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Stay foolish
"I
think I found my
place
Can't you feel it growing stronger?
Little
conquerors
Learning to walk again
I believe I've waited long
enough
Where do I begin?"
[Walk – Foo Fighters]
24 Maggio, Villa Stark
«Non
mi sembra una grande idea,» constatò ancora Tony,
fissando dubbioso
Nataša, al che lei alzò entrambe le sopracciglia.
«Ma come, non
eri tu a dire sempre che a volte "bisogna correre prima di saper
camminare"?» lo punzecchiò, facendogli poi cenno
di
muoversi.
«Era un'espressione metaforica. E mi sono
ravveduto,» borbottò lui, ancora più
riluttante a lasciare
l'appoggio delle stampelle.
Nataša sospirò, presa in contropiede
da quel suo atteggiamento stranamente cauto.
«Stark, fino a tre
giorni fa scalpitavi per fare tutto subito, come sempre. Cosa ti ha
fatto cambiare idea?»
Tony esitò, poi inclinò appena la testa
di lato e una smorfia a metà tra il contrito e il perplesso
gli
attraversò il volto.
«I lividi?» tentò infine, poco
convinto.
A quel punto Nataša si sedette di peso sulla panca,
poggiò i gomiti sulle ginocchia a sorreggersi il mento e lo
squadrò
fissamente da capo a piedi. Era in attesa e Tony sapeva che non si
sarebbe schiodata di lì finché non avesse fatto
ciò che doveva. Nel caso specifico camminare, o almeno
provarci.
Voltò la testa a
sfuggire le sue iridi chiare e impassibili. Non era certo la
prospettiva di qualche livido in più a frenarlo. A quelli si
era
abituato, così come al perenne dolore al petto, prima, e
alle
incessanti fitte ai moncherini, poi. A preoccuparlo era qualcosa di
molto meno ovvio e si chiedeva con apprensione se la sua improvvisata
fisioterapista, coi suoi anni di esperienza spionistica, riuscisse a
intuirlo.
Finché aveva tentato quasi per gioco di stare in piedi
o camminare da solo, ben conscio che fosse troppo presto per
riuscirci, non aveva dato peso ai suoi fallimenti e aveva invece
esaltato più del dovuto i suoi successi, per quanto minimi.
Nataša
si era sempre mostrata contraria a quelle bravate, insistendo che
fossero controproducenti, ma voleva credere che anche lei fosse
stupita dai suoi rapidi progressi. Lui stesso se ne meravigliava,
quando fino a pochi mesi prima non riusciva a immaginarsi neanche di
alzarsi da solo dal letto.
Adesso Nataša sembrava ritenerlo
pronto per i primi tentativi "ufficiali". La cosa
avrebbe dovuto entusiasmarlo. Al contrario, era paralizzato di fronte
alla prospettiva di un fallimento stavolta ingiustificabile. Temeva
di scoprire altri difetti in se stesso e nelle protesi, altre
limitazioni alle quali non avrebbe saputo porre rimedio. Era quasi
arrivato al capolinea: le protesi potevano ormai considerarsi
complete. Doveva solo sostituire le vecchie articolazioni con le
nuove, ma sapeva che anche quello non avrebbe migliorato in modo
sostanziale il loro rendimento e le interferenze tra i reattori
imperversavano, seppur in misura minore.
Intuiva con devastante
chiarezza che non avrebbe mai raggiunto il controllo completo dei
propri movimenti. Sentì un nodo alla gola nel dare forma
definitiva
a quel pensiero: non sarebbe mai riuscito a camminare così
bene come
aveva sempre ottimisticamente prospettato. Con tutta
probabilità
sarebbe
rimasto zoppo, e anche ammettendo che fosse un grande miglioramento
rispetto al non avere affatto una gamba, non riusciva a capacitarsi
di non poter fare di meglio.
Non voleva poi soffermarsi sui reali
limiti del braccio, che finora aveva evitato di sperimentare appieno,
ma la quantità di matite spezzate e oggetti rotti non faceva
ben
sperare. Così come il 15% di palladio nel suo corpo.
Aumentò la
stretta sulle stampelle, sentendosi appesantito da quei pensieri e
dalla fatica. A volte lo colpiva prepotente il desiderio di potersi
risvegliare quel giorno di cinque mesi prima per poter compiere scelte
completamente diverse da quelle che lo avevano portato in quella
situazione, non solo per quanto riguardava le protesi.
Lanciò
un'occhiata sfuggente a Nataša chiedendosi se al suo posto
avrebbe
potuto esserci qualcun altro, potendo ricominciare.
Si decise a
chiudere la porta su quei pensieri, prima che gli risucchiassero quel
briciolo di volontà che riusciva ancora a raccimolare ogni
mattina.
Lanciò un'occhiata alla palestra, come a verificare che
non ci fossero altri spettatori, poi lasciò andare i suoi
sostegni, facendoli cadere rumorosamente per terra.
Mantenne l'equilibrio in modo abbastanza naturale: a quello si era
ormai abituato, anche se non poteva ancora permettersi di perdere la
concentrazione. Adesso doveva solo... muoversi.
Sentì un
velo di sudore freddo che gli imperlava la fronte, mentre si sforzava
di trovare la percezione della propria gamba metallica. A quello non
si era ancora abituato.
«Muovi prima la protesi,» gli arrivò la
direttiva di Nataša, più un incoraggiamento che
un vero e proprio
consiglio.
Si era portata al suo fianco, così da poterlo
sostenere in caso di bisogno. Si teneva comunque a una distanza
ragionevole, rispettando quegli spazi ben delimitati dal suo
orgoglio: sarebbe stato tutto molto più semplice se si fosse
fatto
guidare lei, ma c'era un limite alla sua tolleranza per l'aiuto
altrui. L'estrema consapevolezza del suo corpo mutilato lo portava
comunque a schivare attivamente ogni tipo di contatto fisico, anche
se aveva finito per cedere un poco con Nataša.
Inspirò a fondo,
tanto che sentì una leggera costrizione allo sterno,
là dove il
reattore compenetrava la gabbia toracica. Rilassò il petto
alleviando la pressione.
Mosse cautamente il piede meccanico in
avanti cercando di non pensarci troppo e riuscì a
trascinarlo
pesantemente sul pavimento. Vacillò appena per lo
spostamento del
baricentro e dovette allargare le braccia per non cadere.
Nataša lo
sostenne brevemente per una spalla e annuì piano a quel
primo passo,
ma era accigliata:
«Devi provare a sollevarla come faresti con
l'altra. Stai dritto e abbassa le braccia.»
Lui si limitò a fare
un cenno affermativo, troppo assorto per rispondere e sentendosi
incapace di tenere a mente tutte quelle direttive. Si costrinse a
rilassare le braccia lungo i fianchi per non sembrare un funambolo e
trasferì lentamente il peso sulla protesi per tentare di
muovere il
passo successivo. Ci sarebbe stata una frazione di secondo in cui si
sarebbe ritrovato in equilibrio su una gamba sola, prima di poggiare
l'altra. Aveva simulato il movimento più e più
volte,
aveva
fatto valanghe di esercizi per imparare a coordinare le due gambe, ma
adesso gli sembrava di avere non una, ma due estremità
inerti e
insensibili ai suoi ordini.
"Salta prima di guardare,"
gli balenò in testa, e così fece, muovendo il
passo con
sicurezza.
La protesi cedette di schianto e si ritrovò carponi col
volto a un
soffio da terra; aveva avuto la prontezza di parare avanti almeno il
braccio sano. Si prese qualche istante per assicurarsi di essere
ancora tutto intero, ma a parte il palmo un po' arrossato e delle
fitte più acute del normale ai moncherini non sembrava aver
subito
altri danni. Fortunatamente aveva avuto l'accortezza di rinforzare il
rivestimento esterno delle protesi.
Accettò con riluttanza
l'aiuto di Nataša e si rialzò sorreggendosi il
meno possibile a
lei, lasciandola non appena fu sicuro che il suo punto d'appoggio
fosse stabile.
«Ok, quello era per scaldarmi,»
buttò
lì con
disinvoltura, molleggiando lievemente sulle ginocchia per testare la
tenuta delle articolazioni.
Il lampo accecante di dolore che seguì
quel piccolo gesto fu tale che gli si appannò la vista e
dovette
simulare uno sbadiglio per mascherare l'espressione sofferente e le
lacrime.
Nataša inarcò un sopracciglio ma non
commentò, probabilmente per
non demolire la sua ritrovata buona volontà.
Tony ci riprovò,
stavolta dosando con la massima attenzione i propri movimenti.
Riuscì
ad alzare appena il piede meccanico da terra e a riappoggiarlo senza
sbilanciarsi; allargò di nuovo le braccia per mantenere
l'equilibrio, sentendo un lieve fremito risalire lungo la sua gamba.
Spostò avanti e indietro il suo peso, senza decidersi a fare
leva
sulla protesi per muovere il passo successivo. Si umettò le
labbra secche, esitando ancora: in effetti non aveva così
voglia di
rimediarsi altri lividi, né di cadere ancora dando prova
della
propria incapacità.
"Cosa potrà mai succedere? Al massimo mi
rompo l'altra gamba," s'incoraggiò infine tetramente.
Smise
di guardare per terra e puntò lo sguardo su un punto
indefinito di
fronte a sé. Aveva ancora la percezione del suo appoggio; il
pavimento era freddo sotto la pianta del piede nudo, e si convinse di
poterlo sentire anche con quella artificiale. In qualche modo lo
aiutò a focalizzare meglio la sua posizione. Per una
frazione di
secondo ebbe la percezione di se stesso avvolto nell'armatura,
sollevato da
terra dai propulsori. Tutto ciò era davvero tanto diverso
rispetto
ai suoi primi, goffi tentativi di volo? Sentì un pizzicore
in fondo
allo stomaco al pensiero e gli parve che qualcosa lo sospingesse in
avanti con leggera fermezza.
Seguì l'impulso e mosse la seconda
falcata, un po' bruscamente per paura di cadere di nuovo. Lo slancio
fu troppo potente e fu costretto a compensare con un altro passo
affrettato della protesi, che si abbatté rumorosamente a
terra; si
ritrovò a incespicare in avanti senza più
riuscire a frenarsi.
Inarcò
la schiena all'indietro tentando di recuperare l'equilibrio e
finì
per atterrare a peso morto e ben poco dignitosamente sul sedere. Si
tastò l'osso
sacro dolorante, sforzandosi di non lasciarsi sfuggire neanche un
lamento, concludendo che era meglio finire culo a terra in privato,
piuttosto che in diretta come un paio di mesi prima.
Si lanciò
un'occhiata circospetta alle spalle, dove Nataša lo
osservava
impassibile.
«Ehi, quelli valevano come cinque passi, no?» le
chiese, con un ghigno tronfio.
Lei scosse la testa mentre si
avvicinava, tradendo un accenno di sorriso.
«Più o meno,» si
limitò a rispondere, offrendogli entrambe le mani e
aiutandolo
nuovamente ad
alzarsi.
«Sto iniziando a capire,» affermò lui in
tono
saputo, piantandosi di nuovo saldamente sui suoi piedi come
rinvigorito dalla caduta. «Dammi tre giorni e ti concedo quel
match
sul ring.» la sfidò poi con impertinenza.
Lei alzò gli occhi al
cielo, ignorando le sue solite sbruffonate, ma sembrava lieta che
avesse abbandonato la sua iniziale riottosità. In fin dei
conti
bastava poco per risollevargli l'umore e ancor meno per fomentare il
suo ego.
«JARVIS, metti qualcosa che mi dia la carica; la
playlist di volo della Mark III andrà bene,»
esclamò Tony,
attivando l'impianto stereo con un gesto della mano.
«Stark ti
prego, non ricominciare con quella tua musica infernale o...»
«Casa
mia, mie le regole!» la zittì con una linguaccia
infantile, mentre
la sua voce veniva coperta da un fragoroso accordo di chitarra
elettrica.
Nataša si tappò le orecchie sensibili. Non vedeva
l'ora che quell'incarico finisse, ma scosse la testa con fare
divertito nel vedere Tony che cercava di camminare facendo finta di
suonare una chitarra a mezz'aria.
***
26 Maggio, Villa Stark
«Stark,
concentrati, ci sei riuscito fino a...»
«È il Doc che mi sta
portando sfortuna!»
«È bello trovarla affabile come sempre,
signor Stark.»
«No, davvero, non ero caduto fino ad ora! Non è
una coincidenza!»
Tony sbuffò, rifiutò
l'aiuto di Nataša e si
issò sulla sua solita panca, accaldato e guardando storto
Ian; si
attaccò alla borraccia di clorofilla senza staccargli
l'occhio di
dosso. La donna scambiò un'occhiata esasperata col medico,
che
alzò le spalle, ormai abituato alle esternazioni di
"gratitudine"
del suo paziente preferito.
«Se ne occupa lei per un po'? Ho
davvero bisogno di una pausa,»
sospirò la donna,
sottintendendo un palese "altrimenti lo strozzo".
Era evidentemente sfiancata dopo aver passato gli ultimi tre giorni a
tenere a
bada un irrefrenabile e iperattivo Tony Stark che, tra una crisi di
scoraggiamento e l'altra, sembrava voler compensare tutto l'ozio di
quei mesi nel minor tempo possibile. Ian annuì
comprensivo, osservando Nataša uscire a passo di carica. Era
incredibile come quella donna, che dalle sue enigmatiche telefonate
con Coulson aveva intuito essere parte dello SHIELD, non l'avesse
ancora ucciso.
Il medico si avvicinò con falcate indolenti a
Tony, che si stava premendo una borsa del ghiaccio sulla testa
ammaccata scrutandolo ancora con espressione decisamente diffidente.
«Mi
sembra che la sua riabilitazione stia andando bene,»
commentò Ian,
mettendosi le mani in tasca e attirandosi una nuova occhiataccia da
parte sua.
«Fino a dieci minuti fa, sì,»
replicò
acidamente Tony.
Ian si schiarì la gola con fare
irritato:
«Quella non si chiama "sfortuna", ma "ansia
da prestazione".»
A quelle parole Tony sollevò la testa di
scatto, puntandogli contro l'indice:
«Io e un altro centinaio di persone
possiamo
confermarle che non soffro di nulla del genere e che...»
«Stark!
Non era questo che intendevo!» lo
interruppe Ian, diventando
paonazzo e non volendo assolutamente sapere se quella fosse
un'esagerazione o meno.
Tony ammutolì, rendendosi conto di aver
reagito un po' troppo bruscamente e piuttosto a sproposito.
«Mi basta la Everhart a
screditare la mia virilità in prima pagina. Non ci si metta
anche
lei, neanche per scherzo,» replicò infine piccato,
e riprese a
premere il ghiaccio contro il bernoccolo.
Ian mantenne un cauto
silenzio, rendendosi conto di aver toccato involontariamente un nervo
scoperto. Tony notò l'espressione impacciata del medico e si
lasciò
sfuggire un sospiro:
«Tranquillo, Doc, non me la prendo per così
poco. Ho comunque tutte le mie altre "performance" a
smentire le balle di Vanity Fair.» Terminò
la frase con un
sorrisetto sghembo che riportò al cielo gli occhi di Ian, e
ripose la
borsa del ghiaccio accanto a sé. «Comunque,
l'ansia è fatta per
essere superata,» continuò in tono esageratamente
teatrale,
cercando di alzarsi da solo ma rassegnandosi infine ad accettare
l'aiuto di Ian, che gli porse discretamente una mano.
Il medico era già pronto a sostenerlo, ma Tony
rimase saldamente in piedi, così si allontanò di
un passo,
aspettando incuriosito e con moderata aspettativa. Poco prima l'aveva
visto muovere appena un
paio di passi incerti prima che lui notasse la sua presenza e
rovinasse a terra all'istante. Anche solo il fatto di reggersi sulle
sue gambe era un risultato eccezionale, considerando le condizioni
pietose in cui versava fino a un mese prima.
Per ora, Tony continuava a spostare
nervoso il peso da una gamba all'altra, sentendosi troppo osservato.
Fino a
quel momento non si era minimamente posto il problema di come
apparisse ad occhi esterni, ma adesso si sentiva come alla prima di
uno spettacolo poco prima di salire sul palco. O almeno,
pensò che
così dovevano sentirsi gli attori o i musicisti: lui di
panico da
palcoscenico non se ne intendeva, visto che si comportava sempre come
se fosse
sotto i riflettori, con assoluta disinvoltura. Concluse
solo che non era una sensazione piacevole, ma s'impegnò a
tenerla
sotto controllo.
Quella era l'occasione giusta per mostrare a Ian,
sempre così scettico e negativo, che le protesi funzionavano
e,
soprattutto, che non doveva pentirsi di avergliele impiantate. Sapeva
benissimo che il medico era afflitto da molte più
preoccupazioni
riguardo al suo operato di quanto lasciasse trasparire, e voleva
cercare di alleviarne almeno una parte, visti anche i suoi recenti
turbamenti sui quali continuava a mostrarsi estremamente
riservato. Gli scoccò uno sguardo da sopra la spalla, con un
sorriso furbo:
«Stia a guardare. Sta per assistere a qualcosa che
non si vede tutti i giorni,» si vantò, suscitando
un'espressione
dubbiosa sul volto dell'altro.
Tony represse il nervosismo che gli
stava facendo tremare la protesi e ripeté la sequenza che
aveva
ormai imparato a seguire ed applicare: fece un respiro profondo,
trattenne l'aria e mosse il primo passo con la protesi, espirando.
Barcollò appena. Fece lo stesso con l'altra gamba e poi
ancora, e
ancora, a ritmo col proprio respiro. Era un trucco così
elementare che quando Nataša gliel'aveva suggerito era
scoppiato a
ridere, pensando che lo stesse prendendo in giro. Si era dovuto
ricredere ben presto. Non faceva certo miracoli, ma almeno lo aiutava
a cadenzare la camminata, anche se per ora, più che una
camminata,
era una marcetta ridicola e macchinosa. Ma riusciva a muoversi
senza aiuto, e questo fatto da solo lo riempiva di una gioia che non
provava da tempo. Era a malapena in grado di contenere l'entusiasmo
per quei pochi, stentati passi che riusciva a mettere in fila.
Contò
il settimo. Poco prima ne aveva fatti nove e si era messo in testa di
fare
sempre meglio della volta precedente, così
ricacciò indietro il
tremito dei suoi muscoli e si sforzò di non guardarsi i
piedi,
continuando ad avanzare e contare. All'undicesimo passo si
fermò di scatto a corto di fiato, avvertendo un tremito
cedevole nei muscoli; ridistribuì il peso su entrambe
le
gambe per non cadere di schianto e si prese qualche secondo per
metabolizzare il suo successo. Sentiva il moncherino in fiamme, ma
strinse i
denti e si
girò con cautela a guardare Ian che lo fissava con
espressione quasi
scioccata, nonostante cercasse di mantenersi compassato come
sempre.
Tony lasciò trapelare appena la sua euforia, prima di
sorreggersi con le mani sulle ginocchia per poi lasciarsi scivolare
lentamente a terra, nel tentativo di riprendere fiato tra i denti
serrati e di alleviare
il peso sulla ferita. Si sedette di peso e piegò un paio di
volte il ginocchio,
ignorando
le proteste della piaga e il cigolio della protesi. Si accorse
del medico che gli si avvicinava e si accovacciava alla sua altezza,
ma non alzò la testa per nascondergli la sua espressione
ancora
dolorante. A quel punto Ian ebbe qualche secondo di esitazione, per
poi dargli una goffa pacca sulla spalla e stringerla appena, puntando
però lo
sguardo da
tutt'altra parte.
Tony quasi sobbalzò, ma apprezzò il
tentativo. Sapeva che il medico trovava difficile esternare
ciò che
pensava, soprattutto se era qualcosa di positivo: da parte sua quel
gesto impacciato valeva più di mille parole. Si decise ad
alzare il
volto, con la tipica espressione sorniona stampata in faccia a
coprire quella ancora provata dallo sforzo.
«Non è così
difficile, dopotutto,» disse, in tono forzatamente leggero.
Dal
lampo che passò sul volto di Ian era sicuro di dover
ringraziare le
sue condizioni di salute ancora incerte per non aver ricevuto un
pugno in piena faccia. Strinse un poco la presa sulla sua spalla.
«E ci ha messo così tanto a capirlo?» lo
rimproverò laconico, ma in tono pacato, scrutandolo da
dietro le lenti.
Tony sentì la sua
soddisfazione rimpicciolire di fronte a quelle parole accusatorie. Si
scostò i capelli umidi dalla fronte e distolse lo sguardo,
improvvisamente a disagio. Intuiva perfettamente ciò che
intendeva Ian, anche se di solito cercava di non pensare a tutto
ciò
che era successo prima. E soprattutto al tempo
perso. Preferiva concentrarsi sui successi dell'ultimo mese, su
quei progressi incredibili che non avrebbe mai immaginato di poter
compiere in così breve tempo, sia mentalmente che
fisicamente.
Ritrovarsi in piedi era stato un fulmine a ciel sereno, e mentre
sapeva che era in gran parte merito suo, si rendeva conto di dovere
moltissimo anche agli altri. A dirla tutta doveva loro la vita, che
aveva un valore infinitamente più alto di qualche bravata
con le
protesi. La gratitudine non era una sentimento a lui familiare, ma
si era ritrovato a provarlo sempre più spesso in
quell'ultimo
periodo, soprattutto verso l'unica persona che gli mancasse in quel
momento.
«Sarò anche un genio, ma sono un po' lento in
queste
cose,» tentò di sdrammatizzare, per camuffare il
suo turbamento.
Era
fin troppo consapevole che avrebbe dovuto iniziare a mostrarsi
riconoscente molto, molto prima, quando invece gli unici sentimenti
che lo affliggevano erano fastidio, frustrazione e insofferenza verso
chiunque cercasse di entrare nel guscio impenetrabile che si era
impegnato a delimitare accuratamente, e che aveva infine tentato di
distruggere insieme a se stesso. Aveva davvero molto da farsi
perdonare, ma doveva pur cominciare da qualche parte.
Si accorse
con stupore che un sorriso appena accennato aleggiava sul volto di
Ian.
«Meglio tardi che mai.»
***
29 Maggio, Villa Stark, 08:20
Tony
si svegliò particolarmente indolenzito e passò
una buona mezz'ora a
crogiolarsi nel letto senza trovare la voglia di alzarsi. Sentiva di
meritare un po' di riposo dopo i successi dei giorni prima e per una
volta non si sentiva incalzato dal senso d'urgenza che aveva
permeato quelle ultime settimane, né dalla spossatezza
rassegnata
che lo trascinava spesso nell'apatia.
In quel caso aveva solo voglia di
concedersi un po' di sano riposo: i suoi progressi superavano le
aspettative e non sarebbero state un paio d'ore d'ozio a
rallentarli. Si rifugiò di nuovo sotto le lenzuola appena
lambite
dalla luce dorata del sole, godendosi il tepore e la quiete del
mattino mentre ondeggiava in un labile e piacevole dormiveglia.
Dopo
poco, però, la sua naturale irrequietezza ebbe la meglio
sulla
pigrizia e si destò del tutto. Si sedette sulla sponda del
letto e saggiò la
stabilità
della gamba, trovandola come sempre troppo dolorante per mettersi in
piedi senza sostegni come aveva ingenuamente sperato. Si
lasciò
sfuggire un sospiro deluso, ma non lasciò che
quell'inconveniente
abbattesse il suo buonumore e afferrò le stampelle issandosi
in
piedi. La protesi anteriore cigolò spiacevolmente
strappandogli una
smorfia infastidita. Fece qualche passo di prova, concludendo che
poteva poggiarla appena senza troppe conseguenze e si avviò
in
bagno, ansioso di abbandonarsi nella vasca per ridurre la pressione
che sentiva sui moncherini, in attesa degli antidolorifici. Poi
avrebbe potuto dedicarsi a qualche esercizio di "consolidamento
delle articolazioni", come li aveva chiamati Nataša.
La
donna aveva evidentemente esaurito la dose di buona volontà
e
pazienza nei suoi confronti e il giorno prima aveva stabilito che
adesso era in grado di cavarsela da solo, ma gli aveva lasciato
qualche compito a casa e aveva minacciato di scatenargli contro
Rogers se avesse battuto la fiacca o, al contrario, se avesse fatto
pazzie.
Lui si era limitato ad annuire e borbottare dei "sì"
assenti ad ogni sua raccomandazione decisamente inutile: non aveva
alcuna voglia di rompersi di nuovo le protesi per ricominciare tutto
da zero, di nuovo. Nonostante ciò, l'aveva ringraziata con
sincera riconoscenza e anche lei sembrava soddisfatta del lavoro che
aveva svolto con lui, arrivando a congedarsi con un fiducioso "a
presto", accompagnato da uno sguardo meno gelido del solito e coronato
da un rapido, saldo abbraccio che l'aveva sorpreso. Tony
si era limitato a sorridere di rimando e ricambiare in modo un po'
impacciato:
Nataša
aveva fatto per lui molto più di quanto si sarebbe aspettato
e
probabilmente più di quanto le fosse stato ordinato. Sapere
di
essere forse riuscito a riconquistare almeno la sua fiducia, dopo
quella di Clint, lo riempiva di ottimismo e alimentava la speranza
che un giorno sarebbe stato di nuovo bene accetto tra i
Vendicatori. Quel pensiero portò con sé una
ventata di serenità, e si godette il bagno con un lieve
sorriso ad aleggiargli sulle labbra.
Dopo
essersi districato goffamente tra vasca, accappatoio e vestiti,
riuscendo miracolosamente a non cadere, scese al piano terra, deciso a
fare una colazione rapida e a non perdere altro tempo. Avrebbe speso
la mattinata in laboratorio calibrando il braccio, visto che, da
quando aveva finito di modificare i nervi, la sua eccessiva potenza gli
era
già
costata tre bicchieri, un telefono e una stampella.
«JARVIS,
proiettami un modello della protesi anteriore,»
ordinò, mentre
sorseggiava la sua prima razione di clorofilla al posto del
caffè.
Premette distrattamente il dito sul rilevatore di tossicità:
ancora 15%. Allargò il colletto della maglia per sbirciare
il
reattore e intravide il solito leggero reticolo di vene scure a
circondarlo. Tutto nella norma.
L'ologramma era sospeso sul tavolo
della cucina e lui prese a ruotarlo qua e là mentre cercava
di
stemperare il saporaccio del "succo d'erba" con un toast un
po' bruciacchiato. Non era una combinazione vincente, concluse con
una smorfia schifata, ingrandendo intanto la capsula del gomito.
Avrebbe dovuto decidersi a realizzare le nuove articolazioni, ora che
non aveva più scuse per rimandare la cosa...
«Di' ai robot di
preparare un'altra partita di unobtanium. Me ne servirà un
bel po',
calcolane almeno tre o quattro di chili,» precisò,
tracannando
l'ultimo sorso dell'intruglio imbevibile.
«Subito. Robot
operativi,» rispose il suo maggiordomo, stranamente laconico
anche
per essere un'entità incorporea.
Seguì un breve silenzio interrotto solo dal
ticchettio distratto delle dita meccaniche di Tony sul tavolo, intento
a ruminare sulla sua colazione e sugli schemi azzurrini.
«Oggi
è il 29 maggio 2009,» annunciò
inaspettatamente JARVIS. «Buon
compleanno, signore.»
Tony rimase col toast a mezz'aria, preso
alla sprovvista.
«Oh, giusto. Grazie, JARVIS,» riuscì a
dire
infine, riprendendosi dallo stupore e addentando il toast con ancor
meno appetito.
Rimase pensieroso per qualche minuto, rimuginando
sui suoi trentanove anni appena compiuti mentre finiva di
mangiare. Doveva ammettere di aver perso completamente il conto
dei giorni. Era consapevole che il suo compleanno si avvicinava, ma
aveva volutamente ignorato la cosa, troppo preso dai suoi recenti
successi per prenderlo come un evento davvero significativo –
come se gliene fosse mai importato qualcosa, in effetti.
«C'è
qualche messaggio per me?» chiese dopo un po', suo malgrado
speranzoso.
Una schermata della sua posta elettronica fu
proiettata sulla superficie lucida del tavolino. Tony prese a
scorrere pigramente i messaggi, col mento sorretto dalla mano
meccanica.
«Ha ricevuto un centinaio di e-mail di auguri dai soci
delle Stark Industries e dai suoi ammiratori, oltre a quelli dei suoi
affiliati e...»
«Intendevo messaggi importanti.
Da gente che conosco di persona e che non ho incontrato una sola
volta in vita mia ubriaco a qualche festa o convegno,» lo
interruppe
lui, scurendosi in volto mentre selezionava con un gesto tutte le
mail arrivate quel giorno.
Le estrasse virtualmente dalla loro
finestra, le compresse in un agglomerato di pixel olografici e le
gettò a mo' di palla da basket nell'icona del cestino 3D,
che
registrò il canestro con un jingle da sala giochi.
«Ha un SMS da
parte del Colonnello Rhodes.»
«C'è ancora chi manda SMS? Anzi,
esistono ancora?» commentò lui, nascondendo lo
stupore e
connettendosi a distanza col suo telefono, probabilmente sepolto
sotto un mucchio di ciarpame in laboratorio.
L'SMS si rivelò
essere un lapidario "Auguri."
che suonava più come
un'intimidazione. Apprezzò lo sforzo di Rhodey, ma
evitò di
rispondere con un altrettanto minaccioso
"Grazie."
«Tutto
qua?» sbottò infine, senza nascondere la propria
delusione.
«Signore, è innegabile che il suo recente
comportamento non abbia ispirato sentimenti positivi verso di lei,
nemmeno nel giorno del suo compleanno.»
«Spero che questa
predica non sia il tuo
regalo,» sbuffò lui.
"Scommetto che se avessi organizzato
una delle mie feste qui mi sarei ritrovato mezza Los Angeles alla
porta, pronta a darsi alla pazza gioia," pensò infine con
amarezza, senza riuscire a trovare la voglia di alzarsi da
tavola.
Aveva sempre saputo che il suo enorme giro di conoscenze
era formato in gran parte da ipocriti e opportunisti che lo
frequentavano unicamente perché era Tony Stark: geniale,
avvenente,
ricco, e soprattutto generoso. Una combinazione che non poteva che
attirare sciami di adulatori come mosche sul miele. Col tempo si era
convinto di aver trovato delle persone che guardassero oltre i suoi
completi firmati, ma una gli mandava frecciatine spacciate per
auguri, l'altra l'aveva cacciata lui stesso dalla propria vita, e
l'ultima
si era rivelata una serpe e l'aveva ridotto in quello stato pietoso.
Si accorse di aver contratto la mascella e si impose di rilassarsi,
avvertendo un rancore bruciante che l'avrebbe probabilmente portato a
rompere la prima cosa gli fosse capitata a tiro. Fece bruscamente
leva su una stampella, allungandosi per afferrare l'altra, quando
sentì il metallo cedere sotto la spinta eccessiva della
protesi; si
sostenne al tavolo con la mano libera e sollevò l'attrezzo,
prendendo atto con sgomento
della
maniglia deformata e dell'asta completamente incurvata.
«Buon
compleanno a me,» canticchiò avvilito, alzando
l'occhio al
cielo.
Mollò per terra di malagrazia quell'arnese ormai
inservibile, sentendo la rabbia che scemava a poco a poco, a
ritmo coi respiri profondi che si imponeva di fare. Non era il caso
di mettere di nuovo a soqquadro la cucina. Si destreggiò
attraverso la stanza con la stampella superstite e dopo qualche passo
scoprì di non cavarsela così male come credeva:
l'impedimento più
grande era l'attuale dolore al moncherino, ma a parte ciò
riusciva a
spostarsi con relativa agilità.
Si trasferì zoppicando in bagno
– era decisamente
l'ora dei suoi antidolorifici – usando la stampella a mo' di
bastone da passeggio con il braccio sano per evitare di danneggiare
anche quella. Non era una soluzione malvagia, concluse adocchiando lo
strumento. Sicuramente adesso che controllava meglio la protesi
poteva essere un miglioramento rispetto alla sua solita andatura a
balzelloni, anche se così si spostava molto più
lentamente. Finché
non riprendeva a camminare in modo decente avrebbe potuto farci un
pensierino. Fissò il suo riflesso accigliato, con una piega
amara a
solcargli le labbra: d'altra parte, dubitava che sarebbe mai
più
riuscito a camminare senza un qualche tipo di sostegno.
Mandò giù
con più sollievo del solito le sue pasticche.
Un quarto d'ora dopo era
stravaccato indolentemente sul divano, di nuovo in pace con se stesso
e con l'impianto stereo che faceva vibrare i vetri con gli
spericolati riff deiVan
Halen.
Ascoltava distratto, muovendo appena il piede meccanico a ritmo con
la musica. La consapevolezza che fosse il suo compleanno
allontanava la sua mente dal senso del dovere, indirizzandola verso
una condizione di noia e fiacchezza. Avrebbe voluto festeggiarlo in
qualche modo, ma non c'era davvero molto che potesse fare, a parte
prendersi una pausa dal lavoro. Aveva constatato con fastidio che la
piscina era vuota e inutilizzabile, non era dell'umore per guardare
un film, non era esattamente un amante della lettura e stava
già
dando fondo alla sua collezione di vinili che non l'avrebbe tenuto
impegnato a lungo.
Avrebbe potuto riprendere qualche lavoretto
sulle sue macchine d'epoca. C'era ancora la Ford Flathead del '32 che
non era mai riuscito a perfezionare come voleva... ma che gusto c'era a
riparare auto se poi non poteva guidarle? Coi riflessi e la vista
che si ritrovava il quel momento sarebbe precipitato dalla scogliera
alla prima curva. E poi chi lo sentiva Fury...
Il suo sguardo si
aggirò svogliato per il salotto, registrando con una punta
di
rammarico la piattaforma un tempo occupata dal pianoforte. Non che
avrebbe mai potuto sperare di combinare nulla di che con una mano
sola, ma sarebbe comunque stato un diversivo piacevole. Peccato che
avesse avuto la brillante idea di schiantarcisi sopra con la Mark
II, e poté quasi sentire i comprensibili
rimproveri di sua madre.
Sprimacciò il cuscino sotto la testa, assorto. Era fin
troppo conscio del fatto che il più bel regalo di compleanno
sarebbe
stato poter indossare l'armatura e volare anche solo per qualche
minuto. Sentì il familiare senso d'incompletezza farsi
strada in
lui, ma lo soppresse con veemenza: almeno per quel giorno non voleva
dare vita ai suoi pensieri negativi. Dovevano rimanere inerti: solo
per quel giorno voleva vederli come semplici ombre in lontananza,
incorporee e innocue.
Quindi... aveva già escluso tre quarti di
ciò che amava fare. Ed erano appena le dieci del mattino.
Sospirò
annoiato.
Forse passare un po' di tempo in laboratorio non era
un'idea così
malsana. Avrebbe sempre potuto progettare
qualcosa di
assolutamente frivolo e inutile... per esempio un bastone da
passeggio all'avanguardia che non l'avrebbe fatto sembrare un relitto
appena uscito da una casa di riposo.
Si lasciò sfuggire un
mugolio annoiato: sembrava che l'unico vero passatempo rimasto fosse
la tv, che accese con un gesto svogliato della mano. Stava giusto
scorrendo una cineteca virtuale, alla ricerca di qualcosa che non lo
facesse addormentare dopo cinque minuti – evitando la
fantascienza:
basta rivolte delle macchine – quando adocchiò la
console sotto
l'enorme schermo piatto in salotto, rimasta a prendere polvere nel
corso degli ultimi anni.
Si tirò la punta del pizzetto e scostò
da parte l'ologramma, improvvisamente tentato.
Da quanto non
faceva una partita?
***
29 Maggio, Helicarrier, 10:30
Pepper
cancellò per l'ennesima volta il messaggio e mise nuovamente
in
tasca il cellulare, sapendo che probabilmente non avrebbe resistito a
lungo prima di riprenderlo.
Si costrinse a riportare l'attenzione
sulla riunione gestionale dello SHIELD, al confronto della quale il
summit annuale delle Stark Industries sembrava l'evento più
divertente di sempre. Soprattutto quando il proprietario si decideva
a presenziare, trasformando il tutto in uno spettacolo di cabaret. Si
accorse di sorridere al ricordo e la sua mano ripescò come
di
riflesso il cellulare, causandole un moto d'irritazione che dissolse
il sorriso dal suo volto, riportandolo a una maschera corrucciata.
Si
ritrovò a fissare la schermata del nuovo messaggio ancora
intonsa,
con la stanghetta di pixel neri che lampeggiava come incitandola
impazientemente a scrivere.
L'unico campo compilato era quello del
destinatario: "Tony Stark".
Accanto al nome c'era una
miniatura della foto che lui le aveva praticamente imposto di
assegnare al suo contatto: si distingueva Tony con degli occhiali da
saldatore indossati al contrario e una smorfia comica sul volto, col
laboratorio a soqquadro a fargli da sfondo. All'epoca aveva tentato
in tutti i modi di cambiarla, ma lui doveva aver criptato
chissà come il file per
evitarlo: tipico di Tony. Fu colta da un misto di rabbia e nostalgia.
Dalla foto si intravedeva già il puntino luminoso del
reattore:
notarlo le richiamò come sempre un leggero tremito nelle
mani e una
sensazione viscida e serpeggiante nello stomaco.
Sospirò e spense
lo schermo, fingendo di interessarsi a ciò che stava
blaterando
Coulson, anche se dalla sua voce monocorde non interessava
probabilmente neanche a lui. Dopo pochi minuti la disattenzione ebbe
di nuovo la meglio su di lei.
In quel lasso di tempo trascorso allo SHIELD aveva avuto
modo di pensare. E anche di non pensare. Aveva
passato due
lunghe settimane assorbita dal lavoro, serena e libera da
preoccupazioni. Era stato come concedersi un sonno ristoratore, e,
quando i pensieri che l'avevano angosciata avevano ricominciato a
fare capolino, aveva avuto la certezza di poterli affrontare con mente
fresca e razionale come era abituata a fare. Non sentiva più
il
bisogno di ignorarli, così aveva accostato la porta che
aveva tenuto
chiusa fino ad allora, lasciando trapelare tutto ciò che
aveva deciso
di accantonare momentaneamente.
Si era ritrovata a pensare sempre
più spesso a Tony, soprattutto in termini negativi: il
ricordo di
ciò che aveva tentato di fare a stesso continuava a
tormentarla. A
volte ripensava a quegli attimi eterni di panico e terrore, al buco
straziante che le aveva perforato il petto quando
aveva veramente creduto che fosse morto davanti a lei. In quei momenti
avrebbe solo voluto trovarselo davanti per potergli urlare in faccia
quanto
fosse stato un idiota e un ingrato e di quanto in quel momento
l'avesse odiato con tutta se stessa. Anche adesso pensarci le
provocava un miscuglio di sollievo nel saperlo viv,o e di cieca rabbia
per averlo visto lasciarsi andare a quel modo.
Le capitava ancora
di svegliarsi agitata nel bel mezzo della notte senza sapere
perché,
ma in cuor suo riusciva a intuire cosa avesse sognato e ciò
non
faceva che aumentare la sua frustrazione. A volte però
scorreva
nella sua testa anche tutto il resto: visioni fugaci di quei dieci
anni in cui aveva imparato a conoscerlo più di chiunque
altro,
almeno così le era sembrato, arrivando a segnare tappe che
andavano
decisamente oltre al puro rapporto lavorativo per scivolare in un
affetto sincero. Non provava alcun rancore per quegli anni, anzi,
avrebbe voluto tornare a quei giorni prima dell'incidente, anche
egoisticamente prima di Iron Man, nonostante sapesse quanto Tony
tenesse a quella parte di sé e quanto lei stessa avesse
preso a
guardarlo con occhi diversi da quando aveva intrapreso quella strada
tutt'altro che semplice. Nel costruire Iron Man e accettare tutto
ciò
che ne
conseguiva, aveva dimostrato una purezza d'ideali che mai si sarebbe
aspettata da una persona in apparenza superficiale e materialista,
costantemente barricata dietro sorrisi falsi, occhiali scuri e
completi costosi.
Ricordava chiaramente la loro discussione al
riguardo e fino a quel momento non lo aveva mai visto parlare in modo
così serio e con così tanto trasporto di
qualcosa. Le sembrava che
avesse iniziato a vivere veramente solo nel momento in cui aveva
indossato l'armatura, dandosi un obiettivo concreto.
Poteva
davvero biasimarlo fino in fondo per la reazione che aveva avuto dopo
l'incidente, quando aveva creduto di aver perso tutto ciò
per
sempre? Quel pensiero empatico verso di lui fu offuscato dalla
rabbia che riemerse nel rammentarsi seccamente che, nonostante il
percorso di redenzione che si era imposto, aveva tentato di porre
fine alla sua vita, e quello non avrebbe mai potuto
giustificarlo.
Pepper chiuse per un breve istante gli occhi,
riprendendo il controllo sui suoi pensieri così atipicamente
irresoluti.
Di una sola cosa era certa: prima o poi uno di loro si
sarebbe inevitabilmente trovato a fare un passo verso l'altro. Una
parte di lei esigeva
che fosse lui. Le sembrava semplicemente
naturale, visto come erano andati i fatti. Era estremamente raro e
inusuale che Tony chiedesse scusa a qualcuno, ma era riuscito a farlo
in un paio d'occasioni, di cui una fin troppo recente e dolorosa.
Sarebbe stato ragionevole aspettarselo anche in questo frangente, ma
aveva la netta impressione che non sarebbe andata così, per
il
semplice motivo che, se era raro che Tony ammettesse di aver
sbagliato, era ancora più inaudito che provasse vergogna. E
aveva la
certezza che si vergognasse profondamente del suo comportamento:
l'aveva percepito durante la loro ultima discussione, quando lui
aveva avuto a malapena il coraggio di guardarla negli occhi dopo
averle fatto male. Si toccò inconsciamente il braccio, che
non
recava ormai alcuna traccia di quel gesto avventato ma, ne era
cosciente, involontario. Tony poteva essere insopportabilmente
arrogante, indisponente ed egoista, ma non si era mai permesso di
sfiorarla neanche con un dito, figurarsi ferirla di proposito. E
soprattutto, pur di proteggerla aveva messo a rischio la sua stessa
vita, finendo per perderne proprio la parte più importante.
Ma quello era un pensiero che le causava un gorgoglio acido nello
stomaco e troppi dardi roventi nel cervello.
Comunque fosse, non
era sicura che Tony fosse in grado di superare quel muro di senso di
colpa di propria iniziativa, e per questo era consapevole che, forse,
il primo gesto doveva venire proprio da lei. Ciò la
indispettiva:
le sembrava un'ammissione di resa, un messaggio secondo il quale
tutto poteva essergli perdonato. E lei non aveva alcuna intenzione di
farlo, né adesso, né mai. Forse un giorno avrebbe
potuto accettare la cosa con occhi
diversi e leniti dal tempo, ma non sarebbe mai stata in grado di
dimenticare quella parte rabbiosa e ostile di lui che era emersa
così
prepotentemente, impossibile da contenere e dannosa per se stesso e
gli altri. Non era un qualcosa che si potesse semplicemente aggiustare:
sarebbe sempre rimasta una crepa a segnare quella rottura.
Quella
consapevolezza la addolorava, ma sapeva che era inevitabile, se mai
fossero davvero riusciti a radunare i cocci per porre rimedio a quel
disastro. Per il momento si era imposta di non tentare nulla di
avventato che potesse risultare fraintendibile o di cui si sarebbe
potuta pentire.
Poi, una settimana prima, aveva ricevuto la sua
mail. Non era riuscita a forzarsi ad aprirla subito, ma dopo poco
aveva capito che non era stata recapitata solo a lei, ma a tutto lo
SHIELD, sollevando un lieve scompiglio tra il personale in un misto
di incredulità, scetticismo e pettegolezzi. Pepper si era
quindi
decisa ad aprirla, trovando una semplice riga di testo – "per
una volta cammino prima di correre" – con una foto
in
allegato. Nel vederla aveva capito lo scalpore che aveva
suscitato: si vedeva Tony in piedi e senza sostegni, con le mani a
formare due "V" di vittoria e il solito sorriso irriverente
e compiaciuto di sé a illuminargli il volto.
Pepper sospettava
che Fury avesse volontariamente lasciato correre la cosa. In fondo,
sotto quella scorza d'acciaio, sapeva avere dei momenti di
umanità
inaspettata, e nonostante la breve, estremamente seccata comunicazione
via intercom che invitava gli agenti a ignorare l' "esibizionismo
da diva di Stark", era propensa a credere che la notizia dei
rapidi progressi di uno dei suoi collaboratori lo rallegrasse e
rassicurasse allo stesso tempo.
Soprattutto, dopo l'innaturale
riservatezza di Tony, che aveva incredibilmente tenuto un basso
profilo anche al processo e aveva addirittura accettato di
intraprendere la riabilitazione facendosi seguire da Nataša
senza
prenderla come un'umiliazione, Pepper era abbastanza convinta che
quello si potesse considerare ben più di un passo avanti.
Anche dai
brevi scambi che aveva avuto con l'agente Romanov, con la quale in
realtà si era lasciata sfuggire più di quanto
volesse, le era
sembrato che tutti avessero un'opinione più positiva di lui,
anche
gli stessi Vendicatori. Persino Coulson aveva mitigato le sue
considerazioni pungenti, forse anche vedendola più serena.
La
realizzazione l'aveva raggiunta con qualche giorno di ritardo: Tony
si stava rialzando. Stavolta per davvero e senza paura di mostrarsi a
tutti così com'era.
E adesso lei non riusciva neanche a spedirgli
un messaggio di auguri. Aveva passato gli ultimi tre giorni a
chiedersi se fosse il caso di farsi viva in modo così
improvviso.
Il
compleanno di Tony era sempre stato un momento molto delicato
dell'anno, immancabilmente onorato da un party grandioso e
monumentale alla Villa o in qualche locale di lusso; Tony, col suo
carisma e la sua dissolutezza, non aveva mai avuto problemi ad essere
l'anima
della festa e l'anfitrione più desiderato da tutti. Ma
questo era
come voleva apparire agli occhi degli invitati, spesso degli
sconosciuti che non avrebbe più rivisto in vita sua.
Solo lei
aveva avuto il raro e dubbio privilegio di vederlo subito prima della
sua festa, e quell'immagine strideva nettamente con quella che lui
voleva far trasparire. Era il ritratto di un uomo solo e
taciturno, perso tra macchinari e ologrammi digitali, con una tuta da
lavoro addosso e olio per motori sulle mani, sprofondato nel cofano
di qualche auto d'epoca. Era difficile credere che nel giro di
qualche ora avrebbe indossato il suo smoking migliore, sfoggiando un
sorriso smagliante e irriverente per tuffarsi tra fiumi di invitati,
alcool e fuochi d'artificio.
In quel giorno Pepper non l'aveva mai
visto ricevere visite da nessuno, se non Rhodey quando capitava che
non fosse in servizio o Stane quando se ne ricordava. Nessun parente,
nessun amico. Solo l'occasionale giornalista che sperava in
un'esclusiva e che veniva ricacciato indietro senza tanti
convenevoli, o al massimo qualche magnate o amministratore delegato che
sperava di fare buona impressione presentandosi a sorpresa con un
regalo molto costoso. Tony aveva per loro solo sorrisetti di
circostanza e una generale freddezza che gli era altrimenti estranea;
persino il suo lato da dongiovanni si attenuava e rifiutava inviti e
visite di donne a cui normalmente non avrebbe saputo dire di no,
almeno fino alla festa.
Con lei si poneva invece nel solito modo
di fare giocoso e impertinente e, anzi, la cercava più
spesso del solito. Pepper aveva finito per convincersi che fosse
felice di essere in sua compagnia in un giorno che avrebbe altrimenti
passato in completa solitudine. Era sicura che, anche se non lo
avrebbe mai ammesso, rimanere solo in quel giorno lo facesse
soffrire.
Probabilmente anche in quel momento stava lavorando
senza sosta per non pensarci.
***
29 Maggio, Villa Stark
«DEVI
COSTRUIRE ALTRI PILONI.»
«Lo so, chiudi il becco!» sbottò
Tony.
Diede una schicchera allo schermo virtuale dei comandi che
galleggiava di fronte a lui per scacciare il box della notifica e
piazzò in campo l'ennesimo pilone azzurrognolo con un gesto
esasperato.
«Signore, se posso permettermi, trovo l'intelligenza
artificiale di questo software oltremodo...»
«Muto. Non ti ci
mettere anche tu, JARVIS, è un momento delicato,»
lo zittì,
riportando lo sguardo allo schermo principale, preoccupato dalle
navicelle nemiche che si avvicinavano pericolosamente alla sua
base.
Ora ricordava perché non giocava spesso ai videogiochi:
diventava fin troppo competitivo e finiva per perdere la pazienza o,
come in questo caso, era terribilmente tentato dall'inserire nel
programma qualche stringa di codice in più che gli
garantisse dei
"vantaggi strategici" non del tutto leciti. All'ennesimo
squadrone d'attacco che venne sbaragliato senza troppi problemi
dall'avversario si decise a chiudere con stizza la schermata prima di
veder comparire il fatidico game over.
Il silenzio tornò
nel salotto e lui reclinò la testa sullo schienale del
divano,
sbuffando: era ancora mezzogiorno. Non ricordava che oziare fosse
così impegnativo. E neanche di essere così
arrugginito coi giochi
di strategia... scoccò un'occhiataccia alla console e
trattenne la
tentazione di riaccenderla per una rivincita.
Una ventina di
minuti passati a fissare il vuoto gli fecero capire che neanche quello
non
era un modo costruttivo per impiegare il suo tempo, così si
decise
ad alzarsi per scendere in laboratorio, dare un senso alla giornata e
finirla là con quella storia del suo compleanno. Si sentiva
frustrato. Almeno negli anni passati aveva avuto la prospettiva di
una festa notturna durante la quale avrebbe potuto darsi alla pazza
gioia per compensare l'apatia che si autoimponeva nel corso della
giornata. Stavolta non c'era neanche Pepper a rendergli più
piacevole quel giorno odioso in cui diventava improvvisamente
consapevole di quanto fosse solo.
Mentre attraversava lentamente
la stanza, posò involontariamente lo sguardo sulla porta
dello
studiolo chiuso a chiave e voltò subito la testa di scatto,
forzandosi a fissare invece la vetrata. Deciso a distrarsi, si
puntellò sulla stampella per fermarsi a guardare l'oceano,
scintillante sotto il sole a picco.
La sua espressione si fece
nostalgica. Una nuotata non gli sarebbe dispiaciuta, anche se dopo
le strane allucinazioni che aveva avuto in fin di vita non era sicuro
di riuscire affrontare la cosa con serenità.
Guardò con amarezza le
sue protesi: in effetti il problema non si poneva, nelle sue
condizioni.
"Già, le mie condizioni..."
Si
stropicciò l'occhio e tastò con cautela lo
sfregio che ultimamente
aveva preso a irritarlo più del solito, continuando a
esitare sul
posto e a rimuginare su quei pensieri deleteri. Si decise infine
ad aprire la porta-finestra e a uscire in terrazzo.
Si sporse dalla
balaustra a picco sull'oceano, scrutando l'orizzonte
accecante. Era
una giornata calda, ma una brezza marina tesa e frizzante gli
solleticava la pelle, rinfrescandolo. Aspirò a pieni polmoni
l'aria
densa di salsedine; il vento portava con sé delle minusole
goccioline d'acqua e ben presto percepì il sapore del sale
sulle
labbra. Sentì il metallo delle protesi scaldarsi rapidamente
al sole
e gli venne da sorridere, senza sapere bene perché.
Guardò in
basso, verso le onde di un blu profondo che si schiantavano contro la
ripida parete della scogliera, e avvertì un'improvvisa ma
piacevole
stretta di vertigine allo stomaco, simile a quella che provava nel
decollare con l'armatura. Si trovò a seguire con una punta
di
malinconia il volo dei gabbiani, che per il puro gusto di farlo si
gettavano in picchiata verso la spuma lanciando alte strida, per poi
risalire con elegante rapidità sulle ali delle correnti
d'aria.
Era
una cosa che aveva amato fare anche lui, fino a non troppo tempo
prima. Distolse a fatica l'attenzione da quelle acrobazie aeree e
seguì la linea degli scogli aguzzi che sporgevano a pelo
d'acqua, con le onde che vi si abbattevano in forme sempre
diverse. Inconsapevolmente si trovò a calcolarne la
traiettoria,
cercando di indovinare dove e in che modo si sarebbero infrante
contro la roccia rossastra; nel rendersene conto gli venne da
rimproverare quella sua parte fin troppo scientifica e razionale che
s'intrometteva in un momento così spensierato.
Il suo sguardo si
soffermò sulla piccola insenatura sabbiosa incastonata nel
fianco
della scogliera, che poi si allargava fino a diventare la sterminata
spiaggia dorata che si stendeva fino a Santa Monica. Seguì
con gli
occhi la stradina lastricata e abbastanza agevole che si dipanava
direttamente dal suo giardino fino alla caletta, una cinquantina di
metri più sotto in linea d'aria, poco più di
duecento a piedi.
Picchiettò sul reattore e poi prese a lisciarsi il pizzetto,
meditabondo e improvvisamente ispirato. Forse, in effetti, avrebbe
potuto farsi un regalo di compleanno...
Guardò di sottecchi la
stampella, dubbioso: con quella non sarebbe arrivato lontano. Si
staccò dalla balaustra e la soppesò con aria
assorta, sorridendo
tra sé.
«È ora di un upgrade, bellezza.»
***
Per
l'ennesima volta, Tony esaminò con aria critica l'attrezzo
che aveva
appena realizzato, reputandolo definitivamente un'idea molto
sciocca.
Aveva davanti quello che a prima vista sembrava un banale
tubo d'acciaio, che però terminava da una parte in un
grossolano
pomello. Forse era davvero un po' troppo rozzo, ma doveva essere
qualcosa di provvisorio e funzionale, non un'opera d'arte. A quello
magari avrebbe provveduto dopo.
Gli diede una schicchera con la
mano meccanica e quello produsse un tintinnio acuto che gli
infastidì i
timpani. Si risolse a smetterla di temporeggiare e sollevò
il
bastone da passeggio, impugnandolo goffamente con la sinistra e
soppesandolo. Era più pesante di quanto volesse, ma per un
qualcosa
arrangiato sul momento andava più che bene. Lo
puntò per terra
facendo leva per alzarsi, incontrando qualche difficoltà.
Riuscì
nell'impresa di non cadere a faccia avanti al primo tentativo e
scaricò tutto il peso sul bastone, costringendosi a
mantenere
l'equilibrio e cercando di abituarsi a quel nuovo supporto, meno
ingombrante delle stampelle, ma anche più complesso da
maneggiare.
Forse aveva bisogno di fare un po' di pratica, prima
di rompersi l'osso del collo con le sue passeggiatine fuori
programma.
Provò a muovere un passo ancora rigido e insicuro,
accompagnando la falcata col bastone e usandolo come appoggio insieme
alla protesi, per poi usufruire del supporto aggiuntivo per muovere
quello seguente. Quel movimento gli era del tutto estraneo e si
mosse in modo goffo, scoordinato, ma era sicuramente meglio che avere
entrambe le
mani occupate dalle stampelle; inoltre sarebbe almeno stato costretto
a usare davvero le gambe invece di relegare tutto lo sforzo sulle
braccia. Ultimamente lo snodo della spalla gli stava facendo vedere
le stelle ed era un sollievo poter riposare il braccio meccanico.
La
gamba non ne voleva sapere di muoversi come avrebbe dovuto: percepiva
ancora chiaramente dei fugaci punti morti nel segnale, causati da
quelle maledette interferenze.
Riuscì ad arrivare
all'angolo-cucina all'altro capo del laboratorio affaticato ma
integro, senza troppe ripercussioni sul moncherino comunque
dolorante. Quello che lo estenuava era lo sforzo mentale, il dover
pensare costantemente ad ogni minima flessione e contrazione delle
sue gambe per non rovinare faccia a terra. Sapeva che prima o poi
sarebbe diventato un automatismo, ma per ora stava rivivendo in modo
cosciente quello che un infante provava nell'imparare a camminare
–
scivoloni, capitomboli e bernoccoli inclusi.
Sospirò. Si era
abituato alla vita con un reattore, prima, e a volare con
un'armatura, poi. Sarebbe riuscito a controllare anche le
protesi.
Sorseggiò di malavoglia un bibitone di clorofilla,
più
per dovere che per sete, poi si staccò dalla credenza e
tentò
qualche altro passo claudicante. La sua idea sembrava funzionare.
Magari avrebbe dovuto perfezionare un po' quel suo nuovo accessorio
un po' stravagante, per lo meno da punto di vista estetico: dopotutto
gli era sempre piaciuto fare le cose con stile.
Anche se in quel
caso...
«JARVIS, quanto sono ridicolo da uno a dieci?»
sospirò,
fermandosi per sostenersi al banco di lavoro.
«Signore, i bastoni
da passeggio sono un'utilità ben nota anche ai nostri tempi,
sebbene
assai antiquati. Solitamente si preferiscono bastoni ortopedici
più
moderni, ma...»
«Riesci sempre ad avere una parola
d'incoraggiamento per me, cervellone, unita alla capacità di
demolirmi l'autostima,» lo troncò con uno sbuffo.
A volte si
pentiva di aver programmato un computer così
sagace.
"Io
sarei 'antiquato'?" pensò poi infastidito, coprendo i pochi
passi che lo separavano dalla sua sedia e venendo accompagnato dal
battito
metallico del bastone.
Si sedette, osservando attentamente e con
più convinzione il suo nuovo amichetto pseudo-tecnologico.
Sarà
anche apparso ridicolo e anacronistico, ma lo preferiva a una di
quelle diavolerie a tre piedi che aveva adocchiato in rete o, ancora
peggio, a un deambulatore. Certo, adesso gli sarebbe bastato
piazzarsi un cilindro in testa e inforcare un monocolo per sembrare
uscito da un romanzo Vittoriano. Era sicuro che gli avrebbero donato,
soprattutto il monocolo, magari sull'occhio sbagliato. Si
stropicciò
di riflesso lo sfregio sul volto, suo malgrado ironicamente divertito
all'idea. Anche i Vendicatori si sarebbero fatti grasse risate nel
vederlo...
Si piazzò il bastone sulle spalle, appoggiandovi i polsi con
fare indolente, e si concesse un attimo di respiro prima
di riscuotersi: era ora della prova sul campo.
***
29 Maggio, Malibu Beach, 18:20
Tony
maledisse se stesso, le sue idee, la sua testardaggine, il suo
orgoglio e il suo corpo, il tutto più o meno simultaneamente
mentre
arrancava lungo la stradina che si era rivelata non essere poi
così
agevole come ricordava. Incespicò sui suoi stessi piedi e
frenò la
caduta col bastone, fermandosi a prendere fiato.
Si guardò
intorno per l'ennesima volta, stentando a credere a ciò che
stava
facendo. Da mesi non usciva di casa se non in terrazzo o per qualche
spiacevole processo. Non si era accorto quanto gli fosse mancata
l'aria aperta e adesso se ne stava inebriando ad ogni
passo. Nonostante continuasse borbottare imprecazioni a mezza voce
e a convincersi che fosse un po' troppo presto per andarsene a zonzo
da solo, si sentiva più forte e saldo sulle gambe doloranti,
anche
se si rendeva conto che forse stava forzando un po' troppo i suoi
limiti, incluso quello della sua tolleranza agli antidolorifici.
"Nataša mi ammazza... poi Ian mi salva e mi ammazza
di nuovo," riuscì a pensare con uno sbuffo
affaticato.
Mancavano poche decine di passi che percorse quasi
trascinandosi: la fatica e il pulsare bruciante del moncherino gli
annebbiavano i pensieri e non riusciva più a controllare i
movimenti
della gamba, tornata ad essere un pezzo di ferro pressoché
inerte.
Arrivò ad avanzare sulla sabbia morbida, ondeggiando con
difficoltà
crescente. Si adagiò infine il più delicatamente
possibile sul
bagnasciuga e si tolse le scarpe, tirando un profondo sospiro di
sollievo e soddisfazione nel sentire le onde che gli lambivano i
piedi.
Quella scena gli era familiare.
Era simile al sogno, o
forse era stata più un'illusione voluta e agognata dalla sua
mente
esausta in
un momento che era riluttante a richiamare. Il ricordo
trapelò
appena oltre il filtro che si era imposto per quel giorno e
capì di
non poterlo trattenere. Percepì un senso di vuoto nel petto,
come se
si fosse di nuovo tolto il reattore, e fu di nuovo conscio dei
minuscoli barbigli metallici incastonati a pochi centimetri dal suo
cuore. Respirò a fondo per calmarsi, puntando lo sguardo sul
mare
che tremolava placidamente dinanzi a lui.
Non voleva ripensare al
suo suicidio. Gli interessava quel che era venuto subito dopo: quello
stesso mare, la spiaggia, la sensazione di felicità
incontenibile
nel riavere la sua vecchia vita. Per degli istanti infiniti si era
sentito felice e completo.
Adesso non sentiva la sabbia sotto le
proprie dita, non poteva nuotare, non aveva l'agilità che
ricordava
di aver avuto in sogno, aveva ancora le protesi, non c'era nessuno ad
aspettarlo sulla spiaggia. Ma era lì e ci era arrivato da
solo. Portò una mano al petto, al suo fidato reattore: nel
sogno
non aveva avuto neanche quello. Voleva dire che nella sua mente non
era mai stato rapito, non aveva mai avuto dei frammenti di bomba nel
petto, non aveva mai conosciuto Yinsen. Non era mai diventato Iron
Man.
Forse non era stato un sogno così bello, concluse con
amarezza, e anche una punta d'orgoglio nel constatare quanta strada
avesse
percorso da quel giorno di due mesi prima. Ormai aveva accettato
da tempo il reattore come una parte di sé. Avrebbe quasi
potuto
affezionarvisi se non fosse stato per l'intossicazione, ma anche
quella era inclusa nel prezzo del cambiamento e di ciò che
aveva
deciso di poter sopportare per essere migliore dell'uomo indifferente
e vile che aveva abbandonato nel deserto afghano. Magari un giorno
sarebbe riuscito ad accettare anche le protesi non come dei semplici
aiuti e supporti, ma come parte integrante di se stesso. Potevano
diventare qualcosa di più di due pezzi di ferro semoventi,
avere una
storia da raccontare che andasse oltre il dolore e la frustrazione.
Potevano diventare dei simboli di vittoria, come lo era diventato il
reattore.
Si sdraiò sulla sabbia e sollevò il braccio
meccanico
verso il cielo terso, come a prendere le misure, a voler controllare
quanto ancora fosse lontano da quella meta. Lo lasciò
ricadere
lentamente, sentendosi più vicino che mai.
Tornò a sedersi e a guardare
l'oceano, stanco ma soddisfatto, finché il cielo non
iniziò ad
assumere una tinta calda man mano che il sole si avvicinava
all'orizzonte. Si godette il tramonto sul mare, finché il
globo
rossastro non lanciò un ultimo raggio morente, lasciando
posto al
crepuscolo e a un'improvvisa brezza che lo fece rabbrividire nei suoi
vestiti leggeri.
Si riscosse e scoccò un'occhiata preoccupata
alla stradina che aveva percorso, rendendosi conto di quanto in
effetti fosse ripida, vista da laggiù. Il moncherino
inferiore pulsava in modo sordo e costante, scoraggiandolo dal provare
ad alzarsi.
Si arruffò
i capelli pieni
di sabbia, accigliandosi.
"Sì, è tutto molto bello e
poetico... ma adesso come ci torno a casa?"
***
29 Maggio, Villa Stark, 19:45
«Grazie
per il salvataggio.»
«Come sempre, capo.»
Happy lo osservò
dal finestrino mentre lui chiudeva la portiera.
«È tutto, signor
Stark?»
Tony ebbe un leggero sussulto a quelle parole familiari,
ma si ricompose in fretta:
«Sì, Happy. Spero di aver
bisogno più spesso di passaggi,» aggiunse con un
mezzo
sorriso.
Happy ricambiò, poi rimise in moto l'auto con un cenno
di saluto e svanì ben presto alla vista. Gli avrebbe davvero
dovuto
dare un
aumento... non si era aspettato che rispondesse con tanta prontezza
alla sua chiamata fuori programma, invece si era dimostrato quasi
entusiasta ed era stato stranamente loquace durante il
brevissimo tragitto in macchina.
Non appena rientrò in casa, tutta
la stanchezza accumulata gli si rovesciò addosso lasciandolo
stordito nell'atrio e per un attimo fu sicuro di svenire. Si mosse
come un sonnambulo per raggiungere il divano, dove collassò
stremato. La gamba meccanica reagiva a malapena ai suoi comandi e
anche il braccio era diventato difficile da controllare. Si
sentiva come al rientro da una missione, se non peggio, ma allo
stesso tempo lo riempiva un senso di spossata completezza che non
provava da mesi. Si abbandonò mollemente sui cuscini e
abbassò le
luci con un gesto stanco della mano, soffocando uno sbadiglio.
Un
sorriso si delineò sul suo volto nel realizzare di aver
appena
festeggiato il suo compleanno nel modo migliore che poteva. Il
pensiero fece appena in tempo a prendere forma nella sua mente che si
addormentò di colpo, facendolo decollare in sogni di voli,
acrobazie
e vertigini sempre più vividi.
***
29
Maggio, Helicarrier, 19:50
Pepper
lasciò squillare a vuoto il telefono per quasi un minuto,
prima di
riattaccare a metà tra il deluso e il sollevato. Rimase a
fissare lo
schermo, non sapendo come interpretare quel silenzio imprevisto. Si
convinse a non dargli troppo peso: dopotutto Tony era famoso per
rifiutare e ignorare telefonate prima ancora di sapere chi lo stesse
chiamando. Sospirò, rendendosi conto che la delusione
superava di
gran lunga il sollievo.
Alzò appena gli occhi e notò Coulson che
la osservava di sbieco seduto alla postazione di fianco alla sua. Lei
si
affrettò a riporre il telefono, tornando alle sue pratiche
come se
nulla fosse e ignorando l'espressione incuriosita del collega.
«C'è
qualche novità?» butto lì Phil con
nonchalance.
«Nessuna,»
ribatté secca lei, arrossendo fino alla radice dei capelli.
Note Dell'Autrice:
Prima di tutto: la mia ansia per Infinity War è tale che sto aggiornando in anticipo per paura di un infarto prematuro. Almeno vado al cinema serena di aver pubblicato :'D
Dunque, questo capitolo è interminabile. Mi rendo conto che potrebbe essere indigeribile, ma siete avvertiti: la lunghezza standard rimarrà più o meno questa. Ho optato per spezzettare i capitoli dall'interno e farli più lunghi, piuttosto che spezzare la storia in capitoli più brevi. Spero che non si riveli una scelta troppo pesante, ma a questo punto ritengo importante che ogni capitolo faccia progradire la trama il più possibile per non trascinare la storia.
Finalmente mi sono decisa a far "tornare" Pepper, anche se solo a distanza e con molta confusione in testa. Negli ultimi capitoli Tony è stato relativamente poco riflessivo per i suoi standard e mi sembrava giusto lasciare spazio a lei.
Volevo anche che per contrasto Tony sfoggiasse più sicurezza e intraprendenza, invece di lasciarsi in balia degli eventi come al solito.
Ah, d'ora in poi, salvo diversa indicazione, quando Tony "cammina" lo fa sempre con l'ausilio del bastone da passeggio. Mi rendo conto che può sembrare un'aggiunta fuori luogo, ma non ambisco a far tornare Tony "perfetto", almeno per ora, e volevo che iniziasse a confrontarsi anche con la parte puramente "estetica" della sua condizione, a partire dal rimanere zoppo.
Per il resto credo e spero che il resto del capitolo parli da sé :)
Tony, ve lo assicuro, ha ancora tanta strada da fare, ma siamo nella curva positiva di questa seconda parte, quindi godetevela finché dura :D
Ringrazio come sempre _Atlas_ che recensisce puntualmente questa storia e mi riempie di gioia nel sapere che ancora la segue. Grazie anche per averla citata nelle note della tua one-shot Undisclosed Desires (che è bellissima come tutto ciò che scrivi <3), mi hai resa un sacco felice :D
E grazie a chiunque leggerà/recensirà :)
Adesso non mi rimane che attendere con angoscia l'uscita di Infinity War, sperando che la Marvel non decida di farmi cadere in depressione col suo sadismo.
Au revoir,
-Light-
P.S. Piccola aggiunta forse pretenziosa: magari sono io a volermi convincere che la sopracitata Atlas non sia l'unica intrepida rimasta a leggere la storia e non sono davvero il tipo da elemosinare recensioni... ma ho notato un leggero aumento delle visite e qualche "seguita" in più tra le statistiche di Phoenix e mi farebbe veramente piacere ricevere un qualsiasi tipo di feedback da parte di chi legge/segue, fosse anche una mezza riga di critiche che mi arriva tramite MP.
Sto dedicando a questa storia moltissimo del mio tempo e ricevere le opinioni di chi la legge significherebbe molto per me anche per capire come e dove potermi migliorare :)
P.P.S. Tony sta giocando a Starcraft, un gioco di strategia che manderebbe ai pazzi chiunque. Il "devi costruire altri piloni" è uno dei tormentoni che deve sorbirsi chi gioca.
EDIT: Il mio estro "artistico" è riemerso negli ultimi tempi: qui sotto trovate uno schizzo senza pretese della scena sulla spiaggia :) (prima o poi lo inchiostrerò, ma il terrore di devastarlo mi frena :'D)
© Marvel