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Autore: rainbowdasharp    20/04/2018    1 recensioni
"Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?"
| leotsu (e presenza di altre coppie, seppur accennate), soulmate!au |
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Leo Tsukinaga, Tsukasa Suou, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 13: "Io gli credo, anche se so che mente."


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Tsukasa.

Non sapeva onestamente di cosa farsene, di quel nome. Così come non sapeva cosa farsene, improvvisamente, della verità che aveva sempre cercato, sin da quando si erano conosciuti e che allora era sembrata tanto importante; sarebbe stato meglio non sapere.

Tsukasa, aveva detto? Un nome fastidioso. Un nome che si portava via i castelli di sabbia che insieme avevano costruito, come un'onda marina particolarmente violenta in una bella giornata estiva.

Confuso com'era, era un miracolo che fosse riuscito a tornare a casa. Non aveva idea neanche del come era riuscito a raggiungere il letto, dove Merlino riposava sereno e, colto alla sprovvista quando il padrone si era gettato sul materasso, aveva miagolato quasi per rimproverarlo.

Tsukasa aveva abbassato lo sguardo, colpevole di avergli mentito e di averlo fatto per mesi. Di fronte al silenzio di Leo, aveva soltanto preso a spiegare con la sua bella voce ridotta a poco più che un sussurro: tutto era iniziato alla festa di Ruka. Conosceva sua sorella? Sì, gli aveva risposto. Frequentavano la stessa università e, aveva ammesso, gli piaceva molto, quel genere di attrazione innocente che si ha ad un primo sguardo. Poi si era interrotto, si era lasciato ad andare ad un accenno di risata pieno di incredulità, come se quella parte di sé fosse ora lontana anni luce... poi aveva ripreso a narrare, un racconto in cui loro erano i protagonisti. Una menzogna, come ogni storia di fantasia.

Leggo i tuoi libri sin da quando pubblichi”, aveva detto. E Leo ricordò la sera in cui gli aveva detto che, ne era sicuro, lui non li aveva mai letti. Non gli aveva mentito, stranamente. “Quando Ruka mi ha detto che eri suo fratello, ero al settimo cielo” e così, si erano incontrati alla festa della ragazza; impaziente di conoscerlo, si era presentato con largo anticipo e aveva aiutato la piccola Tsukinaga a fare gli ultimi preparativi. “Lo ricordi?”
Poteva forse dimenticarlo? Aveva passato settimane a lottare contro quel momento, contro l'istanti in cui i loro occhi si erano incrociati. Adesso riconosceva quel colore così vibrante, intenso. Si era chiuso in casa, aveva litigato con Shu, si era affidato persino ai peggiori circoli di complottisti che il web aveva potuto fornirgli. Così lo aveva trovato – più meno, forse ritrovato era più consono. Ma in quel momento, mentre Tsukasa si lasciava andare ad una confessione in piena regola, proprio come alla fine dei migliori gialli, non aveva saputo chiedere niente. Lo aveva lasciato parlare, allibito e solo ora, disteso su quel letto, aveva la forza di ripercorrere quanto gli era stato detto.

Ruka ha capito nel momento in cui ti ha visto fuggire. Io ero—sconvolto, confuso. Ho sempre amato i tuoi libri, sono stati i miei unici confidenti per anni, ma... non avrei mai potuto immaginare che tu fossi il mio Predestino. Ruka ha annullato la festa, facendo entrare solo alcune persone – gli amici del fratellone, mi ha detto. E così ho... conosciuto Narukami, Sakuma e Isara.”

Aveva tutto un sapore così assurdo, guardandosi indietro e soppesando le reazioni dei suoi amici – le domande di Naru sulla festa, il nervosismo di tutti i suoi amici quando aveva accennato alla sua relazione con Robin. Tutti, intorno a lui, sapevano e tutti avevano taciuto; avevano fatto finta di niente, con le loro lievi insinuazioni, con le loro domande fin troppo precise, con le loro preoccupazioni all'epoca insensate. Avevano persino preso parte a quel teatrino fatto di inganni e bugie, lo avevano raggirato non meno del ragazzo che era stato sicuro di amare fino a quel pomeriggio.

Non prendertela con loro, ti prego” aveva sottolineato poi, con tono sempre più nervoso, mentre si mordeva il labbro inferiore, quasi a sangue. Leo aveva desiderato che smettesse di torturarsi la bocca, ma non aveva fatto nulla per farglielo capire. Lo aveva solo guardato, stralunato. “Narukami mi ha... detto che non avresti mai permesso che ci conoscessimo, sapendo che ero il tuo Predestino – per questo, solo per questo abbiamo—ho creato Robin”.

Lo aveva creato. Quelle parole gli avevano fatto così male che quasi gli avevano tolto il respiro. Robin, tutto ciò che aveva colorato la sua vita negli ultimi mesi, era solo una creazione del suo Predestino; era stato così abile, così astuto, da riuscire a farsi amare illudendolo di essere ancora se stesso, di avere ancora il pieno controllo sulla sua vita. Era lo scacco matto al re: il suo avversario, la sorte, lo aveva sconfitto inducendolo ad amare chi doveva e al contempo illudendolo con qualcosa di menzognero, proprio come una bella storia – creare finzione, quello che lui faceva da quando aveva memoria.

Gli sfuggì un'imprecazione contro le lenzuola, ma a mezza voce, rassegnata e stufa di una battaglia che ormai sapeva di non poter vincere. Non si sentiva neanche sconfitto ma piuttosto disorientato: si chiese coloro a cui, nel corso della storia dell'umanità, erano state strappate le proprie origini per poi essere nuovamente piantati in una realtà nuova, impensabile, si fossero sentiti allo stesso modo.

Narukami mi ha dato una mano nel cercare di non rendermi troppo riconoscibile e poi—ha chiesto aiuto ad una persona che conosceva per far sì che ci trovasse qualcuno abile nei siti internet. Non ho idea del come, ma... sapeva che avresti cercato informazioni sui Dissidenti, sapeva che avresti provato di tutto pur di fuggire dal Predestino”. Il suo tono era così triste, mentre raccontava. Leo lo sentiva, in ogni sillaba, il suo rammarico per averlo ingannato, per avergli dato un'illusione così perfetta da costringerlo persino a distogliere lo sguardo dalle contraddizioni. Era ovvio che Arashi si fosse rivolto a Madara che, come aveva fatto con lui, lo aveva indirizzato verso Makoto Yuuki. Finalmente, i pezzi raccolti negli ultimi mesi trovavano il loro posto in un puzzle la cui figura finale lo faceva rabbrividire dal terrore e soffrire più di quanto avesse mai sofferto in vita sua. “È così che ci siamo incontrati tramite il sito. Niente—strane sette, solo... beh, quella che è a tutti gli effetti una trappola...” Aveva sospirato, come se raccontare tutto lo stesse liberando di un peso che portava con sé da troppo tempo. E, sempre che Leo potesse ancora dare un minimo di credito a quello che aveva conosciuto di lui in quei mesi, lo scrittore ne era certo: né Robin, né tanto meno Tsukasa erano dei bravi attori. “Volevo solo conoscerti meglio. Volevo capire perché odiassi tanto il Predestino ed eri così sicuro di te che non ho potuto fare a meno di seguirti. E poi—poi mi è sfuggito tutto di mano dopo... dopo aver fatto visita a quel locale, quando ci siamo baciati la prima volta. Non... non riuscivo a credere che tu lo avessi fatto, ho temuto di averti imbrogliato perché forse era davvero opera del Predestino, ma—non riuscivo a resisterti, anche se avevo paura di ferirti. Quando... quando mi hai raccontato di Izumi, non... sono più riuscito a pensare di lasciarti andare, ho deciso di rimanere al tuo fianco fin quando avrei potuto darti anche un poco di serenità. I tuoi amici, tua sorella... non era questo che volevano. È stata colpa mia”.

Però non ti ho mai mentito su di me” si affrettò ad aggiungere, riprendendo per un attimo quello scintillio negli occhi che Leo aveva amato sin dal primo momento, quell'energia incredibilmente pura, forte e a tratti feroce che lo animava nei momenti più impensati. “Robin, Tsukasa... Sono rimasto al tuo fianco perché lo volevo. Volevo conoscerti, volevo—sapere se potevamo davvero avere una possibilità insieme, se potevi ancora una volta cambiare la mia vita. È stato... egoista, da parte mia. Ma volevo che ci conoscessimo senza pregiudizi, senza--” e qui la sua voce si era rotta, Tsukasa si era fermato, incapace di continuare. E Leo li aveva visti, i suoi occhi, li aveva visti brillare ma non di quella luce che aveva imparato ad avere al suo fianco quanto piuttosto da un lieve velo di lacrime che li rendeva scintillanti. E vederlo così faceva male quasi quanto l'idea di essere stato ingannato dal suo peggior nemico. “Lo rifarei. Ancora e ancora. Con tutto il mio egoismo, non... mi pento di nulla, perché mi ha condotto fin qui”. Eppure, nonostante questo, non temeva il suo sguardo vacuo; gli aveva preso il volto tra le mani, aveva ingoiato le parole che avrebbe voluto dirgli davvero – era tutto così chiaro, evidente, perché erano legati dagli stessi sentimenti – e lo aveva baciato, con quel sapore insopportabile di addio. Di abbandono.

Non lo aveva fermato neanche in quel momento.

... Non voglio legarti a me” gli aveva sussurrato, le mani di solito calde e confortanti in quel momento sudaticce e tremanti, testimoni inconsapevoli della sofferenza che stringeva entrambi in una morsa. “Ma ti aspetterò sempre, Leader. Ti... aspetterò, perché tutto quello che ho—abbiamo provato in questi mesi, è reale. Più del Predestino”.

Se avesse dovuto mettere un punto al flashback, lo avrebbe fatto in quel preciso momento. La sua penna si sarebbe fermata, avrebbe messo un punto preciso e sarebbe andato a capo, dando un lieto fine a quella sentita confessione.

Invece nella sua mente si susseguirono anche gli attimi successivi, quando Tsukasa aveva lasciato la sua macchina per precipitarsi dentro la metro, sparendo dalla sua vita e portandosi via tutta la sua felicità, con quella sua camicia senza più alcun bottone e gli occhi senza traccia di risentimento.

Puro, anche quando bugiardo e smascherato. Ladro delle sue certezze, colpevole di aver distrutto tutto ciò in cui credeva.

Leader, lo aveva chiamato. Come se non fosse cambiato niente tra di loro, come se da un momento all'altro Merlino potesse ergersi ben dritto sulle zampe presagendo l'arrivo del suo salvatore e potessero così cenare tutti e tre assieme come avevano imparato a fare. Come se le chiavi che adesso aveva in tasca pesassero ancora pochi grammi e non come un mattone.

Quella casa era piena del fu Robin Kurosawa, a tal punto che stentava a ritenerla casa sua. Il modo in cui aveva invaso la sua quotidianità lo stupiva persino adesso che era tutto meno che lucido; si alzò a sedere sul materasso, guardandosi intorno in un vano tentativo di riconoscere qualcosa della sua vita prima di Robin, ma non trovò niente; neanche Artù aveva una sua immagine chiara che non comprendesse Robin, che spesso si metteva a studiare su quel letto mentre Leo lavorava, in quei lunghi pomeriggi di silenziosa compagnia reciproca, piena di un supporto che lo scrittore non aveva mai provato prima.

La cosa più assurda? Nonostante la rabbia, la frustrazione, la consapevolezza di essere stato ingannato, Leo gli credeva. C'era qualcosa, in fondo al suo cuore ora ricolmo di dolore, che sapeva che Tsukasa aveva pensato a lui, proprio quando lo aveva baciato. Quando lo aveva chiamato Leader, richiamando la loro storia. Quando gli aveva affermato con fermezza che non si pentiva di nulla.

Non aveva accettato il suo “ti amo”. Non aveva incatenato il suo cuore e, per assurdo, per questo sembrava appartenergli ancora di più. Non aveva suggellato niente – era ancora libero dal Predestino, ma schiavo dei suoi sentimenti.

E, per quelli, così come per le lacrime che iniziarono a scendere copiose ma silenziose sul suo volto, non poteva incolpare nessuno.


I do believe her, though I know she lies.”

William Shakespeare, Sonetto 138


«... Non ne avevo idea...»

Se non fosse stato per Madara e la sua insistenza insopportabile, probabilmente non avrebbe osato uscire di casa – ormai lo aveva accettato, non sapeva gestire la “fine” di qualcosa. Aveva fatto così con Izumi, quando uno dei suoi libri era stato troncato sul nascere e ora... Robin.

Aveva promesso a se stesso che avrebbe continuato a chiamarlo così – Robin. Era quello il nome che suonava più familiare sulle sue labbra, che celava tutto quel retrogusto dell'alcol che si era scolato nei giorni immediatamente seguenti alla sua confessione e, onestamente, l'altro nome gli appariva così insensato che non aveva neanche voglia di tenerlo a mente (anche se in realtà era sempre, sempre presente, quasi marchiato a fuoco tra i suoi pensieri).

Il castano sprofondò in uno strano silenzio assorto e, seppur distrattamente, Leo colse quel suo sguardo distaccato che appariva sempre quando sembrava carpire l'invisibile, quello che non era dato sapere ai comuni esseri umani.

«... Tu lo sapevi» il suo tono non era di accusa, quanto di divertita rassegnazione. Improvvisamente, piuttosto che del caffè nero che aveva davanti, aveva voglia di un rum doppio. L'ennesimo.

«Quello che mi stupisce è che tu non lo sapessi» fu la replica evasiva di Madara, mentre con lo sguardo vagava lontano, verso l'altro lato della strada. La vetrata del bar lasciava un'ampia visuale sulla strada trafficata da turisti, gruppi di ragazzi, genitori con bambini e Mama, pensò Leo, riusciva a vedere tutto: chissà che aspetto aveva, ai suoi occhi dotati, il Predestino. E chissà che gran mal di testa doveva avere. Comunque, Madara aveva ragione: incredibile che Leo non si fosse mai accorto di quanto quegli occhi viola somigliassero a quelli del suo fantasma e di come questo si fosse acquietato nell'esatto istante in cui Robin aveva fatto irruzione nella sua vita. Coincidenze che, ormai, erano troppo assurde per risultare credibili, soprattutto considerando che aveva avuto più di una settimana per pensarci su, per valutare attimo dopo attimo non solo Robin, ma anche se stesso.

«Forse ho solo finto di non saperlo. Ho voluto crederci» sussurrò, mescolando svogliatamente lo zucchero sicuramente già sciolto nel suo caffè. «Mi sono illuso di aver vinto e invece ne sono uscito non solo perdente, ma...»

«Ma?» lo incalzò Madara.

«... non lo so. Non lo so, Mama, credo che il mio cervello sia arrivato al suo punto di rottura» sospirò, allontanando il caffé da sé, improvvisamente lo stomaco chiuso da ogni dubbio e paura che aveva covato nei giorni precedenti. «Da una parte, sono furioso. Dall'altra...» Troppo difficile guardare persino il bordo del tavolo attorno a cui sedevano – fu più semplice chinarsi in avanti, nascondere il volto tra le braccia e contro il tavolo, dove poteva non vedere e non essere visto dal mondo – un'illusione anche questa, perché Madara aveva sempre visto dentro di lui più di quanto lui stesso non riuscisse a scorgere, un po' come Robin.

E infatti: «... Lo ami».

Non aveva il benché minimo senso, ma era così. Per quanto avesse provato ad odiarlo, non ci era mai riuscito: continuava a pensare a come avesse spavaldamente affermato di non essersi pentito di niente, che sarebbe stato pronto a rifare tutto, pur di stare con lui.

E Leo cosa avrebbe fatto, se solo avesse immaginato? Con la consapevolezza che sarebbe finito tutto all'improvviso, avrebbe preferito non vivere quei mesi con Robin e non soffrire o avrebbe corso di nuovo il rischio?

Altre dieci, cento, mille volte. Non riusciva a smettere di pensare alla sua risata leggera, al suo tono caldo di quando parlava in inglese, ai suoi momenti infantili, al modo in cui accarezzava Merlino—non c'era via d'uscita. Era tutto lì, impresso nella sua mente, con la chiarezza e l'alta definizione di una sala cinematografica e non si sforzava neanche di dimenticare. Non voleva dimenticare.

«Non ha voluto legarmi a lui» disse, come se questo bastasse a giustificare quella mole di sentimenti che ancora provava per lui. Chissà come stava, si chiese tra sé e sé, mentre lanciava uno sguardo al telefono, pensando alla foto che gli aveva scattato quell'ultima sera. La apriva spesso, come per ricordarsi che era reale, Robin. Lo era stato, almeno.

Mikejima incrociò le braccia, ancora una volta pensieroso. Era buffo, pensò Leo, quando assumeva un atteggiamento così serio e concentrato; era così abituato a vederlo energico e scatenato che quella conversazione così placida e dai toni gravi sembrava irreale, persino più dell'idea che riuscisse a vedere a chi le persone fossero legate. «Cosa vuoi sentirti dire?»

Era una domanda difficile. Leo, al momento, era confuso persino riguardo il suo riflesso nello specchio – gli sembrava sbagliato, sotto ogni punto di vista e incompleto, esattamente come il suo libro, rimasto senza finale.

Da quando aveva perso Robin, non era più riuscito a lavorarci su... perché sapeva che avrebbe eliminato l'elfo dall'esistenza del cavaliere senza pensarci due volte, nell'impeto del momento. Sapeva che la sua rabbia era ancora troppo forte per non tentare di prendersi una rivincita contro quello stupido cavaliere innamorato (lui stesso) di chi lo aveva ingannato. Era questo, il problema: seppur desiderasse che il cavaliere imparasse a sue spese cosa significava credere in un paradiso inesistente, non voleva fare del male all'elfo, seppur colpevole di avergli mentito. Assurdo? Illogico? Eppure, almeno nel suo libro, voleva che Robin fosse al sicuro. Reale.

«... La verità» decise infine, forse semplicemente stufo di sentirsi mentire; sollevò la testa per affrontare di nuovo quello che lo circondava, perché era stanco di dover essere assecondato nei suoi deliri. E quella stanchezza era esattamente il motivo per cui non aveva più osato contattare nessuno dei suoi amici, sua sorella compresa.

«Ha posto te di fronte ai suoi sentimenti» sottintendendo quasi che così le intenzioni di Robin parevano evidenti: i suoi sentimenti erano reali. «Ed è inutile che te lo dica perché lo starai provando, ma un legame ammezzato è una tortura, anche se sono in molti a decidere di tenerlo così per... paura del cambiamento, credo».

«Dubito che quello che provo dipenda solo dal Predestino e dalle sue stupide regole». Si accorse troppo tardi di quanto aveva detto, esattamente nel momento in cui Madara aveva prima sbattuto incredulo le palpebre e poi, lentamente, aveva accennato un sorriso. «... questo non significa che io lo accetti, Madara. Non sono impazzito del tutto».

«Trovo già incredibile che questo Tsukasa sia riuscito dove tutti gli altri hanno fallito, me compreso».

Un brivido, nel sentire quel nome – quasi fosse al posto giusto – gli percorse tutta la colonna vertebrale, ma cercò di non darlo a vedere. «Che cosa vuoi dire?»

«Ti sta finalmente facendo considerare il mondo al di fuori dalla tua ossessione, Leo. Ti ha fatto rendere conto che tu sei il solo a dare così tanto peso al Predestino e che ha molto meno rilievo nelle vite di tutti di quanto tu creda».

Il silenzio che ne seguì rese chiaro per entrambi che lo scrittore non aveva realizzato niente di quello di cui Madara stava parlando, almeno non fino a quel momento.

Non poteva negarlo, buona parte delle scelte che aveva compiuto nella sua vita le aveva prese per puro spirito di ribellione: tanto per cominciare, il volersi allontanare a tutti i costi dalla società generalmente intesa con i suoi atteggiamenti assurdi, strambi se non addirittura completamente fuori di testa che aveva accumulato dall'adolescenza in poi; senza considerare le sue disastrose relazioni, quelle così sbagliate da rendere più che evidente che non poteva esserci alcun Predestino in ballo. Izumi rientrava tra queste? Non ne era certo – lo aveva amato, nel suo burrascoso ed impetuoso non sapersi relazionare col prossimo, lo aveva amato persino quando avevano passato ore e ore a litigare per ogni stupidaggine. Una parte di sé, lo sentiva chiaramente, lo amava ancora.

Ma saperlo con qualcuno che poteva farlo sorridere più che arrabbiare, che era in grado di renderlo più onesto con gli altri e soprattutto con se stesso... non lo faceva più soffrire, no. Lo faceva sentire sollevato, perché lui non avrebbe saputo gestirlo – lui non sapeva prendersi cura degli altri. Leo Tsukinaga non era abbastanza forte per poter guidare qualcuno fuori dalla propria oscurità; anche lui, come Izumi, doveva essere guidato, doveva accettare una mano che potesse liberarlo dalle torture che si infliggeva da solo, ogni giorno.

«Leo?»

Era così, da quando il suo smascherato elfo aveva lasciato la sua macchina. Continuava a pensare, ricordare, cercare di districarsi e ancora pensare, pensare, pensare.

Le sue mani era da giorni in balia di un prurito creativo che però non sapeva mettere per iscritto, qualcosa di persino più irritante di un comune blocco dello scrittore: aveva troppe idee che lo rendevano confuso, pensieri che si accatastavano in un disordine primordiale nella sua mente e qualunque cosa cercasse di scrivere assumeva l'aspetto di un non-sense troppo azzardato persino per lui; era come se qualcuno avesse preso una scatola di bottoni, già disordinata e ne avesse aggiunti almeno un altro centinaio di tipi troppo diversi per essere smistati velocemente e così la povera scatola non riusciva neanche più a chiudersi.

Se Madara non gli avesse pizzicato appena il braccio, probabilmente sarebbe rimasto assorto ancora una volta troppo a lungo nei suoi pensieri. «Sei sul punto di esplodere, eh?»

«Sono... confuso. Non so se sono arrabbiato, non so quanto mi fido di lui».

Il castano, ancora una volta, lo studiò con un'espressione sorpresa.«Ti fidi di lui?»

Non poteva stupirsi di quella reazione, anche lui stentava a crederci – il Predestino, si sarebbe risposto una volta; era ovviamente colpa della linea che la sua vita avrebbe dovuto seguire se si sentiva in quel modo, diviso tra l'amarezza e la fiducia che nonostante tutto aveva in... Robin. Eppure, sapeva che non era così – quella fiducia l'aveva costruita Robin, nessun altro al suo posto. Giorno dopo giorno, con le sue forze. Dare il merito al Predestino sarebbe stato da ignoranti e superficiali quanto dire che i libri di Leo erano solo storielle leggere o che chi lavorava a lungo per raggiungere i propri obiettivi aveva solo avuto fortuna. No, Robin aveva guadagnato la sua fiducia e l'aveva anche tradita, questo era certo, ma non del tutto. Come aveva detto Madara, lo aveva rispettato sino alla fine; Leo non l'aveva smascherato o colto con le mani nel sacco – al contrario, Tsukasa aveva deciso di aprirsi, di confessarsi colpevole prima che non fosse più possibile tornare indietro.

«Prendimi per pazzo, ma non lo ritengo un attore così abile da mentirmi su tutto. Anzi, è piuttosto goffo quando si tratta di fingere». Gli bastava ricordare quella sera, in teatro, quando colto in un ambiente in cui forse non si era preparato ad essere visto, aveva lasciato che il panico facesse bella mostra di sé sul suo volto.

Mikejima sprofondò in un silenzio comodo per entrambi, perché Leo ne approfittò per tirare fuori il suo solito e malconcio taccuino e scrivere le sue solite parole sconnesse: stavolta fu il turno di duello, lontano, metà.

«Secondo me, hai bisogno di cambiare aria» fu l'improvvisa conclusione di Mama, prima di dargli una sonora pacca sulla schiena. «E io ho quello che fa per te, sai? Un bel viaggio intorno al mondo, data di partenza quasi certa ma non quella di ritorno!» gongolò poi, tornando ad essere l'esaltato ed esagitato amico che Leo ben conosceva, con le sue idee pazze tanto quanto le sue. «È da un paio di settimane che penso di voler partire e avevo considerato di farlo da solo ma... ehi, un compagno di viaggio non è certo uno svantaggio».

Si era aspettato molte cose, da quella conversazione; Mama era un fiero sostenitore dei benefici del Predestino e, date le circostanze, Leo era sicuro che gli avrebbe consigliato di darsi del tempo e poi affrontare il nuovo Robin. Ad essere onesto, quella gli era sembrata l'idea più sana che aveva avuto durante quel periodo di isolamento – un atteggiamento tutto sommato maturo, da parte sua o almeno ragionevole.

E invece, Madara era andato oltre persino le sue possibilità: quanto gli aveva proposto suonava insensato, pazzo, spericolato – una persona qualunque, al suo posto, avrebbe cominciato ad elencarsi ogni singola difficoltà che un'idea del genere comportava: e il lavoro?, i suoi amici?, la sua famiglia?, i soldi?

Partire per un viaggio di sola andata, senza certezza né riguardo la meta né tanto meno con un'idea sul ritorno era una follia totale.

Una follia degna del ragazzino che, in piedi sui tavoli della mensa, proclamava che gli alieni sarebbero arrivati presto e che lui ne era il messaggero.

Gli occhi color smeraldo del rosso si rinnovarono di una nuova luce, la mente aperta finalmente a qualcosa di nuovo a cui pensare, ad una via di fuga da un tormento che, per quanto provasse a risolvere, non trovava alcuna risoluzione; il sapore di luoghi diversi, nuovi e sconosciuti bastava per stuzzicarlo, bastava per dare di nuovo una forma certa alle sue idee. Libero dai ricordi della sua casa, forse, avrebbe anche trovato la forza e la lucidità di capire cosa fare.

Per questo, probabilmente, con l'adrenalina che lo invadeva, balzò in piedi e sbatté con un'energia improvvisamente ritrovata le mani sulla superficie liscia del piccolo tavolo.

«Quando partiamo?»


Fare i bagagli era stato più semplice del previsto. La loro prima tappa non era lontana e, a parte qualche cambio, Leo aveva con sé solo quel poco che gli serviva per sentirsi libero: l'occorrente per scrivere e una macchina fotografica. Quando si partiva per un viaggio senza ritorno certo, era inutile appesantirsi di convenzioni che non avevano poi grande utilità.

L'unica persona che si era sentito di salutare fu Ruka: la ragazza, sulla soglia di casa, gli occhi lucidi come se sentisse su di sé la responsabilità di quella pazzia che stava per compiere, aveva accettato con aria abbattuta tutto il necessario per prendersi cura di Merlino. I capelli aranciati, quasi identici a quelli di Leo, erano in disordine e indossava il completino estivo che Leo le aveva regalato l'anno prima, un top rosa con rifiniture rosse e i pantaloncini corti abbinati. Non sapeva se stesse tentando di fargli cambiare idea o, semplicemente, l'essersi allontanato l'avesse provata più di quanto non avesse considerato.

«Noi... non volevamo--» provò a dire la piccola Tsukinaga, poi, proprio quando Leo si era apprestato a salutarla. Il ragazzo scosse la testa e, con un mezzo sorriso, le scompigliò i capelli.

«Ruka, non sono arrabbiato. Con nessuno di voi... beh, solo un po'» si corresse, cercando di rassicurarla pur essendo sincero. Sperò che la sua espressione fosse abbastanza serena da sembrare convincente. «Non parto per evitare di vedere voi, ma perché ho bisogno di tornare a respirare. E qui non posso farlo».

«Lo capisco, ma...perché non decidere quando tornare? E perché così all'improvviso, poi? Se non fosse stato per Merlino, non ti saresti neanche fatto vedere!»

Era così, lo sapevano entrambi. Aveva colto la scusa di Merlino per vederla, per salutarla senza che sembrasse davvero un addio e, inoltre, nella speranza che l'altro padrone del micio potesse farsi vedere.

Leo quindi non negò quanto la sorella aveva appena detto, ma si limitò a tirare fuori dalla borsa a tracolla che portava un mazzo di chiavi.

Quel mazzo di chiavi.

«Ti affido casa, è a tua completa disposizione e quando tornerò, sarai la prima saperlo» e detto questo, le lasciò un leggero bacio sulla fronte, godendo di quel contatto perché sapeva che gli sarebbe mancata. Sua sorella era quasi tutto il suo mondo, insieme alla scrittura e poco altro. «E a Ritsu, Isara e... Naru, soprattutto. Di' loro che so perché lo avete fatto, non vi biasimo affatto. Da una parte, ve ne sono grato».

Ruka lo guardò a lungo, aspettandosi qualcos'altro. Per Leo era ancora strano pensare che conoscesse... l'altro Robin, quindi non afferrò subito il significato di quella attesa.

Ma era presto. Ancora troppo presto.

Il messaggio doveva essere stato recapitato, pensò, perché nessuno dei suoi amici si azzardò a contattarlo. Nessuno di loro osò ribattere quanto il loro re – un re fasullo, senza alcun vero titolo e che eppure aveva per loro il medesimo valore di unione, forza, spinta verso il futuro – aveva stabilito: c'era tanto da fare, per tutti, perché Leo in quell'Eden aveva perso se stesso per cercare di rimanere accanto al suo elfo. E adesso vagava, un po' come Peter Pan, in un'Isola che non C'è sottosopra, alla ricerca di quella parte di sé che più di tutte poteva dargli una risposta.

Così, chiusa la valigia con un colpo secco, aveva solo un obiettivo, in mente: ritrovare Leo Tsukinaga e poi, insieme, decidere il finale del loro libro.


Note: E così, qui, in questo momento, ci fermiamo. C'è ancora così tanto da dire, così tanto da capire - eppure, Leo ferma il tempo. In questo momento specifico, decide di mettere in pausa la sua intera vita, di pensare al se stesso che nel finale del libro voleva sacrificare. Quanto è cambiato? Tanto. Ho creato questo Leo basandomi sulla mia visione della sua vita di artista, dove la musica (in canon) è ovunque, immanente. Ho continuato cercando di rendere l'artista una persona reale, capace di vivere la sua vita seppur con la paura della rinuncia. Ne è nato un Leo Tsukinaga che sento mio come pochi altri personaggi prima di lui, con una fragilità singolare fatta adesso di consapevolezze. Mi sono ritrovata più volte a pensare che ha intorno persone che lo amano per il caos che è e che genera; così come nel canon, così in questa fan fiction.
Gli ho tolto, infine, la capacità di mettere il punto alla sua storia. Ho deciso che questo compito appartiene a colui che l'ha guidato finora, consapevole o meno, in questa sua metamorfosi: Tsukasa. L'epilogo, forse diviso in due, sarà tutto su di lui, sul suo punto di vista - proprio perché Leo crede di non essere in grado di prendersi cura degli altri, voglio dimostrargli che non è vero.

E con questo, per ora, mettiamo la parola fine a questa storia lunghissima. Grazie, grazie davvero a chi ha letto, a chi si è confrontato con me, a chi mi ha dato un'altra possibilità nel credere di nuovo nel potere delle parole che riesco a mettere insieme.

Grazie.

   
 
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