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Autore: alessandroago_94    16/04/2018    16 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 4

CAPITOLO QUATTRO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giunsi a casa tutta frastornata. Gli eventi mi stavano travolgendo, come le mie continue riflessioni, e non sapevo ormai più cosa dovevo realmente pensare.

In primis, a riguardo del mio ragazzo; mi veniva continuamente e incessantemente da chiedermi se fosse colpa sua, per la situazione in cui ci trovavamo, o se fosse colpa dei suoi genitori, siccome anche suo padre, a quanto pareva, aveva voluto metterci lo zampino.

Oppure era addirittura Marco a giostrare i suoi genitori? Questa domanda mi distruggeva. Se così fosse stato, e se avessi scoperto una cosa del genere, l’avrei lasciato subito e per sempre. Non mi andava di essere presa in giro in quel modo.

Prima di entrare nell’appartata abitazione di mia madre, sospirai un paio di volte di fronte alla porta d’ingresso, in modo da cercare di alleviare la mia espressione corrucciata e disturbata, ma ciò giovò a poco, se non a lasciar scorrere altri preziosi minuti e ad aumentare il mio ritardo, già considerevole.

Entrai, tutta sudata, e mi diressi in bagno a lavarmi le mani, lasciando la mia borsetta appesa nell’attaccapanni.

“Ben tornata”, mi salutò la mamma, grintosa, dalla cucina.

“Perdona il mio ritardo, avrei dovuto essere qui già molto prima, ma purtroppo sono stata trattenuta”, le dissi a voce alta, asciugandomi le mani e raggiungendola.

Mi misi le mani sulla bocca, dalla contentezza, quando vidi che, anche per quel pranzo, lei aveva strafatto e la tavola era imbastita come per una festa.

“Grazie, grazie, grazie!”, quasi le saltai al collo, mentre un sorriso tornava a riaffiorare sul mio viso, mentre vidi che il mio piatto era già ricolmo delle gustosissime tagliatelle al ragù di piselli, la specialità che un tempo era stata tutta di mia nonna e che adoravo.

“Spero non sia accaduto qualcosa di grave”, aggiunse mia madre, comunque rincuorata dalla felicità e dalla gratitudine che le stavo dimostrando. E, puntualmente, dopo quella frase persi tutto il mio ardore.

Divenni mogia e mi lasciai scivolare sulla mia sedia, già discostata dal tavolo. In realtà, non sapevo più cosa pensare né dove battere la testa; non mi era chiaro nulla e non sapevo che fare. Mi venne spontaneo aprirmi con mia madre.

Mentre mangiavo il mio mega piatto di pasta, le narrai tutto quello che mi era accaduto poco prima, a riguardo del signor Benedetti e di ciò che mi aveva detto e proposto. Naturalmente, cercavo di lottare contro il mio senso di repulsione mentre mangiavo, per poter godere dell’ottimale gusto della mia pietanza preferita, che non gustavo da tantissimo tempo. Non riuscivo mai a mettermi ai fornelli, quando convivevo con Marco, siccome ero sempre sommersa di impegni e di cose da fare.

Mia madre mi ascoltò senza mai interrompermi, mangiando anche lei, a piccoli bocconi, e non disse assolutamente nulla fintanto che non ebbi finito il mio resoconto.

“Uhm, non saprei dove battere la testa pure io, se mi trovassi in una situazione del genere”, infatti disse, mentre riprendevo fiato.

“Consigli?”, le chiesi, titubante come una bambina.

Lei mi sorrise caldamente.

“Di seguire il tuo cuore e quello che pensi”.

“Non ho chiaro nulla, mamma. Non so proprio cosa pensare, e il mio cuore è come diviso. Diviso tra l’amore che provo per Marco, e il vuoto freddo che provo ora, quando ripenso a lui e alla nostra convivenza”.

Non mi nascosi dietro a inutili giri di parole.

“Capisco. Beh, io ti consiglio di aspettare; secondo me, presto avrai tutto più chiaro”, mi suggerì, ed io non potei far altro che annuire. Era proprio così, non potevo far altro che starmene calma ed attendere.

La mia parte l’avevo fatta; stava al mio ragazzo fare il suo passo avanti e dimostrare che era un uomo interessato e innamorato, in quel momento. Anche se la distanza da lui e dal suo corpo mi turbava.

Mi mancavano i nostri contatti, le nostre frivolezze, le nostre piccole gioie a letto, la passione che investivamo tutta nei nostri istanti più intimi… eppure, lui mi aveva rivolto uno scherzetto che non mi era piaciuto, e odiavo come si stava evolvendo la questione, siccome sembrava che più le ore passavano, più fossimo distanti. Come se il divario stesse aumentando, ed io stessa avevo paura che, anche a breve, si potesse tramutare in una voragine impossibile da arginare.

Forse, in meno di un giorno stavamo già mandando alla malora anni e anni di frequentazioni e di momenti condivisi.

Sei anni non erano stati pochi; avevo conosciuto Marco a vent’anni, in discoteca, quando per sbaglio mi aveva pestato un piede, e per scusarsi mi aveva offerto da bere. Da quegli istanti in poi, eravamo diventati inseparabili. Ci capivamo ed andavamo d’accordo, tutto sommato.

Il nostro era sempre stato un rapporto molto semplice, basato sulle piccole cose, e così dopo quattro anni di fidanzamento, frammentati da qualche piccola pausa a causa di qualche breve discussione tipica di tutti i giovani innamorati, mai nulla di grave comunque, avevamo pensato di provare a scegliere noi stessi il nostro destino, e di tentare la sorte cominciando una convivenza.

Ma durante questa stessa convivenza, il suo lato più da smidollato era venuto a galla, in maniera sempre più evidente, ed io avevo parlato tanto e a vanvera; il risultato di ciò era quello che stavamo vivendo in quel momento.

Nonostante tutto, ci eravamo sempre amati e non ci eravamo mai traditi, e quella breve pausa l’avevo scelta solo per fargli capire che non poteva fare per sempre il bambino, e che io ero finalmente pronta ad avere un vero uomo a mio fianco. Ma a quanto pareva, la metamorfosi finale che mi sarebbe tanto piaciuto vedere aveva voglia di farsi attendere un pochino. Ed io avrei atteso il giusto tempo.

“Hai ragione, mamma. Saprò aspettare”, dissi a mia madre, lasciando andare la mia sconsolazione, per afferrare una bella tazzona di cioccolata calda che pure in estate non passava mai di moda.

“Certo che ne ha avuta della faccia tosta, Valerio”, osservò candidamente la mia scaltra interlocutrice. Lei conosceva da molto tempo prima di me il padre di Marco, essendo stato il suo datore di lavoro per alcuni anni consecutivi, un trentennio prima.

Non l’aveva mai avuto in antipatia, però; quello era solo un problema mio.

“Il problema è che temo che ci sia Marco dietro a tutto ciò. Insomma, io lo lascio per qualche ora, lui torna a casa sua a piagnucolare dai suoi e il padre si presenta da lì a poco, per importunarmi con le sue stupide idee… non so, potrebbe anche essere una coincidenza e che Valerio abbia scelto da solo di venire da me a propormi certe cose, però è come se una parte del mio animo affermasse il contrario”, ammisi, ormai senza più difficoltà a riconoscere Marco come un giovane disperato che poteva aver fatto una sceneggiata per spingere suo padre a farsi avanti in un modo così deciso e netto.

“Non so se dietro ci sta il tuo ragazzo oppure no, questo non possiamo saperlo al momento. Ma lui si è fatto sentire? Ti ha almeno cercata, o anche semplicemente mandato un messaggio sul cellulare?”, tornò a chiedermi mia madre, mentre cominciava a sbagagliare.

Mi venne da storcere il naso dal disappunto.

“No. Silenzio assoluto”.

La mamma si fermò un attimo e mi lanciò una lunga occhiata.

“Aspetta quello che ti dirà lui. Se ci tiene a te, si farà avanti. Altrimenti, lascialo! Non vedi che rammollito che è? E poi, sei ancora tanto giovane, e sei pure carina, ed io credo che tu possa trovare di meglio…”.

Mia madre si interruppe solo quando notò che aveva toccato un tasto sbagliato.

Di fronte alle sue parole dubbiose rivolte contro Marco, io mi ero alzata in piedi.

“E’ meglio che parta, tra poco devo riprendere il mio turno al bar”, le dissi, semplicemente, tornando a prendere la mia borsa ed andandomene. Non potevo permettere che quei suoi pareri soggettivi finissero per scombussolare ulteriormente le idee che avevo per la testa, e magari commettere sciocchezze a causa d’altri.

Era vero che ero stata io a chiedere consigli a mia madre, ma non le avevo concesso il lusso di sparlare in quel modo, che tra l’altro se detto da lei, la donna succube del marito ubriacone per un ventennio abbondante, era come ascoltare barzellette.

Non mi preoccupai quindi di averla piantata in asso in quel modo; la mia saggia interlocutrice era una donna intelligente, ed ero certa che mi avrebbe capita e scusata, siccome quello non era proprio il momento ideale per me per udire simili discorsi, che rischiavano solo di aggravare il problema, invece di risolverlo.

Mi accinsi quindi a ripercorrere il tragitto che mi separava da L’angolo della bontà, e a riprendere il mio turno. Era già l’una e trenta, e il calvario lavorativo ben presto sarebbe tornato nel vivo, e dovevo sgombrare la mia mente da ogni altro problema.

 

Di nuovo all’inferno.

C’erano dei pomeriggi in cui pensavo davvero di non farcela. Un conto era sopravvivere durante le due ore del mattino, un altro era affrontare la lunga tirata che andava dalle quattordici alle venti di sera.

Poi, d’estate, era ancora peggio; la mia mente volava fuori da quel locale, andava in riva al mare, su una qualche spiaggia deserta, oppure a sorseggiare qualche gradita bevanda fresca e gustosa… ed invece ero incatenata lì dentro. O, meglio, ero incatenata dalle mie idee di sopravvivenza.

Continuavo ancora a giurare a me stessa che non ero fissata col lavoro, ma esso mi dava dignità, e si sa, ogni cosa va ben pagata, nella vita. Quello era il prezzo per poter avere un buon stipendio a fine mese.

Dalle quattordici alle diciotto si trattava delle ore più tranquille, giusto servire qualcosa da bere, poi qualche aperitivo. In seguito, la gente veniva a cenare e allora si cominciava a sgobbare di più. Ma durante quel giorni di piena estate, alle quindici non c’era nessun avventore nel locale, a parte uno sventurato tutto tatuato e giovane che leggeva un giornale sportivo, sorseggiando un’aranciata.

Io sudavo, nonostante l’aria condizionata, ed ero certa che ben presto mi sarei ammalata, andando avanti di quel passo. La mia fortuna era che non avevo nessuno, in quel momento, che mi stesse col fiato sul collo; lo chef era andato a casa, Ilenia aveva concluso il suo turno quotidiano e le due dipendenti part-time non coprivano quegli istanti più smorti della giornata. E la signora Virginia, stranamente, non era appostata dietro la cassa, sul suo sgabello sul quale stava costantemente appollaiata.

Mi misi a spazzare il pavimento, giusto in tempo per farmi intercettare dal ragazzo, che accennò a pagare.

“Certo. Fanno un euro e trenta, in totale”, gli dissi, e siccome la padrona non c’era da nessuna parte, attesi un attimo.

“Non ho tutta la giornata”, mi tornò a dire il cliente, giustamente.

Allora andai alla cassa a fare lo scontrino e ad incassare il piccolo guadagno.

Non l’avessi mai fatto. Virginia sbucò improvvisamente dal retro, e mi fu addosso in un battibaleno, come una vera arpia.

“Quante volte ti devo dire che non ti voglio dietro la cassa?! Il tuo posto è a servire, a spazzare e a lavare i pavimenti e il bagno. Vai a fare immediatamente il tuo lavoro”, mi disse, quasi urlando.

Umiliata così in malo modo di fronte al giovane avventore, anch’egli rimasto sbalordito da tale slancio della signora, che si era subito precipitata a riprendere posto sul suo sgabello e a premere rumorosamente i tasti della cassa, mi salirono le lacrime agli occhi e mi feci immediatamente da parte.

Non appena ebbe consegnato lo scontrino e il giovane se ne fu andato, Virginia tornò crudelmente a parlare.

“Te lo ripeto per l’ultima volta, e poi non lo farò più, giuro; a pulire il locale e a servire, ok, dietro la cassa, no. Capito? La prossima volta che ti pesco lì ti licenzio all’istante”, tornò a redarguirmi, ormai sole.

Alzai lo sguardo dal pavimento, con umiltà e con gli occhi umidi. Mi aveva piegato. Conoscevo la sua avversione per quel genere di situazioni, ma il cliente aveva fretta e lei non c’era; avevo pensato di fare una cosa giusta.

“Signora, il cliente aveva fretta, e lei non c’era da nessuna parte…”.

“Quando ho bisogno del bagno non credo di doverlo dire a te, o di chiedere il tuo permesso”, mi rispose, interrompendomi ed alzando la voce.

“Mi scusi, non accadrà mai più”, mi chinai ulteriormente, sentendomi però ardere di rancore.

Aveva avuto paura che le rubassi uno spicciolo? Per qualche motivo, altrimenti, c’era il bisogno di divorarmi in quella maniera? Lasciai in disparte i miei interrogativi e cominciai a passare lo straccio, sconsolata. Quello era davvero un periodo no.

Ma a volte è incredibile quanto il destino possa rimescolare le carte in tavola.

Accadde infatti un evento davvero irrisorio, che chiunque potrebbe considerare addirittura banale da ricordare, eppure fu da quel momento in poi che tutto cominciò a cambiare in maniera più curiosa.

Entrò, qualche secondo dopo la fine della sfuriata che avevo ricevuto senza pietà, un uomo che non attirò neppure la mia attenzione, mogia com’ero, e con gli occhi umidi e arrossati che non riuscivo ad alzare da terra. La megera era riuscita a spezzarmi definitivamente.

“Buon pomeriggio!”, esordì con il suo vocione deciso, ma rilassato e un pizzico allegro.

Io non risposi neanche; ancora devastata psicologicamente, troppo timida a quel punto per farmi vedere da un perfetto sconosciuto in quello stato, lasciai che fosse la proprietaria dell’attività a fargli festa, siccome la sentii quasi lanciare uno strillo di gioia non appena lo vide.

“Piergiorgio, che piacere averti qui! Qual buon vento…”, cominciò a dire Virginia, abbandonando quel tono da racchia inviperita che utilizzava sempre quando si rivolgeva ai suoi poveri dipendenti, nella medesima maniera con cui mi aveva spiegato le sue ragioni poco prima.

Le riconoscevo che, una volta fuori da dietro a quel bancone e lontano dagli orari di lavori, quelle poche volte che mi era capitato di incontrarla per caso in giro per la città mi era parsa una sorta di seconda mamma, dal tanto che era buona e premurosa. Allo stesso modo, lo era con i clienti. Ma con i dipendenti, e in orario lavorativo, si tramutava in un abominio insopportabile, e spesso esagerava.

Forse era solo fissata col lavoro, e voleva vedere tutto perfetto al cospetto del suo personale punto di vista… forse era come me, in fondo. Almeno io non mi ero ancora inacidita in quella maniera eccessiva, però, per mia fortuna.

“Virginia cara! Figuriamoci se non mi fermavo a farti un saluto, approfittando del fatto che ero qui nei paraggi, per motivi di lavoro”, continuò lo sconosciuto, mentre io pulivo un tavolino.

Mi rimase subito impressa, da lì a poco, la sua voce mascolina; era pura, senza alcuna cadenza dialettale, e di una profondità deliziosa e perfetta, quasi melodica, maschilmente senza imperfezioni. Era un piacere udirla.

Tuttavia sbuffai, stanca e mortificata, e continuai il mio lavoro; mai che mi fermassi, per fare poi nell’occhio alla mia datrice di lavoro, e rischiare un’altra linciata.

“Ti ringrazio! So che sei sempre molto impegnato. D’altronde, un uomo come te…”.

Udii lo schiocco di un paio di baci sulle guance. Per permettersi un simile gesto, quell’uomo doveva essere davvero molto importante per la vita della fredda Virginia.

A quel punto, per qualche istante sollevai lo sguardo, pronto a fissare l’estraneo, che stava ricevendo in quegli istanti un’accoglienza che mai, da quando lavoravo in quel locale, era stata riservata a qualcuno. I due si stavano ancora fissando amichevolmente, quando colsi, da fianco, il profilo dell’interlocutore che stava tanto a cuore alla megera; si trattava di un ometto di statura media, di quelli d’una volta, d’un età che, con quel primo sguardo, non seppi affermare con certezza, ma dai capelli ancora neri e dalla leggera barbetta ingrigita, mi venne da dargli una sessantina d’anni.

Tutto tirato a lucido, il signore era anch’egli in giacca e cravatta e in scarpe di cuoio nero e incredibilmente luccicanti, con in mano una ventiquattrore e una camicia bianca delicatamente ripiegata, infilata però malamente nella maniglia che sorreggeva la valigetta anch’essa di cuoio.

Mi venne spontaneo lasciarmi sfuggire un sorriso; pensavo che quello fosse un qualche spasimante di Virginia, e a scatenare per un attimo la mia ilarità fu l’immaginarmi la signora che flirtava in modo più intimo con quel signore perfettino e dall’apparenza gioviale ed amichevole, da come si era presentato.

Poi, il sorriso mi morì naturalmente subito sulle labbra, ricordando quant’accaduto poco prima. Non riuscivo a mandar giù quel boccone amaro e non volevo pensare oltre alla strega.

“Ah, ma non esagerare, mia cara…! Non esagerare… troppo buona…”, continuò a dire l’uomo, ma io smisi di prestarci caso. Avevo da finire la pulizia dei tavoli, poi dovevo spazzare e passare lo straccio, e in seguito dare un’occhiata ai bagni, una parte del locale che doveva essere sempre linda e pulita al massimo… ma il mio concentrato resoconto mentale fu interrotto da lì a qualche secondo.

“Buon pomeriggio, eh”.

Strappata dalle mie momentanee riflessioni, e sulle mie personali dannazioni, siccome pulire il bagno era ciò che più odiavo del mio lavoro, tornai a fissare, quella volta in modo diretto, l’uomo appena arrivato, che si era diretto verso di me e stava prendendo posizione sulla sedia che avevo di fronte, mentre ne spolveravo il tavolino con un panno umido.

Con il mio viso ancora leggermente arrossato per ciò che era accaduto di recente, incontrai con uno sguardo i suoi occhi, gli occhi di quello sconosciuto attempato; rimasi sbalordita. Incontrai infatti una profondità struggente, che mi travolse, quasi come se fosse stato un colpo di fulmine.

Per un istante rimasi inebetita di fronte a lui, senza riuscire a dire una sola parola e senza riuscire ad indentificare il motivo per cui mi ero bloccata in quel modo, ma poi capii cosa mi avesse colpito; il fatto che si era interessato a me. Un gesto davvero gentile, sicché a parte mia madre, pochi altri nella mia vita l’avevano mai fatto.

Certo, anche Marco, ma naturalmente a modo suo, sapendo che comunque per un ragazzo dev’essere più complicato mostrare la propria sensibilità.

Era vero che il signore mi aveva buttato lì quel paio abbondante di parole in un modo che chiunque avrebbe potuto fare, ma per me, in quel determinato momento in cui stavo per davvero sfiorando il fondo, mi parve quasi un segno di benevolenza divina.

“Buon pomeriggio”, lo ricambiai, sforzandomi poi di sfoggiare un sorriso, dopo qualche istante in cui avevo fissato direttamente i suoi occhi, e lui aveva sostenuto il mio sguardo. Dovevo anche premiare la gentilezza di avermi rivolto la parola, quando per la maggior parte dei clienti altro non ero che un fantasma che diventava visibile solo quand’era ora di pulire, di prendere le ordinazioni e di servire ai tavoli.

“Che ragazza dall’aspetto simpatico! Non ti avevo mai notato, qui”, tornò a dirmi, appoggiando poi il materiale che portava con sé sulla sedia a fianco di quella che aveva appena occupato, e distogliendo lo sguardo da me.

“Ho assunto Isabella circa un anno e mezzo fa”, intervenne la proprietaria, amabilmente, avvicinandosi senza permettermi di rispondere in un qualche modo.

“Oh”, si lasciò sfuggire il signore, tornando a gettarmi un’occhiatina furtiva e solare.

“Sai, Piergiorgio caro, sarà solo un lustro abbondante che non ti degni di fare una capatina qui, al cospetto di una tua ormai vecchia conoscenza”, tornò a dire Virginia, leggermente ironica, facendomi da parte con una spintarella ed andandosi a sedere di fronte al cliente.

Rimasi allibita da quel gesto; la signora, se difficilmente si schiodava dallo sgabello dietro la cassa, non si sedeva assolutamente mai di fronte a qualche avventore, pure parlandogli. Compresi che tra i due doveva esserci una conoscenza approfondita e di certo risalente al passato, e mi sentii di troppo lì accanto a loro, soprattutto per via del fatto che nel locale non c’era nessun altro, a parte noi tre.

Così, cercai di allontanarmi di qualche passo, nascondendo il mio viso ancora segnato dalle mie sofferenze interiori molto recenti e afferrando la scopa, cercando di spazzare come se nulla fosse e nessuno si fosse mai degnato di rivolgermi la parola. Mai che io dovessi entrare di nuovo in contrasto con la padrona.

“Ma sai… carissima Virginia… il mio lavoro… conosci le circostanze…”, quasi borbottava il signore, di fronte a una Virginia che conoscevo molto poco, da come si stava atteggiando in quel momento.

“Ma certo, ma certo, io stavo scherzando! Non fare così. Sai che ti adoro, e che qui sei sempre il benvenuto”, lo rassicurò prontamente la gentilissima signora, nei panni della buona amica appena ritrovata.

Mi venne quasi da fare una smorfia, mentre continuavo a spazzare, compiendo qualche altro passo verso il lato opposto del locale, anche se ormai mi restava quasi solo da cozzare contro il muro esterno, trovandomi in un ambiente stretto e allungato. Percepii poi la risatina cortese e timida appena abbozzata dall’uomo.

“Isabella cara, porta due caffè e due brioches! Offre la casa”, tornò a dire Virginia, mentre io mi affrettavo ad eseguire l’ordine.

“Ma che stai dicendo?! Ma no, non disturbarti…”. E via alle rassicurazioni cortesi del signore molto gentile, che col suo charme, evidentemente, era riuscito anche a piegare la rigidissima proprietaria de L’angolo della bontà.

Eseguii l’ordine in tempo record, e in un battibaleno ero già pronta a servire al tavolino ciò che era stato richiesto, dopo aver afferrato le ultime due brioches rimaste ed aver preparato due caffè davvero invitanti, e fui talmente tanto veloce che il cliente, ormai considerabile come ospite, stava ancora continuando a invitare la proprietaria a non scomodarsi per lui, e forse era davvero in imbarazzo, siccome quando recapitai l’ordinazione con l’apposito vassoio lui era leggermente arrossato in volto.

Non lo fissai ma mi limitai a servire, con altrettanta solerzia; mai al mondo volevo rischiare di incorrere in un altro sfogo della megera.

“Grazie, Isabella”, disse la padrona, concedendomi un sorriso che sembrava spontaneo e puro.

“Grazie, signorina”, ringraziò anche l’avventore, e sentii di nuovo il peso del suo sguardo su di me, mentre gli servivo il caffè.

“Di nulla”, mi limitai naturalmente a dire, depositando anche le brioches.

“Complimenti, Virginia! Noto che hai assunto una ragazza molto gentile e diligente!”, disse Piergiorgio, con calore.

Gli rivolsi un mezzo sorriso colmo di gratitudine, allontanandomi e preparandomi a tornare a spazzare. I complimenti di un cliente erano ciò che influenzava con maggiore positività la signora; sicuramente quelle parole appena riservate a me da quell’uomo che in effetti non era solo un semplice cliente per lei, potevano essere decisive per me, dopo la sfuriata di poco prima, e le promesse brutali che di tanto in tanto si lasciava sfuggire.

Avevo un posto relativamente sicuro, essendo stata assunta da qualche mese firmando un contratto che mi garantiva un posto fisso di lavoro, ma i capricci della signora avrebbero potuto anche mandarlo all’aria, se si fosse ritenuta molto insoddisfatta di me. Non sarebbe stata la prima volta che l’avrebbe fatto.

“Ah, lo so! Ti garantisco che se Isabella non avesse rispecchiato questi requisiti, non sarebbe stata assunta qui dentro. È una giovane molto capace e piena di tanta voglia di fare, e soprattutto di strafare, tanto che delle volte mi tocca rimproverarla un po’…”.

Avrei voluto accecarla, Virginia. Quanto odiavo quel tono melenso che stava assumendo!

Per un attimo alzai la testa per ringraziarla, prima di tornare a capo chino a spazzare.

“Mi sembra un po’ triste, però. Su con la vita, ragazza! Senti com’è felice di averti qui la tua datrice di lavoro!”, ribatté l’uomo, in modo gentile, tornando a rivolgersi a me.

Ecco, in maniera inconsapevole aveva appena affondato il dito nella piaga, poiché non credevo che Virginia fosse poi così sempre contenta di avermi assunto, ma forse questo era solo qualcosa che mi ero messa io in testa.

“Ah, sarà per quel che è accaduto poco prima… io e lei abbiamo avuto un breve dibattito molto… ehm… nervoso”, intervenne Virginia, molto diplomaticamente.

Chiamata in causa, non potevo farmi passare per sordomuta, e starmene ancora a capo chino.

“Oh, non è solo per quello, signora”, mi venne spontaneo e naturale dire.

Poi, subito dopo, ebbi l’istinto primordiale di tapparmi la bocca con le mani, anche se logicamente non assecondai il gesto. Il continuo stress emotivo degli ultimi due giorni mi aveva talmente tanto sfiancato da lasciarmi aprire in quel modo ingenuo davanti a due perfetti sconosciuti, l’una dei quali era anche un’amante della perfezione.

“Cos’è successo, carissima? Cosa ti turba così tanto da rendere triste il tuo bel viso?”, chiese infatti all’istante Virginia, afferrando a due mani l’amo che avevo sconsideratamente lanciato.

A quel punto però non aveva più senso per me mentire, e mentre spazzavo, mantenendo di nuovo lo sguardo chino verso terra, lasciai che dalla mia bocca uscisse la verità. Non me ne importava della falsità di chi mi stava di fronte, o di come avrebbero potuto giudicare degli estranei la mia difficile situazione, e forse desideravo solo dirlo e tirare così un sospiro di sollievo, come per volermi liberare da un peso che mi angustiava in modo costante.

“Ho avuto dei… problemi con il mio ragazzo”, dissi, senza approfondire.

“Oddio, cara… spero nulla di grave!”, rimboccò la signora, emettendo poi un breve singhiozzo dalla parvenza quasi teatrale.

“No… ho solo deciso che… avevamo bisogno di una pausa”, borbottai, continuando il mio lavoro.

“Oh, quanto ci dispiace!”, tornò a dire Virginia, mostrandosi molto preoccupata per me.

“Non conosco il vostro rapporto e ciò che vi ha spinto a prendere una pausa, come dite voi della vostra generazione, ma vedo che ti manca, e che ne sei rattristata. Voglio rassicurarti, se mi è permesso, e dirti che se è amore vero, tutto si risistemerà meglio di prima. Vedrai che sarà così, non disperarti”, mi disse a sorpresa l’uomo, sempre con tono molto gentile e controllato, donandomi un consiglio quasi da padre. Si vedeva che l’aveva detto col cuore, lo percepivo.

Gli fui grata del suo intervento, che in effetti mi fece riflettere un attimo, e di conseguenza mi spinse a calmarmi un po’. Virginia era sedata e molto probabilmente la pausa col mio ragazzo sarebbe finita a breve; insomma, era una prospettiva perfetta, al momento.

“La ringrazio. Farò tesoro delle sue parole”, dissi al cortese Piergiorgio, alzando lo sguardo ed incontrando il suo, senza però che i suoi occhi tornassero a fissare i miei in modo diretto. Con sfuggevolezza, li distolse.

“Ora devo proprio andare, il dovere mi chiama. Grazie, Virginia”, tornò a dire l’uomo, alzandosi dalla sedia e porgendo la mano alla proprietaria, che la strinse, per poi alzarsi anch’essa.

“Te ne vai già? Ma certo, tu sei sempre molto impegnato… spero solo che tornerai a trovarmi. Per te, offre sempre la casa!”.

Ero certa che, a parlare così, fosse una donna accecata d’amore. E la realtà, mentre proseguivo a spazzare, mi piombò addosso come un macigno; Virginia, la donna di acciaio, era innamorata, forse, di quel suo coetaneo. Mi venne di nuovo da sorridere, e quella volta lo feci di nascosto.

“Oh, ti prometto che tornerò a farti visita, ma pagherò, perché non voglio abusare assolutamente della tua gentilezza. A presto, Isabella!”, salutò anche me, prima di andarsene, quasi di fretta.

Mi volsi a guardarlo, e vidi che mi sorrideva, per poi uscire dal locale.

Restai un attimo ferma, riflettendo su quel che era accaduto durante quella giornata di lavoro più strana del solito, fintanto che non fui subito richiamata.

“Isabella cara, per favore, riprendi il tuo lavoro…”.

La signora Virginia mi rimproverò molto dolcemente, quella volta. Che stesse evitando di sbranarmi come suo solito solo perché l’avevo impietosita col mio racconto di poche parole? Oppure perché lo sconosciuto che le stava tanto a cuore, e che si era rivelato molto cortese anche con me, aveva spezzato una piccola lancia in mio favore? Non riuscii ad offrirmi alcuna risposta. Però seppi riprendere il mio lavoro senza farmi ripetere il pacatissimo rimprovero.

E poi, il locale cominciò a riempirsi di gente, pronta a godersi un refrigerante aperitivo in compagnia, e ben presto sarebbe giunta una delle ore di punta, e allora non avrei avuto neppure un attimo da dedicare alla mia solita introspezione.

Sospirai, ben sapendo che mancavano ormai solo due ore e mezzo prima che la mia giornata lavorativa giungesse alla conclusione, ma mi ripetevo che il peggio doveva ancora arrivare, ossia il momento di servire le cene.

Sospirai nuovamente, e mi estraniai da me stessa per un po’; volevo mettercela tutta anche per quel giorno, e concludere al meglio. A riguardo del restante fardello di problemi, avrei avuto tutto il tempo per rifletterci sopra una volta che sarei uscita da quell’impegnativo e sempre più rumoroso locale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Carissime amiche,

vorrei avvisarvi. Dopo questo aggiornamento, infatti, sospenderò le pubblicazioni dei prossimi capitoli del racconto fino ad un lunedì ancora da destinarsi. Infatti, sono obbligato per forza di cose e di scadenze a dare la precedenza ad alcuni racconti che sto preparando per un paio di contest, e che devo pubblicare entro la fine del prossimo mese… essendo complessi, e anche a più capitoli, da lunedì prossimo inizierò a pubblicarne uno. Se vorrete, potrete nel frattempo seguirmi anche in quelle brevi avventure(i capitoli infatti saranno molto, molto brevi), e poi… appena concluderò di pubblicare ciò che ha scadenza, ritornerò ad aggiornare con gioia ^^ non temete, ho un bel po’ di capitoli da parte, a riguardo di questo racconto ^^

Grazie per la pazienza, e mi scuso per eventuali disagi. Il Principe Azzurro arrivò a Mezzanotte tornerà ad essere aggiornato il prima possibile ^^

 

 

   
 
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