CAPITOLO QUATTRO
Giunsi a casa tutta frastornata. Gli eventi mi stavano
travolgendo, come le mie continue riflessioni, e non sapevo ormai più cosa
dovevo realmente pensare.
In primis, a riguardo del mio ragazzo; mi veniva
continuamente e incessantemente da chiedermi se fosse colpa sua, per la
situazione in cui ci trovavamo, o se fosse colpa dei suoi genitori, siccome
anche suo padre, a quanto pareva, aveva voluto metterci lo zampino.
Oppure era addirittura Marco a giostrare i suoi genitori?
Questa domanda mi distruggeva. Se così fosse stato, e se avessi scoperto una
cosa del genere, l’avrei lasciato subito e per sempre. Non mi andava di essere
presa in giro in quel modo.
Prima di entrare nell’appartata abitazione di mia madre,
sospirai un paio di volte di fronte alla porta d’ingresso, in modo da cercare
di alleviare la mia espressione corrucciata e disturbata, ma ciò giovò a poco,
se non a lasciar scorrere altri preziosi minuti e ad aumentare il mio ritardo,
già considerevole.
Entrai, tutta sudata, e mi diressi in bagno a lavarmi le
mani, lasciando la mia borsetta appesa nell’attaccapanni.
“Ben tornata”, mi salutò la mamma, grintosa, dalla cucina.
“Perdona il mio ritardo, avrei dovuto essere qui già molto
prima, ma purtroppo sono stata trattenuta”, le dissi a voce alta, asciugandomi
le mani e raggiungendola.
Mi misi le mani sulla bocca, dalla contentezza, quando vidi
che, anche per quel pranzo, lei aveva strafatto e la tavola era imbastita come
per una festa.
“Grazie, grazie, grazie!”, quasi le saltai al collo, mentre
un sorriso tornava a riaffiorare sul mio viso, mentre vidi che il mio piatto
era già ricolmo delle gustosissime tagliatelle al ragù di piselli, la
specialità che un tempo era stata tutta di mia nonna e che adoravo.
“Spero non sia accaduto qualcosa di grave”, aggiunse mia
madre, comunque rincuorata dalla felicità e dalla gratitudine che le stavo
dimostrando. E, puntualmente, dopo quella frase persi tutto il mio ardore.
Divenni mogia e mi lasciai scivolare sulla mia sedia, già
discostata dal tavolo. In realtà, non sapevo più cosa pensare né dove battere
la testa; non mi era chiaro nulla e non sapevo che fare. Mi venne spontaneo
aprirmi con mia madre.
Mentre mangiavo il mio mega piatto di pasta, le narrai tutto
quello che mi era accaduto poco prima, a riguardo del signor Benedetti e di ciò
che mi aveva detto e proposto. Naturalmente, cercavo di lottare contro il mio
senso di repulsione mentre mangiavo, per poter godere dell’ottimale gusto della
mia pietanza preferita, che non gustavo da tantissimo tempo. Non riuscivo mai a
mettermi ai fornelli, quando convivevo con Marco, siccome ero sempre sommersa
di impegni e di cose da fare.
Mia madre mi ascoltò senza mai interrompermi, mangiando anche
lei, a piccoli bocconi, e non disse assolutamente nulla fintanto che non ebbi
finito il mio resoconto.
“Uhm, non saprei dove battere la testa pure io, se mi trovassi
in una situazione del genere”, infatti disse, mentre riprendevo fiato.
“Consigli?”, le chiesi, titubante come una bambina.
Lei mi sorrise caldamente.
“Di seguire il tuo cuore e quello che pensi”.
“Non ho chiaro nulla, mamma. Non so proprio cosa pensare, e
il mio cuore è come diviso. Diviso tra l’amore che provo per Marco, e il vuoto
freddo che provo ora, quando ripenso a lui e alla nostra convivenza”.
Non mi nascosi dietro a inutili giri di parole.
“Capisco. Beh, io ti consiglio di aspettare; secondo me,
presto avrai tutto più chiaro”, mi suggerì, ed io non potei far altro che
annuire. Era proprio così, non potevo far altro che starmene calma ed
attendere.
La mia parte l’avevo fatta; stava al mio ragazzo fare il suo
passo avanti e dimostrare che era un uomo interessato e innamorato, in quel
momento. Anche se la distanza da lui e dal suo corpo mi turbava.
Mi mancavano i nostri contatti, le nostre frivolezze, le
nostre piccole gioie a letto, la passione che investivamo tutta nei nostri
istanti più intimi… eppure, lui mi aveva rivolto uno scherzetto che non mi era
piaciuto, e odiavo come si stava evolvendo la questione, siccome sembrava che
più le ore passavano, più fossimo distanti. Come se il divario stesse
aumentando, ed io stessa avevo paura che, anche a breve, si potesse tramutare
in una voragine impossibile da arginare.
Forse, in meno di un giorno stavamo già mandando alla malora
anni e anni di frequentazioni e di momenti condivisi.
Sei anni non erano stati pochi; avevo conosciuto Marco a
vent’anni, in discoteca, quando per sbaglio mi aveva pestato un piede, e per
scusarsi mi aveva offerto da bere. Da quegli istanti in poi, eravamo diventati
inseparabili. Ci capivamo ed andavamo d’accordo, tutto sommato.
Il nostro era sempre stato un rapporto molto semplice, basato
sulle piccole cose, e così dopo quattro anni di fidanzamento, frammentati da
qualche piccola pausa a causa di qualche breve discussione tipica di tutti i
giovani innamorati, mai nulla di grave comunque, avevamo pensato di provare a
scegliere noi stessi il nostro destino, e di tentare la sorte cominciando una
convivenza.
Ma durante questa stessa convivenza, il suo lato più da
smidollato era venuto a galla, in maniera sempre più evidente, ed io avevo
parlato tanto e a vanvera; il risultato di ciò era quello che stavamo vivendo
in quel momento.
Nonostante tutto, ci eravamo sempre amati e non ci eravamo
mai traditi, e quella breve pausa l’avevo scelta solo per fargli capire che non
poteva fare per sempre il bambino, e che io ero finalmente pronta ad avere un
vero uomo a mio fianco. Ma a quanto pareva, la metamorfosi finale che mi
sarebbe tanto piaciuto vedere aveva voglia di farsi attendere un pochino. Ed io
avrei atteso il giusto tempo.
“Hai ragione, mamma. Saprò aspettare”, dissi a mia madre,
lasciando andare la mia sconsolazione, per afferrare una bella tazzona di
cioccolata calda che pure in estate non passava mai di moda.
“Certo che ne ha avuta della faccia tosta, Valerio”, osservò
candidamente la mia scaltra interlocutrice. Lei conosceva da molto tempo prima
di me il padre di Marco, essendo stato il suo datore di lavoro per alcuni anni
consecutivi, un trentennio prima.
Non l’aveva mai avuto in antipatia, però; quello era solo un
problema mio.
“Il problema è che temo che ci sia Marco dietro a tutto ciò.
Insomma, io lo lascio per qualche ora, lui torna a casa sua a piagnucolare dai
suoi e il padre si presenta da lì a poco, per importunarmi con le sue stupide
idee… non so, potrebbe anche essere una coincidenza e che Valerio abbia scelto
da solo di venire da me a propormi certe cose, però è come se una parte del mio
animo affermasse il contrario”, ammisi, ormai senza più difficoltà a
riconoscere Marco come un giovane disperato che poteva aver fatto una
sceneggiata per spingere suo padre a farsi avanti in un modo così deciso e
netto.
“Non so se dietro ci sta il tuo ragazzo oppure no, questo non
possiamo saperlo al momento. Ma lui si è fatto sentire? Ti ha almeno cercata, o
anche semplicemente mandato un messaggio sul cellulare?”, tornò a chiedermi mia
madre, mentre cominciava a sbagagliare.
Mi venne da storcere il naso dal disappunto.
“No. Silenzio assoluto”.
La mamma si fermò un attimo e mi lanciò una lunga occhiata.
“Aspetta quello che ti dirà lui. Se ci tiene a te, si farà
avanti. Altrimenti, lascialo! Non vedi che rammollito che è? E poi, sei ancora
tanto giovane, e sei pure carina, ed io credo che tu possa trovare di meglio…”.
Mia madre si interruppe solo quando notò che aveva toccato un
tasto sbagliato.
Di fronte alle sue parole dubbiose rivolte contro Marco, io
mi ero alzata in piedi.
“E’ meglio che parta, tra poco devo riprendere il mio turno
al bar”, le dissi, semplicemente, tornando a prendere la mia borsa ed
andandomene. Non potevo permettere che quei suoi pareri soggettivi finissero
per scombussolare ulteriormente le idee che avevo per la testa, e magari
commettere sciocchezze a causa d’altri.
Era vero che ero stata io a chiedere consigli a mia madre, ma
non le avevo concesso il lusso di sparlare in quel modo, che tra l’altro se
detto da lei, la donna succube del marito ubriacone per un ventennio
abbondante, era come ascoltare barzellette.
Non mi preoccupai quindi di averla piantata in asso in quel
modo; la mia saggia interlocutrice era una donna intelligente, ed ero certa che
mi avrebbe capita e scusata, siccome quello non era proprio il momento ideale
per me per udire simili discorsi, che rischiavano solo di aggravare il
problema, invece di risolverlo.
Mi accinsi quindi a ripercorrere il tragitto che mi separava
da L’angolo della bontà, e a
riprendere il mio turno. Era già l’una e trenta, e il calvario lavorativo ben
presto sarebbe tornato nel vivo, e dovevo sgombrare la mia mente da ogni altro
problema.
Di nuovo all’inferno.
C’erano dei pomeriggi in cui pensavo davvero di non farcela.
Un conto era sopravvivere durante le due ore del mattino, un altro era
affrontare la lunga tirata che andava dalle quattordici alle venti di sera.
Poi, d’estate, era ancora peggio; la mia mente volava fuori
da quel locale, andava in riva al mare, su una qualche spiaggia deserta, oppure
a sorseggiare qualche gradita bevanda fresca e gustosa… ed invece ero
incatenata lì dentro. O, meglio, ero incatenata dalle mie idee di
sopravvivenza.
Continuavo ancora a giurare a me stessa che non ero fissata
col lavoro, ma esso mi dava dignità, e si sa, ogni cosa va ben pagata, nella
vita. Quello era il prezzo per poter avere un buon stipendio a fine mese.
Dalle quattordici alle diciotto si trattava delle ore più
tranquille, giusto servire qualcosa da bere, poi qualche aperitivo. In seguito,
la gente veniva a cenare e allora si cominciava a sgobbare di più. Ma durante
quel giorni di piena estate, alle quindici non c’era nessun avventore nel
locale, a parte uno sventurato tutto tatuato e giovane che leggeva un giornale
sportivo, sorseggiando un’aranciata.
Io sudavo, nonostante l’aria condizionata, ed ero certa che
ben presto mi sarei ammalata, andando avanti di quel passo. La mia fortuna era
che non avevo nessuno, in quel momento, che mi stesse col fiato sul collo; lo
chef era andato a casa, Ilenia aveva concluso il suo turno quotidiano e le due
dipendenti part-time non coprivano quegli istanti più smorti della giornata. E
la signora Virginia, stranamente, non era appostata dietro la cassa, sul suo
sgabello sul quale stava costantemente appollaiata.
Mi misi a spazzare il pavimento, giusto in tempo per farmi
intercettare dal ragazzo, che accennò a pagare.
“Certo. Fanno un euro e trenta, in totale”, gli dissi, e
siccome la padrona non c’era da nessuna parte, attesi un attimo.
“Non ho tutta la giornata”, mi tornò a dire il cliente,
giustamente.
Allora andai alla cassa a fare lo scontrino e ad incassare il
piccolo guadagno.
Non l’avessi mai fatto. Virginia sbucò improvvisamente dal
retro, e mi fu addosso in un battibaleno, come una vera arpia.
“Quante volte ti devo dire che non ti voglio dietro la cassa?!
Il tuo posto è a servire, a spazzare e a lavare i pavimenti e il bagno. Vai a
fare immediatamente il tuo lavoro”, mi disse, quasi urlando.
Umiliata così in malo modo di fronte al giovane avventore,
anch’egli rimasto sbalordito da tale slancio della signora, che si era subito
precipitata a riprendere posto sul suo sgabello e a premere rumorosamente i
tasti della cassa, mi salirono le lacrime agli occhi e mi feci immediatamente
da parte.
Non appena ebbe consegnato lo scontrino e il giovane se ne fu
andato, Virginia tornò crudelmente a parlare.
“Te lo ripeto per l’ultima volta, e poi non lo farò più,
giuro; a pulire il locale e a servire, ok, dietro la cassa, no. Capito? La
prossima volta che ti pesco lì ti licenzio all’istante”, tornò a redarguirmi,
ormai sole.
Alzai lo sguardo dal pavimento, con umiltà e con gli occhi
umidi. Mi aveva piegato. Conoscevo la sua avversione per quel genere di
situazioni, ma il cliente aveva fretta e lei non c’era; avevo pensato di fare
una cosa giusta.
“Signora, il cliente aveva fretta, e lei non c’era da nessuna
parte…”.
“Quando ho bisogno del bagno non credo di doverlo dire a te,
o di chiedere il tuo permesso”, mi rispose, interrompendomi ed alzando la voce.
“Mi scusi, non accadrà mai più”, mi chinai ulteriormente,
sentendomi però ardere di rancore.
Aveva avuto paura che le rubassi uno spicciolo? Per qualche
motivo, altrimenti, c’era il bisogno di divorarmi in quella maniera? Lasciai in
disparte i miei interrogativi e cominciai a passare lo straccio, sconsolata.
Quello era davvero un periodo no.
Ma a volte è incredibile quanto il destino possa rimescolare
le carte in tavola.
Accadde infatti un evento davvero irrisorio, che chiunque
potrebbe considerare addirittura banale da ricordare, eppure fu da quel momento
in poi che tutto cominciò a cambiare in maniera più curiosa.
Entrò, qualche secondo dopo la fine della sfuriata che avevo
ricevuto senza pietà, un uomo che non attirò neppure la mia attenzione, mogia
com’ero, e con gli occhi umidi e arrossati che non riuscivo ad alzare da terra.
La megera era riuscita a spezzarmi definitivamente.
“Buon pomeriggio!”, esordì con il suo vocione deciso, ma
rilassato e un pizzico allegro.
Io non risposi neanche; ancora devastata psicologicamente,
troppo timida a quel punto per farmi vedere da un perfetto sconosciuto in
quello stato, lasciai che fosse la proprietaria dell’attività a fargli festa,
siccome la sentii quasi lanciare uno strillo di gioia non appena lo vide.
“Piergiorgio, che piacere averti qui! Qual buon vento…”,
cominciò a dire Virginia, abbandonando quel tono da racchia inviperita che
utilizzava sempre quando si rivolgeva ai suoi poveri dipendenti, nella medesima
maniera con cui mi aveva spiegato le sue ragioni poco prima.
Le riconoscevo che, una volta fuori da dietro a quel bancone
e lontano dagli orari di lavori, quelle poche volte che mi era capitato di
incontrarla per caso in giro per la città mi era parsa una sorta di seconda
mamma, dal tanto che era buona e premurosa. Allo stesso modo, lo era con i
clienti. Ma con i dipendenti, e in orario lavorativo, si tramutava in un
abominio insopportabile, e spesso esagerava.
Forse era solo fissata col lavoro, e voleva vedere tutto
perfetto al cospetto del suo personale punto di vista… forse era come me, in
fondo. Almeno io non mi ero ancora inacidita in quella maniera eccessiva, però,
per mia fortuna.
“Virginia cara! Figuriamoci se non mi fermavo a farti un
saluto, approfittando del fatto che ero qui nei paraggi, per motivi di lavoro”,
continuò lo sconosciuto, mentre io pulivo un tavolino.
Mi rimase subito impressa, da lì a poco, la sua voce
mascolina; era pura, senza alcuna cadenza dialettale, e di una profondità
deliziosa e perfetta, quasi melodica, maschilmente senza imperfezioni. Era un
piacere udirla.
Tuttavia sbuffai, stanca e mortificata, e continuai il mio
lavoro; mai che mi fermassi, per fare poi nell’occhio alla mia datrice di
lavoro, e rischiare un’altra linciata.
“Ti ringrazio! So che sei sempre molto impegnato. D’altronde,
un uomo come te…”.
Udii lo schiocco di un paio di baci sulle guance. Per
permettersi un simile gesto, quell’uomo doveva essere davvero molto importante
per la vita della fredda Virginia.
A quel punto, per qualche istante sollevai lo sguardo, pronto
a fissare l’estraneo, che stava ricevendo in quegli istanti un’accoglienza che
mai, da quando lavoravo in quel locale, era stata riservata a qualcuno. I due
si stavano ancora fissando amichevolmente, quando colsi, da fianco, il profilo
dell’interlocutore che stava tanto a cuore alla megera; si trattava di un
ometto di statura media, di quelli d’una volta, d’un età che, con quel primo
sguardo, non seppi affermare con certezza, ma dai capelli ancora neri e dalla
leggera barbetta ingrigita, mi venne da dargli una sessantina d’anni.
Tutto tirato a lucido, il signore era anch’egli in giacca e
cravatta e in scarpe di cuoio nero e incredibilmente luccicanti, con in mano
una ventiquattrore e una camicia bianca delicatamente ripiegata, infilata però
malamente nella maniglia che sorreggeva la valigetta anch’essa di cuoio.
Mi venne spontaneo lasciarmi sfuggire un sorriso; pensavo che
quello fosse un qualche spasimante di Virginia, e a scatenare per un attimo la
mia ilarità fu l’immaginarmi la signora che flirtava in modo più intimo con
quel signore perfettino e dall’apparenza gioviale ed amichevole, da come si era
presentato.
Poi, il sorriso mi morì naturalmente subito sulle labbra,
ricordando quant’accaduto poco prima. Non riuscivo a mandar giù quel boccone
amaro e non volevo pensare oltre alla strega.
“Ah, ma non esagerare, mia cara…! Non esagerare… troppo
buona…”, continuò a dire l’uomo, ma io smisi di prestarci caso. Avevo da finire
la pulizia dei tavoli, poi dovevo spazzare e passare lo straccio, e in seguito
dare un’occhiata ai bagni, una parte del locale che doveva essere sempre linda
e pulita al massimo… ma il mio concentrato resoconto mentale fu interrotto da
lì a qualche secondo.
“Buon pomeriggio, eh”.
Strappata dalle mie momentanee riflessioni, e sulle mie
personali dannazioni, siccome pulire il bagno era ciò che più odiavo del mio
lavoro, tornai a fissare, quella volta in modo diretto, l’uomo appena arrivato,
che si era diretto verso di me e stava prendendo posizione sulla sedia che
avevo di fronte, mentre ne spolveravo il tavolino con un panno umido.
Con il mio viso ancora leggermente arrossato per ciò che era
accaduto di recente, incontrai con uno sguardo i suoi occhi, gli occhi di
quello sconosciuto attempato; rimasi sbalordita. Incontrai infatti una
profondità struggente, che mi travolse, quasi come se fosse stato un colpo di
fulmine.
Per un istante rimasi inebetita di fronte a lui, senza
riuscire a dire una sola parola e senza riuscire ad indentificare il motivo per
cui mi ero bloccata in quel modo, ma poi capii cosa mi avesse colpito; il fatto
che si era interessato a me. Un gesto davvero gentile, sicché a parte mia
madre, pochi altri nella mia vita l’avevano mai fatto.
Certo, anche Marco, ma naturalmente a modo suo, sapendo che
comunque per un ragazzo dev’essere più complicato mostrare la propria
sensibilità.
Era vero che il signore mi aveva buttato lì quel paio
abbondante di parole in un modo che chiunque avrebbe potuto fare, ma per me, in
quel determinato momento in cui stavo per davvero sfiorando il fondo, mi parve
quasi un segno di benevolenza divina.
“Buon pomeriggio”, lo ricambiai, sforzandomi poi di sfoggiare
un sorriso, dopo qualche istante in cui avevo fissato direttamente i suoi
occhi, e lui aveva sostenuto il mio sguardo. Dovevo anche premiare la gentilezza
di avermi rivolto la parola, quando per la maggior parte dei clienti altro non
ero che un fantasma che diventava visibile solo quand’era ora di pulire, di
prendere le ordinazioni e di servire ai tavoli.
“Che ragazza dall’aspetto simpatico! Non ti avevo mai notato,
qui”, tornò a dirmi, appoggiando poi il materiale che portava con sé sulla
sedia a fianco di quella che aveva appena occupato, e distogliendo lo sguardo
da me.
“Ho assunto Isabella circa un anno e mezzo fa”, intervenne la
proprietaria, amabilmente, avvicinandosi senza permettermi di rispondere in un
qualche modo.
“Oh”, si lasciò sfuggire il signore, tornando a gettarmi
un’occhiatina furtiva e solare.
“Sai, Piergiorgio caro, sarà solo un lustro abbondante che
non ti degni di fare una capatina qui, al cospetto di una tua ormai vecchia
conoscenza”, tornò a dire Virginia, leggermente ironica, facendomi da parte con
una spintarella ed andandosi a sedere di fronte al cliente.
Rimasi allibita da quel gesto; la signora, se difficilmente
si schiodava dallo sgabello dietro la cassa, non si sedeva assolutamente mai di
fronte a qualche avventore, pure parlandogli. Compresi che tra i due doveva
esserci una conoscenza approfondita e di certo risalente al passato, e mi
sentii di troppo lì accanto a loro, soprattutto per via del fatto che nel
locale non c’era nessun altro, a parte noi tre.
Così, cercai di allontanarmi di qualche passo, nascondendo il
mio viso ancora segnato dalle mie sofferenze interiori molto recenti e
afferrando la scopa, cercando di spazzare come se nulla fosse e nessuno si
fosse mai degnato di rivolgermi la parola. Mai che io dovessi entrare di nuovo
in contrasto con la padrona.
“Ma sai… carissima Virginia… il mio lavoro… conosci le
circostanze…”, quasi borbottava il signore, di fronte a una Virginia che
conoscevo molto poco, da come si stava atteggiando in quel momento.
“Ma certo, ma certo, io stavo scherzando! Non fare così. Sai
che ti adoro, e che qui sei sempre il benvenuto”, lo rassicurò prontamente la
gentilissima signora, nei panni della buona amica appena ritrovata.
Mi venne quasi da fare una smorfia, mentre continuavo a
spazzare, compiendo qualche altro passo verso il lato opposto del locale, anche
se ormai mi restava quasi solo da cozzare contro il muro esterno, trovandomi in
un ambiente stretto e allungato. Percepii poi la risatina cortese e timida
appena abbozzata dall’uomo.
“Isabella cara, porta due caffè e due brioches! Offre la
casa”, tornò a dire Virginia, mentre io mi affrettavo ad eseguire l’ordine.
“Ma che stai dicendo?! Ma no, non disturbarti…”. E via alle
rassicurazioni cortesi del signore molto gentile, che col suo charme,
evidentemente, era riuscito anche a piegare la rigidissima proprietaria de L’angolo della bontà.
Eseguii l’ordine in tempo record, e in un battibaleno ero già
pronta a servire al tavolino ciò che era stato richiesto, dopo aver afferrato
le ultime due brioches rimaste ed aver preparato due caffè davvero invitanti, e
fui talmente tanto veloce che il cliente, ormai considerabile come ospite,
stava ancora continuando a invitare la proprietaria a non scomodarsi per lui, e
forse era davvero in imbarazzo, siccome quando recapitai l’ordinazione con l’apposito
vassoio lui era leggermente arrossato in volto.
Non lo fissai ma mi limitai a servire, con altrettanta
solerzia; mai al mondo volevo rischiare di incorrere in un altro sfogo della
megera.
“Grazie, Isabella”, disse la padrona, concedendomi un sorriso
che sembrava spontaneo e puro.
“Grazie, signorina”, ringraziò anche l’avventore, e sentii di
nuovo il peso del suo sguardo su di me, mentre gli servivo il caffè.
“Di nulla”, mi limitai naturalmente a dire, depositando anche
le brioches.
“Complimenti, Virginia! Noto che hai assunto una ragazza
molto gentile e diligente!”, disse Piergiorgio, con calore.
Gli rivolsi un mezzo sorriso colmo di gratitudine,
allontanandomi e preparandomi a tornare a spazzare. I complimenti di un cliente
erano ciò che influenzava con maggiore positività la signora; sicuramente
quelle parole appena riservate a me da quell’uomo che in effetti non era solo
un semplice cliente per lei, potevano essere decisive per me, dopo la sfuriata
di poco prima, e le promesse brutali che di tanto in tanto si lasciava
sfuggire.
Avevo un posto relativamente sicuro, essendo stata assunta da
qualche mese firmando un contratto che mi garantiva un posto fisso di lavoro,
ma i capricci della signora avrebbero potuto anche mandarlo all’aria, se si
fosse ritenuta molto insoddisfatta di me. Non sarebbe stata la prima volta che
l’avrebbe fatto.
“Ah, lo so! Ti garantisco che se Isabella non avesse
rispecchiato questi requisiti, non sarebbe stata assunta qui dentro. È una
giovane molto capace e piena di tanta voglia di fare, e soprattutto di
strafare, tanto che delle volte mi tocca rimproverarla un po’…”.
Avrei voluto accecarla, Virginia. Quanto odiavo quel tono
melenso che stava assumendo!
Per un attimo alzai la testa per ringraziarla, prima di
tornare a capo chino a spazzare.
“Mi sembra un po’ triste, però. Su con la vita, ragazza!
Senti com’è felice di averti qui la tua datrice di lavoro!”, ribatté l’uomo, in
modo gentile, tornando a rivolgersi a me.
Ecco, in maniera inconsapevole aveva appena affondato il dito
nella piaga, poiché non credevo che Virginia fosse poi così sempre contenta di
avermi assunto, ma forse questo era solo qualcosa che mi ero messa io in testa.
“Ah, sarà per quel che è accaduto poco prima… io e lei
abbiamo avuto un breve dibattito molto… ehm… nervoso”, intervenne Virginia, molto
diplomaticamente.
Chiamata in causa, non potevo farmi passare per sordomuta, e
starmene ancora a capo chino.
“Oh, non è solo per quello, signora”, mi venne spontaneo e
naturale dire.
Poi, subito dopo, ebbi l’istinto primordiale di tapparmi la
bocca con le mani, anche se logicamente non assecondai il gesto. Il continuo
stress emotivo degli ultimi due giorni mi aveva talmente tanto sfiancato da
lasciarmi aprire in quel modo ingenuo davanti a due perfetti sconosciuti, l’una
dei quali era anche un’amante della perfezione.
“Cos’è successo, carissima? Cosa ti turba così tanto da rendere
triste il tuo bel viso?”, chiese infatti all’istante Virginia, afferrando a due
mani l’amo che avevo sconsideratamente lanciato.
A quel punto però non aveva più senso per me mentire, e
mentre spazzavo, mantenendo di nuovo lo sguardo chino verso terra, lasciai che
dalla mia bocca uscisse la verità. Non me ne importava della falsità di chi mi
stava di fronte, o di come avrebbero potuto giudicare degli estranei la mia difficile
situazione, e forse desideravo solo dirlo e tirare così un sospiro di sollievo,
come per volermi liberare da un peso che mi angustiava in modo costante.
“Ho avuto dei… problemi con il mio ragazzo”, dissi, senza
approfondire.
“Oddio, cara… spero nulla di grave!”, rimboccò la signora,
emettendo poi un breve singhiozzo dalla parvenza quasi teatrale.
“No… ho solo deciso che… avevamo bisogno di una pausa”,
borbottai, continuando il mio lavoro.
“Oh, quanto ci dispiace!”, tornò a dire Virginia, mostrandosi
molto preoccupata per me.
“Non conosco il vostro rapporto e ciò che vi ha spinto a
prendere una pausa, come dite voi della vostra generazione, ma vedo che ti
manca, e che ne sei rattristata. Voglio rassicurarti, se mi è permesso, e dirti
che se è amore vero, tutto si risistemerà meglio di prima. Vedrai che sarà
così, non disperarti”, mi disse a sorpresa l’uomo, sempre con tono molto
gentile e controllato, donandomi un consiglio quasi da padre. Si vedeva che
l’aveva detto col cuore, lo percepivo.
Gli fui grata del suo intervento, che in effetti mi fece
riflettere un attimo, e di conseguenza mi spinse a calmarmi un po’. Virginia
era sedata e molto probabilmente la pausa col mio ragazzo sarebbe finita a
breve; insomma, era una prospettiva perfetta, al momento.
“La ringrazio. Farò tesoro delle sue parole”, dissi al
cortese Piergiorgio, alzando lo sguardo ed incontrando il suo, senza però che i
suoi occhi tornassero a fissare i miei in modo diretto. Con sfuggevolezza, li
distolse.
“Ora devo proprio andare, il dovere mi chiama. Grazie,
Virginia”, tornò a dire l’uomo, alzandosi dalla sedia e porgendo la mano alla
proprietaria, che la strinse, per poi alzarsi anch’essa.
“Te ne vai già? Ma certo, tu sei sempre molto impegnato…
spero solo che tornerai a trovarmi. Per te, offre sempre la casa!”.
Ero certa che, a parlare così, fosse una donna accecata
d’amore. E la realtà, mentre proseguivo a spazzare, mi piombò addosso come un
macigno; Virginia, la donna di acciaio, era innamorata, forse, di quel suo
coetaneo. Mi venne di nuovo da sorridere, e quella volta lo feci di nascosto.
“Oh, ti prometto che tornerò a farti visita, ma pagherò,
perché non voglio abusare assolutamente della tua gentilezza. A presto,
Isabella!”, salutò anche me, prima di andarsene, quasi di fretta.
Mi volsi a guardarlo, e vidi che mi sorrideva, per poi uscire
dal locale.
Restai un attimo ferma, riflettendo su quel che era accaduto
durante quella giornata di lavoro più strana del solito, fintanto che non fui
subito richiamata.
“Isabella cara, per favore, riprendi il tuo lavoro…”.
La signora Virginia mi rimproverò molto dolcemente, quella
volta. Che stesse evitando di sbranarmi come suo solito solo perché l’avevo
impietosita col mio racconto di poche parole? Oppure perché lo sconosciuto che
le stava tanto a cuore, e che si era rivelato molto cortese anche con me, aveva
spezzato una piccola lancia in mio favore? Non riuscii ad offrirmi alcuna
risposta. Però seppi riprendere il mio lavoro senza farmi ripetere il
pacatissimo rimprovero.
E poi, il locale cominciò a riempirsi di gente, pronta a
godersi un refrigerante aperitivo in compagnia, e ben presto sarebbe giunta una
delle ore di punta, e allora non avrei avuto neppure un attimo da dedicare alla
mia solita introspezione.
Sospirai, ben sapendo che mancavano ormai solo due ore e
mezzo prima che la mia giornata lavorativa giungesse alla conclusione, ma mi
ripetevo che il peggio doveva ancora arrivare, ossia il momento di servire le
cene.
Sospirai nuovamente, e mi estraniai da me stessa per un po’;
volevo mettercela tutta anche per quel giorno, e concludere al meglio. A
riguardo del restante fardello di problemi, avrei avuto tutto il tempo per
rifletterci sopra una volta che sarei uscita da quell’impegnativo e sempre più
rumoroso locale.
NOTA DELL’AUTORE
Carissime amiche,
vorrei avvisarvi. Dopo questo aggiornamento, infatti,
sospenderò le pubblicazioni dei prossimi capitoli del racconto fino ad un
lunedì ancora da destinarsi. Infatti, sono obbligato per forza di cose e di
scadenze a dare la precedenza ad alcuni racconti che sto preparando per un paio
di contest, e che devo pubblicare entro la fine del prossimo mese… essendo
complessi, e anche a più capitoli, da lunedì prossimo inizierò a pubblicarne
uno. Se vorrete, potrete nel frattempo seguirmi anche in quelle brevi
avventure(i capitoli infatti saranno molto, molto brevi), e poi… appena
concluderò di pubblicare ciò che ha scadenza, ritornerò ad aggiornare con gioia
^^ non temete, ho un bel po’ di capitoli da parte, a riguardo di questo
racconto ^^
Grazie per la pazienza, e mi scuso per eventuali disagi. Il
Principe Azzurro arrivò a Mezzanotte tornerà ad essere aggiornato il prima
possibile ^^