infrangersi. Infatti, quando la mia mente era
già a pranzo, a pregustarsi quei manicaretti che la mia cara mamma si era
sicuramente data da fare per prepararli al meglio, i miei occhi scivolarono per
una minima frazione di secondo verso l’ingresso del locale, il cui campanellino
che annunciava solennemente l’ingresso o l’uscita dei clienti aveva appena
trillato, per poi intravedere una figura che conoscevo.
Mi morì il sorriso sulle labbra proprio mentre ero già di
fronte alla padrona, che mi fissava con curiosità.
“Cosa c’è, cara?”, mi chiese infatti con prontezza, ma io non
riuscivo a risponderle, siccome verso di me, verso di noi, stava marciando a
passi sicuri, tanto simili ad affondi da palestra, il padre di Marco, il signor
Valerio Benedetti.
L’uomo mi rivolse un sorrisetto, ed ero certa che era lì per
me.
Sembrava che il mondo stesse per crollarmi addosso, e proprio
quando Virginia cominciava ad irritarsi per via del mio silenzio e
dell’espressione probabilmente sbigottita ed ansiosa che mi era apparsa in
volto, anche per via della sorpresa provata sul momento, il signor Benedetti ci
raggiunse con i suoi passi pesanti e si rivolse a lei.
“Posso rubarle per un attimo la sua dipendente?”, chiese, con
ironica cortesia.
Virginia lo fulminò con lo sguardo.
“Se proprio deve. Ma che sia per un attimo, eh”, lo redarguì.
A quel punto non seppi tacere ed uscii dal mio guscio.
“E comunque, signora, io ora sono in pausa. Torno alle quattordici,
come da contratto”, le dissi, lanciandole uno sguardo vacuo.
Poco prima che la mia mente fosse totalmente assorbita dalla
persona che era venuta lì di sicuro per parlarmi, la intravidi mentre
controllava il suo orologio da polso, per essere proprio certa che fosse
mezzogiorno spaccato e non un minuto in meno.
“Allora, signor Benedetti? A cosa devo questa sua visita?”,
chiesi a colui che sarebbe dovuto diventare mio suocero, lasciando passare la
mia sorpresa iniziale.
A dire il vero, mai avrei potuto credere che Marco avesse scelto
di inviare il suo genitore in sua vece, poiché proprio il mio ragazzo doveva
averlo fatto giungere fin lì; Valerio non sapeva dove lavoravo, o almeno io non
glielo avevo mai detto ed ero più che sicura di ciò, e inoltre non si era mai
permesso di cercarmi.
Con il distinto signore sessantacinquenne in giacca e
cravatta che avevo di fronte non ci avevo mai instaurato alcun rapporto, fin
dal principio, e non avevo mai frequentato la casa del mio fidanzato e convivente,
sapendo di non esser vista di buon occhio dai suoi genitori.
La cara mogliettina di Valerio mi avrebbe sputato
sinceramente in faccia, dopo il nostro primo incontro avvenuto poco a seguito
del nostro fidanzamento, durante il quale ero stata giudicata come una
pusillanime, una giovane che stava con il loro amatissimo e viziatissimo
figliolo solo per gli agi che il suo cognome sarebbe riuscito a concedermi.
Non sapevano nulla di me, ma mi avevano additato, ed ero
sicurissima di questo, siccome dopo qualche convenevole avevano fatto finta che
fossi diventata un fantasma, per interagire solo con il loro bambino.
Ecco, non mi stavano affatto simpatici i miei suoceri, e
anche se amavo perdutamente loro figlio, ci tenevo a mantenere le distanze,
siccome erano persone superficiali, ricche e sempre pronte a giudicare in base
ai loro astrusi ed assurdi criteri di cui nessuno, a parte loro stessi, era a
conoscenza.
Per quello mi ero fermamente opposta alla richiesta di Marco
di chiedere aiuto alla sua famiglia d’origine e a suo padre, poiché questo
avrebbe solo comportato la perdita della mia dignità. E dal giorno in cui avevo
conosciuto i genitori del mio ragazzo, per me lavorare ed essere indipendente
era diventata una prerogativa primaria, che andava al di là dei semplici motivi
che prima o poi portano tutte le persone ad avere un qualche accesso al mondo
lavorativo.
Il signor Valerio mi prese a braccetto, con la sua finta
cordialità d’altri tempi, e mi indicò un tavolino esterno al locale, all’ombra
e abbastanza appartato.
Senza aver ricevuto alcuna risposta al mio interrogativo,
preferii discostarmi e rifiutare tacitamente quel gesto che mi appariva troppo
intimo. Raggiunsi quindi da sola il punto indicato, ma Valerio raggiunse per
primo la sedia che stavo puntando, e la discostò leggermente dal tavolino, con
un gesto da galantuomo, mentre continuava a sorridermi gentilmente.
“Avanti, la prego di non continuare ad alimentare questa
assurda farsa”, gli dissi, in modo più sgradevole, seppur con educazione e con
il linguaggio più ricercato che potevo sfoggiare. Non volevo che mi prendesse
anche per villana, oltre che per pezzente e approfittatrice del suo candido e
puro figlioletto.
Naturalmente, mi mossi verso la sedia opposta e mi sedetti,
senza usufruire del suo spirito cavalleresco.
Valerio allora si sedette di fronte a me e calò la maschera,
all’improvviso, come mi aspettavo che facesse a quel punto. Il suo volto
solcato dalle rughe della sempre più vicina senilità si arrossò, le sue
palpebre si aprirono ancor di più e permisero ai suoi occhi neri come la notte
di scrutarmi con attenzione, quasi analizzandomi, mentre un refolo di vento
prodotto dagli automezzi che sfrecciavano lungo la limitrofa strada gli
arruffava leggermente la corta chioma brizzolata, ormai totalmente imbiancata.
“Isabella, come stai?”, mi chiese, serio, ed io lo fissai con
maggior insistenza.
“La prego, vada al dunque”.
Ero fredda, anzi freddissima con lui, poiché mi aveva
irritato la sua presenza e il suo modo di fare. Al posto suo doveva esserci suo
figlio, punto.
Ecco, in quel caso sarei stata sicuramente mielosa e dolce
come uno zuccherino, ed avrei potuto baciarlo e tornare a casa con lui,
all’improvviso. Me lo sentivo; sarebbe bastato solo un piccolo sforzo da parte
sua, per farmi tornare assieme a lui.
“Va bene, signorina. Io volevo solo rompere il ghiaccio, ma
lei mi sembra piuttosto scortese. So che prova qualche eccessivo astio nei miei
confronti e in quelli di mia moglie, ma…”.
“Non provo alcun eccessivo astio nei vostri confronti. O,
almeno, non ne provavo”, interruppi il suo discorso che era passato
dall’informale al più formale possibile. Era proprio quello che più desideravo.
Io e quel signore non avevamo nulla da dirci e nulla da
condividere, ed era inutile che perdessi il mio tempo ad udire le sue parole
false e bugiarde. E il mio tempo era prezioso; sobbalzai ricordando l’impegno
che avevo con mia madre, poiché non ero abituata al ritorno a casa per pranzo,
e mi si strinse il cuore. Dovevo assolutamente liberarmi in fretta da quella
presenza ostile.
“Va bene, ma non lo credo”, tornò a dire, sorridendomi in
modo mellifluo, “e, comunque, non sono giunto fin qui per parlare del rapporto
che c’è tra te, me e mia moglie, sperando che mi sia ancora concessa la
cortesia di darti del tu”.
“Immagino sia venuto fin qui per parlare di suo figlio”,
aggiunsi io, sempre più decisa ad andare al punto. Non ne potevo già più del
padre del mio fidanzato, desideravo solo che sparisse alla svelta, anche al
costo di farmi più male possibile.
La collera in quel momento mi stava assalendo in modo
impossibile da arginare, soprattutto se la mia mente sfiorava il pensiero che
avevo di Marco, e il fatto che dovesse avermi mandato lui il genitore,
compiendo quindi la mossa più sbagliata che avesse mai potuto fare.
Sembrava che avesse realmente voluto sfidarmi; per lui quindi
le mie erano state tutte parole al vento? Avevo sempre parlato a vanvera? Cosa
credeva, che mandarmi suo padre in giacca e cravatta e vestito in maniera
impeccabile, e in più sul mio posto di lavoro, potesse essere per me un buon
motivo per fare ciò che lui più desiderava?
Non ero la sua bambola.
“Proprio così. Proprio così”, asserì l’uomo, greve e
lentamente.
Scostai la mia sedia dal tavolo e mi approssimai ad alzarmi e
ad andarmene.
“Allora, penso che potrei anche andare a casa. Se avesse
avuto voglia di parlare, di confrontarsi e di chiarirci una volta per tutte sul
nostro unico punto in sospeso, beh, avrebbe dovuto farlo lui stesso”, dissi al
signore che avevo di fronte, che subito sbuffò alle mie parole.
“Isabella, calmati. Non vedi quanto sei tesa? Sei come una
molla! Anzi, come una bomba a orologeria pronta ad esplodere… non te ne rendi
conto? Stai per esplodere anche con me, che non ti ho fatto nulla…”.
“Oh, senta, lei non è il mio psicologo. E comunque, crede che
basti non far nulla nella vita e correre da papà tutto il tempo, come ha fatto
suo figlio? Tenga per lei le sue stupidaggini, me ne vado”.
L’aria si era fatta rovente; ero scocciata sempre di più e
non potevo sopportare che quell’uomo rivoltante mi facesse la paternale,
proprio lui, quello che litigava sempre con la moglie perché non era mai a
casa, per via del suo lavoro impegnativo.
La frecciatina irritante rivolta al mio modo di comportarmi e
al mio impiego era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso; ma non
riuscii ad alzarmi dalla sedia, siccome il signor Benedetti evidentemente aveva
altro da dirmi, e con uno scatto afferrò il mio braccio, inchiodandolo al
tavolino.
“Mi levi subito le mani di dosso! Ma chi si crede di essere…”,
quasi strillai, allarmata.
“Zitta, per favore, ed ascolta un uomo che vuole solo che tu
viva da regina. Un uomo che vuole solo il tuo bene, nonostante il fatto che tu
lo tratti come uno straccio. Concedimi qualche altro minuto, poi basta, saremo
liberi di decidere il nostro destino”.
“Io lo sto già decidendo da sola. E ora mi lasci”, gli
intimai, e lui lasciò il mio braccio.
“Prima di tutto, che sia chiaro che mio figlio non mi ha
mandato qui…”.
“Ah, no?”, gli feci eco, interrompendolo con nervosissima
ironia.
“No”, sospirò Valerio, “lui non sa che io sono qui. Marco si
è presentato a casa nostra, questa mattina, in lacrime, e in preda alla
disperazione. Ci ha raccontato, a me e a mia moglie ovviamente, quello che è
accaduto tra voi, e io l’ho sgridato. Un giovane uomo come lui non può
permettersi di fare il cialtrone in quel modo, ne va della sua dignità”.
“Finalmente gliel’ha spiegato. Prima era troppo piccolo, per
capirlo?”.
Mi veniva, stranamente, da sorridere. In lacrime avrei dovuto
esserci io, e non quel ragazzone che, a quanto pareva, era andato a
piagnucolare presso la gonna materna. Mi sentivo ferita, e a quel punto tra me
e il mio fidanzato si era automaticamente aperta un’ennesima voragine.
“Ascolta un po’, sono già diverse ore che arrovello il mio
cervello per trovare una soluzione alla vostra precaria situazione economica.
Perché sia io e sia mia moglie abbiamo paura che, nello stato quasi
confusionario in cui versa nostro figlio, lui riesca a commettere qualche
sciocchezza, o possa perdere la testa, e questo nessuno lo desidera, giusto?”.
“Giusto”, risposi alla sua domanda retorica, inarcando le
sopracciglia.
Stavo trattenendo tutta la mia frustrazione e il mio disagio,
lottando contro la mia voglia di darmela a gambe, ma in quel momento non mi
restava altro che l’infimo desiderio di farmi ancora male, ed ascoltare ciò che
aveva ideato quell’omaccio che tanto mal sopportavo.
In quegli istanti ebbi la certezza assoluta che lui non
sarebbe mai e poi mai diventato mio suocero.
“Allora stammi a sentire per bene. Ho preso un’ardua
decisione, su due piedi; siccome il problema che vi divide e crea disagio tra
voi è quello economico, ho scelto, questa mattina, di devolvervi il denaro che
incasserò la prossima settimana, grazie alla liquidazione dell’azienda agricola
che ho ereditato un decennio addietro a seguito della morte di mio padre, e di
cui non me ne farò mai nulla. Si tratta di un grande podere e di un vasto appezzamento
di terreno circostante, che frutteranno un totale di quattrocentomila euro,
cifra tonda, e…”.
“No, non voglio ascoltare oltre. Non li voglio i suoi soldi,
non accetto che lei mi venga a parlare…”.
“Isabella, basta interrompermi! Questa valanga di soldi sono
la realizzazione dei vostri sogni… potrete vivere per buona parte della vostra
vita in modo tranquillo, se non li sciuperete subito, e potrebbero arginare le
vostre controversie…”.
“Suo figlio è venuto a chiederle una cosa del genere?”,
riuscii a dire. Forse, mi sarei sentita meglio se Marco mi avesse tradito con
un’altra donna. L’unica cosa che gli avevo chiesto, durante il nostro rapporto,
era di non andare a elemosinare da nessuno, e di costruire da noi il nostro
futuro, col nostro sudore. E lui, appena era stato veramente con l’acqua alla
gola, aveva reagito in quel modo che mi aveva distrutto la sua immagine.
“Marco non mi ha chiesto nulla. Solo un prestito. Io infatti
gli darò diecimila euro di mia tasca, ripeto, come prestito che dovrà
risarcirmi entro quattro anni e con la promessa che si darà da fare per
rispettarti e per trovare un lavoro, e i quattrocentomila… li passerei
direttamente sul tuo conto, senza che lui ne sappia nulla. So che tu sei
attenta e parsimoniosa, e potrai farne tesoro per entrambi e per il vostro intero
futuro assieme”, si spiegò, e il mondo mi crollò letteralmente addosso.
La mia mandibola cedette, dallo stupore. Restai a bocca
aperta per qualche secondo, prima di ritrovare la forza di articolare altro con
la mia lingua.
“Crede forse di comprarmi? Io con suo figlio ci sto solo se
torniamo a vivere come prima, senza essere condizionato da lei. Se torniamo nel
nostro appartamento, con tre mesi di affitto arretrato, e ce la mettiamo tutta
per risollevarci da quelle che ormai sembrano sempre più le nostre rovine.
Riguardo a tutte le sciocchezze che ha detto, se le scordi e non parliamone mai
più”, gli dissi, sempre più umiliata e ferita, cercando di essere chiara.
E l’unico aspetto chiaro della vicenda, in quel momento, era
che il signore stava cercando nettamente di influenzarmi e di tenermi buona con
del denaro, un’ingente somma che, per sempre e in eterno, una volta accettata
mi avrebbe legata suo figlio.
E Marco non avrebbe mai fatto nulla, alla fine; non sarebbe
mai migliorato, non sarebbe mai cresciuto, e ogni qualvolta sarebbe sorto un
problema, avrebbe solo avuto di fronte la scelta più semplice, cioè quella di
tornare a casa dai suoi a piagnucolare e a fare una sceneggiata assurda, come
sicuramente aveva fatto anche quella volta.
Sapeva che lì nessuno gli avrebbe mai negato nulla, e gli
sarebbero stati dati altri soldi, sempre seguiti da una piccola ramanzina e
qualche promessa di risarcimento che sarebbe stata dimenticata in fretta. Era
proprio tutto ciò che detestavo di più.
Quei soldi erano una cifra inimmaginabile per me. Ingente,
che mi avrebbe reso ricca. Eppure, avevo anche una dignità, e se li avessi
accettati non ci sarebbe più stata alcuna differenza tra me e la mediocrità più
oscura e fastidiosa del mio ragazzo.
“Ma tu lo ami davvero mio figlio?”, mi chiese a bruciapelo
Valerio, tornando a sospirare.
“Io amo Marco, amo il suo profumo, amo il suo corpo, amo il
suo spirito… ma una parte di lui che ultimamente è venuta fuori con maggior
prepotenza non riesco a sopportarla. Si dimentichi le stupidaggini che mi ha
raccontato, e quando tornerà a casa, gli dica solo questo; che io non vedo
l’ora di tornare assieme a lui, ma solo quando la pianterà di fare il bambino e
vorrà prendersi qualche responsabilità, come fanno tutte le persone. I
quattrocentomila euro voglio che se li guadagni da solo, onestamente e con una
vita di sincero impegno. Punto. Arrivederci”, e così dicendo mi alzai e detti
le spalle a quella faccia tosta del signor Benedetti.
Se aveva creduto di potermi comprare, come doveva aver
pensato, ora sapeva di aver fatto male i suoi conti, e di non conoscermi per
niente.
“Isabella, per favore, aspetta un attimo”, tentò di dire il
mio interlocutore, ma io ero sempre più distante, in marcia verso la mia
automobile. Di tempo ne avevo sciupato fin troppo.
Mi rimproveravo per essermi messa ad ascoltare quelle
cialtronerie, ma ero più che certa che il genitore avrebbe riferito le mie
parole al figlio, e allora Marco si sarebbe ritrovato costretto a fare le sue
mosse e le sue scelte, ed io le avrei atteso. Non aveva senso che restassi a
sottopormi alle sue futili e sciocche domande o ai suoi inutili discorsi.
Salii in macchina, la misi in moto e sgommai via, decisa a
lasciarmi in fretta alle spalle Valerio, nel caso che avesse cercato di nuovo
di raggiungermi per tornare a parlarmi. Nessuno mi avrebbe mai chiamato
approfittatrice, e non avrei mai accettato denaro in quel modo, e tantomeno mi
sarei lasciata sottoporre a domande dalla risposta scontata, ma che volevano
mettere in dubbio la mia buonafede e l’amore che provavo per il mio ragazzo.
Ormai però non sapevo più neppure io cosa provavo per lui,
mentre tornavo verso casa… sapevo solo che le sue prossime mosse sarebbero
state decisive per la nostra relazione, e che quella pausa ci avrebbe fatto
bene, in ogni caso. Ci avrebbe permesso di comprenderci fino in fondo, una
volta per tutte. Valeva la pena, quindi, di lasciarla proseguire e di attendere.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie a tutti, come sempre.