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Autore: Neferikare    09/04/2018    1 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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“Non impara mai, quella benedetta ragazza”.

Agli occhi di una statuaria Harmonia, tutto si mosse come a rallentatore: la sagoma verde dell’altra sempre più vicina, la barriera a cupola argento bianca che si diramava dal suo corno fino a terra per proteggerla, le labbra della Pitchiner che si muovevano a pronunciare bestemmie irripetibili quando le sue spade s’infransero contro di essa in mille e mille frammenti luccicanti.

Investita in pieno volto da quell’esplosione di schegge ghiacciate, Emily Jane finì per scivolare a terra, rotolando nell’erba soffice per metri interi prima di essere fermata dal violento impatto contro un masso. Poco lontano da lei, l’anello sfilatosi dal suo dito nella caduta.

L’altra le trotterellò vicino, guardandola dall’alto in basso con un misto fra pietà, compassione e pure un pizzico di sano divertimento.

«Attaccare alle spalle è da codarde, non da regine» notò sarcastica «ma non mi aspettavo proprio altro da te, che una regina non lo sei mai stata. E mai lo sarai, se credi che uno scettro in mano possa improvvisamente renderti una sovrana: una corona in testa dice a tutti chi sei, ma dimostrarlo è tutt’altra storia».

Trovato l’anello, si chinò leggermente per afferrarlo.

«Una di quelle storie che tu preferisci non vengano raccontate, visti i disastrosi risu-»

«ME NE FOTTO DELLA TUA OPINIONE!» la interruppe infuriata, tentando senza successo di rimettersi in piedi «Se per avere la tua testa dovrò giocare sporco, allora che possa crescermi il cazzo seduta stante se non giocherò sporco!»

«Anche perché è l’unico modo in cui tu sappia giocare».

«TACI!»

Forte di un tremendo rilascio di adrenalina causato dal terrore di perdere nuovamente i propri poteri, bastò un suo calcio ben assestato sul metatarso di una delle zampe posteriori di Harmonia per sentire un “crack” per farla crollare a terra con un tonfo sordo, rendendola vittima della sua stessa imponente stazza.

Scansatasi all’ultimo dalla traiettoria di quella massa di muscoli che avrebbe potuto ridurla allo spessore di un waffles, afferrando l’anello al volo, subito Madre Natura si alzò e ritrovò velocemente l’equilibrio, ignorando il cuore che pareva volerle uscire dal petto e i polmoni affamati d’aria che imploravano un time-out che non sarebbe mai stato loro concesso: era una guerra, quella, e in guerra le pause caffè non erano contemplate.

Soddisfatta, guardando la donna che giaceva a terra con la stessa aria di superiorità che lei aveva mostrato nei suoi riguardi poco prima, Emily sorrise: non disse niente di niente, non commentò compiaciuta quello scambio di posti a suo favore, curiosamente non perse nemmeno tempo a blaterare su quanto fosse grande e potente e divina com’era solita fare! Molto semplicemente, tese un braccio davanti a sé, le foglie verdastre del suo abito che andavano lentamente ricoprendosi di scintille azzurrine scoppiettanti che sfrigolavano al contatto con la pelle delle sue dita, sulle quali iniziarono a concentrarsi quei filamenti luminosi.

Le saggiò qualche istante, poi si rivolse ad Harmonia.

«Ultime parole prima che ti frigga come un pollo da KFC?»

«Attenta al ritorno di fiamma» rise la centauressa.

«Vedrò di ricordarmelo» promise, e allora chiuse la mano a pugno.

E fu l’inferno.

Non solo quella belva famelica di puro plasma si stava riversando fuori dalle fessure fra un dito e l’altro avventandosi sul corpo inerme della sovrana, non solo aveva carbonizzato il suolo intorno a lei lasciandosi dietro macchie di terra vetrificata, ma ciò che era iniziato come un “piccolo” fulmine si era trasformato in una vera e propria gabbia incandescente discesa dal cielo, per Harmonia.

Un cielo sereno e sgombro da nubi, prima, ma ormai nero e buio e percorso da tremendi lampi che illuminavano a giorno il paesaggio ormai notturno.

Quando l’odore della carne bruciata inebriò le narici della signora incontrastata degli elementi, un grido di gioia si levò alto nella sua mente, mentre il suo corpo -tremante per l’emozione- non rispose: ce l’aveva fatta, ce l’aveva fatta! Si era presa la propria rivincita nonostante Harmonia giocasse in casa!

Poi Emily Jane abbassò lo sguardo verso il proprio piede, e si rese conto di essere lei a stare andando a fuoco.

«Come diavolo è-»

Il ritorno di fiamma annunciato poco prima la travolse.

Fortunatamente per lei, le foglie del suo abito assorbirono quella tremenda fiammata al posto della sua delicata pelle diafana, riducendosi a un cumulo bruciacchiato e maleodorante di un bel nero carbone.

La Regina di Phantasia, invece, raggiante e fresca come la rosa arcobaleno che aveva fra i capelli, si rialzò senza fretta, placidamente, forte dell’impenetrabile barriera che l’aveva protetta.

Le si avvicinò.

«Io te lo avevo detto, di stare attenta» fece spallucce.

 

Dentro di sé, la figlia dell’Uomo Nero avrebbe voluto morire seduta stante: che umiliazione! Che umiliazione! Va bene l’essere messa in difficoltà da attacco altrui, ma cadere vittima dei propri stessi poteri… ah!

Forse avrebbe dovuto rinunciarci, alla sua voglia di riscatto, proprio come aveva fatto suo padre coi guardiani: lui si era ritirato insieme a Gwenllian per cercare di ricostruire la loro storia amorosa, lei avrebbe dovuto ritirarsi dal conflitto e abbracciare serenamente la propria miseria. Sapeva di non essere nata per vincere, era un vizio di famiglia quello di passare letteralmente dalle stelle stalle, e la chiara dimostrazione di ciò l’aveva proprio sotto il naso ereditato da papà, sul proprio abito ormai carbonizzato.

Nonostante la voglia di arrendersi fosse più forte che mai, però, quella di riscattarsi lo era ancora di più, o almeno provava ad esserlo: forse quello era stato solo un incidente di percorso, nulla di più, forse dandosi un’altra possibilità ce l’avrebbe fatta, forse… forse… nah, troppi forse.

Gettò lo sguardo verso l’anello, verso lo scettro: aveva sputato sangue -e non solo metaforicamente parlando- per riaverlo indietro, cos’aveva da perdere nello sputare altro sangue per tenerselo? La vita, magari? Ah! Per quanto le importasse della sua miserevole esistenza, quella avrebbe potuto tranquillamente prenderla chicchessia e anzi, l’avrebbe ceduta volentieri lei stessa!

Non valeva la pena vivere senza lo scettro, senza essere Madre Natura, e lo sapeva fin troppo bene da trent’anni a quella parte: o da Quetzalli usciva vincitrice, o da Quetzalli usciva a piedi in avanti.

 

La voglia di mettersi una corona sul capo la spinse a rialzarsi, a riprovarci, a riscattarsi: non si sarebbe arresa, no! Avrebbe insistito e insistito, tentato e ritentato, provato e riprovato!

Salvo fallire miseramente, ma quelli erano dettagli.

Una, due, tre, quattro, cinque, dieci, aveva perso il conto di tutte le furiose cariche a testa bassa e muso duro nelle quali si era impegnata pur di far cedere Harmonia, ma ogni volta il risultato era sempre e solo lo stesso: più lo colpiva, più quello scudo magico assorbiva ogni suo attacco, ricacciandoglielo indietro dieci volte più devastante di quanto già non fosse; di quel passo, più che uno scontro corpo a corpo sarebbe diventata una guerra di logoramento, dove avrebbe vinto chi sarebbe rimasto in piedi più a lungo.

E chi avrebbe sprecato meno energie a mollare un affondo dopo l’altro, colpo su colpo, ignorando la totale inefficacia dell’affrontare il combattimento in quel modo tanto inutile quanto dispendioso.

Ignorando il buonsenso, di nuovo Emily tornò alla carica, rabbiosa e furiosa e talmente accecata dal desiderio di vendetta da essere certa che avrebbe funzionato, questa volta.

Ottenendo lo stesso, identico, mesto, risultato di sempre.

Armi, mani nude, elementi naturali vari ed eventuali sui quali esercitava il proprio controllo, nulla pareva funzionare: Harmonia era in piedi, lei era sull’erba a mangiare la terra; dopo l’ennesima di quelle spiacevoli quanto umilianti cadute, capì che un attacco a distanza era l’unico metodo vagamente sicuro grazie al quale avrebbe potuto ottenere un qualche risultato in quello scontro: non poteva resistere in eterno, né ai colpi né a un utilizzo della magia così massiccio, doveva darsi una svegliata e farlo subito.

Approfittando della vicinanza di un albero dinanzi al quale era stata scaraventata, piantò con decisione le proprie dita nella corteccia della pianta. Qualche istante, e decine di tronchi acuminati perforarono violentemente il soffice terreno come chiodi piantati in un muro, spuntando uno ad uno a velocità disarmante in linea retta verso la centauressa.

Harmonia, però, non si fece cogliere impreparata.

Immobile come una statua millenaria, senza mai staccare lo sguardo da quei fusti affilati che le stavano venendo addosso, attese che fossero a pochi metri da lei.

Sorrise.

«Riesci a intrufolarti a Quetzalli senza farti scoprire» s’impennò sulle zampe posteriori «riacquisti i poteri di Madre Natura» attese qualche secondo in quella posizione, sforzandosi terribilmente per mantenere l’equilibrio «millanti chissà quale tremenda vendetta» finalmente, lasciò ricadere il muscoloso e pesante corpo equino a terra, premurandosi di caricare tutto il peso sugli zoccoli anteriori «e qualche scheggia di legno è tutto ciò che sei in grado di fare?»

L’onda d’urto che ne scaturì fu qualcosa di apocalittico, talmente potente da piegare e spezzare e ridurre in trucioli quei tronchi con la stessa facilità con la quale si può spezzare un fiammifero.

Facendo scrocchiare il legno sotto i propri zoccoli, si avvicinò all’altra a braccia spalancate, come a dirle “Questa è la direzione in cui devi guardare per capire quanto i tuoi sforzi siano completamente inutili”.

Le si fermò davanti.

«Non sono un vampiro, Emily, temo che tu debba scegliere un approccio differente dal ficcarmi dei paletti di frassino nel cuore per riuscire ad avere la meglio».

Detto fatto.

Non ebbe neanche il tempo per voltarsi o di far scendere su di sé la barriera, che la Pitchiner le comparve alle spalle, a cavalcioni sul dorso; nelle mani, lo scettro. Un movimento deciso, e glielo conficcò alla base della schiena, facendoglielo uscire dalla bocca grazie all’angolazione che si era curata di imprimere prima di affondarglielo nelle carni.

Non un grido, non una parola, non un lamento: sangue, solo sangue, nulla di più era uscito dalle labbra di Harmonia.

«Stavi dicendo?» la schernì.

Sfilato l’artefatto, le saltò giù dalla groppa; fischiettando, iniziò a girarle intorno, fermandosi solo quando si trovò davanti al volto inespressivo della donna che, trent’anni prima, le aveva rovinato l’esistenza: c’è l’aveva fatta per davvero, dunque? Sospettosa, le prese un polso per auscultare se ci fosse battito: nessun segno di vita.

Prima ancora che potesse abbandonarsi a quel turbine di emozioni impossibile da descrivere a parole che la stava lentamente investendo, però, dalla bocca della sovrana uscì… una farfalla?

Credendo di essere preda delle allucinazioni da overdose di endorfina causate da tanta felicità arrivata in così poco tempo, evocò una radice che la sollevasse all’altezza del volto dell’altra, così da poter controllare da vicino. Allungò il capo.

«Ma cos-»

Il tempo di sporgersi appena, e uno sciame di lepidotteri le volò addosso.

Nel comico e disperato tentativo di scacciare quelle bestie immonde menando botte da orbi al nulla, la povera donna cadde a terra; da lì, tanto ammaliata quanto orripilata dallo spettacolo, osservò il corpo di Harmonia dissolversi nell’aria in un turbine di piccoli insetti dorati che volarono subito via oltre le nubi di tempesta. Di loro non rimase nulla, se non un’impercettibile polverina luminescente dello stesso colore cascata direttamente dalle loro ali e, poi, posatasi al suolo come zucchero a velo su di una torta.

Non rimase nulla della loro presenza, e non rimase nulla nemmeno di quella della regina di Phantasia.

Cercando di controllare l’improvviso attacco di papilofobia, si guardò furiosamente intorno: dove diavolo era finita? Cosa diavolo era successo? Che diavolo avrebbe dovuto pensare? Aveva vinto? Aveva perso? COSA?!!

Alle ultime domande, però, una risposta l’aveva: Harmonia doveva essere viva per forza di cose, non c’erano alternative. Se fosse stata davvero morta, allora a quest’ora l’intero pianeta Exodus sarebbe dovuto essere solamente una biglia arida e desolata e sterile che galleggia nello spazio, proprio come lo era stato prima che l’ultima principessa Starequus lo facesse rifiorire grazie ai propri poteri, dopo che il Kælikantzoroi Th’asteria lo aveva raso al suolo: era la guardiana della fantasia, ma ciò che aveva creato e che creava era fin troppo reale.

Mossa dalla consapevolezza che quindi quella battaglia fosse tutto tranne che terminata, Emily Jane iniziò a cercare e ricercare ovunque l’altra donna, decisa a scovarla e farla finita una volta per tutte.

Dapprima si limitò all’utilizzare la vista, aguzzando lo sguardo in cerca del movimento di un filo d’erba, di una foglia ancora verde caduta nonostante la mancanza di vento, di un’onda creatasi nell’acqua. Poi, risoluta, si mosse di persona, chinandosi a controllare ogni più piccolo anfratto, strisciando in qualsiasi cunicolo le capitasse a tiro -persino quelli delle talpe, da quanto era decisa o partita di cervello che dir si voglia- e arrampicandosi sugli alberi, totalmente incurante delle escoriazioni che andava procurandosi. Infine, vista la mancanza di risultati e la rottura di ovaie che la stava assalendo, convenne che fosse il momento di tirare fuori i trucchetti di magia: se i vegetali erano sensibili a carezze e parole smielate, allora erano anche sufficientemente senzienti da poterle dire dove si trovasse la regina.

Poggiò un ginocchio e un palmo a terra, chinando il capo. Chiuse gli occhi: immediatamente, dalla sua mano andarono diramandosi sottilissimi venature verde acceso che raggiunsero ogni albero, ogni foglia, ogni più piccola nervatura delle stesse; adesso, tutto pareva risplendere di una luce intermittente, come se attraverso quei canali le piante si stessero scambiando curiosi messaggi sottoforma di impulsi di linfa vitale.

E in effetti era proprio ciò che stava accadendo.

Adesso, i suoi occhi erano le piante alle quali si era connessa come se fosse stata una vera e propria rete informatica, tanti terminali che attraverso le proprie pupille -costituite dalle folte chiome e dai rami nodosi e dai tronchi spessi e vecchi- si scambiavano informazioni fra loro e poi le passavano a lei, al mainframe, permettendole di vedere e avvertire tutto ciò che vedevano e avvertivano i vegetali.

Il tempo di isolare le voci degli alberi -che, ahimè, sentiva eccome, quel brusio profondo e indistinto faceva parte del pacchetto- dalle altre sensazioni che provava sulla propria pelle, e il “tutto ciò” di prima finalmente comprese anche il peso degli zoccoli della centauressa sul manto erboso. Che, poverello, gridava pure di dolore, mentalmente s’intende.

Non perse nemmeno un istante: subito, senza attendere, evocò delle radici che potessero trafiggerla. Perse il segnale.

Salvo riottenerlo poco dopo.

Ripeté ancora il procedimento.

E poi ancora.

E ancora.

E ancora, in un circolo vizioso senza fine: Harmonia appariva e scompariva, appariva e scompariva, appariva e scompariva, e lei di rimando era contenta e poi incazzata, contenta e poi incazzata, contenta e poi incazzata.

Improvvisamente, quando era ormai talmente esasperata da volersi disconnettere e fare le cose “alla cazzo di cane, di gatto e di tutto lo zoo”, un nuovo segnale prese forma in quella sorta di Wolrd Wide Web Ecofriendly Edition; allarmata e speranzosa, lo esaminò: era uno solo, piccolo, insignificante, quasi invisibile, rispetto all’imponente sagoma della sovrana che appariva quando veniva rilevata la sua presenza. Il dubbio che avesse intuito le sue intenzioni e cambiato forma di conseguenza le strinse lo stomaco: non sapeva cosa dovesse aspettarsi, e ciò la rendeva più inquieta di quanto avrebbe dovuto esserlo qualcuno con poteri della sua portata.

Notando che suddetto punto era in avvicinamento piuttosto velocemente, però, trovò il coraggio di agire: aprì gli occhi, già con i palmi carichi di energia per attaccare.

«Vieni fuori, codarda che non sei altro!» gridò a squarciagola «Smettila di nasconderti dietro delle dannatissime illusioni e fatti vedere, così la risolviamo da regina a regina una volta per tutte! O forse hai troppa-» si sentì tirare l’abito.

Non vedendo nessuno intorno e dietro di lei, abbassò lo sguardo: uno… gnomo? Uno gnomo armato d’ascia che cavalcava una nutria a petto nudo?

“Promemoria per me: mai bere prima del lavoro”.

Convinta fosse un’altra delle sue solite allucinazioni, si strofinò a lungo gli occhi: era ancora lì, e la guardava in modo indecifrabile con i propri grandi occhi neri da pesce lesso.

«Do you know da wae?» le domandò dopo qualche istante con un accento grave, profondo, che le ricordava fin troppo quello di un film ugandiano visto durante una serata all’insegna del trash.

Lei lo fisso a metà fra il divertito e il sinceramente confuso.

«… Come?»

«Da wae» ripeté l’esserino «Do you know da wae?»

«Cosa sarebbe “da wae”?»

Prima che quella creatura le rispondesse, avvertì un altro segnale; qualche secondo, e le si palesò dinanzi un altro essere assolutamente identico a quello precedente, a differenza del cappello che -anziché rosso- era blu.

Iniziò a scambiarsi vigorosi schiocchi della lingua sul palato con il collega, poi rivolse lo sguardo verso la Pitchiner.

«Do you know da wae?» le domandò anche questo.

«Can you show us da wae?» rincarò la dose l’altro.

Si massaggiò le tempie, rassegnata.

«Ragazzi, io non so cosa-»

Nemmeno il tempo di finire la frase, e l’ennesima creatura le comparve davanti agli occhi.

Si mise ad annusarla insieme alla propria nutria, si scambiò uno schiocco con i propri simili e alzò il capo verso di lei.

«You do not smell like ebola!» asserì visibilmente contrariato, poi si girò verso i compagni «She is a fake Queen my bruddas! She does not know da wae!»

Senza che potesse controbattere -non sapeva come, dal momento che nemmeno capiva cosa diavolo volessero da lei!- a quel curioso teatrino, la testa parve sul punto di esploderle: ancora connessa ai vegetali com’era, avvertì un altro segnale, poi dieci, cento, mille.

Non aveva la minima idea di quanti diavolo fossero, ma una cosa la sapeva: era circondata, era circondata da fottutissimi gnomi dai cappelli rossi e blu armati fino ai denti di asce e primitive lance e martelli che, adesso, stavano inveendo contro di lei a suon di forti e rumorosi schiocchi di lingua sul palato.

Era assurdo.

Uno di loro -probabilmente il capotribù, considerando che era l’unico a portare un cappello giallo- si fece avanti trotterellando sul proprio animale, fermandosi ai suoi piedi.

Alzò un braccio, indicandola.

«SPIT ON HER MY BRUDDAS! SPIT ON DA FAKE QUEEN!»

«FAKE QUEEN! FAKE QUEEN! FAKE QUEEN!» si levò alto un coro mentre gli gnomi le si stringevano intorno «FAKE QUEEN! FAKE QUEEN! NO MERCY FOR DA FAKE QUEEN!» un rantolo grottesco iniziò a provenire dalle loro gole «YOU WILL FREEZE! DA FAKE QUEEN WILL FREEEZE!»

Poi le sputarono addosso in massa.

Le sputarono addosso.

Cristo.

 

Tanto schifata quanto spaventata da quella tragicomica situazione nella quale si era involontariamente infilata, Emily Jane mulinò in aria lo scettro per mettervi un punto… o almeno ci provò, dal momento che uno sputo raggiunse pure quello.

Al contrario di ciò che si sarebbe potuto pensare, se la Pitchiner non lo stava utilizzando non era per il disgusto, ma perché materialmente impossibilitata a farlo; la saliva posatasi sul suo corpo, infatti, si stava indurendo come se fosse stata gesso, immobilizzando lei e intrappolando il suo bastone in un ripugnante involucro semi trasparente a pochi centimetri dalle sue mani.

Quando poi credeva che la situazione non potesse degenerare ulteriormente, arrivò il colpo di grazia.

Dagli alberi, con tutta l’eleganza e la calma del cosmo, spuntò Harmonia, impettita sui suoi zoccoli scintillanti e con uno sguardo di perculìo così tagliente che avrebbe potuto trafiggere la sua contendente come se fosse stata fatta di burro.

Appena la vide comparire, lo gnomo capo si mise sull’attenti.

«STAAAAAAAAP MY BRUDDAS!» gridò.

Subito, tutti smisero di sputacchiarle addosso, rivolgendo le proprie attenzioni e i propri occhi estasiati alla Regina di Phantasia.

Quello col cappello giallo le si avvicinò, fremente. L’annusò.

«SHE SMELL LIKE EBOLA MY BRUDDAS! SHE IS OUR REAL QUEEN!» concluse entusiasta «OUR QUEEN IS HERE! OUR QUEEN IS HERE TO SHOW US DA WAE MY BRUDDAS!»

«DA QUEEN! DA QUEEN! DA QUEEN!» convennero tutti.

Immediatamente, accerchiarono la centauressa, ma senza sputarle addosso: le salirono in groppa saltellando e ballando sulla stessa, le abbracciarono le zampe strusciandovisi contro, la coprirono di baci dopo essersi arrampicati fin sulle sue spalle, scivolano giù per le onde che la coda creava muovendosi nell’etere, addirittura le spazzolarono i capelli!

Harmonia li lasciò fare a lungo, senza fretta, fino a quando il loro capo non le si mise davanti esibendosi in un goffo inchino.

«Do you know da wae?» le chiese.

«I know da wae» sorrise la donna «and I will show to you and your bruddas da wae later, Commander Gaztons».

«She is a fake Queen» di rimando, le indicò la figlia dell’Uomo Nero «she does not smell like Ebola, she is a poser. But we bruddas spit on her my Queen! We give her no mercy!»

«Thank you brudda, da Queen blesses you» gli sfilò delicatamente il cappello e, dopo essersi abbassata, gli diede un bacio sulla testa. Additò un punto non meglio definito nel folto del Tauremorna, assicurandosi che la vedessero tutti gli gnomi «This is da wae, my bruddas, da wae that da Queen show you!» concluse.

Dire che a quelle parole fosse corrisposto un terremoto di grado sette per lo spostamento in massa sarebbe stato un eufemismo.

Tre secondi prima il luogo era pieno di gnomi impegnati ad ascoltare la sovrana nemmeno fosse una dea scesa in terra, tre secondi dopo puff, spariti, volatilizzati, galoppati via sul dorso delle loro nutrie dal pelo ispido verso da wae, “la via”.

Non poteva andare peggio.

 

 

Rimaste finalmente sole, Harmonia le si avvicinò, facendo un breve inchino di scherno appena l’ebbe davanti. Sfiorò il liquido viscoso -ormai quasi completamente solido- che teneva in gabbia l’altra, saggiandolo fra le dita.

«Comoda nel tuo bozzolo di saliva di gnomo?»

«Fottiti».

«Farmi fottere è precisamente ciò che spero di poter fare questa sera» convenne con una punta di acidità che non tentò nemmeno di nascondere «sempre che per allora abbia ancora una donna che possa fottermi, s’intende. E da ciò che mi hanno detto non è una cosa che dovrei dare così per scontata, mi sbaglio?»

«Oh no, non ti sbagli affatto» sorrise Emily Jane «anzi, oserei dire che sei fin troppo ottimista: l’ultima volta che ho visto la tua compagna questa era mezza morta, agonizzante, infilzata come un pollo allo spiedo sul mio scettro» con lo sguardo, lo indicò «che implorava la mia pietà e rinnegava la sua reginetta dai boccoli arcobaleno. Ora come ora, probabilmente quella serpentessa schifosa è già carne per le mosche» rise.

La regina, contro ogni sua aspettativa, la imitò.

«Passi pure per Myricae che mi rinnega per avere salva la vita, ma lei che implora pietà? Se vuoi che io ci creda, allora in futuro dovrai inventarti qualcosa di ben più credibile di certe baggianate, Emily Jane Pitchiner, perché che quella benedetta Ophidian sia disposta a farsi decapitare piuttosto che cedere ai ricatti di chicchessia è un dato di fatto che ormai persino i fili d’erba conoscono!» fece una breve pausa «E immagino che te lo abbiano già detto, visto quanto ci hai conversato».

Un’espressione di pura sorpresa si dipinse sul volto della Pitchiner: sapeva tutto, tutto, aveva intuito le sue mosse fin dal primissimo istante!

«… Tu sapevi che-»

«Che stavi tracciando i miei movimenti? Ovviamente».

Iniziò a girarle intorno, sfiorandole il volto con la coda fluttuante solo per infastidirla.

 «In caso contrario, non avrei certo chiesto aiuto agli gnomi per confonderti: si chiama strategia, ma non pretendo che una come te la conosca, considerando che -sebbene la strategia migliore per sopravvivere fosse farsi gli affari propri sulla Terra- sei venuta a minacciare, ad attaccare, a uccidere, la mia gente. Di nuovo». Si fermò, afferrandole il mento con una certa prepotenza «Sei tremendamente prevedibile, lo sai? Sono stati trent’anni di pace, quelli passati dal nostro ultimo incontro e scontro, ma in cuor mio ho sempre immaginato che prima o poi saresti tornata a riprenderti ciò che sostieni ti appartenga“di diritto”, per cui-»

«Non lo sostengo, è così» la interruppe bruscamente, liberandosi dalla presa delle sue dita «e lo sai anche tu: quello scettro contiene i poteri di Madre Natura, gli stessi che io vi ho riversato dentro perché nessuno me li rubasse e, dal momento che sono io Madre Natura, allora quelli sono i miei poteri. A me sono stati donati, e solo a me possono e devono essere restituiti: nessun altro può averli né reclamarli, nessuno se non la sottoscritta!»

«Ed è proprio qui che ti sbagli, carissima».

Con in volto un ghigno beffardo che non sembrava nemmeno appartenerle, Harmonia si chinò fino a incrociare i suoi occhi, due pepite d’oro nelle quali piantò il proprio sguardo rosa azzurrino che ci affondò dentro come un pugnale.

«Quelli sono i poteri di Madre Natura, che -come certamente saprai- è solo un titolo come tanti: duca, conte, principessa, regina, Madre Natura, sono solo e soltanto modi diversi per identificare la posizione sociale di una persona; inoltre, come tutti i titoli, può ovviamente essere assegnato a chiunque si dimostri degno e volenteroso di caricarsi suddetto macigno sulle spalle, un macigno che va ben oltre il giocherellare con nubi che seguano i propri nemici tutto il giorno. Pensa che potrei diventare Madre Natura anche io, proprio qui, senza tanti fronzoli e cerimonie d’investitura come per i guardiani, mi basterebbe prendere il tuo bastone et voilà! Cambio di testimone!» scoppiò a ridere.

Si girò.

«Inoltre, se non ricordo male, il titano Typhan ti ha fatto dono di quei poteri con l’intento di utilizzarli per fare del bene, non per fare del male» le si avvicinò all’orecchio «Scommetto che infatti non rispondono come dovrebbero, vero?»

«C-come fai a… sa-saperlo?»

«Ricevere le avanche del principe dei Lunanoff ha i suoi vantaggi, tipo quello di venire a conoscenza dei cazzi delle altre Costellazioni senza volerlo» fece spallucce «delle Costellazioni, e anche della figlia di un generale caduto in disgrazia per essere andato a ficcare il proprio naso negli affari di famiglie del calibro degli Alab… Abalar… Alderab-»

«Aldebaran».

«Quelli lì, brava. E poi anche i... i Cha… Chacha… no, aspetta… Champasemar… no, no, non era così… Cha-»

«Chandrasekhar» sbuffò.

Harmonia schioccò le dita, come se avesse improvvisamente avuto un’illuminazione.

«Loro, sì, i sovrani dei complotti e i signori dei draghi!» confermò schioccando le dita, come se avesse avuto un’illuminazione «Quelli che ti hanno distrutto la famiglia, insomma, anche se sappiamo entrambe che sarebbe più accurato dire che è stato papà a cercarsi le rogne: se fosse stato al proprio posto, allora-»

«Cosa sai tu di ciò che mi è successo?!»

 

Black out globaletotale.

Al momento, nella già confusa mente della figlia dell’Uomo Nero era appena scatto l’allarme rosso, rossissimo, più rosso del suo volto avvampato dal dubbio: chi le aveva parlato del suo passato? Come faceva a conoscere certi dettagli e, addirittura, millantare di essere a conoscenza anche di altri? Ma soprattutto, quanto sapeva?

Da lei non era uscita mezza parola, da Phobos nemmeno -non avendo lui ancora incontrato la centauressa-, dovette persino scartare dalla lista dei sospettati quel puttaniere infame di suo padre dal momento che, sfortunatamente per lui e fortunatamente per lei, della sua vita come il generale Kozmotis Pitchiner ricordava solo vaghissimi e sporadici momenti, e la maggior parte di essi non comprendevano sua figlia.

 

Come se avesse intuito i dubbi che la assillavano, l’altra donna -intanto sedutasi comodamente a terra, con le braccia poggiate su di un masso- prese parola.

«Non so nulla, in realtà, solo ciò che Manny -fra un tè e una proposta di matrimonio- mi ha riferito settecento anni fa, suppongo per cercare di impressionarmi con le sue doti di cantastorie» rise, facendole involontariamente tirare un lunghissimo sospiro di sollievo.

Si fece pensierosa.

«Però ricordo chiaramente che mi raccontò di questa bella bambina dagli occhi dorati e i capelli corvini, figlia di una donna che aveva sposato questo grande generale tanto amato dal popolo quanto ritenuto fastidioso da chi aveva qualcosa da nascondere, una dolce e tenera frugoletta che aveva sempre avuto un’infanzia piena di amore, di affetto e di ignoranza verso i giochi di corte» si abbracciò da sola, ovviamente in segno di scherno. Finse di rabbuiarsi in volto «Ma poi il suo papà, un certo generale Koyotis se non ricordo male, ha pisciato fuori dal vaso, ficcando il suo grooosso naso nei gombloddi di una famiggghia relativamente potente, all’apparenza, ma che dietro le quinte aveva nelle mani un impero. E allora…».

«Taci» le intimò Emily, la rabbia che iniziava a montarle dentro insieme alla magia.

La sovrana, ovviamente, non le diede retta.

«Tacere? E perché dovrei? Sono stata brava e buona, ti ho dato una seconda possibilità quando chiunque altro -con ciò che avevi combinato- nemmeno ti avrebbe lasciato in vita, ho cercato di ragionare con te perché desistessi: dal momento che con le belle parole non ho ottenuto nulla, non biasimarmi se ora faccio la parte della donnaccia acida e cattiva che usa il tuo stesso tragico passato per farti del male» agitò le mani davanti a sé, come a discolparsi, le labbra impegnate in un sorriso che diceva “hai voluto la bicicletta? Ora pedala”.

«Ma non perdiamo altro tempo! Dicevo, a quel punto è successo un bel patatracchete, eh già! Caccia grossa a suddetto generale, morte della sua cara mogliettina per una serie di sfortunati eventi, fuga verso la-»

«Taci» pronunciò di nuovo, questa volta con una voce differente, gutturale, a tratti inquietante, gli occhi ridotti a due fessure perse fra la pelle che stava inspiegabilmente andando scurendosi sulla fronte, sugli avambracci e sui polpacci; Harmonia, tuttavia, non notò quei cambiamenti, coperta com’era dai capelli la prima e da quella gabbia semi trasparente gli ultimi due.

Come pure non notò i pugni stretti di una Pitchiner -che, intrappolata, non avrebbe dovuto nemmeno riuscire a gonfiare troppo i polmoni- furiosa, le sottili venature verde acceso illuminatasi a disegnarle una mappa sulla pelle, la prigione di saliva coperta di crepe scriocchiolanti.

Totalmente estranea a tutti quei dettagli che non preannunciavano nulla di più, la Regina di Phantasia continuò a infierire.

«Come sei noiosa!» sbuffò indispettita «Guarda, se proprio vuoi la farò corta, ma solo perché il resto è storia: tuo padre che diventa Pitch Black, la fine della Golden Age e la cancellazione della stragrande maggiorranza delle Costellazioni, tu che vieni presa sotto l’ala da un titano morente che ti accudisce, ti mente perché ti vuole tutta per sé manco fosse un vecchio maniaco e, dulcis in fundo, ti dona i poteri di Madre Natura. E quando tu scopri la verità cosa ne fai, di questo ben di dio?»

Emily, in vena di fare tutto tranne che rispondere, rimase in silenzio.

«Distruggi una nave e ammazzi solo gli dei sanno quante persone, spingendolo a reciderti quella fetta di poteri sugli astri che ti avrebbero reso una dea in terra, ecco cosa!»

In una mano, si fece comparire un sottile pugnale color crema, l’impugnatura -che terminava in una piccola rosa con una pietra iridescente al centro- finemente lavorata in sinuose e delicate forme eteree che parevano nuvole.

Le trotterellò vicino.

«Non sei furba, esattamente come non lo erano i tuoi genitori».

Le poggiò la lama sul petto, premendo abbastanza perché la pelle si arrossasse, ma non a sufficienza perché si tagliasse.

«Non era furbo tuo padre, che se avesse messo a tacere il suo presunto senso del dovere avrebbe evitato di finire dritto dritto nella tela del ragno, trascinandosi con sé i propri familiari come mosche sul miele» la fece scorrere fin sotto il mento, alzandoglielo leggermente «E non era furba tua madre, che è rimasta a bearsi nella propria ignoranza accontentandosi degli “Ho tutto sotto controllo” di suo marito per vivere serena. Non la conoscevo, ma -visto com’è finita e com’è uscita sua figlia- sarà certamente stata una di quelle ragazzette follemente innamorate del proprio consorte al punto di seguirlo per terra e per mare e per cielo, pur di vederlo contento, sempre pronta a supportarlo e mai a dargli contro pure se ha torto, una donnuccia che non ha capito in cosa era stata involontariamente messa in mezzo fino a quando non hanno dovuto raccoglierla da terra col cucchiaino. Povera scema».

«TACI!»

 

Un’esplosione di rabbia, un’esplosione di magia, un’esplosione della gabbia che conteneva Madre Natura e tutta la sua furia, dissoltasi in un lampo accecante.

 

Senza che Harmonia potesse realizzare ciò che stava accadendo, un frammento duro come il marmo la colpì in pieno, poco al di sotto della zona di congiunzione fra il corpo equino e quello umano, scaraventandola contro lo stesso masso sul quale, poco prima, stava crogiolando.

Un solo colpo, e adesso una delle zampe anteriori penzolava mestamente a mezz’aria.

Tentò subito di rialzarsi, ma invano: prima ancora che potesse farlo, delle spesse radici coperte di spine perforarono la terra e le afferrano gli arti, immobilizzandola; al contrario, Emily Jane era libera, liberissima.

E incazzata abbestia.

«Non ti permettere» alzò lo sguardo, la pupilla ridotta a un puntino disperso in quelle iridi dorate intrise d’odio e di rabbia e d’omicidio «assolutamente» strinse con forza le dita artigliate coperte di vera e propria corteccia -come pure lo erano gli avambracci e la parte inferiore della gambe- sul nero scettro, un malsano alone grigiastro che ribolliva nelle striature smeraldo dello stesso e colava come lava fumante su tutta la sua lunghezza «di nominare mia madre!» una manciata di lingue di immani lingue rocciose sventrarono la terra tutta intorno alla regina, circondandola.

“Pensa! Pensa! Pensa!”

«Non ti permettere mai più!» tutto d’un tratto si richiusero su di lei, intrappolandola e stringendola in uno spazio angusto che a malapena la conteneva «Mai più!» l’estremità appuntita di un ultimo masso centrale fece capolino dal suolo, pronto a impalarla «Mai più!» con violenza tale da far tremare la terra, infine emerse dal terreno.

Un tuono esplose, squassando l’aria calda.

Il bagliore di un lampo si profilò fra le sbarre di pietra, ora tomba della Regina di Phantasia, della Guardiana della Fantasia, della custode del pianeta Exodus. Come allertati dall’accaduto, uno stormo di uccelli gracchiò in lontananza, volando via fra le nuvole nere illuminate a giorno dalla ragnatela di fulmini che dilaniavano il cielo.

Volarono via tutti, tranne un piccolo, insignificante, minuscolo, passero bianco dalle ali di perla, che invece tornò indietro; goffamente, si posò su di un arbusto dall’altra riva del fiume, a poche decine di metri da Madre Natura.

Il tempo che il ritmico alzarsi e abbassarsi del suo lillipuziano petto si regolasse, e venne avvolto da una nuvola rosata che lo strinse in un abbraccio morbido, candido, materno, al riparo dalle intemperie che lo circondavano; persino le saette e la pioggia battente ora grandine, infatti, non sfioravano quella sfera dei colori dell’alba, venendo respinti ancor prima che ne toccassero la superficie liscia oltre ogni umana concezione.

Tempo al tempo, e la Pitchiner si sarebbe pentita di non aver dato peso a quel curioso fenomeno atmosferico.

Lentamente, senza fretta, e quel soffice bozzolo andò sfogliandosi strato dopo strato, coltre nebbiosa dopo coltre nebbiosa, lasciando che sottili fasci di luce dorata ne fuoriuscissero frementi, tremolanti, come se fino ad ora non avessero atteso altro che librarsi nel cielo come farfalle umide appena uscite dalla loro crisalide.

E, proprio come un insetto che lascia il proprio bozzolo, anche da quella sottile foschia si schiusero quattro immense ali color madreperla simili a quelle di una libellula, coperte superiormente da un soffice e spesso strato di piume nivee la cui attaccatura andava perdendosi in una cascata fluttuante dai colori di un brillante arcobaleno verde acqua e azzurro e violetto e rosa, un arcobaleno che finiva a terra e si originava sul capo coronato dal corno d’oro dell’ultima principessa Starequus, splendente e raggiante come mai prima d’ora.

Ritta sui propri zoccoli dorati, a mostrarsi fiera letteralmente come mamma l’aveva fatta, Harmonia se ne stava lì, sul margine del fiume opposto a quello dell’altra, la lunghissima coda che galleggiava nell’etere circondandola e perdendosi fra i capelli nebulosi tipici della sua gente.

Fino a quel momento aveva giocato, si era concessa di conservare durante lo scontro quella forma da centauressa a lei tanto cara pensando di poter fare a meno della quantità di magia e concentrazione necessari a mantenerla, ma si era sbagliata. Si era sbagliata, sì, e allora aveva rimediato: niente uso dei poteri per cambiare i propri connotati rispetto all’originale, adesso, solo il corpo umano dotato di zampe equine e ricoperto da una morbida peluria bianca -più lunga e folta sulle estremità degli arti, che s’interrompeva giusto sul petto e sul volto- che denotava senza ombra di dubbio, che urlava, a quale razza appartenesse.

La razza che avrebbe rispedito Madre Natura nel buco di regno perduto dal quale proveniva, per la precisione.

Sebbene però fuori stesse ostentando tanta regalità e sicurezza, dentro di sé la regina tirò un profondo, lunghissimo, necessario, sospiro di sollievo: meno male che aveva trovato da qualche parte la forza per trasformarsi all’ultimo, perché in caso contrario non era poi così certa che ne sarebbe uscita intera!

Poco importava: le era andata di lusso, ora aveva il dovere di sfruttare al massimo quel colpo di fortuna che il fato le aveva concesso.

 

Senza attendere che Emily Jane recuperasse la mandibola che -da quanto se ne stava con la bocca aperta- pareva esserle caduta per terra, Harmonia mosse qualche passo verso la riva, gli zoccoli che lasciavano dietro di sé piccole tracce luminescenti.

Si fermò sul ciglio del fiume reso grosso dalla tempesta, talmente intimorita dal rivedere una creatura millenaria che deviava le proprie gocce ancor prima di sfiorarle la pelle.

«Credevi di avermi ucciso, ma la verità è che non morirò mai, non posso morire: fino a quando ci sarà anche un solo suddito che necessiterà del mio aiuto, bambino o adulto o vecchio che sia, a qualsiasi razza apparterrà e in qualunque tipo di rapporto mi troverò con lui, allora io ci sarò, e sarò pronta a offrirgli i miei servigi».

Improvvisamente, il suo corpo venne come cosparso da una nebbiolina argentea che le si depositò sulla pelle, aderendo ad essa; qualche istante, e suddetta nebbia si tramutò in un’armatura finemente lavorata dello stesso colore, sulle spalle un mantello blu notte cosparso di puntini brillanti che parevano stelle.

«Sono la regina, ma prima di essere colei che porta la corona sono sono la serva, l’amica e la madre della mia gente: prima di sedermi a fare colazione mi assicuro che abbiano il cibo di cui necessitano, prima di riposarmi mi curo che possano dormire sonni tranquilli, prima di concedermi qualsiasi cosa non programmata mi assicuro che un mio lusso non incida sulla qualità delle loro vite. Sono contenta quando c’è un nuovo nato, festeggio insieme a loro dopo che ho officiato un’unione o un matrimonio, piango con e per loro quando qualcuno ci lascia».

Allargò le braccia.

Tutto d’un tratto, materializzatosi dal nulla, in una mano le comparve un’imponente lancia da giostra dello stesso color crema del pugnale di prima, l’elsa che ricordava una testa di unicorno dagli occhi cristallini e la lama costituita dal corno dell’animale.

«Non lotto per me stessa, per la ricchezza, per l’onore, per la vendetta o per dimostrare la mia superiorità a chicchessia: lotto per il mio popolo, perché tragedie come quella di sei millenni fa non si ripetano, perché non ci siano più bambini costretti a veder morire impotenti i propri genitori come è successo a me, perché il futuro di coloro che mi hanno affidato le loro vite, quelle dei loro figli e dei loro nipoti, possa sempre essere luminoso e sereno».

Nell’altra mano, invece, prese forma uno scudo allungato che le andava dalla vita fino a terra, il pezzo centrale formato dalla testa di un cavallo e il resto della protezione offerta dalle piume metalliche dello stesso che la circondavano.

Si calò l’elmo.

«Il mio nome è Harmonia, Regina di Phantasia, principessa degli Starequus, Guardiana della Fantasia, protettrice del pianeta Exodus, ultima della mia specie» puntò l’arma in direzione di Madre Natura «e finché il mio cuore batterà, finché le gambe mi reggeranno, respingerò chiunque osi mettersi sulla strada fra i miei sudditi e la loro felicità».

 

 

Clap, clap, clap.

 

 

Degli applausi furono tutto ciò che provenne dall’altra parte del fiume, i palmi legnosi della Pitchiner che s’incontravano svogliatamente producendo uno stridio fastidioso. Con un rapido movimento del capo, si scostò dagli occhi i viticci fioriti che le spuntavano fra i capelli corvini.

«Tante belle parole, non lo metto in dubbio, ma se c’è una cosa che so per certa è che nessuno ha mai vinto una guerra con discorsi strappalacrime sull’onore e sull’ammmore per i propri sudditi e quel genere di stronzate da adolescenti» rise.

«Senza tanti giri di parole, mi hai dunque chiesto di scegliere fra le buone maniere e la violenza?»

Harmonia annuì.

Di rimando, la rivale avanzò di qualche metro verso le sponde del canale, l’erba che -alla faccia dell’essere Madre Natura- s’inaridiva ad ogni suo passo. Si fermò.

Con lo scettro stretto nell’altra mano, alzò un indice: come rispondendo a un suo comando, sassi e pietre e persino la ghiaia del fiume s’illuminarono di un bagliore smeraldo, levandosi dalle acque e dalla terra per iniziare a levitare a mezz’aria intorno alla figlia dell’Uomo Nero.

Sorrise.

«Scelgo la violenza».

Un cenno, e quelli che qualche istante prima non erano stati altro che cumuli di rocce di ogni forma e grandezza andarono aggregandosi l’uno con l’altro, pezzo per pezzo, assumendo sembianze che nel loro essere grottesche e terribilmente deformi -fra teste minute su corpi enormi e viceversa, arti mancanti o di dimensioni differenti l’uno dall’altro, occhi in più e occhi in meno- parevano umanoidi.

A vedersi comparire davanti una manciata di imponenti golem, la Starequus -che avrebbe dovuto quantomeno essere impressionata, se non dall’indicibile bruttura di quegli esseri, almeno dalla superiorità numerica dell’altra- non si scompose per nulla.

Chiuse gli occhi, il corno sulla fronte che prese a baluginare di una luce perlacea la quale, poco dopo, mutò in uno e poi due e poi tre sottili cerchi dello stesso colore che le cinsero il capo.

«Nîn o Chithaeglir lasto beth daer» le venature iridescenti delle sue ali presero a brillare a intermittenza, come se vi si stesse incanalando da un qualche tipo di potente magia «rimmo nîn Kelusindi dan in Hatha Laurinque».

Ma non accadde nulla.

La Pitchiner scoppiò a ridere, intanto che i suoi giganti di pietra si gettavano nel torrente per attraversarlo e raggiungere la sovrana.

«È così che pensi di sconfiggermi? Blaterando parole totalmente a caso?» la schernì. Allargò le braccia «Se qualcuno che millanta di essere chissà quale minaccia ma poi non sa fare altro che parlare è il massimo sul quale Exodus possa fare affidamento per proteggersi, allora ti concedo di andare a dire ai bambini di iniziare a recitare le proprie preghierine, perché fra poco ne avranno un estremo bisogno!»

Nessuna reazione provenne dall’altra donna, che continuò a recitare quella formula imperterrita, irremovibile, solenne nella sua immobilità: quei mostri erano sempre più vicini, eppure Harmonia era calma, tranquilla, totalmente serena, lo era persino di fronte al fiume che sembrava starsi prosciugando!

Era pazza? No, era semplicemente paziente.

E la sua pazienza venne ricompensata.

Nel preciso istante in cui tutte quante le creature si trovarono nel tragitto fra lei e la loro padrona, rigagnoli di dimensioni sempre crescenti iniziarono a scorrere sul letto quasi asciutto del fiume, attirando l’attenzione di quegli uomini di freddo sasso senza cuore né anima che, finalmente, si girarono verso la direzione dalla quale proveniva quello strano fenomeno. Lo scrosciare dell’acqua era ormai assordante, talmente tanto che i ciottoli rimasti a terra iniziarono a tremare prima piano, in modo quasi impercettibile, poi più forte, sempre più forte, fino a quando la terra stessa non venne scossa da violenti tremori uniti a suoni infernali, assordanti, come se le viscere del mondo stessero venendo attraversate da un branco di cavalli scalpitanti.

Che poi furono precisamente ciò che si palesò davanti agli occhi increduli di Madre Natura qualche secondo dopo, quando il fiume si riversò sì sul proprio letto di fango e sabbia, ma lo fece con la forza e la forma di un’onda di grandi e limpidi stalloni che al loro interno custodivano alghe e pesci e qualsiasi cosa quel torrente portasse con sé, una carica selvaggia di equini che nitrivano furiosi sbuffando vapore e galoppando già per il fiume che costituivano travolgendo qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino.

 

Golem compresi.

 

Una volta abbattuti quei giganti, un’innaturale calma piatta tornò a dominare il corso d’acqua, ormai quieto e silenzioso com’era sempre stato.

Una soddisfatta e sorridente Harmonia avvicinò una mano all’orecchio, protendendosi verso l’avversaria come a voler sentire meglio.

«Stavi dicendo qualcosa a proposito del mio “blaterare parole a caso”? Sono costernata, ma l’assordante rumore della vittoria ha coperto le tue parole, saresti così gentile da ripeterle a quest’anziana puledra?»

Non l’avesse mai detto.

Dire che Emily Jane fosse furiosa, non sarebbe bastato nemmeno a descrivere la sommità dell’iceberg di rabbia e odio e frustrazione che quella benedetta ragazza covava dentro di sé.

Senza darsi tregua per permettere al suo corpo -adulto, sì, ma non più abituato a sostenere i ritmi imposti da un utilizzo così intenso dei propri poteri- di riprendersi, evocò altri golem di pietra ancora più grandi di quelli di prima.

«Taci! TACI! STAI ZITTA! DEVI STARE ZITTA! ZITTA!» le gridò contro con quanto fiato aveva in corpo, la gola che le bruciava per lo sforzo.

Non contenta, completamente in balìa della necessità vitale di eliminare la Regina di Phantasia, ignorando ogni segnale che il suo cervello logorato dal rancore le mandasse intimandole di fermarsi, ampliò il proprio esercito con qualsiasi cosa le venisse in mente: creature alate simili a pipistrelli che trafissero le nuvole trascinando i fulmini dietro di sé, radici improvvisamente trasformatesi in serpenti grassi e sibilanti, fiere ruggenti emerse dalle voragini che si stavano aprendo nel suolo -le cui striature sul corpo roccioso lasciavano intravedere il magma che ribolliva nei loro corpi- e mille altri mostri.

Infine, aggiunse anche il carico da novanta: elefanti.

Colossali elefanti di pietra e legno e liane che tenevano insieme il tutto, bestie alte almeno venti metri dotate di tre paia di enormi zanne di ghiaccio simili a quelle di un mammut una più grande dell’altra, una più spaventosa dell’altra, dove quello più imponenti -che si snodavano dalla testa dell’animale fino a terra, incurvandosi orizzontalmente verso l’interno- potevano tranquillamente essere utilizzate per svolgere lo stesso lavoro di uno spazzaneve: travolgere di tutto.

E i Mûmakil della battaglia dei Campi del Pelennor potevano accompagnare solo.

Un rivolo di sangue le colò dal naso, scorrendo sulla corteccia che stava sempre più spandendosi sul suo volto: doveva fermarsi prima che fossero i suoi poteri a controllare lei e non il contrario, ne era consapevole, ma non poteva, non voleva, farlo. La vendetta era tutto ciò che la guidava, e la vendetta sarebbe stato ciò che avrebbe ottenuto a fine giornata: non importava il prezzo, non importava se per raggiungerla avrebbe dovuto annegare nelle sabbie mobili della follia più di quanto già non ci fosse dentro, a dirla tutta non le importava nemmeno dello stare rischiando la propria vita: finché non avesse avuto ciò che bramava disperatamente da trent’anni a quella parte, allora non avrebbe arretrato nemmeno di un passo.

Alzò lo scettro dinanzi a sé, indicando la regina sua rivale ai propri mostri.

«Prova a usarla adesso, la tua magica acqua frizzante scacciademoni! Vediamo se farai ancora la fichettina, una volta che sarai ridotta a una crepê farcita con sangue d’unicorno e codette arcobaleno! È finito il tempo delle mele, PUTTANAH!»

Un cenno, e quelle creature si riversarono in terra: verso di lei “solamente” i pachidermi, verso il limite del Tauremorna e la città il resto di loro.

Con quella scena davanti agli occhi, Harmonia non poté fare altro che ingoiare faticosamente quel groppo che le chiudeva la gola, inspirare profondamente e, infine, prepararsi al contrattacco: c’era un intero pianeta che contava sulla sua vittoria, non poteva deluderlo.

Strinse le dita intorno alle proprie armi fino a sentire dolore, comandando ai propri occhi lucidi di ricacciare indietro le lacrime che stavano per solcarle le guance: svariati soldati sarebbero morti quel giorno, padri e madri di famiglia avrebbero perso la vita sul campo di battaglia, e a lei sarebbe toccato l’infame compito di spiegare ai loro figli di come fossero rimasti orfani.

Non era colpa sua, aveva fatto e stava facendo il possibile, di certo non poteva salvare tutti… esattamente come non aveva potuto farlo seimila anni prima, quando lei-

No, non avrebbe permesso al proprio disturbo post traumatico da stress di avere la meglio proprio ora, non era un lusso che poteva concedersi, non sul campo di battaglia: quella era la guerra, e in guerra si muore.

Punto.

Il suo esercito se la sarebbe cavata egregiamente, le Ophidians si sarebbero difese da sole senza problemi, e lei li avrebbe ripagati sconfiggendo la Pitchiner il prima possibile, così da recidere alla radice gli umuncoli da lei generati. Ai figli dei caduti, avrebbe detto la stessa identica cosa che si era detta lei in prima persona per sei lunghissimi millenni, in quei momenti bui durante i quali la nostalgia del calore delle ali di sua madre e delle braccia forti di suo padre le attanagliava l’anima: i loro genitori erano caduti come eroi, e come tali sarebbero stati ricordati.

Sorrise: sarebbe andato tutto bene, lo avrebbe fatto andare bene.

Mossa dalla forza che le donava quella nuova consapevolezza, Harmonia iniziò a squadrare quella manciata di mastodontici elefanti che le venivano incontro: una mezza dozzina, tutti tremendamente grandi, ma quello li rendeva solo bersagli più facili da colpire.

Senza indugiare oltre, spalancò le ali e si alzò in volo.

Destreggiandosi fra le gocce di pioggia più taglienti della lama che aveva nella mano, zigzagando fra un fulmine e una nube che le oscurava temporaneamente la vista, a furia di sferzare furiosamente l’aria le sue ali la portarono in breve fra a quelle montagne erranti. Avvicinarsi, tuttavia, non fu altrettanto semplice: tralasciando l’attenzione che -se non voleva finire impigliata e schiacciata fra le zanne- doveva porgere al non volare troppo rasoterra, il problema maggiore era costituito dalle interminabili proboscidi di quelle bestie che, come braccia provenienti dagli inferi, si levavano e dimenavano nel cielo a catturare qualsiasi cosa o animale o persona capitasse loro a tiro; già un paio di volte si era trovata a dover virare all’ultimo per evitarle, ora non poteva più permettersi errori.

Impegnata a riflettere com’era, non si accorse di quando arrivò il terzo colpo.

Fortunatamente per lei, il suo corpo agì istintivamente, senza consultarsi col cervello: ancoratasi con la coda a una delle zanne, effettuò una rapidissima sterzata -che per poco non le fece perdere la presa ed essere scagliata chissà dove, da quanto fu improvvisa!- in volo che portò le estremità affilate delle ali a sfiorare la pelle corazzata dell’animale, penetrando a fondo in essa.

Un giro della morte, e la proboscide venne tranciata di netto. Cadde a terra, agitandosi come la coda di una lucertola.

Completando quell’evoluzione, si trovò -senza sapere precisamente come, ma visto il risultato le modalità non erano poi così importanti- sul capo dell’animale, ovviamente ormai imbizzarrito a causa della ferita; il solo restare attaccata a quella bestia che correva e sbandava e s’inarcava disperata era una sfida, ma non si arrese: doveva andare fino in fondo, letteralmente.

In balìa delle intemperie a venti metri d’altezza, costretta a scansarsi o appiattirsi ogni tre per due per evitare le forze aeree di Emily Jane, con la sola presa delle ali nelle carni a mantenerla in un equilibrio che chiamare precario sarebbe stato un complimento troppo grande, afferrò la lancia con due mani e ne poggiò la punta sulla pellaccia dell’elefante, in quella minuta area scoperta nella congiunzione fra la testa e il collo. La spinse dentro fino all’impugnatura, decisa.

Un barrito agonizzante si sparse tutt’intorno.

L’animale rallentò la propria corsa, tramutandola prima in un cammino lento a testa bassa, sempre più pericolosamente bassa, poi in un’andatura ondeggiante, sconclusionata, senza ritmo, un trascinarsi dietro le zampe molli che, infine, cedettero completamente sotto il loro stesso peso, facendo crollare al suolo quell’abominio della natura; mentre questo collassava, Harmonia si calò giù per le zanne di ghiaccio usandole come uno scivolo, ruzzolando via giusto pochissimi istanti prima che quelle s’infrangessero come bicchieri di cristalli sul pavimento.

Nemmeno il tempo di riprendere fiato, che subito l’ombra di un’imponente zampa le si profilò sopra la testa, talmente vicina da sfiorarle addirittura i capelli.

 

Non poteva volare via: l’altro arto era troppo vicino alle sue ali perché queste non si impigliassero.

Non poteva lanciarsi di lato: sarebbe stata troppo lenta.

Non poteva usare la magia: il suo cervello sarebbe stato ridotto in poltiglia ancora prima di riuscire a pronunciare qualsivoglia formula o incantesimo.

Fece l’unica cosa che poteva fare: chiuse gli occhi.

 

Un boato squassò la terra.

Il tempo di riaprire le palpebre, e una voragine si aprì dietro le sue spalle, inghiottendo l’elefante che la sovrastava; senza più nulla intorno che la ostacolasse, riuscì a spiccare il volo all’ultimo momento, giusto una manciata di secondi prima che quel buco nero improvvisamente apertosi nel terreno inghiottisse anche lei come aveva fatto con la povera bestia.

Povera bestia che, adesso, se ne stava sospesa a più di un centinaio di metri d’altezza, intrappolata e stritolata fra le gigantesche fauci a tenaglia di una creatura ben più grossa di lei, capace di sventrare il terreno e sbriciolare la pietra come pasta frolla: vermi di terra, diggerwurm. Adulti.

Sul capo di quello emerso dinanzi a lei, con tanto di briglie -briglie!- alla mano, una perfettamente calma Alice Castle Wonderwood che salutava con la manina l’amica.

«Ehi! La prossima volta ricordati di mandarmi l’invito alla festa!» gridò da lassù.

La regina -ora nella parte di colei alla quale rischiava di cadere la mandibola per il troppo stupore- la fissò sbalordita: alla faccia del tempismo! Si era premurata -e vergognata- di non dirle nulla temendo che desse di matto come solito, considerando i precedenti con Madre Natura risalenti a trent’anni prima, ma a quanto pare tenerla all’oscuro della spedizione non era servito per tenerla lontano dal campo di battaglia.

Senza che la sovrana potesse risponderle, Alice le indicò l’orizzonte.

«Ho portato anche il resto della cavalleria, per quanto non sia dato a sapere se venuti solo per combattere, o anche per assicurarsi che la sanità mentale non mi abbandoni durante la battaglia: in quel caso, sarei un problema beeeeen peggiore di Miss Bellicapelli!» ridacchiò.

Non sapendo come ribattere, Harmonia girò il capo dove l’altra aveva additato: dal folto del Tauremorna, sulle cime dei vulcani più o meno attivi di Quetzalli, una vera e propria valanga di metalupi che digradavano giù per le montagne con la stessa facilità e agilità con le quali avrebbe potuto farlo una capra; in testa a loro, affiancata dai suoi pelosi genitori adottivi, Scarlet in groppa a Spettro, nelle mani quella che riconobbe subito trattarsi della Spada Vorpale.

Aveva tirato fuori l’artiglieria pesante, quella ragazzetta bipolare, faceva davvero sul serio!

E che tutti stessero facendo sul serio si capì presto: diggerwurm che sbucavano dalla terra inghiottendo qualsiasi cosa si trovasse sopra i loro musi, lupi che si gettavano a zanne spiegate sulle creature della Pitchiner disfandole pezzo per pezzo, pietra dopo pietra, la Cacciatrice che -lama alla mano- passava in mezzo ai pachidermi e, con un colpo netto, scavava con essa profondissimi solchi nelle loro tozze zampe perché si ribaltassero e fossero alla totale mercé dei suoi fratelli e sorelle.

La Starequus si concesse un mezzo sorriso: di quel passo, il grosso delle truppe di Madre Natura sarebbe stato abbattuto prima che potesse raggiungere il bosco o la città, il che per la sua gente avrebbe significato meno tombe da scavare, meno morti da piangere, meno bambini da lasciare orfani.

Sperando che avesse ragione, ovviamente, il che -a guardare Emily Jane- non era proprio da dare per scontato.

Più pioggia, fulmini, più tornado, più crepe nel suolo, più mostri, più di tutto ciò che lo scettro le consentiva di evocare: stava dando di matto, quella benedetta ragazza, e ne era consapevole tanto quanto lo era che, non facendolo, sarebbe stata sconfitta per l’ennesima volta.

Specchiandosi in una pozzanghera ai suoi piedi, si toccò il viso: cos’era rimasto della donna che era stata? C’era ancora lei sotto quella corteccia che, lentamente ma inesorabilmente, a furia di utilizzare la magia, la stava letteralmente divorando? Come aveva fatto a ridursi in quello stato pietoso?

Le bastò alzare lo sguardo per capirlo: le sue bestie venivano continuamente abbattute, esattamente com’era stata abbattuta lei durante quegli anni di miseria e autocommiserazione ed elemosina.

Quando il barrito dell’ennesimo elefante che collassò al suolo le riempì le orecchie, chiuse gli occhi: lo scettro brillò, e allora radici provenienti da esso iniziarono ad arrampicarsi su per il braccio, avvolgendo in poco tempo le sue stanche membra in un abbraccio caldo, accogliente, protettivo, un po’ come quello offerto del ventre materno; si richiusero sul suo capo, isolandola dal mondo, dalle umiliazioni, dall’imminente sconfitta.

 

Che si fottesse la sua mente che gridava di smetterla, di fermarsi, di non oltrepassare quel limite che l’avrebbe resa schiava dei propri stessi poteri.

Che si fottesse la raccomandazione di Typhan di non utilizzare mai, per nessun motivo, per qualsiasi cosa al mondo, la sua magia al pieno della potenza, pena il diventare incapace di distinguere il bene dal male, la verità dalla menzogna, la realtà dalla fantasia.

Che si fottessero Pitch e Gwenllian e chiunque le avesse remato contro nel suo millennio e mezzo di vita immortale.

 

Adesso, di Emily Jane Pitchiner non restava che un guscio di puro potere ruggente, ma senza coscienza: ormai era una divinità, un essere superiore a quella plebaglia con la quale era stata costretta a condivide l’ossigeno per troppo tempo, e pretendeva i propri sudditi.

Con i suoi nuovi e luminosi occhi di dea, ora vedeva chiaramente il passato e il presente e il futuro, chi era stata e chi era e chi sarebbe potuta e dovuta essere, vedeva razze estinte e razze che ancora dovevano nascere, frasi pronunciate per cambiare il mondo e frasi che sarebbero state pronunciate per distruggerlo, in quel bozzolo vegetale riusciva addirittura a scorgere pianeti sconosciuti e galassie mai osservate e universi lontani, tutti che galleggiavano nell’occhio di una creatura incarnazione stessa dell’esistenza e della non-esistenza.

E vedeva anche quel bozzolo diventare prima giallo, poi marrone scuro, infine nero, le radici -secche e senza vita- che si staccavano e cadevano a terra, denudandola: la sveglia era suonata destandola dal sogno, l’incantesimo si era spezzato, la carrozza era tornata ad essere una zucca.

Il palmo di una mano -forse reale, forse frutto della sua immaginazione- fece irruzione nel suo mondo che stava crollando a pezzi, mostrandole un minuscolo frammento di legno scuro; un’altra mano le indicò un punto preciso sul suo artefatto: allora, e solo allora, notò che ne mancava un pezzettino lì, proprio sotto l’incrocio fra una venatura e un nodo.

Mentre avvertiva chiaramente lo scettro scivolarle fra le dita, sentì un respiro caldo vicino all’orecchio.

«Mai fidarsi di chi mangia i faciola con la forchetta anziché il cucchiaio».

 

 

 

 

 

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Angolino dell’autrice

 

Autrice in ritardo di una settimana, perché si è accorta giusto l’altro giorno che il capitolo era talmente LUNGO da necessitare -dopo attente consultazioni- di essere diviso in due capitoli, come ho appunto fatto: chiedo venia, mi faccio perdonare con i millemila riferimenti al “Signore degli Anelli” e quelli agli Ugandan Knuckles! :’D

Detto questo, vi assicuro che col capitolo 19 terminerà la “saga” di Quetzalli che perdura da nonricordoquanti capitoli, che se la Th’anera Yuvenciae vuole ormai siamo agli sgoccioli di questa long :) je la famo regà!

Dopo i consueti ringraziamenti, sotto vi lascio la traduzione della frase detta da Harmonia, che poi è la stessa -con qualche modifica sui nomi- pronunciata da Arwen Undómiel per respingere l’attacco dei Nazgul sul fiume Bruinen.

 

“Nîn o Chithaeglir lasto beth daer, rimmo nîn Kelusindi dan in Hatha Laurinque” = “acque delle montagne di fuoco, ascoltate le mie parole: scorrete acque del Kelusindi contro lo spettro di Madre Natura”

 

Alla prossima!

 

   
 
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