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Autore: Adeia Di Elferas    23/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Per presto che si potesse fare, una volta discusso il piano con i suoi più fidati Consiglieri, Caterina si era resa conto che Giovanni avrebbe lasciato Forlì al prima appena passata la metà del mese.

“Se si passan le montagne agevolmente – aveva spiegato Corradini, quando la Contessa gli aveva chiesto di fare da guardia del corpo al Medici – e di questa stagione è possibile, potremo essere a Firenze in meno di quattro giorni.”

Mentre se ne parlava, il Popolano ascoltava in silenzio, combattuto tra l'esternare le proprie preoccupazioni in merito alla sua salute – che avrebbe potuto rendergli ostica una traversata di quel tipo e lunghe cavalcate – e il dirsi soddisfatto all'idea di arrivare in città tanto rapidamente.

“Andare a marce forzate non è un problema, per voi, giusto?” gli chiese il soldato, quando la piccola riunione fu sciolta.

Il fiorentino aveva alzato una spalla e, vedendo la moglie intenta a parlare con Luffo Numai, si affrettò a rispondere, prima che lei si avvicinasse e potesse sentirlo: “Non c'è alcun problema. La mia salute reggerà benissimo.”

Per qualche giorno i preparativi parvero a tutti frenetici. Non si trattava solo di mandare un uomo e qualche soldato di scorta a raggiungere Ottaviano, ma di una vera e propria missione diplomatica.

Tanto la Tigre, quanto i suoi uomini di fiducia, riempivano di continuo Giovanni di consigli, finendo quasi a confonderlo.

Una sera, mentre stavano mangiando, il Capitano Mongardini, stufo di sentire tutti quanti dare dritte al Popolano, aveva picchiato una mano sulla tavola, esclamando: “E che diamine! Il Medici ne sa più di tutti voi di diplomazia e guerra! Piantatela di assillarlo!”

Il fiorentino aveva rassicurato quelli che erano stati zittiti dicendo loro che ogni consiglio gli era comunque prezioso, ma in realtà si trovò molto grato al Capitano.

Siccome non si era esclusa la possibilità che il Medici avrebbe dovuto imbracciare le armi, Caterina si era premurata personalmente di aiutarlo a riprendere un po' di confidenza con la spada.

Praticamente era da quando si trovava a Forlì che non usava armi, se non per qualche rarissimo duello di prova. Le difficoltà oggettive che l'uomo riscontrava nel tenere in mano un oggetto tanto pesante lo avevano messo fin da subito in difficoltà.

La moglie ci aveva ragionato e aveva fatto preparare dai conciatori dei robusti lacci di cuoio che gli permettevano di non perdere la presa anche quando doveva contrastare un colpo diretto filo a filo.

Anche quel pomeriggio, dopo aver atteso che il sole più forte del mezzogiorno fosse un poco calato, lasciando mezzo cortile d'addestramento all'ombra, la Tigre aveva deciso di rivedere assieme al marito la sua preparazione fisica. Anche se la Sforza tutto voleva, fuorché sapere il marito nel mezzo della battaglia, era conscia che nell'andare ad aiutare Ottaviano non era impossibile pensare che Giovanni avrebbe dovuto alzare le mani come tutti gli altri e sporcarsele di sangue.

“Devi ricordarti di tenere d'occhio i punti ciechi.” stava dicendo la donna, indicando al Medici i lati della sua testa: “Con l'elmo addosso, è facile non vedere un nemico che arriva dai fianchi, quindi devi voltarti un po' di continuo, quel poco che basta per evitare brutte sorprese.”

Il Popolano ascoltava e poi passava a parare i colpi che la moglie gli assestava con la spada senza filo che usavano per addestrarsi. Sapeva che Caterina si stava moderando e, anche quando le aveva detto di andarci giù pesante, visto che in guerra nessuno si sarebbe dato pena di risparmiarlo, la Tigre aveva assicurato di star già facendo il massimo.

Galeazzo, sinceramente interessato agli addestramenti del patrigno, di quando in quando si aggiungeva ai consigli, sempre temendo che la madre lo rimettesse al suo posto o gli desse dello sciocco per qualche errore di valutazione.

Vederla invece dargli spesso ragione e fare ogni tanto un cenno d'assenso con il capo, stava dando al giovane Riario una grande sicurezza di sé.

Oltre a lui, erano presenti il maestro d'armi e Bernardino. Se il primo seguiva con attenzione ogni mossa, proponendo miglioramenti per la spada del fiorentino e uno scudo più maneggevole, il secondo aveva tenuto per tutto il tempo lo sguardo fisso in terra.

Stremato per la sessione di allenamento che l'aveva fatto sudare all'inverosimile, Giovanni a un certo punto sollevò il braccio armato ed esclamò: “Basta, per pietà! Per oggi sono a posto!”

La Leonessa non ebbe nulla da ridire, felice che fosse stato il marito a chiedere una tregua. Infatti, l'avrebbe domandata lei stessa, ma temeva di essere fraintesa. Da quando aveva deciso di partire, il Popolano era diventato molto insofferente verso ogni palese o velato riferimento al suo stato di salute.

“Ottimo lavoro, messer Medici.” fece il maestro d'armi, aiutandolo a togliersi i legacci di cuoio che gli assicuravano alla mano l'elsa della spada.

“Siete veramente bravo.” confermò Galeazzo, prendendogli lo scudo: “Se vi foste dedicato alle armi, sareste stato un ottimo comandante.”

Giovanni fece un sorrisetto divertito e guardò Caterina che, con metodo e faccia seria, si stava togliendo le protezioni dalla testa e dalle braccia: “Che dici? Lo sarei stato?”

La donna, troppo immersa nella sue preoccupazioni, sentì a stento la domanda e rispose in modo molto evasivo: “Se ti fosse dedicato a quello...” borbottò, andando poi verso la sala della armi per deporre quello che aveva usato, seguita quasi subito dal maestro e da Galeazzo.

Rimasto in cortile da solo, il Medici fece un paio di profondi respiri e guardò verso il cielo azzurro, accorgendosi solo in un secondo momento che Bernardino era ancora lì, il viso imbronciato e lo sguardo basso.

Gli si avvicinò e, posandogli una mano sulla spalla, gli chiese: “Allora, tu che ne dici? Me la cavo bene come sostiene tuo fratello?”

A quelle parole, il bambino sollevò gli occhi castani e lo fissò per un lungo istante. Al fiorentino parve di leggervi rabbia, più che qualunque altra cosa.

Prima che riuscisse a capirne il motivo, Bernardino gli spostò la mano di malagrazia e scappò via, correndo veloce come il vento, diretto alla scale.

Quando Caterina uscì dalla sala delle armi, trovò il marito ancora attonito che fissava verso il porticato.

“Che c'è?” gli chiese, vedendolo con la fronte aggrottata e le labbra strette, come quando qualcosa lo impensieriva.

“Niente...” fece lui, sforzandosi di sorridere: “Avanti, andiamo a mettere qualcosa sotto i denti. Sto morendo di fame.”

 

Ottaviano Riario non osava uscire dal suo padiglione. Sapeva che se si fosse fatto vedere, sarebbe si nuovo stato oggetto di scherzi e sberleffi e non l'avrebbe sopportato più.

Aveva capito benissimo che nessuno osava andarci giù troppo pesante solo perché i soldati della Tigre erano ritenuti da tutti indispensabili, ma anche i dileggi verbali o i lazzi da guitto gli davano fastidio.

Non sopportava i bagni da campo, detestava il cibo scarno e spesso stantio che gli veniva dato, odiava tenere addosso abiti lerci per giorni e, cosa ancor più grave, si sentiva spaurito e perso.

Non riusciva a ritrovare in sé nemmeno la forza – per quanto negativa – che fin quando era stato a Forlì l'aveva aiutato a superare l'ansia e la paura attraverso la violenza e l'aggressività. Quei due difetti in guerra sarebbero diventati due pregi, e invece, fuori luogo come sempre, il Riario si trovava privo di entrambi, senza avere nemmeno la consolazione di un animo più tranquillo.

Mentre Ottaviano era trascinato dalla marea dei propri pensieri, uno dei soldati di sua madre – che stava all'ingresso della tenda come guardia – entrò nel padiglione e gli disse che Ottaviano Manfredi era lì fuori e voleva incontrarlo.

Il Riario si sentì improvvisamente molto teso. Aveva visto il faentino, in quei giorni, ma non vi aveva nemmeno parlato una volta. Non avevano una grande differenza d'età, ma Manfredi gli pareva molto più prestante e forzuto di lui e tanto era bastato a convincerlo a starne alla larga.

Aveva sentito dire che, malgrado le apparenze, l'esule di Faenza in realtà fosse un uomo molto devoto e che, benché amasse le risse da osteria e fosse sempre pronto ad attaccar briga, avesse una mente molto più solida di tanti altri.

Spaventato all'idea di quello che un suo rifiuto avrebbe potuto significare, non aveva idea del motivo che aveva portato il Manfredi a cercarlo, Ottaviano annuì e diede il permesso al soldato di farlo entrare.

Questi arrivò subito nel padiglione, e, fatto un sorriso conciliante, parlò subito, senza dare il tempo al forlivese di accoglierlo con qualche formula di rito: “Immagino sappiate chi sono. Io so chi siete voi.” disse Manfredi, i lunghi capelli biondi che ondeggiavano un po', coprendogli appena il volto, mentre prendeva uno sgabello e si sedeva, come se fosse a casa sua: “Vi ho visto molto isolato in questi giorni e so che si prendono in tanti gioco di voi. Non va bene, questo. Né per voi, né per me.”

“Che intendete?” chiese a quel punto il Riario, sedendosi a sua volta e guardandolo confuso.

“Io rivoglio Faenza, e per averla, mi servite come alleato. Ma non posso certo allearmi allo zimbello d'Italia.” spiegò il faentino, mostrando i denti abbastanza bianchi e stringendo appena gli occhi.

Ottaviano aveva anche sentito dire che Manfredi non ci vedesse benissimo. Probabilmente era vero.

“Io non so come...” iniziò a dire il Riario, stringendosi nelle spalle.

Manfredi sospirò e poi, con un sospirone, concluse: “Facciamo così: prima cerchiamo di conoscerci e vedere se possiamo intenderci.”

Quella proposta apparve abbastanza innocua al figlio della Tigre e così annuì e convenne: “Questo è un inizio.”

La sua voce, ne era certo, era suonata distesa e amichevole. Per fortuna non tradiva l'inquietudine che quella prospettiva gli stava via via insinuando nel cuore. Sapeva di essere stato interdetto dalla madre nel prendere qualsiasi tipo di decisione. Quella poteva dirsi tale? Che male c'era, a fraternizzare con un altro dei Capitani al soldo di Firenze?

Ottaviano iniziava ad avere un certo mal di testa e sperava con tutto se stesso che il suo patrigno leggesse e capisse la sua ultima lettera e si affrettasse a raggiungerlo per fargli da scudo.

“Vi piacciono le belle donne?” chiese Manfredi, alzandosi di scatto dallo sgabello: “Io scommetto di sì...”

Il Riario non poté negare e così, prima che potesse rendersi conto di quello che il suo nuovo amico stava facendo, si trovò fuori dal padiglione, sottobraccio al suo omonimo, diretto verso le salmerie e il seguito dell'accampamento.

“Siete mio ospite – precisò Manfredi, facendo tintinnare i denari che portava nella scarsella – e quindi scegliete la donna che preferite, senza farvi problemi, il prezzo lo contratto io dopo, con calma...”

 

“Dunque è vero che messer Medici sta per partire?” chiese Bernardi, finendo di rifare il filo al suo rasoio migliore.

La barberia era aperta, ma non c'era nemmeno un cliente all'orizzonte. Forse era il troppo caldo, a tenere lontani i forlivesi, o forse, più probabile, il clima di incertezza che si stava creando.

Le febbri delle campagne minacciavano di lambire la città e i depositi di grano si stavano lentamente svuotando, a fronte di campi avidi e forza contadina decimata per colpa degli arruolamenti massicci decisi dalla Leonessa.

Caterina, seduta su una delle sedie che stavano contro il muro, guardò oltre il vetro della porta e, con un sospiro pesante, confermò: “Sì. Tra una manciata di giorni, non di più.”

Il Novacula colse la mestizia del suo tono e così non se la sentì di essere pungente quanto avrebbe voluto, ma disse solo: “Non deve essere facile, per voi... Con un figlio tanto piccolo...”

La Sforza si schiarì la voce e, cercando di darsi un po' di coraggio, commentò: “Sta partendo per una missione diplomatica, mica sta andando a morire. Quando tornerà, potrà occuparsi di suo figlio esattamente come fa ora.”

“Certo, non volevo mi fraintendeste... Dicevo solo che so che messer Medici è molto attaccato a suo figlio. Lo dicono tutti.” riparò Andrea, in difficoltà: “Comunque... Posso sapere a che scopo sta per partire per il fronte?”

La Sforza decise di dire al barbiere solo la mezza Messa, convinta che certi aspetti della missione di Giovanni fosse meglio non divulgarli: “Andrà a sostenere mio figlio. Ottaviano è troppo giovane... È stato un errore mandarlo da solo a Pisa. Avrei dovuto farlo accompagnare fin da subito da mio marito.”

Bernardi non trattenne uno sbuffo nel sentire la sua signora chiamare il Medici 'mio marito', ma si sentì subito stupido per quella presa di posizione ormai insostenibile.

“Adesso dov'è, vostro marito?” chiese il barbiere, riponendo il rasoio nella tasca del grembiule.

Secondo la Tigre quelli non erano affari che riguardavano il Novacula, tuttavia si sentì libera di rispondere con sincerità: “Non ne ho idea. Mi ha detto che aveva un impegno e che ci saremmo visti qui, quando si fosse liberato.”

Andrea stava per dire la sua in merito, quando finalmente un cliente aprì la porta della bottega e, malgrado una prima esitazione dovuta alla presenza della Tigre, chiese al Bernardi di rasarlo e spuntargli i capelli.

“Con permesso...” fece Andrea, con un mezzo inchino rivolto alla Contessa che, in tutta risposta, agitò la mano in aria come a dargli il permesso di fare quello che doveva e di non curarsi più di lei.

 

Giovanni ci aveva messo del bello e del buono, ma alla fine era riuscito a trovare Bernardino. Lo aveva incrociato sulla strada che portava alla casa in cui era cresciuto per i primi anni della sua vita.

Il bambino, che avrebbe compiuto otto anni in novembre, come primo istinto cercò di sfuggire al Medici. Però, per fortuna delle sue gambe che non avrebbero retto bene una corsa sulle strade sconnesse di quel quartiere, il Popolano riuscì ad acciuffarlo per la collottola nel mentre in cui gli passava accanto.

Bernardino si dibatté come un pesce nella rete. Per pura fortuna non passava nessuno, né c'erano curiosi alle finestre, così il fiorentino si sentì libero di non mollare la presa e, non badando alla sceneggiata che il figliastro stava facendo, lo indusse a calmarsi e guardarlo.

“Si può sapere che c'è?” gli chiese, appena riuscì a fronteggiarlo.

Il bambino sporse in fuori le labbra e si rabbuiò, senza parlare.

“Avanti...” lo incoraggiò Giovanni, allentando appena la presa sulla stoffa un po' grezza del suo camiciotto: “Mi stai facendo preoccupare, a fare così...”

Forse fu il tono dimesso del Popolano a convincerlo, o forse la necessità che aveva di condividere con qualcuno il peso che l'opprimeva, fatto sta che il bambino parve calmarsi e, dopo un momento molto breve di tentennamento, chiese: “Davvero state per partire?”

“Sì.” confermò il Medici, un po' sorpreso da quella domanda.

“Partirete per Firenze e io non vi rivedrò più?” proseguì Bernardino, visibilmente in lotta con le lacrime che cercavano di farsi largo tra le parole.

“Ma che stai dicendo...” soffiò Giovanni, chinandosi un po' di più verso di lui e lasciando la presa sulla collottola, per accarezzargli i riccioli castani spettinati e morbidi: “Come puoi pensare che io possa partire e poi non tornare qui da te?”

“Tutti quelli a cui voglio bene se ne vanno.” ribatté serio il piccolo, con la logica ferrea dei bambini: “Deve essere colpa mia, se mi lasciano tutti... Prima mio padre, poi mia nonna e adesso anche voi volete andarvene...”

Il Medici si dovette mordere il labbro, per non commuoversi davanti a quell'esternazione che altro non era se non una dimostrazione di solitudine. In altri momenti, forse, non si sarebbe sentito tanto vulnerabile, davanti alle parole di Bernardino, ma da quando aveva deciso di partire, era divenuto molto più emotivo e fragile dinnanzi a certe realtà.

Inginocchiandosi in terra, per essere alla sua altezza, non badando al doloretto che il terreno sassoso gli stava procurando, il Popolano strinse con forza a sé il figliastro, sentendo le sue spalle salire e scendere a ritmo con un pianto silenzioso, ma disperato.

“Io tornerò.” gli promise, respirando a fondo per non piangere a sua volta: “E non devi darti colpe che non hai. Mentre sono a Firenze, stai vicino a tua madre. Ha bisogno di te più di quanto non sembri. Falle sentire che le vuoi bene. Farai questo per me?”

Bernardino, affamato d'affetto e calore, strinse le piccole braccia con ancor più forza attorno al fiorentino e poi, modulando a stento la voce, confermò: “Lo farò.”

Siccome dal fondo della strada stava arrivando un uomo con un carretto, Giovanni si ricompose, rimettendosi in piedi, staccandosi a fatica dal figliastro.

Con un sospiro spezzato, l'uomo asciugò con la manica il viso di Bernardino e poi, appoggiandogli una mano sulla spalla, con fare paterno, gli propose: “Sto andando dalla tu' mamma, alla barberia del Novacula. Che ne dici di venire con me, così si sta un po' tutti e tre insieme?”

 

Lucrecia, dal matroneo, guardava in basso, non verso l'altare, ma bensì verso Alfonso d'Aragona, il grande ospite di quella Messa.

La sua dama di compagnia, accanto a lei, fingeva di non accorgersi che l'attenzione della sua padrone era tutta rivolta al napoletano. Sarebbe stato, invece, suo compito assicurarsi che la figlia del papa si dedicasse esclusivamente al pensiero religioso, mentre era in chiesa.

Tuttavia, la stessa accompagnatrice della Borja non aveva potuto evitare di notare la bellezza del nuovo arrivato e, in tutta sincerità, non poteva biasimare la curiosità di Lucrecia, dato che quel giovane sarebbe stato presto suo marito.

La futura sposa, sporgendosi quel tanto che la decenza permetteva, allungava l'occhio il più possibile, cercando di scolpirsi nella mente il profilo del diciassettenne che ascoltava le parole biascicate del prete.

Era fiero, dritto di spalle e ben definito in corporatura. I suoi capelli erano chiari, più di quelli della sorella Sancha e la sua espressione era rilassata, ma lasciava comunque trasparire una certa prontezza di spirito.

I suoi abiti erano elegante e la spada che portava al fianco era finemente istoriata. Chiunque l'avesse visto in quel momento non avrebbe potuto fare a meno di pensare come minimo a un principe.

Mentre Lucrecia indugiava sul fisico prestante di colui che sarebbe presto stato suo marito, benedicendo il fato che aveva sostituito un uomo come Giovanni Sforza con uno come Alfonso d'Aragona, gli occhi della giovane scivolarono appena più di lato.

Fu un lampo, ma bastò.

Accanto ad Alfonso, stava, in abiti talari, Cesare. Lo sguardo di fuoco che il fratello stava rivolgendo alla sorella fu tale da farla indietreggiare, scostandosi dal parapetto, fino a premersi contro la parete, per far sì che lui non la potesse più vedere.

Era palesemente voltato di lato, il viso rivolto verso l'alto. Chissà da quanto la stava guardando a quel modo.

Cercando di normalizzare il respiro, la Borja rassicurò la sua dama di compagnia, dicendole di aver avuto solo un capogiro e una vertigine, e poi si rimise al suo posto.

Questa volta, malgrado la tentazione di guardare di nuovo Alfonso fosse forte, Lucrecia si dedicò anima e corpo alla Messa, dimenticando tutto il resto.

Cesare, invece, che aveva desistito solo dopo parecchio tempo dal fissare il punto del matroneo a cui sua sorella si era affacciata senza il minimo pudore, ribolliva di rabbia e gelosia.

Fosse stato per lui, avrebbe rispedito seduta stante l'Aragona a Napoli. O meglio, lo avrebbe passato all'istante da parte a parte con la spada. Con la stessa spada che il partenopeo portava con tanta boria al fianco, magari.

E invece, trattenendosi come un cane feroce che vede il padrone brandire un bastone, Cesare trovò anche il buon viso di sorridere ad Alfonso, a Messa finita e di rispondere: “Mi auguro già stasera a cena...” dopo che il napoletano gli ebbe domandando quando avrebbe potuto finalmente incontrare Lucrecia.

 

Caterina aveva accettato di buon grado la presenza di Bernardino, quando Giovanni l'aveva raggiunta dal Novacula, tuttavia non aveva capito come mai suo marito sembrasse tanto desideroso di farle riscoprire la gioia di stare con quel figlio.

Per lei, come sempre, la presenza del frutto dell'amore per Giacomo era una sorta di sottile tortura.

In quel frangente era solo appena attenuata dagli sforzi del Medici che, con intelligenza e pazienza, era riuscito a convincere madre e figlio a legare un pochino di più, sfruttando un giro per la città come blando pretesto.

Arrivata la sera, in camera, la Contessa era stata tentata di chiedere a Giovanni il perché di quell'improvvisa trovata, ma fu il fiorentino ad anticiparla: “Bernardino è triste perché sto per partire. Si sente solo e tradito. Non puoi permettere che anche lui si guasti come Ottaviano. Stagli vicina.”

Quelle parole, dette con la rapidità e la fermezza con cui di solito si danno disposizioni ufficiali, colpirono molto la Tigre che, capendo quanto quella cosa fosse importante per il marito, accettò, seppur con qualche difficoltà: “Farò quello che posso, te lo prometto.”

Il Medici era parso soddisfatto di quel piccolo passo avanti e a quel punto, per quanto stanco e pieno di preoccupazioni, aveva archiviato momentaneamente tutto il resto e si era messo davanti alla moglie, cingendola per i fianchi: “Abbiamo poco tempo, prima che io parta...” le sussurrò.

Caterina colse al volo l'invito e, trovando immediata risposta nel fiorentino, iniziò a spogliarlo, commentando con un semplice: “Abbiamo poco tempo, e molta fame.”

“Fame da lupi.” concordò Giovanni, dandole un bacio sul collo e lasciando che la passione scandisse con dolce crudeltà le ore che ancora gli erano concesse, prima della partenza.

   
 
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